Cinema italiano

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Versione del 18 gen 2015 alle 10:47 di IncolaBot (discussione | contributi) (Bot: orfanizzo redirect Luis Sepulveda)
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Stabilimenti di Cinecittà a Roma

Il cinema italiano iniziò la propria vita pochi mesi dopo la prima proiezione pubblica, avvenuta a Parigi il 28 dicembre 1895.

Il cinema venne portato in Italia dagli operatori Lumière nel corso del 1896. A marzo il cinematografo arrivò a Roma e a Milano; ad aprile a Napoli, Salerno e Bari; a giugno a Livorno; ad agosto a Bergamo, Ravenna e Bologna; a ottobre ad Ancona[1] e Perugia; e a dicembre a Torino, Pescara e Reggio Calabria.

A Pisa nel 1905 aprì quello che fu il più antico cinema italiano fino alla sua chiusura il 13 febbraio 2011: il cinema Lumière[2].

Gli inizi (1896-1909)

I primi film

Per convenzione si fa risalire la nascita del cinema italiano alla prima proiezione pubblica del Cinématographe, avvenuta il 13 marzo 1896 presso lo studio Le Lieure di Roma[3]. Nel giro di pochi giorni lo spettacolo arriverà in tutte le principali città del paese.

I primi film prodotti in Italia sono documentari, filmati di pochi secondi dedicati a regnanti, imperatori, papi, città italiane e straniere. Il primo operatore di rilevanza storica è probabilmente Vittorio Calcina, autore di cortometraggi documentari e a soggetto. Tra le sue "vedute" più celebri all'epoca va ricordata la ripresa della visita a Monza di re Umberto I e della regina Margherita di Savoia a Monza, girata da Vittorio Calcina per conto dei fratelli Lumière[4]. Il più antico documentario italiano tuttora visibile è invece Sua Santità papa Leone XIII, una breve inquadratura di papa Leone XIII nei Giardini Vaticani.

In poco tempo altri pionieri si fanno strada: Filoteo Alberini, operatore e inventore che già nel 1895 aveva perfezionato un apparecchio di ripresa non dissimile da quello dei Lumière[5], Italo Pacchioni, Roberto Omegna, Giuseppe Filippi, Giovanni Vitrotti e molti altri.

Il successo di questi "quadri in movimento" è immediato. Pur confuso tra le tante meraviglie para-scientifiche dei padiglioni delle fiere e dei luna park, il cinematografo affascina per la sua capacità innata di mostrare con precisione inedita realtà lontane e, viceversa, di immortalare momenti quotidiani senza storia. Se la risposta delle classi popolari è entusiasta, la novità tecnologica sarà trattata con riserva dalla stampa e da una parte del mondo intellettuale ancora per qualche anno.

Nel frattempo, il cinema arriva all'apice della società: il 28 gennaio 1897 i principi Vittorio Emanuele e Elena di Montenegro assistono a una proiezione organizzata da Calcina, in una sala di Palazzo Pitti a Firenze[6]. Passeranno presto davanti alla cinepresa, ripresi durante una cerimonia ufficiale nel documentario S.A.R. il Principe di Napoli e la Principessa Elena visitano il battistero di S. Giovanni a Firenze e poi il giorno del loro matrimonio in Dimostrazione popolare alle LL. AA. i Principi sposi (al Pantheon - Roma)[7][8].

Nascita dell'industria cinematografica

Lo stesso argomento in dettaglio: Nascita dell'industria cinematografica italiana.

Tra il 1903 e il 1909 il cinema, sino ad allora considerato alla stregua di un fenomeno da baraccone, assume i caratteri di una vera e propria industria. Centinaia di case di produzione sono nate in tutto il paese: Cines, Milano Film, Itala Film, Caesar Film, Società Anonima Ambrosio, Partenope Film, Pasquali Film, Roma Film, e innumerevoli sigle minori destinate a durare il tempo di un film. Contemporaneamente si organizza una rete sempre più capillare di sale cinematografiche nei centri urbani delle città. Questa trasformazione porta alla produzione dei film a soggetto, che per gran parte del periodo muto affiancano il filmato documentario fino a sostituirlo quasi completamente all'inizio della prima guerra mondiale.

La scoperta delle potenzialità spettacolari del mezzo cinematografico favorisce lo sviluppo di cinema di grandi ambizioni, capace di inglobare tutte le suggestioni culturali e storiche del paese. La formazione scolastica è fonte inesauribile di idee e spunti facilmente assimilabili dal pubblico popolare. Decine di personaggi incontrati nei libri di testo fanno il loro esordio sul grande schermo: il Conte di Montecristo, Giordano Bruno, Giuditta e Oloferne, Francesca da Rimini, Lorenzino de' Medici, Rigoletto, il conte Ugolino, Beatrice Cenci, Elettra, Giulio Cesare, Socrate, Galileo, Lucia di Lammermoor, Mazarino e innumerevoli altri. Dal punto di vista iconografico i riferimenti principali sono i grandi artisti rinascimentali e neoclassici, ma anche i simbolisti e le illustrazioni popolari.

Il primo film a soggetto, lo storico La presa di Roma, viene realizzato da Alberini nel 1905, ma i generi di maggior successo presso il pubblico sono i drammi passionali e storici.

Periodo aureo (1910-1919)

Nei primi anni dieci l'industria cinematografica conosce un rapido sviluppo. Nel 1912, l'anno della massima espansione, vengono prodotti a Torino 569 film, a Roma 420 e a Milano 120[9]. Nei tre anni che precedono la Prima guerra mondiale, mentre la produzione si consolida, vengono esportati in tutto il mondo film mitologici, comici e drammatici. Con la fine del decennio Roma si impone definitivamente come principale centro produttivo; tale resterà, nonostante le crisi che periodicamente scuoteranno l'industria, fino ai nostri giorni.

I kolossal storici

Locandina di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone

Nel momento di massivo sviluppo produttivo, il genere storico perde rapidamente i suoi carattere pedagogici e illustrativi a favore di quelli più spettacolari. I kolossal che dominano il mercato mostrano le ambizioni dell'Italia giolittiana celebrando la storia millenaria del Paese e rivelandone le ambizioni di grande potenza internazionale. Prima ancora del fascismo, questi film rievocano con sfarzo i trionfi e la potenza di antichi imperi di cui si rivendica la discendenza culturale[10]. La conquista della Libia segna l'avvicinamento definitivo tra il sostrato nazionalista di questi film e la politica imperialista.

L'archetipo del filone è il Nerone (1909) di Luigi Maggi e Arrigo Frusta, inspirato all'opera di Pietro Cossa e che si rifà iconograficamente alle acqueforti di Bartolomeo Pinelli, al neoclassicismo e allo spettacolo del circo Barnum Nero, or the Destruction of Rome (1889)[11]. Seguono Marin Faliero, doge di Venezia (1909) di Giuseppe De Liguoro, Otello (1909) di Yambo, Odissea (1911) di Bertolini, Padovan e De Liguoro. L'Inferno (1911), prima ancora che un adattamento della cantica dantesca, è una traduzione cinematografica delle incisioni di Gustave Doré che sperimenta l'integrazione tra effetti ottici e azione scenica, mentre Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Mario Caserini ricorre a innovativi effetti speciali.

Il primo regista a sfruttare in modo pienamente coerente questo enorme apparato spettacolare è Enrico Guazzoni, già pittore e scenografo. Nel suo Quo vadis? (1912) i personaggi e lo spazio scenico creano rapporti finora inediti, esaltando la dialettica tra individuo e massa che sarà al centro dei futuri film storici. La storia rimane sulle sfondo, mentre in primo piano si agitano drammi personali derivati dal melodramma[12]. Il successo internazionale del film segna la maturazione del genere e permette a Guazzoni di realizzare film sempre più spettacolari, come Cajus Julius Caesar (1913) e Marc'Antonio e Cleopatra (1913). Dopo Guazzoni vengono Emilio Ghione, Febo Mari, Carmine Gallone, Giulio Antamoro e tanti altri che contribuiscono all'espansione del genere.

Giovanni Pastrone è il regista più interessato alla ricerca di soluzioni scenografiche inedite. Già in La caduta di Troia (1911) aveva sperimentato originali costruzioni prospettiche, ma è con il celebre Cabiria (1914) che la sua filmografia e l'intero genere raggiungono l'apice. Concepito come un autentico film-evento (anche grazie alla collaborazione di Gabriele D'Annunzio), il film colpisce il pubblico per la sua ambizione: le innovazioni tecniche (tra cui l'uso dei carrelli e del primo piano), la complessità della trama, l'uso espressivo del trucco e dell'illuminazione e l'opulenza scenografica contribuiscono alla sua fama di "oggetto d'arte" capace di superare i limiti del mezzo cinematografico[13].

Dopo il grande successo di Cabiria, con il mutare dei gusti del pubblico e le prime avvisaglie della crisi industriale, il genere comincia a mostrare segni di stanchezza. Il progetto di Pastrone di adattare la Bibbia con migliaia di comparse resta irrealizzato. Il Christus (1916) di Antamoro e La Gerusalemme liberata (1918) di Guazzoni sono notevoli per la complessità iconografica ma non offrono novità sostanziali. Nonostante sporadici tentativi di riallacciarsi al grandeur del passato, il filone dei kolossal storici si esaurisce all'inizio degli anni venti.

Le dive

Francesca Bertini sul set del film Assunta Spina (1915)

Tra il 1913 e il 1920 si assiste all'ascesa, allo sviluppo e al declino del fenomeno del divismo cinematografico, nato con l'uscita di Ma l'amor mio non muore (1913) di Mario Caserini. Il film ha un successo di pubblico enorme e codifica la recitazione e l'estetica del divismo femminile. La recitazione di Lyda Borelli esercita una grandissima influenza per tutto il decennio e contribuisce a rinnovare l'immaginario romantico con influenze melodrammatiche, decadenti e simboliste.

Nel giro di pochi anni si affermano Francesca Bertini, Pina Menichelli, Leda Gys, Eleonora Duse e Italia Almirante Manzini. Film come Fior di male (1914) di Carmine Gallone, Il fuoco (1915) di Pastrone, Rapsodia satanica (1917) di Nino Oxilia e Cenere (1917) di Febo Mari arrivano a modificare il costume nazionale, imponendo canoni di bellezza, modelli di comportamento e oggetti del desiderio. Questi modelli, fortemente stilizzati secondo le tendenze culturali e artistiche dell'epoca, non hanno legami con la realtà ma sintetizzano la recitazione melodrammatica, il gesto pittorico, la posa teatrale[14].

Francesca Bertini è, dopo Lyda Borelli, la seconda grande diva del cinema italiano. Dotata di una maggiore versatilità rispetto alle dive contemporanee, passa dalla commedia al dramma passionale ricoprendo vari ruoli sociali e comunicando con efficacia un'ampia gamma di sentimenti. In Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena si allontana dalle influenze liberty e simboliste dell'epoca per avvicinarsi a una recitazione più naturalistica che ne favorisce la forza espressiva[15].

Nonostante la diversità delle interpreti e dei film, il modello femminile che emerge dal cinema di questo periodo è sostanzialmente riconducibile al modello melodrammatico, anche se contaminato dal decadentismo dannunziano e dalle teorie di Lombroso: «ora innocenti e pure, ora deliranti e in preda al "déreglement de tous les sens", ora madri dolcissime a cui viene negata la maternità, ora donne capaci di amare oltre la stessa morte»[16]. Soltanto negli anni venti, con la crisi produttiva e il tramonto delle dive, sarà possibile l'emergere di una figura femminile più realistica, priva dell'aura divina e più accessibile allo spettatore.

Le comiche

Nonostante un discreto successo nel primo decennio del secolo, le comiche mute non sono mai diventate un genere di rilievo per il cinema italiano. Il tratto rilevante di questa produzione, che conta centinaia di film (quasi tutti cortometraggi), è la capacità di assimilare varie forme di spettacolo popolare, dallo spettacolo di piazza al vaudeville. Costruti attorno a esili trame o semplici spunti umoristici portati alle estreme conseguenze, questi brevi film fungono da semplice contorno a film più ambiziosi.

Il comico di maggior successo in Italia è André Deed, più noto come Cretinetti, protagonista di innumerevoli corti per la Itala Film. Il suo successo apre la strada a Marcel Fabre (Robinet), Ernesto Vaser (Fricot) e tanti altri. L'unico attore di una certa sostanza è però Ferdinand Guillaume, che diventerà celebre come Polidor[17].

L'interesse storico di questi film sta nella loro capacità di rivelare le aspirazioni e le paure di una società piccolo-borghese divisa tra il desiderio di affermazione e le incertezze del presente. È significativo che i protagonisti delle comiche italiane non si pongano mai in aperto contrasto con la società né incarnino desideri di rivalsa sociale (come accade per esempio con Chaplin), ma cerchino piuttosto di integrarsi in un mondo fortemente desiderato[18].

Il cinema futurista

Un fotogramma di Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia
Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista.

Anche se marginalmente, l'avanguardia futurista ha effetti sul cinema del periodo e soprattutto ne è influenzata. Con il suo interesse per la rapidità e la violenza espressiva, il futurismo trova nel cinema un'arte giovane, meno compromessa con la retorica passatista rispetto alle altre, e soprattutto aperta ai futuri sviluppi tecnologici. Nel Manifesto della cinematografia futurista (1916) Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Arnaldo Ginna e Giacomo Balla descrivono il cinema come l'arte capace di sintetizzare tutte le tendenze sperimentali dell'epoca. Rivendicano l'uso di "drammi di oggetti", "sinfonie di linee e colori" e "giochi delle proporzioni" per superare i limiti del naturalismo ottocentesco. Il cinema che auspicano è "antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero".

Al di là della dichiarazione d'intenti, il futurismo non riuscirà a far proprio il nuovo mezzo di espressione, né sarà in grado di lasciare un segno duraturo nella sua evoluzione. L'influenza opera piuttosto in senso contrario: sarà il cinema a influenzare la produzione artistica del movimento, con il montaggio dei materiali più disparati, i primi piani e i dettagli, il taglio eccentrico delle immagini, l'uso di didascalie, stacchi e dissolvenze[19].

I film riconducibili al movimento sono pochissimi. Oltre ai film astratti dipinti su pellicola da Bruno Corra e Arnaldo Ginna, andati perduti, le opere più significative sono soltanto due. Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia nasce sulla base del trattato estetico Fotodinamismo futurista (1911) dello stesso autore. Il film, costruito attorno a una vicenda melodrammatica e decadente dall'impianto teatrale, rivela in realtà molteplici influenze artistiche diverse dal futurismo marinettiano: le scenografie secessioniste, l'arredamento liberty, i i momenti astratti e surreali contribuiscono a creare un forte sincretismo formale. Nello stesso periodo Bragaglia realizza altri film (Perfido incanto, Il mio cadavere e il cortometraggio Dramma nell'Olimpo) andati perduti. Vita futurista (1916) di Ginna è invece una sorta di verifica pratica delle tesi esposte nel Manifesto: ironico e intenzionalmente provocatorio, il film ricorre a numerosi effetti speciali (parti colorate a mano, viraggi, inquadrature eccentriche, montaggio anti-naturalistico) per stimolare le reazioni emotive dello spettatore.

La grande crisi e l'avvento del sonoro (1920-1930)

Con la fine della Grande guerra il cinema italiano attraversa un periodo di crisi dovuto a molti fattori: disorganizzazione produttiva, aumento dei costi, arretratezza tecnologica, perdita dei mercati esteri e incapacità di far fronte alla concorrenza estera, in particolare quella hollywoodiana[20]. Tra le cause principali va segnalata anche la mancanza di un ricambio generazionale, con una produzione ancora dominata da produttori e autori di formazione letteraria e teatrale, incapaci di far fronte alle sfide della modernità. La prima metà degli anni venti segna un netto riflusso produttivo: dai 350 film prodotti nel 1921 si passa alla sessantina del 1924[21].

Resistono ancora i drammi passionali, perlopiù ripresi da testi classici o popolari e diretti da specialisti come Roberto Roberti, i kolossal religiosi di Giulio Antamoro e i feuilleton. Letteratura e teatro sono ancora le fonti narrative privilegiate dei film italiani. Sulla scorta dell'ultima generazione di dive, si diffonde anche un cinema sentimentale al femminile incentrato su figure ai margini della società che, invece di lottare per emanciparsi (come accade nel contemporaneo cinema hollywoodiano), attraversano un autentico calvario per preservare la propria virtù. La protesta o la ribellione da parte delle protagoniste femminili sono fuori discussione. È un cinema fortemente conservatore, legato a regole sociali sconvolte dalla guerra e in via di dissoluzione in tutta Europa. Un caso esemplare è quello di La storia di una donna (1920) di Eugenio Perego, che usa una costruzione narrativa originale per proporre con toni melodrammatici una morale ottocentesca[22]. Un filone particolare è quello di ambientazione napoletana, grazie all'opera della prima regista donna del cinema italiano, Elvira Notari, che dirige numerosi film tratti da famose sceneggiate, canzoni napoletane, romanzi d'appendice oppure ispirati a fatti di cronaca.

In realtà la produzione italiana di questo periodo è marginale e il mercato è dominato dai film hollywoodiani. L'unico produttore capace di adeguarsi alla situazione è Stefano Pittaluga, destinato a esercitare un controllo quasi assoluto sui film italiani fino agli anni trenta. Tra i registi in grado di misurarsi con le produzioni europee troviamo Lucio D'Ambra, Carmine Gallone e soprattutto Augusto Genina. Realizzatore versatile e attento ai gusti del pubblico, Genina si dedica con facilità alla commedia billante, ai melodrammi e ai film d'avventura, ottenendo spesso grandi successi al botteghino. Il suo Cyrano de Bergerac (1923) è il maggiore incasso del periodo, mentre Miss Europa (1930) sfrutta con efficacia la moda del divismo e contamina il melodramma con scorci realisti. Per tutti gli anni trenta sarà uno dei registi di punta del cinema fascista[23].

Dria Paola nella locandina del film La canzone dell'amore di Gennaro Righelli (1930), il primo film sonoro italiano

Si dovrà attendere la fine del decennio per trovare dei film di maggior respiro. In quel periodo un gruppo di intellettuali vicini alla rivista Cinematografo e guidati da Alessandro Blasetti lancia un programma semplice quanto ambizioso. Consapevoli dell'arretratezza culturale italiana, decidono di rompere ogni legame con la tradizione cinematografica precedente attraverso una riscoperta del mondo contadino, fino ad allora praticamente assente nel cinema italiano. Sole (1929) di Alessandro Blasetti mostra l'evidente influenza delle avanguardie cinematografiche sovietiche e tedesche nel tentativo di rinnovare l'iconografia cinematografica italiana in accordo con gli interessi del regime fascista. Rotaie (1930) di Mario Camerini fonde invece il genere tradizionale della commedia con il kammerspiel e il film realista, rivelando l'abilità del regista nel tratteggiare i caratteri della media borghesia[24]. Pur non essendo paragonabili ai risultati più alti del cinema internazionale del periodo, i lavori di Blasetti e Camerini testimoniano un avvenuto passaggio generazionale tra i registi e gli intellettuali italiani, e soprattutto un'emancipazione dai modelli letterari e un avvicinamento ai gusti del pubblico. Una volta riorganizzata l'industria, i frutti di questa rinascita saranno presto messi al servizio del regime fascista.

Nel frattempo viene distribuito nelle sale il primo film sonoro italiano: La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli, che ha un grande successo di pubblico. Con il passaggio al sonoro la maggior parte degli attori italiani del cinema muto si ritrova squalificata. L'epoca delle dive e dei forzuti, sopravvissuta a stento agli anni venti, è definitivamente conclusa. Anche se alcuni interpreti passeranno alla regia o alla produzione, l'arrivo del sonoro favorisce il ricambio generazionale già in atto e la modernizzazione delle strutture.

Il cinema fascista (1922-1945)

Lo stesso argomento in dettaglio: Cinecittà.

Consapevole dell'importanza del cinema nella gestione del consenso sociale, il regime fascista si preoccupa fin da subito di rilanciare una cinematografia in declino. Nel 1924 viene fondata l'Unione Cinematografica Educativa Luce, una società di produzione e distribuzione a controllo statale. Nello stesso periodo viene istitutito il Ministero della Cultura Popolare che, attraverso considerevoli contributi a fondo perduto (regolati dalla legge 918 del 1931), finanzia direttamente l'industria dello spettacolo. Tra i maggiori beneficiari c'è la casa di produzione Cines-Pittaluga, che nel 1925 costruisce nuovi teatri di posa alle porte di Roma. Nonostante l'aumento degli investimenti derivato da questa politica dirigista, però, l'arretratezza tecnologia e culturale condanna alla marginalità l'ultimo periodo del cinema muto italiano. Nel primo anno di vita della Cines saranno prodotti in Italia soltanto 12 film, contro i 350 importati dall'estero[25].

Entro la fine del decennio, il regime diventa il principale finanziatore dell'industria cinematografica. Da questo momento fino allo scoppio della guerra, la crescita della produzione si manterrà costante. Nel 1934 è istituita la Direzione generale per la Cinematografia, guidata da Luigi Freddi, che di fatto controllerà la produzione fino alla caduta del regime. Lo stesso anno viene creata la Corporazione dello spettacolo, dove trovano posto tutti i principali produttori e distributori del paese. In questo periodo, oltre alla Cines, nascono altre società di produzione, tra cui la Lux Film, specializzata in adattamenti letterari e film religiosi, e la Novella Film di Angelo Rizzoli. Tra i produttori più attivi vanno ricordati Gustavo Lombardo (presidente della Titanus), Giovacchino Forzano e i fratelli Scalera. Tutti i produttori e i distributori ricevono fondi dallo Stato, che si dota anche di una propria catena di sale, l'Enic.

Nel 1935 viene istitutito il Centro Sperimentale di Cinematografia, destinato a imporsi come il principale luogo di formazione professionale del cinema italiano. Nello stesso anno gli stabilimenti della Cines vengono distrutti da un incendio. Sulle ceneri del vecchio complesso industriale sorge nel 1937 Cinecittà, uno dei complessi produttivi più grandi d'Europa, inaugurato in aperta sfida agli studios di Hollywood. Nel 1940 gli stabilimenti sono statalizzati e ben presto diventano il cuore produttivo dell'industria cinematografica: metà della produzione di quell'anno è girata nei suoi teatri di posa. Da quel momento Roma diventa la capitale indiscussa del cinema italiano, con Cinecittà e il Centro Sperimentale destinati a esercitare per circa mezzo secolo un dominio incontrastato nella formazione delle competenze e nella produzione.

Fino alla fine del 1938 il regime fascista non si oppone all'importazione di film stranieri (basti pensare che il 73% degli incassi di quell'anno vanno a film hollywoodiani), ma con il rafforzamento produttivo e il sempre maggiore ruolo dello Stato nella produzione vengono adottate misure protezionistiche volte a limitare le importazioni. La legge Alfieri del 6 giugno 1938 blocca la circolazione di film stranieri, dando impulso alla produzione nazionale. Nel 1939 si realizzano 50 film, che diventeranno 119 nel 1942; contemporaneamente la quota di mercato nazionale dei film italiani passa dal 13% al 50%[26]. Nemmeno la guerra è capace di arrestare questo stato di euforia produttiva, che durerà fino al 1943.

Fino al momento del suo crollo, il regime imporrà senza opposizioni un cinema strutturato in generi codificati. Il cinema del fascismo non sarà il veicolo privilegiato della propaganda (un compito svolto molto più persuasivamente dai Cinegiornali Luce), ma contribuirà a formare l'idea di società che il fascismo vuole imporre: una società pacificata, priva di conflitti interni, capace di slanci produttivi ma non toccata dai mali della modernità. A questo intento celebrativo contribuisce anche una nuova generazione di divi e dive: Massimo Girotti, Amedeo Nazzari, Gino Cervi, Rossano Brazzi e Raf Vallone incarneranno la virilità e l'orgoglio della nazione, mentre Isa Miranda, Clara Calamai, Alida Valli, Valentina Cortese e Doris Duranti saranno compagne deboli e fedeli.

Film di propaganda

Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema di propaganda fascista.
Una scena del film Vecchia guardia (1934) di Alessandro Blasetti

Le rappresentazioni cinematografiche dello squadrismo e delle prime azioni fasciste sono rare. Tra i più rilevanti si segnala Vecchia guardia (1934) di Alessandro Blasetti, che sceglie di rievocare la supposta spontaneità vitalistica dello squadrismo in toni populisti e carichi di emotività. Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, realizzato per il decennale della marcia su Roma, celebra i successi del regime (la bonifica delle paludi pontine, la costruzione di Littoria) alternando sequenze narrative a brani documentari.

Con il consolidamento politico, il regime impone all'industria cinematografica di rafforzare e diffondere l'identificazione del fascismo con la storia e la cultura del paese. Da qui nasce la necessità di rileggere la storia italiana dalla prospettiva fascista, riducendo teleologicamente ogni avvenimento storico a un prodromo della "rivoluzione fascista", sulla scorta dell'opera storiografica di Gioacchino Volpe. Dopo i primi tentativi in questa direzione, volti soprattutto a sottolineare la presunta continuità tra Risorgimento e fascismo (Villafranca di Forzano, 1933; 1860 di Blasetti, 1933), la tendenza raggiunge l'apice poco prima della guerra. Cavalleria di Goffredo Alessandrini rievoca la nobiltà dei combattenti sabaudi presentandone le gesta come anticipazioni dello squadrismo. Condottieri di Luis Trenker racconta la storia di Giovanni delle Bande Nere stabilendo esplicitamente un parallelo con Mussolini, mentre Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, uno dei maggiori sforzi produttivi dell'epoca, celebra l'impero romano e indirettamente quello fascista.

L'invasione dell'Etiopia dà ai registi italiani la possibilità di estendere gli orizzonti delle ambientazioni, ma rafforza anche l'autorità del regime sul cinema di propaganda[27]. Il grande appello (1936) di Mario Camerini celebra l'imperialismo descrivendo la "nuova terra" come un'opportunità di lavoro e redenzione e contrapponendo l'eroismo dei giovani soldati alla pavidità borghese. La polemica antipacifista che accompagna le imprese coloniali è evidente anche in Lo squadrone bianco (1936) di Augusto Genina, che unisce la retorica propagandistica a notevoli sequenze di battaglia girate nel deserto della Tripolitania. La maggior parte dei film a celebrazione dell'impero sono però documentari, volti soprattutto a presentare la guerra come una lotta della civiltà contro la barbarie. La guerra di Spagna è descritta da documentari (Los novios de la muerte di Romolo Marcellini, 1936; Arriba España, España una, grande, libre! di Giorgio Ferroni, 1939) e fa da sfondo a una mezza dozzina di film, tra i quali il più spettacolare è L'assedio dell'Alcazar (1940) di Genina.

Con l'entrata in guerra, il regime fascista rafforza ulteriormente il controllo sulla produzione e richiede un impegno più deciso nella propaganda. Oltre agli ormai canonici documentari, cortometraggi e cinegiornali, aumentano anche i film a soggetto in elogio delle imprese belliche italiane. Tra i più rappresentativi troviamo Bengasi (1940) di Genina, Gente dell'aria (1942) di Esodo Pratelli, I tre aquilotti (1942) di Mario Mattoli su sceneggiatura di Vittorio Mussolini e Quelli della montagna (1943) di Cino Betrone con la supervisione di Blasetti. Una citazione a parte merita Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis, un film notevole grazie al suo approccio quasi documentaristico.

Il film di maggiore successo del periodo è il dittico Noi vivi-Addio, Kira! (1942) di Goffedo Alessandrini. Riconducibile al genere del dramma anticomunista, questo cupo melodramma ambientato in un'improbabile Unione Sovietica è ispirato a un romanzo di Ayn Rand che esalta l'individualismo più radicale. Proprio a causa di questa generica critica all'autoritarismo, il dittico ha potuto essere interpretato anche come una blanda accusa al morente regime fascista[28].

Tra i registi che danno il loro contributo alla propaganda bellica c'è anche Roberto Rossellini, autore di una trilogia composta da La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e L'uomo della croce (1943). Anticipando per certi versi le sue opere della maturità, il regista adotta uno stile dimesso e immediato, che non contrasta l'efficacia della propaganda ma neppure esalta la retorica bellica dominante[28]: è lo stesso approccio anti-spettacolare a cui resterà fedele per tutta la vita.

Il cinema dei telefoni bianchi

Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema dei telefoni bianchi.
File:Casadelpeccato.jpg
Assia Noris con un telefono bianco in una scena del film La casa del peccato (1938) di Max Neufeld

La stagione cinematografica dei telefoni bianchi interessa un periodo di tempo relativamente breve, dalla seconda metà degli anni trenta alla caduta del fascismo. Il nome del filone proveniva dalla presenza di telefoni di colore bianco nelle sequenze di alcuni film del periodo, che all'epoca era un segno di benessere sociale. Il rifiuto di qualunque problematica sociale, della verosimiglianza e di riferimenti alla contemporaneità sono i tratti distintivi di queste esili commedie sentimentali, che conoscono un effimero successo di pubblico negli anni in cui il fallimento delle promesse del fascismo si fa sempre più evidente.

Una denominazione alternativa del genere è "cinema déco"[29], per sottolineare i frequenti riferimenti alla moda e al costume dell'epoca: queste commedie traboccano di macchine di grido, case di lusso arredate con stile e vestiti alla moda, degno contorno delle innocue vicende sentimentali di Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Alida Valli e Assia Noris. Il cosmopolitismo superficiale del genere è spiegabile anche per le necessità produttive: molti film sono adattamenti di commedie mitteleuropee di inizio secolo, che tentavano di mascherare la frivolezza del contenuto con la brillantezza dello stile. L'ambientazione straniera di molte storie (spesso in un'Europa centrale mitizzata e indifferente alle tragedie che proprio in quegli anni si preparano a sconvolgere il continente) contribuisce a relegare questo cinema nel puro disimpegno, lontano dalle preoccupazioni dei tempi difficili.

Tra i maggiori successi di pubblico del genere troviamo: La casa del peccato (1938) e Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld, Ore 9 lezione di chimica (1941) di Mario Mattoli e Apparizione (1944) di Jean de Limur.

Il calligrafismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Calligrafismo (cinema).
Una foto di scena di Tragica notte (1942) di Mario Soldati

Il calligrafismo è una tendenza cinematografica relativa ad alcuni film realizzati in Italia nella prima metà degli anni quaranta, aventi in comune una complessità espressiva e molteplici riferimenti figurativi, letterari e cinematografici che li isolano dal contesto cinematografico dominante. L'esponente più noto di questa tendenza è Mario Soldati, scrittore e regista di lungo corso destinato a imporsi con film di ascendenza letteraria e solido impianto formale: Dora Nelson (1939), Piccolo mondo antico (1941), Malombra (1942), Tragica notte (1942), Quartieri alti (1943). I suoi film mettono al centro della storia personaggi femminili dotati di una forza drammatica e psicologica estranea al cinema dei telefoni bianchi. Luigi Chiarini, già attivo come critico, approfondisce la tendenza nei suoi La bella addormentata (1942) e Via delle Cinque Lune (1942). I conflitti interiori dei personaggi e la ricchezza scenografica sono ricorrenti anche nei primi film di Alberto Lattuada (Giacomo l'idealista, 1942) e Renato Castellani (Un colpo di pistola, 1942), dominati da un senso di disfacimento che sembra anticipare la fine della guerra.

La caratteristica dominante in questo corpus eterogeneo di film è la volontà di competere con il cinema di livello europeo affermando l'autonomia espressiva del cinema nei confronti delle altre arti e, al tempo stesso, la possibilità di confrontarlo pari a pari con esse mediante uno stile che possa fondere e contaminare i diversi linguaggi artistici ed espressivi[30]. Il risultato è un cinema formalmente complesso, capace di rievocare numerose tendenze culturali e di armonizzarle in una forma espressiva compiuta mediante l'attenzione formale, la rivalutazione del carattere "artigianale" del cinema, svilito nel periodo del cinema dei telefoni bianchi. I riferimenti letterari principali sono quelli della narrativa ottocentesca, in prevalenza italiana (da Antonio Fogazzaro a Emilio De Marchi), russa e francese. Ai film collaborano letterati come Corrado Alvaro, Ennio Flaiano, Emilio Cecchi, Francesco Pasinetti, Vitaliano Brancati, Mario Bonfantini e Umberto Barbaro. Sul versante visivo, il calligrafismo si rifà ai macchiaioli toscani, ai preraffaeliti e ai simbolisti[31].

I film di questa breve tendenza non hanno vocazione realista o di impegno sociale. L'interesse principale resta la cura formale e la ricchezza di riferimenti culturali racchiusi in un cinema capace di valorizzare la professionalità di ogni componente produttiva. La critica del tempo bolla questa tendenza come velleitaria e superficiale (coniando appositamente l'espressione "calligrafismo"); in seguito, a partire dagli anni Sessanta, questo giudizio riduttivo è stato corretto[32].

Il cinema della Repubblica di Salò

Lo stesso argomento in dettaglio: Cinevillaggio.
Osvaldo Valenti con la divisa della Xª MAS

Per la brevità della sua storia, la fragilità delle strutture produttive e la debolezza dei film, il cinema della Repubblica di Salò è un campo scarsamente considerato dalla storiografia. Questa "non storia"[33] inizia all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre, quando Luigi Freddi stabilisce il nuovo centro della cinematografia fascista a Venezia allo scopo di riprendere la produzione. Ferdinando Mezzasoma, nominato Ministro della Cultura Popolare, tenta di creare una piccola Cinecittà veneziana con i registi, le maestranze e gli attori di second'ordine che hanno risposto all'appello di trasferirsi al nord. Ma il cinema della Repubblica Sociale è da subito condannato a lottare contro la scarsità di mezzi concessi dalle autorità, ormai prive di interesse per quella che Mussolini stesso aveva definito "l'arma più forte". Giorgio Venturini, Direttore generale dello spettacolo (peraltro privo di qualunque esperienza in campo cinematografico), descrive con realismo la situazione in cui si trova a operare:

«Quel che vedete non è certo Cinecittà: chiamiamolo pure un cinevillaggio; ma il piano urbanistico ne è stato così ben tracciato da consentire domani ogni più ampio sviluppo[34]

All'inizio del 1944 vengono inviate a Venezia da Praga le apparecchiature cinematografiche requisite dai tedeschi a Cinecittà, e la produzione può iniziare. Il tentativo di stabilire un solido gruppo di attori è però fallimentare: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida sono i soli nomi di richiamo ad aver giurato fedeltà al nuovo regime, mentre gli altri (tra cui Emma Gramatica, Elena Zareschi, Nada Fiorelli...) non bastano a suscitare l'interesse del pubblico. Tra i registi che aderiscono al cinema repubblichino troviamo Piero Ballerini, Francesco De Robertis, Fernando Cerchio, Ferruccio Cerio; tra gli sceneggiatori, Corrado Pavolini e Alessandro De Stefani.

Le risorse del Ministero sono usate principalmente per riportare in vita il Cinegiornale Luce. I 55 servizi realizzati dalla metà del 1943 alla fine della guerra si occupano di cronache mondane, eventi sportivi, curiosità dall'estero. La guerra resta spesso sullo sfondo, e in un solo numero si citano i partigiani[35]. I lungometraggi a soggetto, una quarantina in totale, evitano con cura la propaganda. Tra i titoli più significativi c'è La vita semplice (uscito nel 1946) di De Robertis, un'amena storia sentimentale ambientata nella Venezia popolare.

La fine della guerra è anche la fine di questo fragile cinevillaggio. Subito dopo i dissidi saranno ricomposti in nome della ricostruzione nazionale e nella vana speranza di mantenere anche in tempo di pace una parte della produzione a Venezia[36].

Il cinema del dopoguerra (1945-1955)

Negli ultimi anni della guerra l'Italia conosce distruzioni immani. Uno dei sistemi produttivi più avanzati d'Europa si è dissolto e la produzione è praticamente ferma. In questo scenario desolante si manifesta comunque una volontà di rinascita, che nel 1944 porta alla fondazione dell'ANICA, erede diretta della FNFIS di epoca fascista, che raccoglie gli interessi di produttori, distributori ed esercenti. Un articolo del Mondo Nuovo, rotocalco statunitense in lingua italiana, sintetizza così questa fragile volontà di resurrezione:

«Produrre film in Italia è come costruire una casa cominciando dal tetto. [...] Eppure nei teatri di posa italiani si continua a girare film. Meraviglia come soltanto ora, che non si hanno più i mezzi di una volta, la cinematografia italiana corrisponda a quello che è l'animo del paese»

Nel giro di pochi anni la produzione si stabilizza: nel 1945 vengono prodotti 28 film, che salgono a 62 l'anno successivo e a 104 nel 1950. Alla fine degli anni Cinquanta si arriverà a 167[38]. La ripresa produttiva è facilitata anche da una politica di assistenza da parte del governo intesa a garantire la stabilità dell'assetto industriale, in opposizione all'azione degli studios hollywoodiani, della PWB e della diplomazia statunitense, che puntano invece a impedire la ripresa produttiva[39]. Nel corso del decennio la produzione nazionale si imporrà sui film statunitensi, che si sono abbattuti in massa sul mercato alla fine della guerra[40].

Il neorealismo (1945-1953)

Lo stesso argomento in dettaglio: Neorealismo (cinema).

In questo campo di contraddizioni si sviluppa il neorealismo, una corrente artistica e culturale che riguarda tutte le forme di arte, ma in particolare il cinema. Il cinema neorealista non può essere considerato una corrente né un movimento, dato che i registi di spicco (Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Giuseppe De Santis) manterranno sempre una personalità artistica autonoma e originale. I tratti comuni del neorealismo, inseparabili dal contesto storico, sono identificabili piuttosto nel senso etico di solidarietà umana nato dall'antifascismo, nell'attenzione agli eventi contemporanei, nella centralità di personaggi comuni e antieroici, nell'intreccio tra vicende private e storia pubblica, tutti elementi che spingono all'uso preferenziale (ma non esclusivo) di attori non protagonisti e di ambientazioni reali. I registi neorealisti si propongono di osservare la realtà senza pregiudizi, rinunciando agli interventi falsificanti e alla narrazione classica. Il cinema diventa così un simbolo della volontà di riscatto dell'Italia, di quella società povera ma vitale che il cinema dell'epoca fascista aveva rimosso.

Aldo Fabrizi in Roma città aperta

Il momento di svolta avviene con Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, rievocazione della lotta antifascista a Roma negli ultimi mesi della guerra in cui le diverse anime della resistenza romana (comunista, liberale, cattolica) collaborano nel rispetto reciproco. Quello che più interessa al regista sono "le strade, le chiese, i tetti, le case popolari, quegli spazi vitali che l'uomo è chiamato a difendere"[41]. Il film ottiene grande successo internazionale e consacra Rossellini a portavoce del neorealismo. La visione ecumenica ritorna nel film successivo, Paisà (1946), affresco bellico sull'avanzata degli alleati dalla Sicilia alla valle del Po, che rispetto al precedente sacrifica la psicologia individuale alla necessità dell'itinerario storico e geografico. Per certi versi speculare a Paisà è invece Germania anno zero (1947), girato tra le macerie di una Berlino distrutta dai bombardamenti. In questo film, che chiude idealmente la parabola neorealista di Rossellini, inserisce il trauma bellico nella visione cattolica della lotta dell'uomo contro le avversità della storia, che nel tragico finale sembra sancire la morte della solidarietà. Francesco giullare di Dio (1950) abbandona l'ambientazione contemporanea per rinnovare la ricerca tematica del regista, rappresentando la religione popolare come risposta al senso del vivere. Nei film successivi (Stromboli, 1950; Europa '51, 1952; e soprattutto Viaggio in Italia, 1953), segnati dalla collaborazione con Ingrid Bergman, Rosselini si interroga sul rapporto tra individuo e società, sulla solitudine dell'esistenza, sul silenzio di Dio, rappresentando i dati visibili come correlativi di una ricerca interiore. Questi film, accolti inizialmente con freddezza dalla critica, avranno grande influenza nello sviluppo del cinema europeo dei decenni successivi.

Ladri di biciclette

Sul versante opposto, la parabola di Vittorio De Sica è inseparabile da quella del suo sceneggiatore di fiducia, Cesare Zavattini, che rappresenta quasi la coscienza teorica del neorealismo. Insieme hanno già realizzato I bambini ci guardano (1944), che mostra già un'attenzione alla realtà contemporanea, ma è con Sciuscià (1946) che la coppia si impone definitivamente a livello internazionale. A differenza di Rossellini, De Sica carica il film di intensità emotiva e cerca il coinvolgimento dello spettatore nella storia patetica di due ragazzini sconfitti dalla società. Con Ladri di biciclette (1949) il dramma individuale, inserito in una più ampia problematica sociale, si carica di un pathos abilmente gestito dal regista, capace di impiegare al massimo grado le interpretazioni di attori non professionisti. Miracolo a Milano (1951) entra invece nel territorio della favola (portando allo scoperto una tendenza latente nella poetica di Zavattini) sotto forma di un apologo fantastico sul bisogno della solidarietà sociale, ma questa rivendicazione del potere dell'immaginazione viene accolta con scetticismo dalla critica e non avrà seguito. La descrizione della vita quotidiana raggiunge invece il punto più alto con Umberto D. (1953), per molti versi l'apice del neorealismo. La storia di un individuo qualunque alle prese con il dramma di vivere procede per accumulazione di dettagli quotidiani che la regia porta fino al culmine della forza espressiva. Dopo questo exploit la coppia si limiterà a forme narrative più consolidate, e lo stesso neorealismo sembrerà aver esaurito le sue potenzialità.

Un'inquadratura de La terra trema

Tra i registi di questo periodo, Luchino Visconti è il più complesso, solo in parte riconducibile ai moduli del neorealismo. Il suo cinema apre la strada alla riscoperta della realtà con Ossessione (1943), autentico film-spartiacque che mostra già l'ascendenza letteraria del suo cinema, l'interesse per il melodramma e l'ambientazione rurale. Piegando i motivi del noir americano ai moduli del cinema realista (in particolare francese), questo tragico dramma psicologico risulta del tutto anomalo nel contesto del cinema fascista e sarà un punto di riferimento obbligato per tutto il cinema del decennio successivo[42]. Dopo la partecipazione al film collettivo Giorni di gloria (1945) e un'importante attività teatrale, Visconti raggiunge uno degli apici del suo cinema con La terra trema (1949). Interpretato da attori non protagonisti e parlato in dialetto, il film è la summa di tutte le influenze artistiche del regista, figura unica di intellettuale aristocratico e comunista. Il regista guarda alla storia di una comunità di pescatori (liberamente tratta dai Malavoglia di Giovanni Verga) attraverso la lettura esplicitamente marxista della lotta di classe: il pessimismo verghiano si trasforma quindi nel dominio economico della borghesia e i proletari acquisiscono la consapevolezza di essere proletari sfruttati. Il complesso apparato figurativo rende funzionale al dramma ogni elemento della masse in scena, con le scene costruite secondo precisi rapporti plastici, cromatici, sonori, musicali[43]. Il film è un insuccesso di pubblico e Visconti ripiega su progetti meno ambiziosi. Bellissima (1951) torna quindi alla contemporaneità con una descrizione minuziosa del mondo del cinema e del fascino esercitato sui popolani, ma non rinuncia alla costruzuione narrativa romanzesca né alla complessità figurativa.

Silvana Mangano in Riso amaro

Interessato a estendere i confini del neorealismo è anche Giuseppe De Santis. Dopo un lungo apprendistato critico per la rivista Cinema, De Santis esordisce nel 1946 con Caccia tragica, che mostra già la sua preferenza per il racconto corale, la complessità della messa in scena e la tendenza epicizzante. Nell'arco di una dozzina di film, De Santis cercherà di adattare i moduli neorealisti al cinema popolare contemporaneo, il realismo socialista sovietico allo spettacolo hollywoodiano. L'ambizione è meglio espressa in Riso amaro (1949), grande successo internazionale, che coniuga ambizione sociale e cultura popolare. In Non c'è pace tra gli ulivi (1950) vengono riassunti tutti i temi a lui più cari: la centralità del personaggio femminile, l'ambientazione agricola, la precisa descrizione sociale[44]. Roma ore 11 (1952) abbandona l'abientazione rurale per descrivere il processo di inurbamento e le contraddizioni della ripresa economica. I pochi film successivi (tra cui Un marito per Anna Zaccheo, 1953; Giorni d'amore, 1954; Uomini e lupi, 1956; La strada lunga un anno, 1958) saranno accolti con freddezza dalla critica, quasi a significare l'esaurimento creativo del neorealismo e la difficoltà di rappresentare una società più complessa[45].

Fino alla metà degli anni cinquanta moltissimi film riprenderanno, in forme più o meno consapevoli, temi e ambientazioni del neorealismo. Alberto Lattuada coniuga realismo e necessità spettacolare con Il bandito (1946), influenzato dal genere noir, l'ambizioso affresco storico Il mulino del Po (1949) e Il cappotto (1952), entrambi di origine letteraria. Anche Mario Soldati mette la vocazione letteraria al servizio del realismo con Le miserie del signor Travet (1946), prima di dedicarsi soprattutto alla narrativa. Tra i registi di commedie attivi nei decenni precedenti che continuano a lavorare si segnalano Mario Camerini (Due lettere anonime, 1946; Ulisse, 1954), Luigi Zampa, che realizza i suoi film più celebri con la collaborazione di Vitaliano Brancati (Anni difficili, 1948; L'arte di arrangiarsi, 1954), e Renato Castellani (Sotto il sole di Roma, 1948; Due soldi di speranza, 1952). Pietro Germi guarda invece ai moduli del cinema statunitense (Il testimone, 1945; Gioventù perduta, 1947); In nome della legge (1949) conferma la solidità della sua regia e Il cammino della speranza (1959) aggiorna il neorealismo in chiave melodrammatica[46]. Una certa attenzione sociale, ormai ridotta a puro sfondo per commedie sentimentali, sopravviverà fino alla fine del decennio in un filone bollato dalla critica come "neorealismo rosa", di cui i film di Luciano Emmer costituiscono gli esempi migliori (Le ragazze di Piazza di Spagna, 1952; Terza liceo, 1953; La ragazza in vetrina, 1961).

A metà del decennio la tendenza neorealista può dirsi esaurita. Tra le cause vanno citate la crescita produttiva (con la contemporanea affermazione di generi più codificati), il raffreddamento ideologico imposto dal governo in cambio del sostegno all'industria, l'evoluzione dei registi maggiori e la difficoltà di rappresentare una società in continuo cambiamento. A segnare la chiusura di questa esperienza provvedono i film di Roberto Rossellini dei primi anni cinquanta, l'esaurimento della vena realista di Vittorio De Sica (con l'insuccesso produttivo e critico di Stazione Termini, 1953, e la conseguente conversione alla commedia) e soprattutto il clamore suscitato da Senso (1954) di Luchino Visconti, che supera il realismo contemporaneo nella direzione dell'affresco storico risorgimentale (riletto attraverso Gramsci) e dell'interesse per la complessità psicologica[47].

I generi popolari

Melodramma

File:Figlidinessuno.jpg
Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari in una scena del film I figli di nessuno (1951) di Raffaello Matarazzo

Fra la metà degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta fiorisce il genere dei melodrammi popolari, detti comunemente strappalacrime. Le esili trame sono spesso costruite attorno a giovani coppie unite dall'amore ma divise dai ceti sociali di appartenenza, con particolare insistenza sulle sofferenze, le vessazioni e le rinunce che i personaggi (soprattutto femminili) sono costretti a subire. I melodrammi strappalacrime sono poco apprezzati dalla critica, che li considera alla stregua di fotoromanzi cinematografici, ma il successo di pubblico è immediato.

Il regista principale del filone è Raffaello Matarazzo, attivo già dai tempi del fascismo e prolifico autore di una serie di film interpretati da Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Il suo film più celebre, Catene, è il maggior incasso in Italia nella stagione 1949-1950. Altri registi specializzati nel genere sono Guido Brignone, Luigi Capuano, Gennaro Righelli, Mario Bonnard, Ubaldo Maria Del Colle, Giorgio Walter Chili, Carlo Borghesio, Giorgio Pàstina, Flavio Calzavara, Carlo Campogalliani, Roberto Mauri, Carmine Gallone, Leonardo De Mitri, Giuseppe Guarino e Mario Costa. Alberto Lattuada si cimenterà con questo filone con Anna (1951), che toccherà il miliardo di lire di incasso. Anche Riccardo Freda, Sergio Corbucci e Vittorio Cottafavi, prima di prendere strade diverse nell'ambito del cinema popolare, inizieranno le carriere con questo genere di film.

Nel decennio successivo il filone tenta di aggiornarsi ai gusti del pubblico. I film di questo periodo sono incentrati soprattutto su bambini con genitori troppo distaccati o in procinto di separarsi, destinati a morire per una disgrazia o una malattia; altri raccontano di coppie in crisi che riescono a ritrovare l'amore per poi essere separate inesorabilmente da un destino avverso. Capostipite di questo revival è Incompreso di Luigi Comencini. Il successo del film dà il via a una serie di imitazioni più o meno esplicite lungo tutti gli anni sessanta e settanta. Tra i titoli di maggior successo si ricordano Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno, L'ultimo sapore dell'aria di Ruggero Deodato, Cuore di Romano Scavolini, Il venditore di palloncini di Mario Gariazzo, Bianchi cavalli d'agosto e L'ultima neve di primavera di Raimondo Del Balzo. Contemporaneamente si provvede anche a una riconsiderazione critica dei film di Matarazzo, a lungo considerato un mestierante senza personalità e ora rivalutato per la competenza della messa in scena e le invenzioni cinematografiche[48]. Nel 1974 vengono girati due remake di suoi film: I figli di nessuno di Bruno Gaburro e Catene di Silvio Amadio. Il filone continua con successo fino alla metà degli anni ottanta, quando la scomparsa dei generi popolari cinematografici relega i film sentimentali alla produzione televisiva.

In questo genere va inserito anche il fortunato sotto-filone delle cine-sceneggiate napoletane, interpretate da un'autentica schiera di divi regionali: Pino Mauro, Mario Trevi e soprattutto Mario Merola e Nino D'Angelo. I titoli più famosi di questo sottofilone sono Zappatore, Lacrime napulitane, Carcerato e I figli... so' pezzi 'e core.

Peplum e Cappa e spada

Lo stesso argomento in dettaglio: Peplum.
La locandina americana del film Le fatiche di Ercole (1958) di Pietro Francisci

Appartengono al genere peplum tutti quei film ambientati nell'antichità narranti fatti mitologici o biblici, nati sulla scia del successo di kolossal hollywoodiani come Ben Hur. Questi film narravano anche le gesta di potenti eroi mitologici, come Ercole, Golia, Maciste, Sansone o Ursus, in lotta per liberare interi popoli da mostri o sovrani malvagi oppure con la missione di salvare fanciulle in pericolo. Tali personaggi forzuti entrarono nell'immaginario collettivo ed erano interpretati da attori americani che avevano avuto in passato esperienze da body-builder come Gordon Scott, Steve Reeves e Brad Harris. Dalla metà degli anni sessanta tale genere iniziò a mescolarsi ad altri, come l'horror, a causa di una iniziale disaffezione del pubblico nei confronti di queste pellicole, che si esaurirono alla fine del decennio dopo anni di successi a livello internazionale.

Analogo al peplum fu il genere "cappa e spada" in cui si inseriscono quei film avventurosi o storici ambientati però nel Medioevo o nel Rinascimento. Tali film narravano le gesta di uomini e donne realmente esistiti oppure vedevano protagonisti i personaggi della narrativa avventurosa.

La critica dell'epoca bollò questi due generi come immensi spettacoloni di cartapesta senza pretese e dallo scopo meramente commerciale.

Il cinema d'autore degli anni cinquanta, sessanta e settanta

Federico Fellini

A partire dalla metà degli anni cinquanta il cinema italiano cominciò a emanciparsi dal neorealismo affrontando le tematiche esistenziali da punti di vista differenti, più introspettivi che descrittivi.

Inutile cercare di classificare il cinema profondamente autoriale che cominciò a svilupparsi in questo decennio e terminò, virtualmente, solo con la morte di Federico Fellini, a inizio anni novanta.

Michelangelo Antonioni, con film quali Le amiche, Il grido e la tetralogia L'avventura (1960), La notte (1961), L'eclisse (1963) e Deserto rosso (1965), portò alla ribalta un cinema esistenziale, introspettivo, estremamente attento alle psicologie dei personaggi più che agli eventi. Fama e riconoscimento internazionale vennero consolidati da opere come Blow up (1966) e Professione: reporter (1975).

Fellini, con capolavori come Le notti di Cabiria (1956) e La dolce vita (1960), oltre ai già citati I vitelloni e La strada, si impone come uno dei massimi punti di riferimento del cinema italiano nel mondo. Il suo stile inconfondibile viene esaltato dal fortunato sodalizio con il compositore Nino Rota, le cui colonne sonore entreranno nell'immaginario collettivo. Alcune scene dei suoi film più celebri assurgeranno a simboli di un'intera epoca, come la famosa scena di Anita Ekberg che, ne La dolce vita fa il bagno nella Fontana di Trevi divenuta, da allora, un'icona del cinema italiano nel mondo.

Nel corso del decennio degli anni sessanta Fellini inizia una fase di sperimentazione col monumentale, onirico e visionario (1963), che aprirà una nuova fase della sua già luminosa carriera: opere successive come Fellini Satyricon, Amarcord, Il Casanova di Federico Fellini, La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred ed Intervista consacrano Fellini come uno dei più grandi artisti della macchina da presa del Novecento.

Se Roberto Rossellini e Vittorio De Sica (la cifra stilistica di quest'ultimo sarà enormemente tributaria del rapporto con il grande scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini) perseguono altre strade negli anni sessanta e settanta del Novecento, il primo come autore di nicchia televisivo e documentarista, il secondo come attore di successo, oltreché regista, Luchino Visconti, il grande esteta per definizione, continuerà a regalare al cinema italiano altre indimenticabili e prestigiose creazioni. Fra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni settanta, sarà autore di un'ininterrotta serie di capolavori, fra cui Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig e Gruppo di famiglia in un interno.

Come allievo di Visconti si mette in luce Franco Zeffirelli: tra le sue più note opere di quel periodo le trasposizioni shakespeariane: La bisbetica domata (1967) e Romeo e Giulietta (1967), con cui ottiene la nomination all'oscar come miglior regista, traguardo raggiunto ancora con La Traviata (1982).

Pier Paolo Pasolini

Altro grande protagonista nel panorama del cinema italiano d'autore è sicuramente Pier Paolo Pasolini, regista, attore, poeta e scrittore, che nelle sue opere si oppose alla morale del tempo. Personaggio di rottura, fino al suo assassinio (avvenuto nel 1975) non si stancò di combattere a tutti i livelli (letterario, cinematografico e politico) per proporre nuovi valori contrari al conformismo e al consumismo della società italiana a cavallo fra gli anni sessanta e settanta.

I suoi film, dall'esordio Accattone (1961), Mamma Roma, (1962), Il vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1966), Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) le trasposizioni cinematografiche della "trilogia della vita" Il Decameron (1971), dei I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974) o le agghiaccianti scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), (che avrebbe dovuto far parte della trilogia della morte, assieme a Porno-Teo-Kolossal, di cui era già pronta la sceneggiatura ed un terzo film che però non furono mai realizzati a causa dell'assassinio del regista) hanno proposto chiavi di lettura alternative, scatenando spesso lunghe polemiche, talvolta con strascichi giudiziari ed episodi di censura.

Un altro regista importante è Valerio Zurlini: i suoi film, da Estate violenta a La ragazza con la valigia, da Cronaca familiare a Il deserto dei Tartari alternano suggestive rievocazioni letterarie e d'ambiente ad analisi psicologiche raffinate e complesse, con risultati spesso notevoli.

Molto raffinato sul piano formale è il cinema di Mauro Bolognini che, pur soffrendo talora di eccessi di decadentismo e affettazione, ha una ricchezza scenografica e uno squisito impianto letterario, di derivazione viscontiana: La giornata balorda, Il bell'Antonio, Metello.

La grande stagione della commedia

Lo stesso argomento in dettaglio: Commedia all'italiana.

Nella seconda metà degli anni cinquanta si sviluppa anche il genere della commedia, spesso conosciuta come commedia all'italiana, una definizione che fa riferimento al titolo di un film di Pietro Germi: Divorzio all'italiana (1961) con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, due tra i più importanti attori del cinema italiano. Questo film ha vinto anche un Oscar nel 1963 per la migliore sceneggiatura originale.

Antonio De Curtis, in arte Totò

A tale filone si ricollegano i nomi dei principali attori italiani del tempo, da Alberto Sordi a Ugo Tognazzi, da Monica Vitti a Claudia Cardinale, da Vittorio Gassman a Enrico Maria Salerno e Nino Manfredi, senza dimenticare Totò, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, maestri della parodia e Sophia Loren, oltre ai già citati Mastroianni e Sandrelli.

Generalmente si ritiene sia stato Mario Monicelli capostipite e fra i massimi esponenti (con Ettore Scola, Pietro Germi, Luigi Comencini e Dino Risi) della commedia italica, ad inaugurare il nuovo genere con I soliti ignoti, del 1958, cui fecero seguito altri lungometraggi memorabili diretti dallo stesso regista come La grande guerra, L'armata Brancaleone, Amici miei e Il marchese del Grillo.

Gli anni sessanta sono il periodo del boom economico e anche il cinema risente dei cambiamenti che modificano radicalmente la società italiana. Fra i tanti film di questo decennio è importante ricordare Il sorpasso di Dino Risi, un lungometraggio che riesce a mischiare bene la comicità e la serietà del soggetto, con Vittorio Gassman nel ruolo del protagonista. Il finale drammatico della pellicola e la colonna sonora, con brani di Edoardo Vianello (con Guarda come dondolo) e Domenico Modugno (con Vecchio frack) sono altri due elementi che contribuiscono a rendere questo film una delle grandi creazioni di quegli anni.

Altri importanti film del fiolone sono i sempre attuali Il medico della mutua e Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue rispettivamente di Luigi Zampa e Luciano Salce.

Alberto Sordi in una scena de Il vigile, manifesto dell'Italia degl'anni sessanta

Tra gli ultimi capolavori della commedia italiana "classica" è doveroso segnalare Lo scopone scientifico di Luigi Comencini, C'eravamo tanto amati e La terrazza di Ettore Scola, che, uscito nel 1980, è, secondo taluni, l'ultimo film ancora ascrivibile al genere.

In effetti sul finire degli anni settanta il tono delle commedie si fa sempre più cupo ed esistenziale: l'ottimismo del dopoguerra appare, anno dopo anno, solo un lontano ricordo. In questo periodo il genere declina rapidamente fino ad esaurirsi, salvo rare eccezioni (fra cui, forse, Amici miei atto II) all'inizio del decennio successivo.

Nel frattempo si impongono sempre più le commedie a sfondo (più o meno) erotico. Prodotte fin dai primi anni settanta, conosceranno un periodo di grande popolarità fra la metà di quello stesso decennio e l'inizio degli anni ottanta (commedia sexy all'italiana).

Va infine messo in evidenza che spesso gli elementi costitutivi della commedia sono stati mescolati ad arte con generi diversi, dando vita a pellicole inclassificabili. Luigi Comencini è stato un maestro di tale tecnica: dopo aver raggiunto la celebrità negli anni cinquanta con alcune commediole rosa (tra tutte la celebre Pane, amore e fantasia del 1953 a cui seguirono due sequel altrettanto riusciti), ha regalato al cinema italiano opere come Tutti a casa, il già citato Scopone scientifico (entrambi interpretati da Alberto Sordi), lo sceneggiato Le avventure di Pinocchio con Nino Manfredi, Il gatto in cui si fondono generi e stili differenti.

Nell'ambito della commedia un posto a parte occupa Antonio Pietrangeli, che in quasi tutti i suoi film si occupò di psicologia femminile, delineando degli amari e finissimi ritratti di donne tormentate e di giovani infelici, da Adua e le compagne a La visita, da La parmigiana a Io la conoscevo bene, considerato il suo capolavoro.

Il cinema sociale e politico

I movimenti studenteschi, operai ed extra-parlamentari della fine degli anni sessanta e quelli del decennio successivo influenzano anche il cinema, che, oltre al filone della commedia, si sviluppa anche in un genere più impegnato socialmente e politicamente.

Gian Maria Volonté, qui in Uomini contro (1970) di Francesco Rosi

In questo contesto nuovi registi continuano e potenziano l'opera iniziata già anni prima tra gli altri da Francesco Rosi autore di film come Salvatore Giuliano, che narra la storia del famoso bandito siciliano del 1961 e Le mani sulla città, film che denunciava la proliferazione della speculazione edilizia, del 1963.

Tra i film più importanti si ricordano Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri, con la notevole interpretazione di Gian Maria Volonté l'interprete-simbolo del cinema d'impegno civile, la trasposizione cinematografica del romanzo di Leonardo Sciascia Il giorno della civetta (1967) e il successivo Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), entrambi di Damiano Damiani.

Altro capolavoro è il duro e realistico Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy, con protagonista un insolito Alberto Sordi, nella rappresentazione del sistema carcerario italiano.

Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio (1971)

Ma forse il punto d'arrivo del filone di "denuncia" fu Il caso Mattei (1972), un film inchiesta in cui il regista Francesco Rosi cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei, manager del più importante gruppo statale italiano, l'ENI. La pellicola di Rosi, sempre con Gian Maria Volonté come protagonista, vinse la Palma d'oro al festival di Cannes e divenne un modello per analoghi film d'inchiesta prodotti nei decenni successivi (a partire dal celebre JFK - Un caso ancora aperto di Oliver Stone).

Anche se non strettamente legato alla realtà italiana è doveroso ricordare La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966), potente ricostruzione degli eventi civili e militari che portarono l'Algeria all'indipendenza dal colonialismo francese. Il film di Pontecorvo, Leone d'oro a Venezia, è divenuto nel tempo una delle opere italiane più conosciute e celebrate nel mondo.

Un regista legato al cinema politico e d'impegno sociale è Florestano Vancini, che nelle sue opere più riuscite ha coniugato la robustezza della ricostruzione storica con il resoconto di crisi sentimentali e soggettive: La lunga notte del '43 (1960), Le stagioni del nostro amore (1966), Il delitto Matteotti (1973).

Il cinema di genere italiano

Accanto al cinema neorealista, degli autori, della commedia all'italiana, politico e di denuncia sociale a partire dal secondo dopoguerra nacque anche un cinema italiano più popolare che se da una parte fu snobbato ed osteggiato dalla critica cinematografica dell'epoca, che lo liquidava come un Cinema di serie B (anche se recentemente c'è stata una generale rivalutazione di queste pellicole), da un altro venne invece molto apprezzato dal pubblico, anche internazionale, facendo rientrare di diritto anche questi film nella storia della cinematografia italiana.

Dopo aver toccato il proprio culmine negli anni sessanta e settanta del Novecento, Il cinema di genere italiano entrò in declino a metà degli anni ottanta per due motivi principali: da una parte la grave crisi che aveva colpito tutto il cinema italiano in quel periodo e dall'altra l'affermazione della televisione commerciale, che in pochi anni lo privò del suo pubblico; il cinema di genere italiano è poi scomparso completamente nei primi anni novanta.

I generi cinematografici prodotti in Italia furono molteplici (variando a seconda dei decenni) e molte volte si mischiarono tra loro (attraverso varie commistioni); ecco una breve lista dei generi cinematografici che conobbero, in periodi diversi, maggior successo.

Western

Lo stesso argomento in dettaglio: Western all'italiana.
Sergio Leone sul set di C'era una volta in America

Sergio Leone è il precursore di questo filone, con la cosiddetta trilogia del dollaro: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Lo stile di Leone, coadiuvato dalle colonne sonore di Ennio Morricone, è di programmatica rottura con l'enfasi patriottarda e romantica dei classici statunitensi: crea un universo iperbolico, dominato da violenza e sopraffazione e dipinto con un incessante umorismo nero. La qualità filmica della trilogia raggiunge l'apice con l'ultimo capitolo: una sorta di La grande guerra ambientato durante il conflitto di secessione (1860-1865) e raccontato mescolando felicemente toni picareschi a momenti di grande lirismo. Leggendario il finale: raro capolavoro di montaggio e combinazione tra musica e immagine. A questo trittico seguiranno il kolossal epico C'era una volta il West (1968), girato in parte nella Monument Valley americana, e Giù la testa (1971). Sergio Leone, snobbato all'epoca da buona parte della critica, viene oggi celebrato come uno dei registi italiani più noti e amati a livello internazionale.

Il successo mondiale dei film di Leone aprì la strada a una moltitudine d'imitazioni made in Italy (circa cinquecento pellicole spalmate in quindici anni).

Da ricordare a tal proposito Django (1966), Il grande silenzio (1969) e Vamos a matar, compañeros (1970) di Sergio Corbucci, La resa dei conti (1967) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima, Una pistola per Ringo (1965), Il ritorno di Ringo (1966) e Viva la muerte... tua! (1972) di Duccio Tessari, Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, Tepepa (1968) di Giulio Petroni, Keoma (1976) di Enzo G. Castellari, Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro (1966), I quattro dell'apocalisse (1975) e Sella d'argento (1978) di Lucio Fulci.

Bud Spencer e Terence Hill in una scena di Lo chiamavano Trinità... (1970)

Altro filone degli spaghetti-western sono state le commedie western vicine al genere del film comico, scritte e dirette dal regista Enzo Barboni (che si firmava con lo pseudonimo di E.B. Clucher) e con protagonisti gli attori Bud Spencer e Terence Hill (nomi d'arte degli italiani Carlo Pedersoli e Mario Girotti). Tra questi film Lo chiamavano Trinità... (1970) e il seguito ...continuavano a chiamarlo Trinità (1972), quest'ultimo campione d'incasso in Italia nel 1971-1972. Del 1973 è Il mio nome è Nessuno: celebre, curiosa pellicola che unisce l'epicità (e il coprotagonista Henry Fonda) di C'era una volta il West con elementi tipici dei western comici.

Giallo, thriller e horror

Lo stesso argomento in dettaglio: Giallo all'italiana.
Dario Argento

Per quanto riguarda il cinema di genere un'importante rilevanza va data all'horror e al thriller per i seguenti anni fonte per registi di fama internazionale (autori decisamente influenzati sono stati Quentin Tarantino, come Brian De Palma o Tim Burton).

Barbara Steele in una scena del film La maschera del demonio (1960) di Mario Bava

I due nomi fondamentali di questa fase sono stati Mario Bava e Dario Argento. Il primo, direttore della fotografia passato alla regia, ha non solo creato un vero presupposto per un horror di qualità in Italia, ma si è rivelato soprattutto un notevole narratore, colto e raffinato. Titoli fondamentali della sua filmografia sono La maschera del demonio (1960), La frusta e il corpo (1962), I tre volti della paura (1965), Operazione paura (1966) o l'antesignano del moderno slasher Reazione a catena (1971).

Dario Argento, ideale continuatore di certe atmosfere baviane, ha decisamente fatto diventare l'horror italiano una forma di cinema più popolare, oscillando dal thriller puro all'horror di natura più fantastica, con pellicole che sono tuttora prese a modello sia dal punto di vista formale ed estetico che da quello narrativo. Pur avendo attinto a piene mani a pellicole come La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l'assassino (1965) di Mario Bava, Argento nelle sue opere migliori ha saputo emanciparsi dal suo maestro grazie ad un uso incalzante del montaggio in combinazione a colonne sonore rimaste negli annali (fondamentale, nel suo periodo d'oro, la collaborazione con il gruppo musicale dei Goblin). Titoli da ricordare della filmografia di Argento sono L'uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971), Quattro mosche di velluto grigio (1971), Profondo rosso (1975), Suspiria (1977), Inferno (1980), Tenebre (1982), Phenomena (1985) ed Opera (1987).

Nell'ambito di questi due generi tuttavia, intorno agli anni sessanta e in particolare nel decennio seguente si è sviluppata un'ondata di registi che hanno reinventato diverse forme di cinema horror lasciando contributi memorabili: tra i molti è possibile ricordare Antonio Margheriti (Danza macabra, Contronatura), Riccardo Freda (I vampiri, il quale è stato il primo film horror italiano del periodo sonoro, L'orribile segreto del dr. Hichcock, Lo spettro), Lucio Fulci (Non si sevizia un paperino, ...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà), Pupi Avati (La casa dalle finestre che ridono, Zeder), Ubaldo Ragona (L'ultimo uomo della Terra), Francesco Barilli (Il profumo della signora in nero), Sergio Martino (Lo strano vizio della signora Wardh, I corpi presentano tracce di violenza carnale), Ruggero Deodato (La casa sperduta nel parco), Pasquale Festa Campanile (Autostop rosso sangue), Aldo Lado (La corta notte delle bambole di vetro, Chi l'ha vista morire? ), Massimo Dallamano (Il medaglione insanguinato, Cosa avete fatto a Solange?), Lamberto Bava (figlio di Mario) (La casa con la scala nel buio, Morirai a mezzanotte, Dèmoni, Dèmoni 2 ed il remake de La maschera del demonio) Michele Soavi (Deliria, La chiesa, La setta, Dellamorte Dellamore) e perfino Federico Fellini, che si concesse un'intrigante divagazione horror nell'episodio Toby Dammit del film Tre passi nel delirio.

il sottogenere splatter

Lo stesso argomento in dettaglio: Splatter.
Una scena del film Zombi Holocaust di Marino Girolami (1979)

Nel corso degli anni settanta il cinema horror italiano sconfinò più volte nello splatter e nel gore, dando vita a un filone esecrato dalla critica dell'epoca ma che, in alcuni casi, fu in seguito rivalutato e comunque lasciò un segno nell'immaginario cinematografico italiano.

Suscitò interesse internazionale soprattutto il genere "cannibalistico", avviato da Umberto Lenzi nel 1972 con Il paese del sesso selvaggio. L'idea di ambientare storie horror/avventurose in scenari esotici e solari si rivelò vincente sotto il profilo commerciale e negli anni successivi ne nacque un vero e proprio filone. Esempi ne sono La montagna del dio cannibale (1978) di Sergio Martino, Mangiati vivi! (1979), Cannibal Ferox (1980) ed Incubo sulla città contaminata (1980) (quest'ultimo precursore di film come 28 giorni dopo e 28 settimane dopo) di Umberto Lenzi, Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977) e Antropophagus (1980) di Joe D'Amato, Zombi Holocaust (1979) di Marino Girolami, Ultimo mondo cannibale (1977) e Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato; quest'ultimo film, uscito nel 1980, ebbe molti strascichi polemici per via dell'estrema violenza di molte scene.

Anche altri film del filone cannibalesco furono accompagnati all'uscita da grandi polemiche e divieti da parte della censura per la crudeltà e la violenza esposte.

Nel corso degli anni ottanta si può affermare che le eccezioni del decennio precedente divennero quasi regola: furono prodotte decine di pellicole thriller/horror di infima qualità (all'epoca si preferiva usare la definizione "Serie Z", analoga al B-movie), spesso seguiti apocrifi di film cult d'oltreoceano. Il concentrato di cattivo gusto, dilettantismo, ridicolo involontario di quelle pellicole, ha tuttavia finito per conquistare nel tempo un'ampia schiera d'estimatori.

Commedia sexy e commedia trash

Lo stesso argomento in dettaglio: Commedia erotica all'italiana.

Negli anni settanta l'allentarsi dei confini della censura, la degenerazione del gusto, e soprattutto la ricerca del successo commerciale mediante investimenti di modesta entità, permisero lo sviluppo, accanto alla commedia all'italiana, della commedia erotica all'italiana. Trame, sceneggiature e dialoghi, generalmente risibili, fecero da pretesto per sviluppare pellicole (più o meno) erotiche: a questo genere di film legarono la propria popolarità (almeno inizialmente) attori come Lando Buzzanca, Lino Banfi, Massimo Boldi, Diego Abatantuono ed attrici come Laura Antonelli, Gloria Guida, Barbara Bouchet, Edwige Fenech e Serena Grandi.

Edwige Fenech in una scena del film Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda di Mariano Laurenti (1972)

Accanto a queste, sempre negli anni settanta ed ottanta, s'inseriscono anche moltissime commedie a carattere non erotico che però per via di un uso molto diffuso di parolacce, gestacci e di gag secondo alcuni volgari ed alla ricerca della risata facile vengono comunemente dette trash (ovvero commedie-spazzatura); all'interno di tale filone vengono annoverati ad esempio i film aventi come protagonista la figura di Pierino (interpretato da vari attori tra i quali il più ricordato è sicuramente Alvaro Vitali) o quella del commissario Nico Giraldi, interpretato da Tomas Milian. Secondo alcuni nel filone trash andrebbero incluse le numerose pellicole della saga di Fantozzi, scritta e interpretata da Paolo Villaggio.

Ovviamente sia la commedia sexy che la commedia trash furono due generi apertamente disprezzati dalla critica di allora ma, per contrappasso così come per quasi tutti i generi cinematografici commerciali, furono popolarissimi tra il pubblico dell'epoca ottenendo quasi sempre altissimi incassi al box office. Negli ultimi anni tali film sono stati oggetto di una rivisitazione ed in alcuni casi di rivalutazione grazie anche a trasmissioni televisive come Stracult in onda su Rai 2 ideata dal critico cinematografico Marco Giusti.

Erotico

File:Grandi2.jpg
Serena Grandi in una foto di scena tratta dal film Miranda di Tinto Brass (1985).

Un caso a parte è quello del regista Tinto Brass, che durante gli anni settanta diresse alcune eccentriche grandi produzioni (Salon Kitty, Io, Caligola) e ottenne un buon successo nel 1983 con La chiave, dramma erotico con Stefania Sandrelli in veste inedita, continuando negli anni successivi la produzione di film di vario genere (comici, drammatici e storici) sempre però con uno sfondo altamente erotico (Miranda, Paprika, Snack Bar Budapest, Senso 45) ed alcuni prettamente erotici (Capriccio, Così fan tutte, Monella, Fallo!, Monamour).

Poliziottesco

Lo stesso argomento in dettaglio: Poliziottesco.
Tomás Milián in una scena di Squadra volante (1974) di Stelvio Massi

Altro genere di successo negli anni settanta fu il cosiddetto "poliziesco all'italiana" ribattezzato "poliziottesco", in cui vengono trattate storie di poliziotti duri dai metodi spicci, talvolta non tanto differenti da quelli dei loro antagonisti, alle prese con delinquenti, terroristi ed organizzazioni criminali spietate sullo sfondo delle principali città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova e Bologna). Protagonisti potevano essere anche normali cittadini vittime di episodi criminosi che, di fronte all'inefficienza ed alla lentezza della legge, decidono di farsi giustizia da soli, divenendo una specie di vendicatori in lotta contro il crimine.

Tali film, carichi di azione, inseguimenti e scene molto violente, avevano anche dei richiami sia a fatti di cronaca nera realmente accaduti nell'Italia di quell'epoca sia alla realtà sociale delle città italiane negli anni settanta (si era nel pieno dei cosiddetti "anni di piombo" e del boom della criminalità organizzata e non e del traffico e consumo di droga) e contenevano anche degli attacchi più o meno espliciti al sistema giudiziario italiano di allora, considerato troppo arrendevole ed inefficiente. Tali film furono poco amati dalla critica dell'epoca, che li definì molto negativamente etichettandoli come fascisti, qualunquisti e giustizialisti e accusandoli di essere tutti uguali nelle trame così come nei personaggi, ma furono molto apprezzati dal pubblico italiano ed internazionale.

Maurizio Merli in una scena del film Il cinico, l'infame, il violento (1977) di Umberto Lenzi

Anche in questo genere si trovano registi ed attori "tipici", molti dei quali provenienti dallo spaghetti-western, di cui il poliziottesco si proponeva come genere "erede" perché le atmosfere, le situazioni e le figure dei fuorilegge e degli sceriffi del genere western venivano trasferiti nei contesti metropolitani dell'Italia di allora. I principali registi del poliziottesco furono Umberto Lenzi, Stelvio Massi, Fernando Di Leo ed Enzo G. Castellari mentre nella maggior parte di questi film venivano impiegati attori come Maurizio Merli, Franco Nero, Gastone Moschin, Tomas Milian, Ray Lovelock, John Saxon. Titoli del poliziottesco come Milano calibro 9, La mala ordina, Il boss, Il cittadino si ribella, La polizia incrimina, la legge assolve, Roma violenta e Napoli violenta sono stati di recente oggetto di rivalutazione da parte della stessa critica che tanto li aveva bistrattati, anche grazie al regista Quentin Tarantino, che si è detto grande appassionato di questi film.

Così come nello spaghetti-western anche il poliziottesco vedrà sviluppare successivamente un filone comico, le cui pellicole fungeranno da autoparodia degli stessi poliziotteschi molte volte realizzate dagli stessi registi ed interpretate dagli stessi attori del genere, come la saga del commissario romano Nico Giraldi, interpretato da Tomas Milian che già aveva preso parte in molti poliziotteschi drammatici nel ruolo del criminale spietato (anche se secondo alcuni i film del commissario Giraldi sono più ascrivibili al genere della commedia trash invece che al poliziottesco comico). In questo filone comico rientra anche la saga del poliziotto napoletano Piedone, interpretato da Bud Spencer.

Il successo del poliziottesco fu tanto intenso quanto di breve durata perché la produzione di tali film durò poco più di un decennio per poi scomparire a metà degli anni ottanta, anche se si riscontrano alcuni poliziotteschi tardi realizzati alla fine degli anni ottanta, negli anni novanta ed alcuni negli anni 2000 e 2010.

Fantascienza

Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema italiano di fantascienza.
Marcello Mastroianni in una scena de La decima vittima (1965) di Elio Petri
Una scena del film Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava

Per quanto non molto ricordato, il cinema italiano ha avuto anche un proprio filone di fantascienza, sebbene realizzato in modo molto più artigianale e povero rispetto a quello hollywoodiano, di cui è rimasto prevalentemente al traino. Escludendo alcune pellicole del periodo del muto[49] e film farseschi come Baracca e burattini, Mille chilometri al minuto o Totò nella luna, nei quali gli elementi fantascientifici sono utilizzati in funzione della commedia, la fantascienza cinematografica made in Italy si sviluppò a partire dalla fine degli anni cinquanta grazie a registi come Paolo Heusch (La morte viene dallo spazio del 1958) e Riccardo Freda (Caltiki, il mostro immortale del 1959). Nel corso degli anni sessanta si ebbe il maggior numero di produzioni fantascientifiche, seppure caratterizzate da frequenti commistioni tra i generi (ad esempio il filone fanta-spionistico a metà del decennio). Tra gli autori emergono soprattutto Antonio Margheriti e Mario Bava, che si distinsero rispettivamente nei filoni dell'avventura spaziale e del fanta-horror. Margheriti - quasi sempre sotto lo pseudonimo di Anthony M. Dawson - fu regista di numerosi film di genere, a partire da Space Men del 1960, poi Il pianeta degli uomini spenti del 1961 e il ciclo della stazione spaziale Gamma Uno (composto da quattro film usciti nel 1965); nonostante il livello degli effetti speciali di tali pellicole a basso costo fosse decisamente modesto, le opere di Margheriti riuscirono a riscuotere un certo successo ed essere esportate anche all'estero, dando il via alla produzione di una miriade di film di genere diretti da vari registi come Ubaldo Ragona, Carlo Ausino, Pietro Francisci. Il maestro dell'orrore Mario Bava girò una delle opere più riuscite,[49] Terrore nello spazio (1965): in effetti la cinematografia fantascientifica italiana è piena di commistioni con l'horror.

Vi furono anche autori più impegnati (il cosiddetto "cinema d'autore") che si concessero divagazioni fantascientifiche,[49] tra i quali Elio Petri, con La decima vittima del 1965, interpretato da Marcello Mastroianni e Ursula Andress, e Marco Ferreri con Il seme dell'uomo (1969). In particolare negli anni sessanta e settanta il filone fantascientifico si è incrociato con quello della satira e della critica sociale, fornendo almeno in questo alcuni contributi originali al genere.[50]

Tra le opere più citate vi è poi Scontri stellari oltre la terza dimensione del 1978 di Luigi Cozzi, uscito a poca distanza dal primo episodio di Guerre stellari di George Lucas e pubblicizzato come risposta italiana a tale film, nonostante fosse chiaramente un B movie per gli standard hollywoodiani.

Dopo una produzione relativamente ricca - almeno quantitativamente - negli anni ottanta, per lo più di pellicole a basso costo ad imitazione dei film statunitensi di maggiore successo, dagli anni novanta in poi il filone fantascientifico è quasi scomparso dalla cinematografia italiana, con pochissimi titoli prodotti rispetto ai tre decenni precedenti. Eccezione rilevante è Nirvana del 1997 di Gabriele Salvatores, che costituisce la produzione fantascientifica per il cinema più costosa in Italia e quella di maggiore successo commerciale[51][52] (escludendo le semplici commedie come A spasso nel tempo).

Spionistico

Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema italiano di spionaggio.

Il genere spionistico fu presente nel cinema italiano tra la metà degli anni anni sessanta e la metà dei settanta, esplodendo in particolare tra il 1965 e il 1967 con una cinquantina di film fanta-spionistici[53] di poche pretese realizzati sull'onda del successo mondiale conseguito dalle pellicole di James Bond, l'Agente 007, all'epoca interpretato da Sean Connery.

Film realizzati quasi sempre in tempi brevissimi, a basso costo e di scarsa qualità, le imitazioni italiane narravano le gesta di agenti segreti in lotta contro organizzazioni terroristiche internazionali e scienziati pazzi per il controllo di armi apocalittiche; i protagonisti portavano nomi che richiamavano la figura di Bond-007 (077, 008 ed altri ancora), mentre non erano rari i casi in cui venivano ingaggiate, come protagoniste femminili, attrici che avevano in precedenza partecipato agli 007 ufficiali come Bond-girls.

Proprio come lo spaghetti-western e il poliziottesco, anche questo genere aveva generato un filone comico che ne faceva la parodia, come ad esempio ne Le spie vengono dal semifreddo del 1966 di Mario Bava, una coproduzione Italia-USA in cui recita la coppia comica Franco e Ciccio assieme a Vincent Price.

Tra i pochi precursori del genere spionistico in Italia, il film del 1938 Lotte nell'ombra di Domenico Gambino e La casa senza tempo di Andrea Forzano, un fanta-spionistico "giallo-rosa" realizzato nel 1943 come film di propaganda fascista e poi ridoppiato nel 1945 subito dopo la fine della guerra.

Oltre che in Italia anche in altri paesi europei si svilupparono dei filoni d'imitazione dei film di James Bond (come ad esempio in Francia con la serie dell'agente segreto Francis Coplan), quindi la critica americana dell'epoca etichettò tutti questi film europei (inclusi quelli italiani) sotto il nome di Eurospy.

Guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Euro War.

Genere di un certo successo nel periodo fascista, il cinema popolare di guerra conosce un'effimera rinascita negli anni settanta. Le trame di questi film potevano ispirarsi sia a guerre realmente accadute che a conflitti totalmente immaginari, ed erano spesso ambientati in America latina, in Asia, nel Medio oriente o nei Balcani ed interpretati da attori semi-sconosciuti (molte volte presi sul posto) che affiancavano i protagonisti.

Una scena del film Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo G. Castellari

I registi che più si distinsero in questo genere furono Enzo G. Castellari, Umberto Lenzi, Joe D'Amato, Claudio Fragasso, Bruno Mattei, Fabrizio De Angelis, Camillo Teti, Armando Crispino, Ignazio Dolce ed Antonio Margheriti mentre tra gli attori ricorrenti si ricorda tra gli altri Klaus Kinski.

Il film più famoso del genere è Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari, uscito nel 1978 che ebbe un buon successo, anche negli Stati Uniti, tanto che nel 2009 il regista Quentin Tarantino omaggiò tale pellicola, ispirandosi in parte ad essa, nel realizzare il suo film Bastardi senza gloria (Inglorious Basterds) che richiamava il titolo inglese delle pellicola di Castellari, The Inglorious Bastards.

Altri titoli del filone furono: L'ultimo cacciatore, 5 per l'inferno, I lupi attaccano in branco, La legione dei dannati, Un ponte per l'inferno, Il grande attacco, Squadra selvaggia (noto anche come I cinque del Condor), Tempi di guerra, Arcobaleno selvaggio, Commandos, Commander, Fuga dall'arcipelago maledetto, Il triangolo della paura, Strike Commando, Strike Commando 2 - Trappola diabolica, Angel Hill - L'ultima missione, Cobra Mission, Cobra Mission 2, I ragazzi del 42º plotone, Bye Bye Vietnam, Indio, Indio 2 - La rivolta, Doppio bersaglio, Commando Leopard, Colli di cuoio, L'ultimo volo all'inferno, Bianco Apache, Tornado, Nato per combattere.

Musicarelli

Lo stesso argomento in dettaglio: Musicarello.

La cinematografia italiana non ha quasi mai investito nel genere del musical (tra i pochi film italiani ascrivibili al genere si può citare Carosello napoletano del 1953 interpretato tra gli altri da Sophia Loren). A partire dalla fine degli anni cinquanta e fino a tutti gli anni settanta tuttavia riscossero notevole successo i cosiddetti musicarelli, ovvero quei film - quasi sempre commedie a carattere sentimentale - che avevano come protagonisti i cantanti italiani più in voga di quegli anni (Little Tony, Rita Pavone, Gianni Morandi, Caterina Caselli, Domenico Modugno, Claudio Villa, Bobby Solo, Iva Zanicchi, Al Bano, Adriano Celentano, Mina e molti altri) i quali, tra una scena e l'altra, cantavano i loro successi del momento (spesso questi film erano le trasposizioni cinematografiche delle loro canzoni). Tra i titoli più famosi si ricordano In ginocchio da te con Gianni Morandi e Rita la zanzara con Rita Pavone.

Gli attori italiani

Vittorio Gassman

È dalla fine degli anni quaranta e soprattutto negli anni cinquanta che gli attori italiani vivono un fortunatissimo periodo di gloria internazionale: tra le donne oltre alla Magnani, la Cortese e la Valli (le uniche che continuano a lavorare con continuità anche dopo la fine del cinema di regime fascista) si fanno spazio le nuove dive "maggiorate" (così chiamate per via delle loro forme prorompenti) come Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Silvana Pampanini, Lucia Bosè, Eleonora Rossi Drago e soprattutto Sophia Loren che conoscono successo ed allori sia in Italia che all'estero (anche se tra tutte queste solo la Loren e la Lollobrigida riusciranno ad avere un successo duraturo anche a livello internazionale), arrivando addirittura ad oscurare le dive hollywoodiane a loro contemporanee mentre tra gli uomini oltre a Brazzi ottengono fama oltre i confini nazionali anche Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni.

Anna Magnani

Arrivano anche i primi riconoscimenti; nel 1955 Anna Magnani vince l'Oscar come migliore attrice protagonista per il film La rosa tatuata e sette anni dopo nel 1962 anche Sophia Loren si aggiudica la statuetta per la sua interpretazione nel film La ciociara (il premio Oscar dato alla Loren fu storico perché per la prima volta venne premiata un'interpretazione che non fosse in inglese). Negli anni sessanta alle maggiorate si aggiungono Claudia Cardinale e Virna Lisi e tra gli uomini attori più impegnati come Enrico Maria Salerno, Gian Maria Volonté e Franco Nero e negli anni settanta si fanno conoscere anche Giancarlo Giannini, Mariangela Melato ed Ornella Muti; accanto a questi trovano successo attori di genere ovvero tutti quegli attori che erano legati ad un preciso genere commerciale (horror, commedia sexy, poliziesco, western ed altri). A partire dagli anni ottanta e per tutti gli anni novanta il nostro cinema non è stato più capace di lanciare nuovi attori che si siano distinti anche fuori dall'Italia per via della crisi dell'industria cinematografica che non consentiva più una facile distribuzione dei film nostrani all'estero fatta eccezione per Roberto Benigni (vincitore nel 1998 dell'Oscar come migliore attore protagonista per La vita è bella) e Massimo Troisi (candidato all'Oscar postumo nel 1996 per il film Il postino). Solo recentemente con la ripresa dell'industria cinematografica italiana nuovi attori italiani si stanno facendo notare anche a livello internazionale: un esempio è Elio Germano, vincitore della Palma d'oro a Cannes nel 2010 come migliore attore protagonista per il film La nostra vita di Daniele Luchetti.

La crisi degli anni ottanta

Carlo Verdone in Borotalco (1983)

Sul finire degli anni settanta si iniziano a percepire, per il cinema italiano, i primi sintomi di una crisi che esploderà nella seconda metà degli anni ottanta e che si protrarrà, con alti e bassi, per circa un decennio. Per dare un'idea delle proporzioni di questa crisi industriale, basti pensare che nel 1985 vengono prodotti soltanto 80 film (il minimo dal dopoguerra)[54] e il numero totale di spettatori scende a 123 milioni (nel 1970 erano 525 milioni)[55].

Si tratta di un processo fisiologico, che investe nello stesso periodo altri paesi di grande tradizione cinematografica (Giappone, Gran Bretagna e Francia).

In questi anni la commedia all'italiana scompare come genere, anche in seguito al progressivo esaurirsi della vena creativa dei maestri dei decenni precedenti, e il cinema d'autore e quello d'impegno civile tendono ad isolarsi, con una serie di film che difficilmente si inseriscono in uno sviluppo comune. Gli attori di punta della cinematografia italiana invecchiano e si vive in un periodo di transizione verso una nuova generazione di interpreti.

La crisi colpisce soprattutto il cinema italiano di genere, il quale, complice anche l'affermazione in Italia della televisione commerciale che lo privò della maggioranza del suo pubblico, una volta esauritisi i vari filoni di successo nei decenni precedenti, non riesce a crearne di nuovi e dunque, a partire dalla fine del decennio, si limiterà solo a copiare pedissequamente i film blockbuster d'oltreoceano di maggiore successo, ma avendo dei budget assai minori per la loro realizzazione: il risultato sono dei film di serie B dal basso livello artistico e qualitativo, che non riescono più a trovare una distribuzione nelle sale cinematografiche, finendo dunque direttamente al circuito dell'home-video; le sale cinematografiche italiane vengono così monopolizzate dalle più abbienti e costose pellicole hollywoodiane, che da qui in poi prenderanno il sopravvento.

Non mancano comunque film d'autore (e di denuncia) memorabili, quantomeno nella prima metà del decennio.

Tra le pellicole principali figurano La città delle donne (1980), E la nave va (1983) e Ginger e Fred (1985) di Fellini, L'albero degli zoccoli (1978), di Ermanno Olmi (vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes), Una giornata particolare (1978) e La terrazza (1980) di Ettore Scola, Bianca (1984) e La messa è finita (1985) di Nanni Moretti, Il minestrone (1981) di Sergio Citti, La notte di San Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani, Tre fratelli (1981) di Francesco Rosi, Cento giorni a Palermo (1984) e Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara.

Anche se non sono film completamente italiani, non si possono dimenticare C'era una volta in America di Leone (1984) e L'ultimo imperatore (1987), la pellicola di Bernardo Bertolucci vincitrice di nove Oscar e nove David di Donatello.

Massimo Troisi, Paolo Bonacelli e Roberto Benigni in Non ci resta che piangere (1983)

Sul fronte della commedia si ricordano alcuni lavori del giovane Massimo Troisi che ottiene consensi con Ricomincio da tre (1981), Scusate il ritardo (1983) e soprattutto Non ci resta che piangere (1984), Carlo Verdone che dà il meglio di sé in film come Un sacco bello (1980), Bianco, rosso e Verdone (1981), Acqua e sapone (1983), Borotalco (1984) e Compagni di scuola (1988), Mario Monicelli che torna al successo con Speriamo che sia femmina (1988), Roberto Benigni che raggiunge notorietà internazionale con Il piccolo diavolo (1988), interpretato da Walter Matthau.

Riguardo, invece, alla commedia sullo sfondo storico, va citato il grande State buoni se potete di Luigi Magni, con grandi star come Johnny Dorelli, Philippe Leroy, Mario Adorf e Renzo Montagnani.

Tra le poche rivelazioni del decennio meritano d'essere ricordati Carlo Mazzacurati che esordisce con Notte italiana e Giuseppe Tornatore, che esordisce nel 1986 con la pellicola Il camorrista, liberamente tratta dall'omonimo romanzo di Giuseppe Marrazzo che narra la storia del boss della camorra Raffaele Cutolo.

Anni novanta

Vittorio Storaro, pluripremiato direttore della fotografia

La crisi creativa ed economica emersa negli anni ottanta comincerà ad attenuarsi nel decennio successivo. I riconoscimenti critici internazionali si fanno più frequenti: Giuseppe Tornatore vince il Premio Oscar al miglior film straniero e il Premio speciale della giuria a Cannes con Nuovo Cinema Paradiso (1989), Gabriele Salvatores l'Oscar con Mediterraneo (1992); Massimo Troisi è candidato all'Oscar per Il postino (1994); Gianni Amelio arriva alla nomination con Porte aperte (1990), vince il Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes con Il ladro di bambini (1991) e il Leone d'oro con Così ridevano (1998); Nanni Moretti il premio alla regia a Cannes per Caro diario (1994).

Questi riconoscimenti critici non rispecchiano però la situazione industriale di inizio decennio. Le stagioni 1992-1993 e 1993-1994 segnano il minimo storico nel numero di film realizzati, nella quota di mercato nazionale (15%), nel numero totale di spettatori (sotto i 90 milioni annui) e nel numero di sale[56]. Per effetto di questa contrazione industriale, che ha definitivamente sancito l'affermazione della televisione come mezzo di intrattenimento privilegiato, il cinema di genere scompare totalmente, ormai senza più un pubblico, ridotto economicamente all'osso e non più in grado di competere con i grandi blockbuster hollywoodiani.

Comunque negli anni seguenti non mancheranno pellicole di sicuro valore artistico: Le vie del Signore sono finite (1987), di Massimo Troisi; Il toro di Carlo Mazzacurati, Lamerica (1994) di Gianni Amelio. Zeffirelli torna a Shakespeare con un nuovo adattamento cinematografico di Amleto scritturando Mel Gibson, e dirige quindi tra il 1996 e il 1999 Jane Eyre e Un tè con Mussolini 1999.

Opere non meno importanti di quel periodo sono: La voce della luna (1990) ultimo film di Federico Fellini, Jona che visse nella balena (1993) di Roberto Faenza, favola nera sui campi di sterminio nazisti, L'amore molesto (1995) di Mario Martone interpretato da una memorabile Anna Bonaiuto, Senza pelle (1994) di Alessandro D'Alatri che rilancia la carriera di Kim Rossi Stuart.

Sempre in questo periodo si sviluppa inoltre un piccolo filone che riprende la tradizione neorealista, contaminandola con tematiche e stilistiche più contemporanee, denominato Nuovo neorealismo; a tale filone appartengono registi come Marco Risi, figlio di Dino, che dopo aver diretto alcune commedie giovanili negli anni ottanta, si dirige verso un cinema più impegnato con pellicole come Soldati - 365 all'alba (1987), denuncia delle forzature e delle criticità dell'ambiente militare della naja, il dittico Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990), incentrati sulle storie di alcuni detenuti del carcere minorile di Palermo e sulle difficoltà del successivo loro reinserimento in società, ed il premiato Il muro di gomma (1991), ricostruzione dei depistaggi e delle omissioni sulle indagini sulla Strage di Ustica. Oltre a Risi altri registi possono essere inseriti nel filone neo-neorealista come ad esempio Ricky Tognazzi con film come Ultrà (1990), incentrato sulla violenza delle tifoserie calcistiche, La scorta (1993) ispirato alle contemporanee stragi mafiose siciliane, Vite strozzate (1996), sul mondo dell'usura ed Il branco (1994), storia di un gruppo di ragazzi sullo sfondo della degradata periferia romana. Da citare in questo senso anche Teste rasate (1993) di Claudio Fragasso, violento ritratto dell'ambiente skinhead e neonazista di quegli anni. Assieme al già citato La scorta, anche altri film sono influenzati dai convergenti avvenimenti riguardanti Cosa Nostra: Giovanni Falcone (1993) di Giuseppe Ferrara, pellicola che ripercorre la tenace e lunga lotta alla mafia intrapresa dal magistrato siciliano assieme all'amico e collega Paolo Borsellino, uscita ad appena un anno di distanza dalle stragi di Capaci e Via D'Amelio.

Dividono la critica Ciprì e Maresco che mettono a frutto l'esperienza televisiva maturata con Cinico tv nell'esordio Lo zio di Brooklyn (1995) e nei successivi Totò che visse due volte (1998) e Noi e il Duca - quando Duke Ellington suonò a Palermo (1999). Lo stile surreale e immaginifico dei due autori che procedono per accumulo di episodi in un universo totalmente iperbolico sconcerta, tra entusiasmi e stroncature.

Gradualmente riprende quota la commedia, anch'essa rivisitata con temi e stili contemporanei: ricevono consensi Pensavo fosse amore invece era un calesse (1991) di Massimo Troisi, Maledetto il giorno che t'ho incontrato (1992) e Perdiamoci di vista (1994) di Carlo Verdone, viene salutato dalla critica come una rivelazione Paolo Virzì, autore di La bella vita (1994), Ferie d'agosto (1995) e Ovosodo (1997), riceve grandi consensi di pubblico Leonardo Pieraccioni, specialmente con Il ciclone (1996).

Gabriele Salvatores prosegue con Puerto Escondido (1992) e Sud (1993) la sua riflessione basata su una rivolta pacifica ad una società alienante, e, in ultima analisi, sulla fuga da essa. Un discorso a parte merita l'italo/svizzero Silvio Soldini il cui stile dolce-amaro non rientra facilmente in alcun genere: nel corso degli anni novanta dirige alcuni dei suoi film più noti: L'aria serena dell'ovest (1990), Un'anima divisa in due (1993), Le acrobate (1997). Tra gli esordienti del periodo vi è Mimmo Calopresti che dirige Nanni Moretti neLa seconda volta (1995) e conferma il proprio successo con il successivo La parola amore esiste (1998).

Gli ultimi anni del decennio vedono il trionfo internazionale di Roberto Benigni con La vita è bella (1997). L'attore-regista toscano, già premiato dal pubblico coi precedenti Johnny Stecchino (1991) e Il mostro (1994), realizza il suo film più famoso: una commedia drammatica sull'Italia fascista e i campi di concentramento nazisti. Il film, tra i numerosi riconoscimenti, otterrà nel 1999 l'Oscar al miglior film straniero, a Roberto Benigni come migliore attore protagonista e a Nicola Piovani per la migliore colonna sonora originale.

Altri autori del cinema italiano

Pur individuando nei decenni cinquanta, sessanta e settanta il periodo aureo del cinema italiano d'autore, produttivamente e artisticamente, in tempi più recenti altri registi hanno conquistato la nomea di "autori", riuscendo a raggiungere fama e riconoscimento internazionale.

Ermanno Olmi, che già nel film d'esordio Il tempo si è fermato (1958), emozionante parabola sui rapporti tra l'uomo e la natura, fa emergere le sue doti artistiche. La notorietà arriverà tre anni dopo con Il posto (1961), un ritratto dolce-amaro della Milano del boom economico. Dopo alcuni lavori interlocutori gli anni settanta consacrano Olmi a livello internazionale con L'albero degli zoccoli (1978) elegiaco affresco di un mondo contadino ormai scomparso, premiato a Cannes con la Palma d'oro. Dopo una lunga malattia Olmi ritorna alla ribalta negli anni ottanta col surreale Lunga vita alla signora (1987) e l'intenso La leggenda del santo bevitore (1988) premiato col Leone d'oro al festival di Venezia. Nel 2001 l'anziano regista realizza quello che molti considerano il suo miglior lavoro: Il mestiere delle armi, dedicato al mito di Giovanni dalle bande nere. Il film, a sorpresa grande successo di pubblico, conquisterà nel 2002 ben 9 David di Donatello. Un rinnovato interesse critico accompagna l'uscita dei successivi lungometraggi Cantando dietro i paraventi (2003), Centochiodi (2007) e Il villaggio di cartone (2011).

Marco Ferreri si è imposto all'attenzione a partire dagli anni cinquanta con un cinema grottesco e provocatorio dai tratti parzialmente "bunueliani". I titoli più importanti della prima fase della sua carriera sono El pisito (1958), El cochecito (1959) (girati entrambi in Spagna) e La donna scimmia, interpretato da Ugo Tognazzi e Annie Girardot (1964). Raggiunge la piena maturità artistica con Dillinger è morto (1969), stralunato e modernissimo capolavoro sull'alienazione della vita dell'uomo moderno. Dopo il percorso kafkiano e surreale di L'udienza (1971) ottiene la massima popolarità internazionale con il sorprendente, discusso La grande abbuffata (1973). Negli ultimi anni della sua carriera (dopo vari altri provocatori, ma incompiuti lavori) sono soprattutto La casa del sorriso (1991) e Diario di un vizio (1993) a destare l'attenzione della critica.

S'impone all'attenzione di pubblico e critica anche Marco Bellocchio con i suoi film che contestano apertamente la società ed i valori borghesi dell'epoca dagli espliciti richiami sessantottini sin dalla sua pellicola d'esordio I pugni in tasca del 1965 per poi proseguire con lavori come La Cina è vicina del 1967, Amore e rabbia del 1969 e Nel nome del padre del 1972.

Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci si avvicina al cinema grazie a Pier Paolo Pasolini di cui sarà assistente sul set di Accattone. Si stacca presto dal mondo e dalla poetica pasoliniani per inseguire un'idea personale di cinema basata sostanzialmente sull'individualità di persone che si trovano di fronte a bruschi cambiamenti del loro mondo e di quello circostante, a livello esistenziale e politico, senza che essi possano o vogliano cercare una risposta concisa. Esordisce giovanissimo al lungometraggio con La commare secca (1962), e desta attenzione con Prima della rivoluzione (1964). Nei primi anni settanta realizza in rapida successione tre capisaldi del suo cinema: Il conformista (1970) tratto da Moravia, il metafisico La strategia del ragno (1970) e il film scandalo del decennio: Ultimo tango a Parigi (1972). Consolida la fama internazionale col kolossal Novecento (1976), accolto tuttavia con riserva dalla critica, per poi dedicarsi a progetti più personali e intimisti. Il 1987 segna un'ulteriore svolta nella sua carriera: dirige in Cina il colossale affresco L'ultimo imperatore, grande successo mondiale che si aggiudicherà ben 9 Premi Oscar, tra cui quelli per miglior film e regia. Negli anni successivi Bertolucci prosegue sulla strada del kolossal per il mercato internazionale con Il tè nel deserto (1990) e Il piccolo Buddha (1993), ambientato in Nepal e negli Stati Uniti. La seconda metà degli anni novanta e i primi anni del nuovo millennio vedono Bertolucci impegnato nuovamente in chiave più intimista con Io ballo da sola (1996) e The Dreamers (2003).

Gianni Amelio dopo molte regie televisive per la RAI, esordisce al cinema con Colpire al cuore (1982), un film sul terrorismo che non passa inosservato. Dopo l'interessante I ragazzi di via Panisperna sul leggendario gruppo di fisici guidato da Enrico Fermi, raggiunge la notorietà internazionale con l'acclamato e premiato Porte aperte, tratto da un romanzo di Leonardo Sciascia. Nei film che seguono, Amelio sviluppa tematiche legate alla realtà sociale con dolorosa partecipazione e sensibilità artistica. Con Il ladro di bambini, suo maggior successo commerciale, vince nel 1992 il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes e l'European Film Award come miglior film, oltre a due Nastri d'Argento e cinque David di Donatello. Lamerica si aggiudica nel 1994 il premio Osella d'oro alla Mostra del cinema di Venezia, oltre al Premio Pasinetti come miglior film. Quattro anni dopo, Così ridevano, probabilmente il suo lavoro di più difficile comprensione per il grande pubblico, vince il Leone d'Oro, sempre alla Mostra del cinema di Venezia. Dopo Le chiavi di casa (2004) sul problematico rapporto tra un padre e il figlio disabile, Amelio cerca una storia di più ampio respiro con La stella che non c'è ambientato tra l'Italia e la Cina con Sergio Castellitto nel ruolo di protagonista.

Nanni Moretti esordisce al cinema con mezzi amatoriali con Io sono un autarchico (1976) e inizia subito a far parlare di sé: si riconosce in lui un'inedita vena sarcastica con cui affronta luoghi comuni e problematiche del mondo giovanile del tempo. Ecce bombo (1978) consolida la fama di Moretti a livello critico e ottiene un grande, inaspettato successo popolare. Dopo l'interlocutorio Sogni d'oro (1981), realizza verso la metà degli anni ottanta due opere che sanciscono un definitivo salto di qualità artistico: Bianca (1984) è un intrigante, personalissimo giallo esistenziale, mentre La messa è finita (1985) con Moretti nelle vesti di un sacerdote, viene considerato da molti il suo capolavoro e tra i più memorabili film italiani del decennio. Incassato l'Orso d'argento al Festival di Berlino 1986, Moretti si dedicherà nel lustro successivo a un cinema più coinvolto "politicamente" con il documentario La cosa, sullo scioglimento del PCI, e il criptico film a soggetto Palombella rossa nel quale i contenuti politici costituiscono parte integrante della storia. Il 1993 sancisce il definitivo riconoscimento internazionale di Moretti, che col film a episodi Caro diario vince il premio per la miglior regia al festival di Cannes 1994. Dopo un altro (meno convincente) diario personale Aprile (1998), Moretti conquista la Palma d'oro al Festival di Cannes con La stanza del figlio (2001), in cui vengono descritti gli effetti che la morte accidentale di un figlio provoca in una famiglia medio borghese. Nel 2006 gira il lungometraggio Il caimano, ispirato alla figura di Silvio Berlusconi. Il film, presentato nel pieno della campagna elettorale per le elezioni politiche di quello stesso anno, ha suscitato numerose polemiche presentando scenari apocalittici che sarebbero seguiti a un rifiuto del leader politico di abbandonare il potere e nel 2011 Habemus Papam con Michel Piccoli in cui interpreta uno psicanalista alle prese con un nuovo inaspettato paziente: un neo eletto pontefice in crisi spirituale.

Il cinema d'animazione

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia dell'animazione italiana.

Nonostante l'Italia non abbia grande tradizione commerciale nell'ambito del cinema d'animazione, nel corso del tempo si sono rivelati diversi autori degni d'attenzione.

Il pioniere del cartone animato italiano è stato Francesco Guido, meglio conosciuto come "Gibba". Realizzò nel 1946 il primo mediometraggio animato del nostro cinema: L'ultimo sciuscià, a tematica neorealistica e nel decennio successivo i lungometraggi Rompicollo e I picchiatelli in collaborazione con Antonio Attanasi.

Negli anni settanta, dopo molti documentari animati, tornerà al lungometraggio con Il racconto della giungla e l'erotico Il nano e la strega.

Interessanti anche i contributi del pittore e scenografo Emanuele Luzzati che dopo alcuni pregevoli cortometraggi, realizzò nel 1976 uno dei capolavori dell'animazione italiana: Il flauto magico, basato sull'omonima opera di Mozart.

Ma è con Bruno Bozzetto che il cartoon italiano raggiunge una dimensione internazionale: il suo lungometraggio d'esordio West and Soda (1965), un'irresistibile ed esuberante parodia del genere Western accoglie consensi sia di pubblico che di critica.

Pochi anni dopo sarà la volta di Vip - Mio fratello superuomo (1968), una parodia del genere supereroistico, molto in voga all'epoca.

Dopo tanti cortometraggi satirici (spesso incentrati sul suo celebre "Signor Rossi") torna al lungometraggio con quello che viene considerato il suo lavoro più ambizioso: Allegro non troppo (1977). Ispirato a Fantasia della Disney è un film a tecnica mista, protagonista Maurizio Nichetti, in cui gli episodi animati sono plasmati su celebri brani di musica classica.

Ma nel decennio successivo l'animazione italiana pare entrare in una nuova fase produttiva grazie allo studio torinese Lanterna Magica che nel 1996, con la regia di Enzo d'Alò, realizza l'intrigante favola natalizia La freccia azzurra, basata su un racconto di Gianni Rodari.

Il film è un successo e apre la strada negli anni successivi ad altri lungometraggi: nel 1998, dopo soli due anni di lavoro, viene distribuito La gabbianella e il gatto tratto dal romanzo Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepúlveda, grande successo di pubblico che segnò un nuovo vertice del nostro cinema animato.

Il regista Enzo d'Alò, separatosi dallo studio Lanterna Magica, produrrà negli anni seguenti Momo alla conquista del tempo (2001) e Opopomoz (2003).

Lo studio torinese distribuisce dal canto suo le pellicole Aida degli alberi (2001) e Totò Sapore e la magica storia della pizza (2003), accompagnati da un buon riscontro di pubblico.

Nel 2003 esce il primo film d'animazione in computer grafica di produzione interamente italiana: L'apetta Giulia e la signora Vita.

Nel 2010 esce il primo film d'animazione italiano in tecnologia 3D ovvero Winx Club 3D - Magica avventura tratto dall'omonima serie animata televisiva italiana di successo in tutto il mondo.

Nel 2012 molto successo ottiene la pellicola Gladiatori di Roma anch'esso girato in tecnologia 3D.

Nel 2013 esce Pinocchio del regista Enzo d'Alò.

Il nuovo millennio

Nel 2001 Nanni Moretti si aggiudica la Palma d'oro al festival di Cannes con La stanza del figlio, mentre Ermanno Olmi dirige Il mestiere delle armi che ottiene un buon successo.

Marco Bellocchio, definitivamente archiviata la sua discussa collaborazione con lo psicanalista Fagioli, produce due acclamati lungometraggi: L'ora di religione (2002) e Buongiorno, notte (2003) dedicato al rapimento di Aldo Moro.

Gabriele Salvatores

Gabriele Salvatores dopo alcuni lavori interlocutori torna alla ribalta internazionale con Io non ho paura (2003), tratta dal libro di Niccolò Ammaniti.

Marco Tullio Giordana ottiene consensi con I cento passi (2000), incentrato sulla figura di Peppino Impastato e soprattutto con l'opera fiume La meglio gioventù (2003) che attraverso le vicende di una famiglia italiana, ripercorre la storia contemporanea della nazione dagli anni sessanta del Novecento alla contemporaneità.

Viene salutato come una rivelazione Emanuele Crialese, che suscita interesse con l'opera seconda Respiro (2003) e soprattutto con l'affresco Nuovomondo (2006) in cui descrive la tragica realtà dell'emigrazione italiana del primo novecento.

Nell'ambito della commedia ottengono un grande successo popolare il trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, autori di film come Tre uomini e una gamba, Così è la vita, Chiedimi se sono felice, La leggenda di Al, John e Jack, Tu la conosci Claudia?, Il cosmo sul comò, La banda dei Babbi Natale, Il ricco, il povero e il maggiordomo.

Sempre sul fronte della commedia si confermano campioni di incasso anche i cosiddetti cinepanettoni, così chiamati perché vengono distribuiti nelle sale cinematografiche durante il periodo natalizio, interpretati dalla coppia Massimo Boldi e Christian De Sica (poi separatisi) e diretti da registi specialisti come Neri Parenti e Carlo Vanzina; i cinepanettoni sono film comici popolari e leggeri che narrano per l'appunto di vacanze di Natale (spesso in luoghi esotici) caratterizzate da situazioni comiche grossolane e surreali; oltre a Boldi e De Sica e vari comici questi film vedono spesso nel cast anche i divi televisivi del momento ed hanno trame semplici, sempre molto simili tra loro; nonostante tali pellicole siano spesso accusate di banalità, ripetitività e volgarità dalla critica, sono amatissime dal pubblico.

Molto successo continuano ad ottenere anche le commedie dirette ed interpretate da Leonardo Pieraccioni come Fuochi d'artificio, Il pesce innamorato, Il principe e il pirata, Il paradiso all'improvviso, Ti amo in tutte le lingue del mondo, Una moglie bellissima, Io e Marilyn, Finalmente la felicità, Un fantastico via vai.

A partire dal 2004 hanno poi trovato successo di pubblico anche vari film di carattere sentimentale rivolti agli adolescenti, molti dei quali tratti dai romanzi di Federico Moccia come Tre metri sopra il cielo del 2004, Ho voglia di te del 2007, Scusa ma ti chiamo amore e Parlami d'amore del 2008, Amore 14, Scusa ma ti voglio sposare e Questo piccolo grande amore del 2009. Accanto a questi sono state realizzate anche varie commedie sempre a carattere giovanile come Notte prima degli esami del 2006, Notte prima degli esami oggi, Questa notte è ancora nostra e Come tu mi vuoi del 2007 ed altri ancora; se questi film da un lato possono apparire mediocri se non di basso livello recitativo e soggettistico dall'altro hanno avuto senza dubbio il merito di aver riavvicinato un pubblico (quello degli adolescenti) ai film italiani e di aver lanciato anche nuovi e meritevoli attori come Riccardo Scamarcio, Nicolas Vaporidis, Cristiana Capotondi, Carolina Crescentini, Silvio Muccino.

Maggior consenso critico riceve Gabriele Muccino, regista molto legato a tematiche sentimental-giovanilistiche e familiari: i suoi maggiori successi sono Come te nessuno mai (1999), L'ultimo bacio (2001) (di cui viene girato anche un remake americano nel 2006, The Last Kiss ed a cui seguirà un sequel sempre diretto da Muccino nel 2010 intitolato Baciami ancora), Ricordati di me (2003). Muccino è stato poi chiamato, in conseguenza del successo ottenuto, a lavorare negli Stati Uniti dove ha diretto film come La ricerca della felicità e Sette anime entrambi interpretati da Will Smith.

In polemica con questo tipo di cinema, Quentin Tarantino, durante un'intervista del 2007, sostiene che

«Le pellicole italiane che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali, non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni sessanta e settanta e alcuni film degli anni ottanta, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia»

Le dichiarazioni di Tarantino hanno avuto molta eco, sollevando reazioni contrastanti, tra chi ha difeso il cinema italiano contemporaneo da critiche giudicate ingiuste e chi invece ha sottolineato che in effetti, per far sì che il cinema italiano torni ad essere maggiormente competitivo (sia nel mercato nazionale che in quelli internazionali), accanto alla realizzazione di commedie e film d'autore, sarebbe necessario anche il ritorno della produzione di film di genere.

Ad ogni modo, grazie ad una maggiore spinta produttiva, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli investimenti economici e il successo nelle sale di un nuovo cinema d'autore che in alcuni casi recupera modelli di cinema di genere (su tutti il noir e il thriller). Esempi in tal senso sono i film di Paolo Sorrentino, L'uomo in più (2003), Le conseguenze dell'amore (2004), di Matteo Garrone, L'imbalsamatore (2002), e più recentemente quelli di Gabriele Salvatores, Educazione siberiana (2013), Il ragazzo invisibile (2014).

Da ricordare anche il regista italo-turco Ferzan Özpetek autore che ottiene successo con film imperniati soprattutto sulle difficoltà di coppia, l'elaborazione del lutto e la condizione omosessuale con lavori come Il bagno turco (1997), Le fate ignoranti (2000), La finestra di fronte (2003), Cuore sacro (2005), Saturno contro (2007), Mine vaganti (2010), Magnifica presenza (2012) ed Allacciate le cinture (2014).

Nel 2008 due ambiziosi film realizzati da Garrone e Sorrentino, hanno ottenuto la consacrazione internazionale al festival di Cannes: Gomorra, tratto dal omonimo libro denuncia di Roberto Saviano sulla camorra napoletana e casertana di oggi (da cui poi è stata tratta anche una serie televisiva), e Il Divo, ispirato alla figura di Giulio Andreotti, entrambi con l'interpretazione di Toni Servillo; le due opere hanno conquistato rispettivamente il Grand Prix Speciale della Giuria e il Premio della giuria. Pur stilisticamente differenti, le due opere si accomunano al tentativo di tornare a raccontare, attraverso il cinema, aspetti critici della società italiana. L'ottimo riscontro ottenuto al botteghino da entrambi i film segna anche un piccolo rilancio di un cinema italiano d'autore e di denuncia civile capace anche di raggiungere il vasto pubblico.

Si afferma anche una nuova generazione di attori, tra i quali Claudio Santamaria, Stefano Accorsi, Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Jasmine Trinca, Elio Germano (quest'ultimo vincitore del premio come miglior attore protagonista al festival di Cannes del 2010).

Tutti gli attori sopracitati recitano insieme in Romanzo criminale film del 2005 di Michele Placido, basato sull'omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo sulle vicende criminali della Banda della Magliana (da cui poi è stata tratta anche una serie televisiva). Il film ottiene molto successo sia in Italia che all'estero.

Altri apprezzati attori della nuova generazione sono Laura Chiatti (L'amico di famiglia di Paolo Sorrentino), Maya Sansa (Buongiorno, notte di Marco Bellocchio), Valerio Mastandrea, Giovanna Mezzogiorno, Filippo Timi, Alba Rohrwacher, Ambra Angiolini.

Il 2009 segna un ritorno al cinema italiano di prospettiva storico/politica. La memoria politica e ideologica vista come sguardo per analizzare i nostri tempi. Esempi importanti sono indubbiamente la rivisitazione in chiave personale e autobiografica del '68 da parte di Michele Placido con Il grande sogno e di Giuseppe Tornatore, con il kolossal Baarìa. Non autobiografico ma metafora agghiacciante dei nostri tempi è la descrizione della vita di Mussolini e del fascismo, vista dagli occhi dell'esperto regista Marco Bellocchio con Vincere.

Nel 2010 si affermano registi come Giorgio Diritti, autore del premiatissimo L'uomo che verrà e si fanno notare giovani leve come Claudio Cupellini, regista di Una vita tranquilla o Aureliano Amadei, all'esordio con 20 sigarette imperniato sulla strage di Nassiriyya. Successo di critica per il dramma risorgimentale Noi credevamo, diretto dal regista napoletano Mario Martone, che nel 2014 ottiene grande successo di pubblico con il film Il giovane favoloso, biografia del poeta Giacomo Leopardi, interpretato da Elio Germano.

Grandissimo consenso di pubblico continuano ad ottenere le tante commedie realizzate da nuovi giovani registi ed interpretate dalla nuova ed apprezzata generazione di attori comici: tra le tante nuove leve della commedia è doveroso segnalare Checco Zalone, comico pugliese che, dopo aver esordito in televisione, debutta sul grande schermo con due film diretti da Gennaro Nunziante : Cado dalle nubi del 2009 e soprattutto Che bella giornata del 2011 che, con oltre 40 milioni di euro d'incassi, diventa il film italiano di maggior successo commerciale di sempre. Il grande successo di Zalone è confermato anche dalla pellicola successiva, Sole a catinelle, sempre diretta da Gennaro Nunziante, uscita nel 2013, che in appena 18 giorni di programmazione riesce a superare gli incassi del film precedente.

Il 2012 si apre con la vittoria dei Fratelli Taviani dell'Orso d'oro al Festival di Berlino con il film Cesare deve morire: girato con la tecnica della docu-fiction all'interno del carcere romano di Rebibbia ed interpretato dai detenuti del penitenziario che mettono in scena il Giulio Cesare di William Shakespeare; nell'autunno 2012 viene reso noto che la pellicola dei Taviani sarà il film che concorrerà per l'Italia per entrare nella cinquina dei film che concorrerranno alla candidatura all'Oscar come miglior film straniero del 2013, ma il film non riesce a passare la pre-selezione. A maggio dello stesso anno un altro riconoscimento per il cinema nostrano: al Festival di Cannes, Matteo Garrone vince per la seconda volta il Grand Prix della giuria con la pellicola Reality, film di denuncia sull'influenza altamente negativa che i reality show televisivi hanno sulla gente comune. Questi due film, a fronte del grande successo di critica, ottengono però entrambi bassi riscontri al botteghino.

Grande successo è ottenuto invece dal film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, interpretato da Toni Servillo e Sabrina Ferilli; presentato in concorso al Festival di Cannes del 2013, il film è una versione moderna de La dolce vita, e riscuote un buon successo di pubblico in Italia ed ottiene numerosi riconoscimenti internazionali tanto che, nell'autunno del 2013, viene scelto come candidato italiano all'Oscar al miglior film straniero del 2014, riuscendo ad entrare nella cinquina dei candidati (cosa che non accadeva per un film italiano dal 2006). Il 12 gennaio 2014 La grande bellezza ottiene un importante riconoscimento: vince infatti il Golden Globe proprio come Miglior film straniero (l'ultima vittoria italiana di questo premio risaliva al 1990). Il 16 febbraio 2014 il film si aggiudica anche il BAFTA (il più prestigioso premio cinematografico inglese) sempre come Miglior film straniero. Infine il 2 marzo 2014 il film si aggiudica l'Oscar al miglior film straniero (l'ultima vittoria italiana di questo premio risaliva al 1999).

Note

  1. ^ Angelini, F. Pucci, Materiali per una storia del cinema delle origini. 1981: «... allo stato attuale delle ricerche, la prima proiezione nelle Marche viene ospitata al Caffè Centrale di Ancona: ottobre 1896».
  2. ^ Chiude il Cinema Lumiere a Pisa dopo 100 anni di attività.
  3. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", in Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2002, vol. III, pp. 33-34.
  4. ^ Wladimiro Settimelli, Dall'agiografia al messaggio fotografico per la storia, «Palatino», Roma, a. XI, 1967.
  5. ^ Fernaldo Di Giammatteo (1999), Un raggio di sole si accende lo schermo, in I Cineoperatori. La storia della cinematografia italiana dal 1895 al 1940 raccontata dagli autori della fotografia (volume 1°)
  6. ^ Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano. 1905-2003, Torino, Einaudi, 2003, p. 425.
  7. ^ Elisabetta Bruscolini, Roma nel cinema tra realtà e finzione, Roma, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, [2003?], p.18
  8. ^ Riprese degli operatori Lumière a Torino - Enciclopedia del cinema in Piemonte
  9. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", in Storia del cinema mondiale, vol. III, Einaudi, Torino, 2000, p. 38.
  10. ^ Maria Wyke, Projecting the Past. Ancient Rome, Cinema and History, Psychology Press, Londra, 1997.
  11. ^ Mario Verdone, Spettacolo romano, Golem, Roma, 1970, pp. 141-147.
  12. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., p. 43.
  13. ^ Gianni Rondolino, Paolo Bertetto, Cabiria e il suo tempo, Torino, 1998.
  14. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., pp. 47-52.
  15. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., p. 51.
  16. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., p. 52.
  17. ^ AAVV, I comici del muto italiano, in Griffithiana, n. 24-25, 1985.
  18. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., p. 46.
  19. ^ Giovanni Lista, "Futurisme et cinéma", in Peinture, cinéma, peinture, Nathan, Parigi, 1989, p. 59.
  20. ^ Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. I, Laterza, Roma, 1993, p. 245.
  21. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., p. 57.
  22. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", in Storia del cinema mondiale, vol. III, Torino, Einaudi, 2000, p. 56.
  23. ^ Sergio Grmek Germani, Vittorio Martinelli, Il cinema di Augusto Genina, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, 1989.
  24. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema muto italiano", cit., pp. 59-60.
  25. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", in Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2000, vol. III, p. 342.
  26. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", cit., p. 348.
  27. ^ Gian Piero Brunetta, Jean A. Gili, L'ora d'Africa del cinema italiano, 1911-1989, Materiali di Lavoro, Rovereto, 2000.
  28. ^ a b Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", cit., p. 355.
  29. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", cit., p. 356.
  30. ^ Roberto Campari, Il fantasma del bello. Iconologia del cinema italiano, Marsilio, Venezia, 1994. ISBN 88-317-5898-5
  31. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", cit., pp. 357-359.
  32. ^ Andrea Martini, La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, Marsilio, Venezia, 1992. ISBN 88-317-5774-1
  33. ^ L'efficace definizione è di Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", cit., p. 363.
  34. ^ Giorgio Venturini, Discorso e cronaca della cerimonia d'inaugurazione, in Film, VII, n. 6, 1944.
  35. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal sonoro a Salò", cit., p. 362.
  36. ^ Ernesto G. Laura, L'immagine bugiarda. Mass-media e spettacolo nella Repubblica di Salò (1943-1945), ANCCI, Roma, 1986, p. 333.
  37. ^ "Manca tutto ma si lavora lo stesso", Mondo Nuovo, I, n. 1, 19 marzo 1945, p. 24
  38. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal neorealismo alla Dolce vita", Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2000, vol. III, p. 586.
  39. ^ Ennio Di Nolfo, "La diplomazia del cinema americano", in David W. Ellwood, Gian Piero Brunetta (a cura di), Hollywood in Europa, La Casa Husher, Firenze, 1991, pp. 29-40.
  40. ^ Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano. 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1980.
  41. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal neorealismo alla Dolce vita, cit., p. 595.
  42. ^ Guido Aristarco, Il neorealismo cinematografico, in L'Europeo, XXXIV, 4 giugno 1976, n. 20.
  43. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal neorealismo alla Dolce vita", cit., p. 600.
  44. ^ Gian Piero Brunetta, "Cinema italiano dal neorealismo alla Dolce vita", cit., pp. 601-602.
  45. ^ Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, Moizzi, Milano, 1978.
  46. ^ Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini e Castoldi, Milano, 1997.
  47. ^ Guido Aristarco, "Senso", Cinema Nuovo, IV, n. 52, 10 febbraio 1955.
  48. ^ Raffaello Matarazzo. Materiali, Torino, 1977.
  49. ^ a b c Roberto Chiavini, Gian Filippo Pizzo, Michele Tetro, Il grande cinema di fantascienza: aspettando il monolito nero (1902-1967), Volume 2 di Il grande cinema di fantascienza, Collana gli Album, Gremese, 2003, p. 145, ISBN 88-8440-266-2. Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "Chiavini 2003" è stato definito più volte con contenuti diversi
  50. ^ Carlo Pagetti, (EN) John Clute, David Langford e Peter Nicholls (a cura di), Cinema italiano, in The Encyclopedia of Science Fiction, IV edizione online, 2021.
  51. ^ Secondo Gabriele Muccino in una intervista del 2003 su Repubblica, Nirvana è stato il film di Salvatores di maggiore incasso al botteghino.
  52. ^ Nirvana (1997) - Box office / business
  53. ^ Per un elenco delle pellicole fanta-spionistiche vedi la voce Cinema italiano di fantascienza.
  54. ^ Vito Zagarrio, Storia del cinema italiano 1977/1985, Marsilio, Venezia, 2005, p. 329.
  55. ^ Vito Zagarrio, Storia del cinema italiano 1977/1985, cit., p. 348.
  56. ^ Paolo D'Agostini, "Il cinema italiano da Moretti a oggi", in Storia del cinema mondiale, cit., pp. 1102-1103.

Bibliografia

  • G.P. Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Roma-Bari, 1995.
  • C. Carabba, Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze, 1974.
  • R. Chiti - E. Lancia, Dizionario del cinema italiano: I film, Vol.1: Dal 1930 al 1944, e Vol 2: dal 1945 al 1992 Gremese, Roma, 1993.
  • R. Chiti - E. Lancia - A. Orbicciani, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano: Le attrici, Gremese, Roma, 1999.
  • F. Di Giammatteo, Dizionario del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995.
  • F. Faldini - G. Fofi, (a cura di), L'avventurosa storia del cinema italiano: 1933-1959, Feltrinelli, Milano, 1979.
  • F. Faldini - G. Fofi, Il cinema italiano d'oggi: 1970-1984, Mondadori, Milano, 1984
  • M. Giusti, Dizionario dei film italiani stracult, Frassinelli, Milano, 2004.
  • E. Lancia, Dizionario del cinema italiano: I film, Vol.6: Dal 1990 al 2000. Gremese, Roma, 2001-2002.
  • C. Lizzani, Il cinema italiano: Dalle origini agli anni Ottanta, Editori Riuniti, Roma, 1992.
  • R. Poppi, Dizionario del cinema italiano: I registi, Dal 1930 ai giorni nostri, Gremese, Roma, 1993.
  • F. Savio, Cinecittà anni Trenta, Bulzoni, Roma, 1979.
  • Salvatore Cianciabella (prefazione di Philip Zimbardo, nota introduttiva di Liliana De Curtis). Siamo uomini e caporali. Psicologia della dis-obbedienza. Franco Angeli, 2014. ISBN 978-88-204-9248-9. Sito: www.siamouominiecaporali.it

Voci correlate

Altri progetti

Collegamenti esterni