Storia della letteratura italiana: differenze tra le versioni

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;[[Carlo Collodi]]
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:lo scrittore e umorista toscano è il padre di [[Pinocchio]], apparso in ''[[Pinocchio (romanzo)|Pinocchio - Storia di un burattino]]''. Il piccolo burattino di legno disobbedisce sempre a Geppetto suo padre, che vorrebbe portarlo a scuola per fargli avere un buon mestiere, e che vorrebbe che un giorno diventasse un bambino vero. La [[Fata Turchina]] seguirà sempre Pinocchio nelle sue avventure, e lo salverà dalle brutte compagnie, come il Gatto e la Volpe, [[Mangiafoco]], Lucignolo e la sua avventura goliardica nel Paese dei Balocchi.
:lo scrittore e umorista toscano è il padre di [[Pinocchio]], apparso in ''[[Pinocchio (romanzo)|Pinocchio - Storia di un burattino]]''. Il piccolo burattino di legno disobbedisce sempre a Geppetto suo padre, che vorrebbe portarlo a scuola per fargli avere un buon mestiere, e spera sempre che, un giorno, possa portargli fortuna. Un altro personaggio di rilievo è la [[Fata Turchina]], la quale seguirà Pinocchio nelle sue avventure e lo aiuterà a comprendere che cosa deve far esattamente, oltre che aiutarlo nei momenti di necessità estrema ed a non lasciarsi tentare dalle cattive compagnie, quali [[il Gatto e la Volpe]], ed alla sua goliardica avventura nel Paese dei Balocchi, l'imminente trasformazione in somaro e la sequenza del [[Terribile Pesce-Cane]].


;[[Edmondo De Amicis]]
;[[Edmondo De Amicis]]

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«La storia letteraria di un popolo non è già un elenco delle opere scritte nella lingua nazionale; ovvero una successione di giudizi estetici e di biografie di autori: è invece la rappresentazione della vita spirituale del popolo rintracciata nei canti e nelle funzioni dei suoi poeti, nella meditazione e nelle memorie dei suoi sapienti, insomma nella sua letteratura la quale riflette perciò le vicende della civiltà e l'opera dei fattori che agirono in questa.»

L'edizione del 1529 de "La Divina Commedia"

La storia della letteratura italiana ha inizio nel XIII secolo, quando nelle diverse regioni della penisola italiana si iniziò a scrivere in italiano con finalità letterarie.

Gli storici della letteratura individuano l'inizio della tradizione letteraria in lingua italiana nella prima metà del XIII secolo con la scuola siciliana di Federico II di Svevia, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, anche se il primo documento letterario è considerato il Cantico delle creature di Francesco d'Assisi. In Sicilia, a partire dal terzo decennio del XIII secolo, sotto il patrocinio di Federico II si era venuto a formare un ambiente di intensa attività culturale. Queste condizioni crearono i presupposti per il primo tentativo organizzato di una produzione poetica in volgare romanzo, il siciliano, che va sotto il nome di "scuola siciliana" (così definita da Dante nel suo “De vulgari Eloquentia”). Tale produzione uscì poi dai confini siciliani per giungere ai comuni toscani e a Bologna e qui i componimenti presero ad essere tradotti e la diffusione del messaggio poetico divenne per molto tempo il dovere di una sempre più nota autorità comunale. Quando la Sicilia passò il testimone ai poeti toscani, coloro che scrivevano d'amore vi associarono, seppure in maniera fresca e nuova, i contenuti filosofici e retorici assimilati nelle prime grandi università, prima di tutto quella di Bologna, prima università per antichità e respiro culturale. I primi poeti italiani provenivano dunque da un alto livello sociale e furono soprattutto notai e dottori in legge che arricchirono il nuovo volgare dell'eleganza del periodare latino che conoscevano molto bene attraverso lo studio di grandi poeti latini come Ovidio, Virgilio, Lucano. Ciò che infatti ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua, e la consapevolezza nella popolazione italiana di parlare una lingua, che pur nata verso il X secolo si emancipa completamente dalla promiscuità col latino solo nel XIII secolo.

Come scrive Giuseppe Petronio[2] "Il carattere distintivo che ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua".

Le origini

«Sarebbe stato impossibile determinare un momento in cui il latino abbia cessato di essere la lingua comunemente usata dal popolo e abbia ceduto il posto alle lingue nuove: sia perché tale trapasso dovette svolgersi diversamente e in diversi tempi nei differenti luoghi, sia perché soprattutto è assurdo scientificamente parlare del nascimento di un linguaggio, il quale non nasce mai e non muore bensì continuamente si trasforma".»

In Italia infatti vi erano già state precedentemente due letterature: quella latina o romana e quella medievale o mediolatina.

L'Italia nel periodo romano e la letteratura latina

Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura latina.
Ritratto di Ovidio, uno dei massimi esponenti della Letteratura latina

Nell'VIII secolo a.C. Roma aveva iniziato ad espandersi conquistando, nel corso di alcuni secoli, le varie regioni della penisola italiana, abitate da popoli differenti sia per lingua che per razza, unificandoli e dando così l'avvio ad una letteratura latina che produsse grandi scrittori tra i quali Lucrezio, Catullo, Cicerone, Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio e Tacito.

Ma qualche secolo dopo Cristo l'Impero romano iniziò progressivamente a decadere e nel territorio penetrarono popolazioni di razze diverse, prevalentemente di origine germanica, che i Romani chiamarono barbari. Questo portò allo sfasciarsi dell'impero che si divise in diversi stati con storie separate, anche se alcuni di essi rimasero legati tra di loro, sia per il fatto di parlare la lingua latina, sia per il fatto di aver aderito alla religione del Cristianesimo.

L'Italia nel periodo medievale e la letteratura medievale

Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura medievale.

Con la detronizzazione dell'ultimo imperatore romano, nel 476 d.C., il potere passò a un re barbarico e l'Italia venne soggiogata dai germanici fino al 553 quando, con la battaglia del Vesuvio, l'Impero romano d'Oriente, costituito dai Bizantini, riuscì a rioccupare una parte dell'Italia. Nel 568 però, con la discesa in Italia dei Longobardi, che riuscirono a conquistare un'altra parte della penisola, si assistette ad una divisione politica, amministrativa e linguistica.

In questo periodo la cultura della penisola italiana, sia a causa delle condizioni economiche che si erano notevolmente aggravate, sia per le invasioni barbariche e altre cause, si abbassò notevolmente e la lingua iniziò un'evoluzione diversa secondo le regioni e i differenti strati sociali.

Da una parte ci sono le persone colte, i cosiddetti chierici appartenenti al clero e in grado di leggere e di scrivere, che continuarono a parlare e a scrivere in latino e dall'altra le persone non colte, i laici, che, incapaci di leggere e di scrivere, utilizzavano dialetti che avevano un'origine latina ma che col passare del tempo andavano sempre più allontanandosi e diversificandosi da essa.

Nacque così in Italia una letteratura nuova composta in latino medievale o mediolatino che rispecchiava la nuova civiltà: la civiltà medievale.
Come scrive Alberto Asor Rosa[4] "… è dall'intera maturazione di questa (con tutti i fenomeni linguistici, ideologici e sociologici che l'accompagnano e ne derivano) che si produce a un certo punto una nuova cultura fondata essenzialmente sull'uso dei linguaggi volgari". Quindi si formò un nuovo linguaggio: il volgare.

L'Italia del periodo comunale e le letterature in volgare

Con la ripresa economica che si manifestò dopo gli anni 1000 e che vide la nascita delle città, nacquero dei nuovi ceti cittadini appartenenti agli artigiani, ai mercanti o agli imprenditori, che, pur essendo laici, sentivano il bisogno di possedere una cultura e di esprimersi in modo letterario. Costoro pertanto iniziarono ad utilizzare i loro dialetti di origine latina, i volgari, per rivolgersi non solamente ai chierici ma a tutti i laici che erano in grado di comprendere il volgare, spesso se letto o recitato da altri.

Carlo Magno in un dipinto di Albrecht Dürer, 1511-1513

I primi scritti in volgare sono di carattere religioso nei quali si obbligano gli ecclesiastici a rivolgersi ai fedeli, nel corso delle prediche, nella loro stessa lingua come viene stabilito da Carlo Magno nell'813 durante il Concilio di Tours e spesso formule di giuramenti come il Giuramento di Strasburgo del 14 febbraio dell'842, quando si assistette al giuramento di Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico davanti ai propri eserciti, il primo in francese antico e il secondo in tedesco antico.

Dalla letteratura latina a quella italiana

Per quanto riguarda l'Italia non è facile indicare con precisione l'inizio di questo nuovo processo anche se dall'secolo VIII si possono trovare già testi che utilizzano per iscritto il volgare. Alberto Asor Rosa riferisce che nel 1189 il patriarca di Aquileia si era recato presso la chiesa delle Carceri di Padova per tenere un sermone in latino che venne prontamente tradotto ai fedeli presenti in lingua volgare[5].

Si è quindi propensi a pensare che la lingua volgare, già dall'VIII secolo al XII secolo fosse utilizzata in modo sempre più frequente non solo ad uso pratico ma anche ad usi che consentissero l'innegabile bisogno letterario di raggiungere il maggior numero di coscienze. Il volgare italiano cioè tende gradualmente ad unificare il territorio linguistico ed a soppiantare municipalmente la lingua latina ormai non più in grado di assolvere quel compito.

I primi documenti

Lo stesso argomento in dettaglio: Indovinello veronese.
L'Indovinello veronese

Tra i documenti più antichi che dimostrano questa esigenza vi è in primo luogo un semplice indovinello, l'Indovinello veronese, composto da quattro brevi versi che vennero scoperti nel 1924 in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona scritto verso la fine dell'VIII secolo e l'inizio del IX secolo, dove l'atto dello scrivere, ripreso dalla letteratura scolastica del secolo VIII, viene paragonato all'atto del seminatore che sparge nei solchi il seme nero su un prato bianco.

«Se pareva boves, alba pratalia araba. - albo versorio teneba, negro semen seminaba[6]

Lo stesso argomento in dettaglio: Placiti cassinesi.

Tra i primi documenti nei quali il volgare assume carattere di linguaggio già ufficiale e colto sono quattro testimonianze giurate che riguardano certe controversie sull'appartenenza di alcuni lotti di terreno ai benedettini del monastero di Capua, di Sessa e di Teano che vennero registrate tra il 960 e il 963, noti come i quattro placiti cassinesi.
Le formule usate in queste testimonianze sono la ripetizione di quanto preparato in precedenza dal giudice in testo latino e in seguito stilate in volgare perché esse fossero comprese dai tutti i presenti al giudizio. Tra questi vi è quello che il Sapegno[7], chiama il placito capuano[8]. Il critico scrive: "In un placito capuano del 960 è riprodotta la formula pronunciata dai testimoni in una lite di confini tra il monastero di Montecassino e tal Rodelgrimo d'Aquino: "Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti"[9].

Così, a poco a poco, con il passare del tempo i documenti di questo genere, e non solo, diventano sempre più frequenti, come i libri di memorie contabili, i tre versi inseriti in un dramma scritto in latino sulla Passione, una epigrafe sulla facciata della chiesa di San Clemente a Roma dove il servitore riferisce parole in volgare e il santo in latino, un privilegio sardo e una confessione di origine marchigiana o umbra tutti appartenenti all'XI secolo .
Del XII secolo ci è poi pervenuta una carta di origine calabrese e una scritta piuttosto semplice formata di quattro endecasillabi che si poteva leggere, nel Duomo di Ferrara "Li mille cento trenta cenqe nato - fo questo templo a San Gogio donato - da Glelmo ciptadin per so amore - e mea fo l'opra. Nicolo scolptore", come riporta Sapegno in note[10].

Ricordiamo anche il Ritmo di Travale del 1158: "Guaita guaita male, no mangiai ma' mezo pane"

Al XIII secolo risalgono poi dei frammenti d'un manoscritto appartenente a certi banchieri fiorentini e, sempre in Toscana, seguono altri documenti che riguardano questioni di interessi privati o appartenenti a istituzioni pubbliche.

Uso del volgare e suo uso letterario

Per queste prime testimonianze in volgare bisogna tener conto che "… il volgare, che passa nelle scritture e diventa a poco poco lingua letteraria, non è il linguaggio del popolo così come questo direttamente lo parla, ma è quello stesso linguaggio di una persona colta, e che generalmente sa di latino, lo tratta e lo sistema, perché sia comprensibile al popolo ma al tempo stesso abbia la dignità grammaticale e stilistica di stare accanto al latino"[11].

Come tutte le lingue romanze, l'italiano discende dal latino, con cui ha legami molto più stretti delle altre lingue romanze proprio in virtù della prolungata permanenza della lingua madre in tutte le fasce sociali italiane. La letteratura italiana scritta si afferma in ritardo rispetto ad altre letterature europee perché la lingua di cultura per eccellenza fu a lungo il solo latino, lingua della Chiesa, dei tribunali e delle corti, ma anche delle scuole e delle università. A questo fattore si aggiunge anche l'uso della lingua d'oc e della lingua d'oïl nelle corti italiane del centro-nord, che produsse, tra i tanti rimaneggiamenti e imitazioni pedestri, anche alcune opere letterarie di un certo pregio, dal Tresor di Brunetto Latini, al Milione che Marco Polo dettò a Rustichello da Pisa in francese, ai canti d'amore di Sordello da Goito. Questo almeno fino al momento in cui il Canzoniere siciliano si diffuse in Toscana, principalmente ad opera di Guittone d'Arezzo, da cui trasse spunti linguistici e poetici, sotto l'influenza di quel preumanesimo che avrebbe portato il travaso della letteratura e retorica classica nel toscano e nel bolognese riavvicinando la poesia italiana ai contenuti classici e distanziandola dal mondo cavalleresco franco-normanno che aveva fino allora cercato di copiare.

Per trovare, in Italia, testi a carattere propriamente letterario in un volgare solido bisogna risalire intorno alla metà del XII secolo con il Ritmo laurenziano (che si fa risalire al 1150-1157) ritrovato in un codice della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, che consiste nella cantilena di un giullare toscano, o al Ritmo di Sant'Alessio trovato nelle Marche nel XIII secolo[12] o al 'Ritmo cassinese'.

Il Duecento

Il periodo storico che va dal 1224, data presumibile della composizione del Cantico delle creature di San Francesco d'Assisi, al 1321, anno in cui morì Dante[13], si contraddistingue per i numerosi mutamenti in campo sociale e politico e per la viva attività intellettuale e religiosa.

La letteratura allegorico-didattica

Manoscritto del Roman de la Rose (1420 - 1430).

Un tipo di letteratura, quella di carattere enciclopedico e allegorico, nata in Francia già nel XII secolo con il poema Viaggio della saggezza. Anticlaudianus. Discorso sulla sfera intelligibile del filosofo Alano di Lilla, giunge nel Duecento in Italia con i suoi modelli, come il famoso Roman de la Rose che nelle due parti composte tra il 1230 e il 1280 circa da Guillaume de Lorris e Jean de Meun narrano, con abbondanti figure simboliche e azzardate personificazioni, le vicende del sentimento amoroso nei suoi vari e drammatici aspetti. L'influsso del Roman si avverte in tutte le opere allegorico-didattiche antiche scritte in volgare. Dal Roman, famoso è il rifacimento del fiorentino Durante, che alcuni vollero identificare nello stesso Dante Alighieri, realizzato in 232 sonetti in volgare italiano verso la fine del XIII secolo e il frammentario intitolato Detto d'Amore che riescono a trasformare il poema francese liberandolo dagli schemi scientifici e tecnologici rendendolo più ricco di spunti amorosi e satirici.

La letteratura didattica e morale

Sempre nel XIII secolo, collegata alla tendenza religiosa e didattica che aveva fatto nascere le grandi opere dette summae, vedono la luce anche alcuni componimenti in volgare veneto e lombardo molto significativi per chiarire la cultura comune del tempo e che "esprimono nel loro insieme il tentativo di un innalzamento dei dialetti settentrionali, veneto-lombardi, ad espressione letteraria"[14].

Lo stesso argomento in dettaglio: Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva.

Alla prima metà del secolo appartiene una raccolta di massime morali e sentenze, lo Splanamento de li proverbi di Salomone, composta da Gherardo Patecchio di Cremona in versi alessandrini e, dello stesso autore, una canzone in endecasillabi dal titolo le Noie dove vengono elencati tutti gli avvenimenti spiacevoli della vita.
Nella seconda metà del secolo Fra' Giacomino da Verona dell'ordine dei frati minori francescani, scrisse due poemi in versi alessandrini: il De Babilonia civitate infernali e il De Jerusalem celesti dove vengono elencate rispettivamente le pene dell'Inferno e le gioie del Paradiso.
Tra gli scrittori di questo periodo vi fu il maestro di grammatica Bonvesin de la Riva frate terziario dell'Ordine degli Umiliati,che compose molte opere sia in volgare che in latino. Tra le più note scritte in latino si ricorda il De magnalibus urbis Mediolani, una sintetica storia di Milano, e in volgare il "Libro delle Tre Scritture" (la Nigra, la Rossa e la Dorata), un poemetto dove vengono narrate le dodici pene dell'Inferno, la Passione di Cristo e le glorie del Paradiso. Egli scrisse anche dei Contrasti dove pone a confronto la Vergine e Satana, la mente e il corpo, la viola e la rosa, il Trattato dei mesi dove gennaio, con la sua pigrizia, viene confrontato con l'operosità degli altri mesi dell'anno e un poemetto sulle buone maniere da tenere a tavola intitolato Cortesie da desco.

La letteratura religiosa

Contemporaneamente a questi componimenti dell'Italia settentrionale, nasce, soprattutto in Umbria, una letteratura in versi a carattere religioso scritta nei vari dialetti locali per lo più anonima.

Si usa collocare nel 1260 la vera nascita della lirica religiosa al tempo in cui nacque a Perugia, sotto la guida di Raniero Fasani, la confraternita dei Disciplinati che usava come mezzo di espiazione la flagellazione pubblica. Il rito veniva accompagnato da canti corali che avevano come schema la canzone a ballo profana. Attraverso le laude, liriche drammatiche, pasquali o passionali secondo l'argomento religioso trattato, il movimento si diffuse in tutta l'Italia del Nord stabilendone il centro a Perugia e ad Assisi. Ma è il Cantico di Frate Sole o Cantico delle creature di san Francesco d'Assisi ad essere considerato il più antico componimento in volgare italiano mentre solamente con Jacopone da Todi la lauda assunse una dimensione artistica.

Le laude

Tra i più importanti generi della letteratura religiosa vi sono le laude, componimenti che cantavano le lodi dei Santi, di Cristo e della Madonna, e che vengono spesso raccolte in manoscritti chiamati "laudari" (raccolte di laude) per le Confraternite religiose.

Si tratta spesso di laude scritte sotto forma di dialogo con carattere di dramma sacro che venivano recitate in ricorrenze religiose di una certa importanza con l'accompagnamento musicale.

Le laude di questo periodo sono quasi tutte anonime e vengono soprattutto dalla Toscana, dall'Umbria, dalle Marche, dall'Abruzzo e dall'Italia settentrionale e conservano, nella povertà della loro struttura sintattica, un carattere molto semplice ma estremamente sincero.

Vengono narrati gli episodi del Vangelo di maggior effetto, come i miracoli di Gesù e della Vergine e la vita dei santi. Tra le descrizioni meglio riuscite e piene di religioso e commosso sentimento, vi è quella della Vergine che guarda in contemplazione il Bambin Gesù e il pianto della Madre ai piedi della Croce.

Le opere a carattere religioso furono quindi assai numerose in questo periodo ma quelle che si contraddistinguono per il loro carattere realmente poetico sono il "Cantico di Frate Sole" di San Francesco d'Assisi e le "Laude" di Jacopone da Todi.

San Francesco D'Assisi

Raffigurazione di san Francesco d'Assisi in un affresco di Cimabue nella basilica di Assisi; si ritiene che sia l'immagine più fedele del santo
Lo stesso argomento in dettaglio: San Francesco d'Assisi.

"La prima grande figura che incontriamo proprio sulla soglia della nostra letteratura del duecento è quella di San Francesco d'Assisi" come scrivono sia Giuseppe Petronio[15] che Natalino Sapegno[16].

Di San Francesco ci sono giunte alcune operette latine e un cantico, scritto in volgare umbro, conosciuto come il Cantico delle Creature o "Il Cantico di Frate Sole", che può essere considerato il testo più antico della letteratura italiana.
Secondo Natalino Sapegno[17], "il tipo di prosa ritmica e ritmata, che nella divisione irregolare dei versetti, sembra riecheggiare le forme della liturgia non trova rispondenza nella letteratura italiana contemporanea".

Giotto, San Francesco rinuncia alle vesti, Basilica Superiore di Assisi

La letteratura francescana

Dopo la morte di San Francesco nacque una fiorente letteratura francescana che proseguì anche nel Trecento.

Le biografie del santo

Essa produsse numerose biografie del santo scritte in latino e presto tradotte in volgare. Si ricordano soprattutto di Tommaso da Celano la Legenda prima, che venne scritta per commissione del papa Gregorio IX nel 1229, la Legenda secunda e la "Legenda trium sociorum" redatta non come una vera biografia ma come una sequenza di episodi eccezionali, compiuti da San Francesco e dai suoi tre compagni (Leone, Rufino e Angelo), secondo il modello dei Fioretti; lo "Speculum perfectionis", redatta da uno scrittore anonimo che è stato il primo a tramandarci "Il Cantico delle creature".

Lo stesso argomento in dettaglio: San Bonaventura da Bagnoregio.
San Bonaventura in un dipinto di Francisco de Zurbarán

La seconda biografia del santo di carattere ufficiale è quella che scrisse San Bonaventura, intitolata Legenda maior, per incarico dell'Ordine dei Frati Minori per arrivare agli Actus beati Francisci et sociorum eius considerati la prima fonte de "I Fioretti di San Francesco" in volgare.

Il primo testo della letteratura francescana

«Comandò allora Madonna Povertà che fossero imbanditi nelle scodelle cibi caldi. Ed ecco fu portata una sola scodella piena d'acqua fredda perché tutti vi attingessero il pane.»

Si deve ad un autore ignoto, che da alcuni critici viene individuato in Giovanni Parenti, un'opera scritta in forma di allegoria nel 1227 dal titolo "Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate" (Le mistiche nozze di San Francesco con Madonna Povertà), opera che influenzò sia le future biografie del santo, sia autori come Giotto e Dante. Di Dante troviamo infatti nel canto XI del Paradiso il panegirico di San Francesco, dove vengono evidenziate le nozze del santo con la Povertà.

Jacopone da Todi

Lo stesso argomento in dettaglio: Jacopone da Todi.

Sarà però con Jacopone da Todi e con il Pianto della Madonna, una lauda dialogata dal linguaggio misto di parole del volgare umbro e di latinismi e dalla metrica che ripropone i modelli della poesia dotta, che la poesia religiosa raggiunge il suo vero apice poetico.

La lirica popolare e giullaresca

Diego Velázquez, Ritratto del buffone Juan Calabazas

Nel XIII secolo fioriscono anche dei componimenti di carattere popolare che probabilmente servivano come accompagnamento alle danze durante le feste. Si tratta di poesie che trattano d'amore, di canti in forma dialogata tra una madre e una figlia che si deve sposare, di lamenti di giovinette che vogliono marito, di contrasti tra moglie e marito, tra suocera e nuora.
Alcune di queste poesie sono opera di giullari che, come scrive Sapegno[19], "segnano il ponte di passaggio, a dir così, fra la letteratura di popolo e quella degli spiriti più colti e raffinati". Si tratta quindi per lo più di una letteratura anonima "sia sul piano anagrafico (di molti componimenti non conosciamo l'autore) e sul piano culturale: manca infatti un particolare e individuale rilievo stilistico, le forme espressive sono stereotipate, convenzionali, ripetitive perché l'autore, per il successo della propria produzione, si basa soprattutto sull'invenzione, sulla trovata brillante e improvvisa, sulla battuta ad effetto"[20].

Il più antico tra i documenti di questa poesia giullaresca può essere considerata una cantilena toscana intitolata "Salv'a lo vescovo senato" che risale all'inizio della seconda metà del XII secolo composta in monorime di ottonari dove un giullare tesse in modo esagerato le lodi dell'arcivescovo di Pisa per avere un cavallo e il "Lamento della sposa padovana" risalente al XIII secolo. Si tratta di un frammento di autore anonimo scritto in volgare veneziano, dove una donna si lamenta per la mancanza del marito che sta combattendo alle crociate e fa l'elogio della sua fedeltà.
Un altro famoso componimento di carattere giullaresco, oltre al "Vanto", scritta con la forma metrica della frottola da Ruggieri Apuliese che visse nella prima metà del Duecento, è il contrasto "Rosa fresca aulentissima" di Cielo d'Alcamo, contemporanea alla poesia siciliana, un componimento composto in dialetto meridionale dove un giovane innamorato e sfrontato fa proposte ad una giovane dapprima ritrosa e poi consenziente, che denota da parte dell'autore una buona dose di cultura.

La scuola siciliana

Lo stesso argomento in dettaglio: Scuola siciliana.
Raccolta di Minnesang del 1850

Fin dal 1166 alla corte normanna di Guglielmo II di Sicilia convenivano da ogni parte i trovatori italiani[21]. Una prima elaborazione di lingua letteraria da poter mettere in versi si ebbe al tempo di Federico II di Svevia in Sicilia dove l'imperatore, di ritorno dalla Germania aveva avuto modo di conoscere i Minnesänger tedeschi, aveva dato l'avvio, nel 1220-50 circa, alla Scuola siciliana, una vera scuola poetica in aulico siciliano che si ispirava ai modelli provenzali e che portò avanti la sua attività letteraria per circa un trentennio concludendosi nel 1266 con la morte del figlio di Federico, Manfredi, Re d'Italia morto nella battaglia di Benevento. I poeti di questa scuola "… scrivevano in un siciliano illustre, in un siciliano cioè nobilitato dal continuo raffronto con le due lingue, in quel momento auliche per eccellenza: il latino e il provenzale"[22]. Il tema dominante nei poeti siciliani fu quello dell'amore ispirato ai modelli provenzali: le forme in cui si espresse questa poesia sono la canzone, la canzonetta e il sonetto, felice invenzione di Giacomo da Lentini, caposcuola del movimento.

Oltre allo stesso re Federico II e ai suoi due figli Enzo (Re nominale di Sardegna) e Manfredi che si dedicarono con passione all'attività poetica, molti furono i poeti siciliani di maggiore o minore importanza che si posero sotto la guida spirituale di Giacomo, non a caso citato da Dante Alighieri nel XXIV canto del Purgatorio come il fondatore della scuola. Scrisse alcune delle migliori canzoni e sonetti che brillano come perle nella varietà e diversità di talenti del canzoniere siciliano e diede la prima definizione dell'amore nella letteratura italiana. "Amor è un desio che ven da core/ per abondanza di gran piacimento".

Tra i maggiori si ricorda inoltre Guido delle Colonne del quale sono pervenute cinque canzoni, Pier della Vigna di Capua nominato da Dante nel XIII canto dell'Inferno, Rinaldo d'Aquino, Giacomo Pugliese, Stefano Protonotaro da Messina al quale dobbiamo l'unica composizione conservata in lingua originale siciliana (Pir meu cori alligrari). In alcuni di questi, accanto al repertorio contenutistico provenzale, fa però riscontro in alcuni poeti, come re Enzo, un interesse psicologico che lascia già intuire qua e là la Madonna angelicata degli stilnovisti. Siamo comunque molto distanti dall'erotismo provenzale e francese, e più vicini al platonismo italiano e alla tradizione classica, che si sente maggiormente nel periodare e nel contenuto. Di diversa estrazione era infatti la scuola dell'isola, composta prevalentemente di giuristi e notai, più vicini del mondo francese alla tradizione umanistica e nel complesso distanti dal mondo cavalleresco francese, ammirato da lontano ma difficilmente sentito come proprio, tanto più in quanto l'imperatore aveva in effetti attuato per la prima volta nella storia, dopo durissime lotte, lo smantellamento del sistema feudale. Sottovalutata dalla critica ottocentesca per il suo carattere accademico di raffinato gioco intellettuale, è stata però rivalutata nel XX secolo grazie all'opera di molti insigni studiosi quali Francesco Bruni, Cesare Segre, Gianfranco Contini, i quali hanno sottolineato i felici risultati linguistici, che dettero per la prima volta all'Italia quel ricco vocabolario in volgare di cui ancora mancava, e che fu assimilato e successivamente arricchito dalle sperimentazioni dei grandi bardi toscani, dalle imitazioni di Guittone all'elaborazione del fresco ma ricco linguaggio degli stilnovisti. Se ne sarebbero conservate forti tracce fino ai giorni nostri. Bruno Migliorini conferma la sostanziale vicinanza tra quella lingua siciliana, nata in circostanze fortuite sotto le tende della corte di Federico durante gli assedi alle città guelfe, e la migliore poesia di quell'Ottocento la cui critica romantico-positivista svalutò l'opera dei "notari" siciliani in nome di una poesia che si voleva grande solo in quanto "popolare e spontanea".

Annoverato come poeta appartenente alla scuola siciliana vi fu anche Cielo d'Alcamo che scrisse nel 1231 il famoso contrasto Rosa fresca aulentissima. Cielo (falsa grafia è Ciullo tramandato dalla tradizione ottocentesca) offre una rilettura diversa, in chiave comica e realistica in opposizione alle figure eteree e talvolta stereotipate delle madame provenzali. Parodia dei manierismi e dei luoghi comuni della scuola, è il canto di amore di un giullare e non di un raffinato uomo di corte, che scambia una serie di vivaci e salaci battute con la sua rosa, che da astratto simbolo amoroso diventa la sua carama, la sua bella, che corteggia spietatamente approfittando dell'assenza della famiglia che la tiene gelosamente sotto tutela. Sotto pretesto di conservare il suo onore la ragazza si finge restìa, per ricevere i più splendidi complimenti, e invitare alla fine l'amante a seguirlo nella sua camera. L'effetto burlesco è ottenuto dall'accostamento del raffinato linguaggio letterario ad espressioni dialettali popolari siciliane e meridionali che di fatto smentiscono comicamente la pretesa nobiltà d'animo finta inizialmente.

A Jacopo da Lentini, notaio presso la corte di Federico II e probabile iniziatore della scuola, si attribuisce l'invenzione del sonetto e la teoria dell'amore, inteso come sentimento che nasce alla vista di una donna e che viene alimentato attraverso l'immaginazione, che sarà ripresa da tutta la lirica d'amore del Duecento, dai siciliani agli stilnovisti.

Tra i principali rappresentanti della scuola, che furono tutti funzionari della corte di Federico II, si ricordano, oltre Jacopo da Lentini, Pier della Vigna, Jacopo Mostacci, Percivalle Doria, Rinaldo d'Aquino, Guido delle Colonne, Ciacco dell'Anguillara, Stefano Protonotaro, Giacomino Pugliese, oltre lo stesso Federico e il figlio naturale Enzo di Svevia.

I poeti della scuola siciliana scrivevano canti improntati ai modelli della poesia provenzale che, nata presso le corti, esaltava l'amore come abitudine di gentilezza più che come sentimento immediato e prorompente. Costoro seguivano anche gli stessi schemi metrici di quel genere di poesia riproponendo il genere della canzone, della ballata, del sirventes e del contrasto.

Due componimenti sono giunti a noi nell'originale volgare siciliano, salvati da Giovanni Maria Barbieri: Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro da Messina e S'iu truvassi Pietati di Re Enzo, figlio di Federico. Tutte le altre poesie furono tradotte in fiorentino dai copisti toscani, che le conservarono in alcuni manoscritti, tra cui il Vaticano Latino 3793 e il Laurenziano Rediano 9. Nella storia della poesia, come scrive Mario Sansone "Non grande è l'importanza della scuola poetica siciliana, ma grandissima è la sua importanza nella storia della nostra cultura e nel formarsi della nostra lingua letteraria"[23].

La poesia nell'Italia settentrionale

Nell'Italia settentrionale nasce intanto un'interessante letteratura volgare a carattere didattico che si ispira sia alla tradizione provenzale che comprende l'enueg (ciò che produce fastidio) e il plazer (ciò che produce piacere), sia alla tradizione biblico-apocalittica, cioè alla letteratura escatologica dei XII secolo e XIII.
Tra i più rappresentativi autori si ricorda il cremonese Gherardo Patecchio, che scrisse un poemetto di ammaestramenti morali intitolato Slanamento de li proverbi de Salamone e un elenco in endecasillabi sui fastidi della vita dal titolo Noie, Uguccione da Lodi autore di un Libro composto in lingua veneta e in lasse monorime di versi alessandrini che tratta del giudizio divino, Giacomo da Verona che scrisse in dialetto veronese un poemetto diviso in due parti, De Ierusalem celesti e De Babilonia civitate infernali che vengono annoverati tra le fonti della Divina Commedia di Dante.

Ma tra i più validi e importanti scrittori del XIII secolo che scrissero in lingua lombarda si ricorda Bonvesin de la Riva per i suoi poemetti legati a esigenze didattiche, i suoi contrasti di carattere allegorico, ma soprattutto per il Libro delle tre scritture composto circa nel 1274, diviso in tre parti che ha come tema l'Inferno (scrittura nigra), la Passione di Cristo (scrittura rubra), il Paradiso (scrittura aurea). Il testo viene ritenuto il primo della letteratura in volgare lombarda e l'autore considerato tra i precursori di Dante.

La poesia popolare e giullaresca

Nella seconda metà del Duecento si diffonde nell'Italia del nord una letteratura in volgare in forma di ballata, solitamente anonima, dovuta soprattutto ai giullari e costituita da lamenti di giovani fanciulle che vogliono maritarsi, di donne mal maritate, di canti nuziali.
Da Mantova ci perviene una canzone anonima per danza, mentre da Milano o da Pavia il primo esempio di satira in volgare contro il villano intitolato il Detto di Matazone da Caligano.
Dal Veneto ci perviene invece il Lamento della sposa padovana e dall'Emilia e dalla Romagna diversi sirventesi di argomento politico-cittadino.
Dalla Toscana ci pervengono tre componimenti: una tenzone di argomento politico, una parodia della Passione e un sermone epitaffio attribuite al giullare Ruggieri Apuliese.

La Scuola toscana

Lo stesso argomento in dettaglio: Lirica toscana.

Con la morte di Federico II e del figlio Manfredi si assiste al tramonto della potenza sveva e anche l'esaurirsi della poesia siciliana. Dopo la Battaglia di Benevento l'attività culturale si sposta dalla Sicilia alla Toscana, dove nasce una lirica d'amore, la lirica toscana, non dissimile da quella dei poeti della corte siciliana ma adattata al nuovo volgare e innestata nel clima dinamico e conflittuale delle città comunali: sul piano tematico dell'amore cortese si affiancano nuovi contenuti politici e morali.

Vengono così ripresi in Toscana i temi della scuola siciliana e le ricercatezze di stile e di metrica propria dei Provenzali con l'arricchimento dato dalle nuove passioni dell'età comunale.

La poesia dei poeti toscani viene così ad arricchirsi sia dal punto di vista tematico che linguistico anche se viene a mancare "quel livello di aristocrazia formale a cui i siciliani riescono generalmente a mantenersi"[24].

Fanno parte del gruppo dei poeti toscani Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Monte Andrea, il fiorentino Chiaro Davanzati, Compiuta Donzella e molti altri di cui il più noto è Fra Guittone dal Viva da Arezzo.

Guittone d'Arezzo

Lo stesso argomento in dettaglio: Guittone d'Arezzo.

Il caposcuola dei toscani viene considerato Guittone del Viva d'Arezzo, nato verso il 1235 ad Arezzo e morto nel 1294, nel quale si può cogliere, come osserva Asor Rosa[25] "... un concetto della funzione della poesia più articolato di quello praticato dai siciliani e, forse, dagli stessi provenzali".

Guittone ci ha lasciato una vasta raccolta di rime (composta da 50 canzoni e 239 sonetti) nelle quali si rispecchiano i suoi due diversi modi di vita. Si può così dividere la sua opera in due parti: la prima, dove imita i poeti della scuola siciliana ed è dedicata all'amore e alle armi, la seconda di contenuto religioso e morale.

A Guittone si deve il primo esempio di canzone politica (Ahi lasso, or è stagion de doler tanto) scritta in seguito alla sconfitta che i guelfi fiorentini subirono nel 1260 a Montaperti per opera dei ghibellini nella quale, con il tono energico e veemente che si ritroverà in alcune pagine di Dante, egli lamenta la pace perduta utilizzando e alternando il sarcasmo con l'invettiva e l'ironia.

Ma il vero poeta lo si deve cercare nelle sue rime di carattere religioso e specialmente nella laude, come in quella dedicata a San Domenico scritta con lo schema della ballata sacra da lui inventata.

Sempre da attribuire a Guittone d'Arezzo è un Trattato d'amore in 12 sonetti e circa una trentina di Lettere. Tra i poeti più interessanti della scuola di Guittone, rimane il lucchese Bonagiunta Orbicciani al quale Dante nel canto XXIV del Purgatorio affida il compito di definire il nuovo modo di poetare con il nome di stilnovo.

Nacquero nel contempo, a Pistoia, a Pisa e a Firenze, altre scuole che si rifacevano in modo più o meno rigoroso a Guittone. Si ricordano Chiaro Davanzati, che nel suo Canzoniere anticipa i motivi dello stilnovo, il guelfo Monte Andrea, al quale si deve il più valido trobar clus fiorentino, e Dante da Maiano, che scrisse un Canzoniere in uno stile intermedio tra quello siciliano e quello guittoniano.
Non è stata provata la storicità della poetessa Compiuta Donzella alla quale vengono attribuiti, da un solo codice, tre sonetti.

Il Dolce Stil Novo

Dante Alighieri (Andrea del Castagno, Ciclo degli uomini e donne illustri)
Lo stesso argomento in dettaglio: Dolce Stil Novo.

«Il dolce stil novo va riportato, nella cultura, al sentimento che i poeti ebbero di una nuova poesia: sentimento vago, non ragionato pensiero. Va considerato come un'aura letteraria alimentata da una cultura sensibilissima ed eletta a forme elaborate ed eleganti, in una ispirazione meditata che ricerca la più intima voce dell'Amore, e cioè il senso riposto che sotto le parole è celato".[26]»

Tra la fine del XIII secolo e i primi anni del successivo nasce il Dolce Stil Novo, un movimento poetico che, accentuando la tematica amorosa della lirica cortese, la conduce ad una maturazione molto raffinata.

Nato a Bologna e in seguito fiorito a Firenze, esso diventa presto sinonimo di alta cultura filosofica e questo, come giustifica Sansoni[27], "... spiega perciò come i giovani poeti della nuova scuola guardassero con disprezzo, più che ai siciliani, ai rimatori del gruppo toscano, che accusavano di avere in qualche modo imborghesita la poesia e di mancare di schiettezza e raffinatezza stilistica ".

Il nome della nuova "scuola" si trae da Dante. Così afferma Natalino Sapegno[28] "È noto che Dante, incontrando, in un balzo del suo Purgatorio, il rimatore Bonagiunta Orbicciani, mentre ci offre il nome (da noi per convenzione ormai antica adottato) della scuola o gruppo letterario cui egli appartiene, definisce poi questo "dolce stil novo" uno scrivere quando "Amore spira".

Infatti nel XXIV canto del Purgatorio Bonagiunta Orbicciani di Lucca si rivolge a Dante chiedendogli se si trattasse proprio di

colui che fuore
Trasse le nuove rime, cominciando
"Donne ch'avete intelletto d'amore"

e Dante gli risponde senza dire il suo nome ma così definendosi:

I' mi son un che, quando
Amor mi ispira, noto; e a quel modo
Ch'e' ditta dentro, vo significando

ed è a questo punto che Bonagiunta risponde:

O frate, issa vegg'io... il nodo
Che il Notaro e Guittone e me ritenne
Di qua dal dolce stil novo ch'i' odo[29].

I poeti del "Dolce Stil Novo" fanno dell'amore il momento centrale della vita dello spirito e possiedono un linguaggio più ricco e articolato di quello dei poeti delle scuole precedenti.
La loro dottrina "toglieva all'amore ogni residuo terreno e riusciva a farne non un mezzo, ma il mezzo per ascendere alla più alta comprensione di Dio"[30].

L'iniziatore di questa scuola fu il bolognese Guido Guinizelli e tra gli altri poeti, soprattutto toscani, si ricordano i grandi come Guido Cavalcanti, Dante stesso, Cino da Pistoia e i minori come Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi.

Guido Guinizzelli

Lo stesso argomento in dettaglio: Guido Guinizzelli.

Considerato il fondatore del "dolce stil novo", di Guido Guinizzelli non si hanno dati anagrafici certi. Egli viene riconosciuto da alcuni nel ghibellino Guido di Guinizzello nato a Bologna tra il 1230 e il 1240, da altri con un certo Guido Guinizello, un podestà di Castelfranco Emilia.

Egli ci ha lasciato, con la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, quello che deve considerarsi il manifesto del "dolce stil novo" dove viene messa in evidenza l'identità tra il cuore nobile e l'amore e come la gentilezza stia nelle qualità dell'animo e non nel sangue. Egli riprende poi con accenti sublimi il concetto del paragone tra la donna e l'angelo, già valorizzato da Guittone d'Arezzo e da altri poeti precedenti.

Guido Cavalcanti

Lo stesso argomento in dettaglio: Guido Cavalcanti.

Nato a Firenze da una delle famiglie guelfe di parte bianca tra le più potenti della città, Guido Cavalcanti venne descritto dai suoi contemporanei "come cavaliere disdegnoso e solitario, tutto volto alla meditazione filosofica e quasi certamente seguace dell'averroismo"[31].
Fu amico di Dante Alighieri, che a lui dedicò la Vita Nova, e partecipò attivamente alla vita politica fiorentina sostenendo i Cerchi contro i Donati. Mandato in esilio a Sarzana il 24 giugno 1300 ritornò l'anno stesso in patria dove la morte lo colse alla fine di agosto del medesimo anno.

La canzone più famosa di Cavalcanti fu la teorica "Donna mi prega perch'io voglio dire", nella quale il poeta tratta dell'amore dandone un'interpretazione di carattere averroista, come sostiene Mario Sansone[32], l'amore è per il Cavalcanti un "processo dell'intelligenza che dalla "veduta forma" della donna estrae l'idea della bellezza, già posseduta in potenza, e se ne compenetra"[33] e non è, come per il Guinizelli, beatificante ma estremamente terreno e dà più dolori che gioie.

Stilnovisti minori

Accanto ai tre stilnvosti maggiori (Guinizzelli, Cavalcanti e Dante) vi furono altri quattro poeti appartenenti alla corrente del Dolce stil novo.
Lapo Gianni, scrittore di diciassette componimenti poetici giunti fino a noi, viene ricordato nel famoso sonetto di Dante "Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io": da questa si presume che Dante sia un amico intimo di Lapo, insieme a Cavalcanti.
Gianni Alfani, figura di ancora incerta attribuzione storica, viene ricordato soprattutto per la sua "Ballatetta dolente". Egli conosceva Guido Cavalcanti, come si può sapere da un suo sonetto ("Guido, quel Gianni ch'a te fu l'altrieri") ed ha composto un numero di rime assai ridotto rispetto a quello degli altri stilnovisti.
Dino Frescobaldi fu un poeta molto amato sia dai contemporanei[34] sia dai critici letterari moderni[35].
Amico intimo di Dante, il sommo poeta gli inviò i primi sette canti della sua maggior opera, e Dino glieli restituì pregando che continuasse l'opera.
L'ultimo stilnovista fu Cino da Pistoia, celebrato dalla critica come mediatore fra lo stile di Dante e quello di Petrarca[36] e maestro dello stesso Petrarca nella musicalità della poesia e nell'efficacia dell'uso del volgare.

La poesia comico-realistica

Accanto alla lirica cortese un posto di rilievo va assegnato alla poesia comico-realistica: chiaramente antitetica alla contemporanea spiritualità stilnovista, la corrente comico-realistica è giocosa e realista, coltiva il gusto dell'invettiva, della ribellione e della comicità che vanno a sostituire quello della bellezza ideale.

La storiografia letteraria ha coniato espressioni differenti per delineare una tendenza poetica caratterizzata dall'affrontare temi aderenti alla realtà e al quotidiano in chiave generalmente parodica: si parla di poesia borghese, poesia comico-realistica, poesia realistico giocosa. L'etichetta che indubbiamente risulta più esaustiva è "poesia comico-realistica" in quanto il binomio dà indicazioni sullo stile (comico, che i manuali di retorica contrapponevano a quello tragico. Lo stile comico consente l'uso del linguaggio triviale ed è adatto a trattare argomenti legati alla quotidianità e materialità) e sul contenuto (realistico).

Essa si diffonde in Umbria e in Toscana ed ebbe il suo centro a Siena. Tra i poeti maggiori si ricordano Rustico di Filippo, che ha lasciato 58 sonetti nei quali si avverte la lezione siculo-guittoniana ma anche originali temi legati al genere comico, Meo de' Tolomei autore di alcuni sonetti a carattere caricaturale e il giullare aretino Cenne della Chitarra che scrisse canzoni ispirate alla vita rustica. Ma i due poeti più significativi della poesia comico-realistica furono Cecco Angiolieri, Folgore da San Gimignano.

È questa una corrente che si riallaccia ad una tradizione di derivazione mediolatina, quella della poesia goliardica che si era diffusa nel XII secolo in Francia, in Germania e in Italia, ma anche al fabliau.

Essa si ispira a temi realistici (l'amore come vibrazione di sensi, la donna come creatura terrena) e a motivi anticortesi (l'esaltazione del denaro, del gioco, della taverna e del piacere). L'effetto parodico è appunto ottenuto dalla celebrazione dei valori opposti a quelli stilnovisti e cortesi. La donna non è figura angelica, spirituale; l'amore non è esperienza platonica, decarnalizzata ma l'amore è celebrato in quanto valore terreno, da consumarsi.

Anche il linguaggio è quello quotidiano con la ricerca della parola efficace e colorita assoggettato all'utilizzo del rinfaccio e del vituperium, con un frequente uso al discorso diretto e all'uso di un gergo che si può definire "furfantesco".

La letteratura in prosa

Il Tesoro, libro I

Il peso della prosa latina e francese (considerate lingue più adatte alla composizione letteraria) è ancora molto forte in questo periodo per cui la prosa in volgare, rispetto alla poesia, subì un certo ritardo.

Il primo a fornire i nuovi modelli per il volgare fu il grammatico bolognese Guido Faba che comprese l'importanza che la lingua volgare stava acquisendo nella vita quotidiana e in quella politica.

Nel corso del Trecento si forma una raccolta di novelle scritte in volgare fiorentino, di autore anonimo, intitolato il Novellino con finalità morali e pedagogiche.

Tra gli altri prosatori in volgare di questo periodo si ricordano Salimbene de Adam, un frate francescano di Parma, che scrisse numerose cronache in un latino colto e nello stesso tempo popolare che accoglieva anche numerose forme di lingua lombarda e di lingua Emiliana; Jacopo da Varazze, frate domenicano diventato nel 1292 vescovo di Genova che scrisse in latino una raccolta che venne presto diffusa in versione volgarizzata; Brunetto Latini, senza dubbio la figura principale tra i prosatori duecenteschi che scrisse in lingua d'oil il Tesoro (Li livres dou Trésor), un testo enciclopedico che tradotto in seguito in volgare ebbe due versioni e che Dante considerò una fonte preziosa per la sua Commedia citandolo come maestro ideale nel XV canto dell'Inferno, e il Tesoretto ricalcando il modello del Roman de la rose; Bono Giamboni compilò un'opera a carattere allegorica-didascalica, Il libro de' vizi e delle virtudi creando la prima opera dottrinale autonoma.

Le prose dottrinali e morali

Cospicui sono gli scritti che vengono composti in volgare e in francese di carattere dottrinale e morale come il "Libro della composizione del mondo" di Restoro d'Arezzo, una specie di moderno trattato di geografia e di astronomia, il "Liber de regimine rectoris" di fra' Paolino Minorita scritto in volgare veneziano seguendo il modello latino e francese che riporta suggerimenti di carattere morale per coloro che governano, il "Trésor" di Brunetto Latini scritto in francese e dello stesso autore il poema allegorico-didattico rimasto incompiuto intitolato "Il Tesoretto".

Molte prose del Duecento sono in prevalenza tradotte dal francese e hanno carattere morale come i "Dodici canti morali", i "Disticha Catonis" e i trattati di Albertano da Brescia tradotti in volgare da Andrea da Grosseto nel 1268 e dal pistoiese Soffredi del Grazia nel 1278. Il volgarizzamento di Andrea da Grosseto lo si può definire la prima opera in prosa in lingua italiana, poiché l'intento del grossetano era di utilizzare una lingua nazionale, unificatrice, comprensibile in tutta la Penisola, una lingua che lui definisce per l'appunto italica[37].

Altri esempi si trovano nel florilegio il "Fiore di virtù" che per tradizione si attribuisce ad un "frate Tommaso" di Bologna, e nell'"Introduzione alla virtù" di Bono Giamboni.

Le prose retoriche

Di maggiore valore letterario sono alcune opere di carattere retorico che vedono un innalzamento dell'espressione letteraria e un certo sforzo artistico nel raffinare le forme dialettali come nella "Rettorica" di Brunetto Latini, nel "Fiore di rettoricas" erroneamente attribuito a Guidotto da Bologna ma opera di Bono Giamboni[38] e soprattutto le trentasei "Lettere" di Fra Guittone d'Arezzo, di carattere morale giudicate "notevoli perché Guittone mira in esse a fondare una prosa letteraria, basandosi sulla retorica medievale e applicando alla prosa volgare il cursus dello stile romano e i modi dello stile isidoriano"[39].

La novellistica

Fanno parte della novellistica e hanno uno stile linguistico di una certa originalità il Libro de' sette savi e il Novellino.
Il "Libro de' sette savi" è la traduzione volgarizzata dal francese di una raccolta composta da quindici novelle nata in India e in seguito tradotta e rielaborata in latino e in altre lingue orientali ed europee, mentre il Novellino o "Le cento novelle antiche" è una silloge di cento brevi novelle che contengono racconti biblici, leggende cavalleresche o di carattere mitologico scritte da un autore ignoto verso la fine del secolo.

La storiografia

Una pagina di un manoscritto del Milione.

Anche nelle opere a carattere storiografico gli scrittori di questo periodo utilizzano la lingua francese insieme al volgare e seguono un modello tradizionale che era quello della narrazione di una città dalle origini, di solito leggendarie e a volte fantastiche che però possiedono vicende di un certo interesse storiografico. Ne è un esempio la "Cronique des Veniciens" di Martino Canal redatta in francese che va dalle origini della città al 1275, la "Cronichetta pisana" scritta in volgare e la cronaca fiorentina di Ricordano Malispini che narra le origini leggendarie di Firenze e arriva fino all'anno 1281.
Tra le opere storiche si è soliti tenere in considerazione Il Milione di Marco Polo che narra i racconti di viaggio fatti in Estremo Oriente dal 1271 al 1295 e da lui dettati in francese a Rustichello da Pisa nel 1298 mentre ambedue erano prigionieri nel carcere di Genova.

Tra Duecento e Trecento: Dante Alighieri

Lo stesso argomento in dettaglio: Dante Alighieri.
Dante in un affresco di Luca Signorelli

«Non v'è dubbio che (Dante Alighieri) rappresenti la sintesi suprema delle fondamentali tendenze spirituali ed artistiche di questa età»

Tutta la letteratura del secolo XIII viene sintetizzata nelle sue linee fondamentali da Dante Alighieri e, come scrive Giulio Ferroni[41], crea allo stesso tempo modelli determinanti per tutta la letteratura italiana. La sua formazione culturale e la sua prima esperienza di poeta del "dolce stil novo" si svolgono nell'ultimo scorcio del secolo XIII, ma la maggior parte delle sue opere (compresa la Commedia) vengono scritte nel primo ventennio del secolo XIV.

Dante nacque a Firenze nel maggio del 1265 da una famiglia guelfa di modeste condizioni sociali anche se appartenente alla piccola nobiltà. Imparò l'arte retorica da Brunetto Latini e l'arte del rimare da autodidatta e la poesia rimarrà sempre il centro della sua vita.

«... e con ciò fosse cosa che io avessi già veduto per me medesimo l'arte del dire parola in rima, propuosi di fare un sonetto»

Le prime poesie di Dante risentono dello stile guittoniano ma, dopo la conoscenza di Guido Cavalcanti, egli scoprì un nuovo modo di far poesia.

La "Vita Nuova"

Lo stesso argomento in dettaglio: Vita Nuova.

Secondo le indicazioni che Dante stesso ci ha lasciato nel "Convivio", egli compose la Vita Nuova nel 1293, tre anni dopo la morte di Beatrice.
È questa un'opera in versi mista di prosa e poesia che contiene venticinque sonetti, quattro canzoni, una ballata ed una stanza oltre che alcune prose atte a spiegare il perché di certa divisione nelle poesie o a narrare i fatti che furono la causa della loro composizione. In essa Dante racconta il suo amore per Beatrice dal primo incontro sino agli anni che seguono la morte della donna.

Le "Rime"

Lo stesso argomento in dettaglio: Le Rime.

Le Rime contengono tutte quelle composizioni poetiche che ci sono pervenute senza un ordine preciso e in seguito ordinate dai critici moderni. Fanno parte delle rime poesie giovanili che risentono della scuola guittoniana o dell'influenza del Cavalcanti ma anche di carattere già personale e stilnovista e molte canzoni di carattere allegorico e didattico.

Il "Convivio"

Lo stesso argomento in dettaglio: Convivio.

Il Convivio venne composto tra il 1304 e il 1307 e nelle intenzioni di Dante doveva consistere in un trattato enciclopedico composto da quindici libri dei quali uno d'introduzione e gli altri come commento a quattordici canzoni di carattere allegorico. In realtà il poeta ne compose solamente quattro: l'introduzione e il commento alle canzoni "Voi che intendendo il terzo ciel movete", "Amor che nella mente mi ragiona", "Le dolci rime d'amor ch'io solia".

Il "De vulgari eloquentia"

Lo stesso argomento in dettaglio: De vulgari eloquentia.

L'opera intitolata il De vulgari eloquentia, composta da Dante negli stessi anni del Convivio, è un trattato rimasto incompiuto come il "Convivio". Esso doveva essere composto almeno di quattro libri ma il poeta scrisse solamente il primo e quattordici capitoli del secondo. In esso viene trattata l'origine del linguaggio, si discute delle lingue europee e in modo particolare di quelle romanze e viene fatta una classificazione in quattordici gruppi dei dialetti di tutta la penisola.

Il "De Monarchia"

Lo stesso argomento in dettaglio: De Monarchia.

Il De Monarchia, quasi certamente composto tra il 1312 e il 1313 è un'opera composta da tre trattati scritti in lingua latina dove il poeta vuole dimostrare la necessità di una monarchia universale per mantenere il benessere nel mondo (libro I), dove afferma che a buon diritto l'ufficio dell'impero l'ha conquistato il popolo romano (libro II) e che direttamente da Dio nasce la monarchia temporale (libro III).
L'opera, pur rappresentando la piena maturità del pensiero politico di Dante non è, come sostiene Mario Sansone[42] "... un trattato di tecnica politica - e Dante ripugnava ai problemi della pura scienza - ma una religiosa interpretazione del destino degli uomini nella loro umana convivenza e delle leggi e dei principi che Dio ha disposti a governo e reggimento di essa".

Le "Epistole"

Lo stesso argomento in dettaglio: Epistole (Dante Alighieri).

Sotto il nome di Epistole sono raccolte tredici lettere scritte in latino da Dante a personaggi illustri del suo tempo nelle quali tratta i temi importanti della vita pubblica.

Le "Egloghe"

Lo stesso argomento in dettaglio: Egloghe (Dante Alighieri).

Le Egloghe sono due componimenti in latino scritti a Ravenna tra il 1319 ed il 1320 in risposta a Giovanni del Virgilio, un professore dell'università bolognese, che gli aveva indirizzato un carme nel quale lo invitava a non perdersi con la lingua volgare e a scrivere qualcosa nella lingua dotta per poter ottenere l'alloro per la poesia. Dante ammette di desiderare il riconoscimento poetico ma afferma che desidera conquistarlo con il poema in volgare che sta scrivendo.

La "Quaestio de aqua et terra"

La "Quaestio de aqua et terra" è un trattato di carattere scientifico letto a Verona davanti al clero nel gennaio del 1320 nel quale Dante, per confutare un passo di Aristotele, sostiene la tesi che nel globo le terre emerse sono più alte delle acque.

La "Divina Commedia"

Dante e il suo poema Affresco di Domenico di Michelino a Santa Maria del Fiore, Firenze (1465)
Lo stesso argomento in dettaglio: Divina Commedia.

La Divina Commedia è un poema di carattere didattico-allegorico sotto forma di visione scritto in lingua volgare toscana in terzine incatenate di versi endecasillabi.
Esso è composto da 100 canti e suddiviso in tre cantiche di trentatré canti più il canto di introduzione della prima cantica.
La data precisa che possa indicare quando Dante iniziò a scrivere il poema non è reperibile da nessun documento, ma molti sono gli studiosi propensi a credere che esso venne iniziato a partire dal 1307 durante l'esilio del poeta e che la cantica dell'Inferno e quella del Purgatorio siano state composte prima dell'aprile 1314 mentre il Paradiso sia da attribuire agli ultimi anni di vita di Dante. Natalino Sapegno afferma[43] che "... essa fu iniziata concretamente negli anni dell'esilio - come par probabile, circa il 1307 -... ed è assai probabile che (secondo un indizio offerto dalla Vita di Dante del Boccaccio) il poeta ricuperasse da Firenze nel 1306, mentre dimorava presso i Malaspina, parti di un'opera in lode di Beatrice da lui incominciata prima dell'esilio... è certo che prima dell'aprile 1314 si poteva discorrere di un libro "quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat", come di opera già pubblicata e diffusa. È da supporre pertanto che l'Inferno e il Purgatorio fossero divulgati entrambi poco dopo la morte di Arrigo VII, e che soltanto il Paradiso sia stato composto negli ultimi anni della vita di Dante; contro l'opinione di quei critici che credono doversi attribuire tutt'intera la composizione del poema agli anni dopo il 1313".

Il Trecento

Nel secolo XIV le tendenze sociali e politiche che si erano fatte sentire nel secolo precedente si esasperano fino a vedere la decadenza dell'Impero e della Chiesa mentre si assiste all'affermarsi di una nuova spiritualità che, come scrive Mario Sansone[44], "... consiste nel senso sempre più energico degli interessi e dei valori mondani e terreni, non in contrapposizione a quelli religiosi e oltremondani, ma sciolti da quelli e viventi nella loro autonomia. Declinava il Medioevo in tutti i suoi aspetti: il papato e l'impero, espressioni eminenti di una particolare concezione e interpretazione della storia, tramontavano. Gli imperatori perdevano sempre più il senso della loro autorità universale, e i papi, in Avignone, avevano tolto vigore alla idea di Roma considerata solo come centro di cristianità, e sorgeva, per contro, sempre più viva l'idea di una missione laica di Roma, da ricongiungersi alla sua grandezza antica".
Nasce così una nuova cultura che si baserà su uno studio attento e preciso dell'antichità classica, sempre più libera da preconcetti di carattere intellettualistico e intenzionata ad allargare ogni forma di pensiero.

I due scrittori che in questo periodo "meglio testimoniano nelle loro opere la complessa fase di trasformazione culturale, sociale e politica del Trecento"[45] e che rappresentano, nella letteratura italiana, un momento di passaggio tra l'età medievale e l'Umanesimo sono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.

Francesco Petrarca

Lo stesso argomento in dettaglio: Francesco Petrarca.
Ritratto di Francesco Petrarca, Altichiero, 1376 circa

Con Francesco Petrarca si apre, nella cultura dell'Italia e dell'Europa, una nuova epoca. Egli, come scrive il Sapegno, può infatti essere considerato il "padre spirituale" dell'Umanesimo essendo in lui "già fortissimo il desiderio di conoscere gli antichi, di raccogliere in gran numero le opere, di trarre dall'oblio quelle che giacevan sepolte nella polvere delle biblioteche monastiche"[46].

La vita e le opere

Figlio di un notaio di Firenze che aveva dovuto esiliare ad Avignone con la famiglia e aveva trovato lavoro presso la corte papale, Francesco Petrarca crebbe quindi lontano dalla società comunale italiana e questo "distacco tanto fortuito quanto fortunato", come sostiene Asor Rosa, lo abituò "a guardare alle cose da un punto di osservazione che trascendeva i localismi e i regionalismi italiani per diventare il punto d'osservazione della Cultura in quanto tale"[47].

Gli studi

Francesco, insieme al fratello minore Gherardo, venne avviato dal padre agli studi giuridici dapprima a Montpellier e in seguito a Bologna che veniva considerato il maggior centro di studi europeo. Egli si applicò con serietà agli studi e ampliò in quel periodo la sua cultura latina ma nel 1326, alla morte del padre, ritornò con il fratello ad Avignone deciso ad abbandonare gli studi di diritto civile.
Il 6 aprile del 1327 incontrò una giovane donna di nome Laura, la cui identità è sempre rimasta sconosciuta, e se ne innamorò. Da questo amore nasceranno molte delle sue liriche in volgare e alcune poesie in latino.

Il periodo mondano e la carriera ecclesiastica

Verso il 1330, dopo aver trascorso quegli anni in modo spensierato e mondano, Francesco si rese conto che era necessario trovarsi un'occupazione e decise di intraprendere la carriera ecclesiastica che a quei tempi dava la possibilità di inserirsi nell'ambiente dei dignitari della corte papale. Nell'autunno del 1330 divenne così cappellano di famiglia del cardinale Giovanni Colonna e nel 1335 gli venne concessa dal papa Benedetto XII la canonica di Lombez.
Nel dicembre del 1336 si recò a Roma ospite del vescovo Giacomo Colonna e al suo rientro ad Avignone, colto da una crisi morale e religiosa, acquistò una piccola casa in Valchiusa sulla riva della Sorga dove, lontano dal clamore della grande città, si dedicò alla composizione delle sue opere migliori.

Lo stesso argomento in dettaglio: De viris illustribus (Petrarca) e Africa (Petrarca).

Risalgono a questo periodo, oltre a numerose liriche che saranno in seguito incluse nel Canzoniere, il De viris illustribus, una raccolta di biografie dei romani illustri da Romolo a Cesare e l'inizio del poema epico in esametri dedicato a Scipione l'Africano intitolato Africa.

L'incoronazione a poeta

Raggiunta ormai la fama e desideroso di ottenere un riconoscimento letterario per le sue opere progettò di farsi incoronare poeta e, invitato sia dal Senato romano che dall'Università di Parigi, accettò l'invito da Roma dove l'8 aprile del 1341, dopo essere stato per tre giorni a Napoli per essere esaminato dal re Roberto d'Angiò, venne incoronato con l'alloro in Campidoglio dal senatore Orso dell'Anguillara.

Il periodo della crisi

Al ritorno da Roma si fermò a Parma ospite di Azzo da Correggio dove trascorse, alternandolo con il soggiorno sulle colline di Selvapiana, l'autunno e l'estate del 1341 portando a termine la prima stesura dell'"Africa".

Lo stesso argomento in dettaglio: Secretum.

Nel 1342 fece ritorno ad Avignone e nel 1343 iniziò a scrivere il Secretum, un'operetta sotto forma di dialogo tra il Petrarca stesso e Sant'Agostino nel quale "ci ha lasciato la più compiuta e sincera confessione dei suoi intimi contrasti"[48] e compose le preghiere scritte in versetti latini seguendo il modello dei salmi della Bibbia, intitolate i "Psalmi poenitentiales" nei quali invoca l'aiuto di Dio per superare lo stato di smarrimento in cui si trova.

Giovanna d'Angiò regina di Napoli

Nel settembre del 1343 fece ritorno in Italia e si recò dapprima a Napoli presso la regina Giovanna d'Angiò con l'incarico di ambasciatore del papa Clemente VI dove continuò a scrivere i libri del Rerum memorandarum che, rimasti incompiuti, dovevano essere, nell'intenzione dell'autore, un elenco strutturato di episodi e aneddoti storici inseriti in specifiche categorie che riguardavano particolari virtù morali.

Lo stesso argomento in dettaglio: De vita solitaria, De otio religioso e Bucolicum carmen.

In seguito si recò a Modena, a Bologna e a Verona e nel 1345 ritornò in Provenza dove rimase per due anni quasi sempre in Valchiusa dove scrisse per Philippe de Cabassoles il trattato De vita solitaria e il De otio religiosorum per il fratello Gherardo che era entrato nell'ordine monastico dei certosini.
Scrisse in questo periodo delle egloghe latine che verranno in seguito raccolte nel Bucolicum carmen e in una di esse spiega il perché della sua decisione di dimettersi dal servizio presso il cardinale Colonna e di far ritorno in Italia.

Entusiasmatosi per la tentata riforma politica di Cola di Rienzo partì nel 1347 diretto a Roma ma a Genova lo accolse la notizia che gli eventi erano degenerati e così egli iniziò a peregrinare per varie città e a Parma gli giunse la notizia della morte di Laura.
Era infatti scoppiata nel 1348 la peste e a causa di essa morirà il suo protettore, il cardinale Colonna, e tanti suoi amici.

Lo stesso argomento in dettaglio: I Trionfi.

Aveva intanto scritto precedentemente due dei Trionfi, quello di Amore e quello della Castità e in questo periodo scriverà quello della Morte oltre a riordinare le poesie italiane nel Canzoniere aggiungendone delle nuove, a raccogliere le sue lettere nel libro delle Familiari che faceva precedere da una dedica all'amico Ludwig von Kempen e ad iniziare la raccolta delle Epistole metriche dedicate a Barbato da Sulmona.

Il trasferimento in Italia

Nell'autunno del 1350 si recò a Roma per il giubileo dopo aver sostato a Firenze dove conobbe Boccaccio, rivide Francesco Nelli, Zanobi da Strada e Lapo da Castiglionchio. Nel giugno del 1351 ritornò per breve tempo ad Avignone e nel 1353 ritornò in patria che in seguito abbandonò solo in rare occasioni. Dal 1353 al 1361 rimane a Milano presso i Visconti e per loro compì diverse missioni diplomatiche.

Lo stesso argomento in dettaglio: De remediis utriusque fortunae.

A Milano il Petrarca scrisse il De remediis utriusque fortunae e molte nuove liriche e lettere iniziando la revisione del Canzoniere e delle raccolte epistolari la cui elaborazione durò a lungo.

Lo stesso argomento in dettaglio: Epistole.

Come scrive Sapegno[49] "ad introdurci nell'esame della personalità petrarchesca giovano anzitutto moltissimo le raccolte epistolare dello scrittore, dalle quali tante notizie si possono desumere della sua vita e anche dei suoi affetti e del suo pensiero".

Tra il 1361 e il 1370 Petrarca abitò in parte a Padova e in parte a Venezia ma i suoi ultimi anni furono amareggiati per la morte del figlio Giovanni e del nipotino Francesco, figlio della figlia Eletta.

Durante quegli anni egli continuò la corrispondenza con Boccaccio e si occupò seriamente della revisione delle sue opere rinsaldando i rapporti di amicizia con l'allora signore di Padova Francesco Carrara e nel 1368, dietro sua insistenza, si trasferì in quella città.

Nel 1370, fattosi costruire una casa ad Arquà sui colli Euganei, andò ad abitarci con la figlia Francesca, Eletta e il marito, accogliendo con gioia le visite di Francesco da Carrara e degli altri amici.

Lo stesso argomento in dettaglio: Canzoniere e I Trionfi.

Durante gli ultimi anni della sua vita si dedicò alla trascrizione del Canzoniere, la raccolta di rime che vennero scritte in vari periodi della sua vita, terminò il poema allegorico scritto in terzine intitolato I Trionfi che venne pubblicato dopo la morte dell'autore e concluse i "Seniles".
Ad Arquà lo colse la morte il 9 luglio del 1374 e secondo il suo desiderio ricevette onoranze funebri solenni alla presenza del signore di Padova.

Giovanni Boccaccio

Ritratto di Giovanni Boccaccio da una stampa del XIX secolo
Lo stesso argomento in dettaglio: Giovanni Boccaccio.

"Boccaccio, come Petrarca, è consapevole del valore della cultura classica latina e greca, sentita come stimoli ad una nuova civiltà, e anch'egli usa e perfeziona il volgare che, nella sua prosa, assume una grandissima varietà di toni e ricchezza di vocaboli e di strutture sintattiche"[50].

La vita e le opere

Figlio illegittimo di Boccaccio di Chellino, un mercante della compagnia dei Bardi di Firenze, Giovanni nacque, come concordano i critici contemporanei, a Certaldo e a soli dodici anni venne inviato dal padre a Napoli perché imparasse l'arte della mercatura. Ma a Giovanni, che non aveva attitudini pratiche, non piaceva quel tipo di occupazione e a diciotto anni il padre gli permise finalmente di seguire altri studi. Iniziò così, sempre su volere paterno, a studiare diritto canonico, studi che però seguì con poco entusiasmo mentre, da solo, si faceva un'ampia cultura leggendo soprattutto i classici latini e la letteratura contemporanea francese.

Il periodo napoletano e le opere d'influenza dantesca

Era quello il tempo della monarchia di Roberto d'Angiò dove "le influenze culturali che vi s'intrecciavano erano ricche e molteplici, e di ordine artistico e figurativo, oltre che letterario"[51] e presto il giovane Boccaccio, ammesso alla corte del re, fece amicizia con personalità dotte, come l'astronomo genovese Andalò del Negro e il bibliotecario reale Paolo Perugino e in quel mondo ricco di cultura e di splendori egli si trovò perfettamente a suo agio.

Lo stesso argomento in dettaglio: Filocolo, Filostrato (Boccaccio) e Teseida.

Al periodo napoletano risalgono le sue prime opere tra le quali il romanzo in prosa il Filocolo, il poema in ottave intitolato il Filostrato, che prende lo spunto da un episodio del "Roman de Troie" di Benoît de Sainte-Maure e un altro poema sempre in ottave, il Teseida, che si basava sul modello dell'Eneide di Virgilio e della Tebaide di Stazio.

Il periodo fiorentino e le opere erudite

Nel 1340 il Boccaccio, richiamato dal padre che aveva subito gravi danni economici in seguito al fallimento della Banca dei Bardi, dovette fare ritorno a Firenze e degli anni successivi si sa molto poco di quanto gli accadde.
Si ha notizia di un suo soggiorno a Ravenna presso la corte di Ostasio da Polenta e a Forlì nel 1347 o all'inizio del 1348 presso Francesco degli Ordelaffi.
Nel 1349, per la morte del padre, egli fece ritorno a Firenze se, come suggerisce il Sansone[52], "... non v'era già tornato nell'anno precedente per vedere con gli occhi suoi, come afferma nell'introduzione al Decameròn, gli orrori della peste".

Lo stesso argomento in dettaglio: Amorosa visione e Comedia delle ninfe fiorentine.

Al periodo del ritorno a Firenze risalgono due opere, composte tra il 1341 e il 1342, che risentono, come le precedenti, dell'influenza dantesca e che esaltano l'amore per Fiammetta, come il poema composto da cinquanta canti in terzine intitolato l'"Amorosa visione" e la "Comedia delle ninfe fiorentine" " detto anche Ninfale d'Ameto, una narrazione mista di prosa e di canti in terzine.

Lo stesso argomento in dettaglio: Elegia di Madonna Fiammetta.

Senza dubbio migliore è l'opera l'"Elegia di Madonna Fiammetta", scritta tra il 1343 e il 1344, una narrazione in prosa che racconta del suo infelice amore per la donna nella quale è stata vista, da alcuni critici, un forte risvolto psicologico anche se, come ammette Asor Rosa[53], "... il giudizio di De Sanctis, che la definisce "una pagina di storia intima dell'anima umana, colta in una forma seria e diretta", pecchi di un'involontaria anticipazione, colorandone i contorni quasi si trattasse di un romanzo psicologico del secondo Ottocento, cospicuo è effettivamente il tentativo di obiettivazione che il Boccaccio vi compie nei confronti della materia assai complessa ed autobiograficamente pressante della sua ispirazione". Tra il 1343 e il 1354 Boccaccio scrisse l'ultima delle sue opere composte prima del Decamerone, senza dubbio tra le migliori tra le sue opere minori. Si tratta di un'opera scritta sotto forma di poema in 473 ottave dal titolo il Ninfale fiesolano che prende spunto da una favola sulle origini di Fiesole e di Firenze.
Alle opere minori, e forse ancora risalente al periodo napoletano, si deve aggiungere il breve poema composto in terzine dal titolo Caccia di Diana e l'opera in prosa il Corbaccio composta in anni difficilmente databili (anche se ultimamente Giorgio Padoan[54] la colloca con una certa sicurezza nel 1365), che, pur non avendo particolare valore artistico, segna il momento che precede nella vita dello scrittore la sua crisi religiosa.

Composte in un lungo arco di tempo sono le Rime che, seguendo lo schema del tempo, alterna alle liriche d'amore quelle di devozione e di pentimento nelle quali egli, pur riprendendo i temi del "Dolce stil novo", usa accenti e stile che risentono di un nuovo realismo.

Il Decamerone
Lo stesso argomento in dettaglio: Decamerone.
I dieci giovani protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool

Intesa a ragion di critica l'opera della piena maturità del Boccaccio è il Decamerone composta tra il 1348 e il 1353, una serie di cento novelle che, inserite in un'originale cornice narrativa, rimangono unite dallo stesso stato d'animo che "è l'amore della vita nella pienezza del suo essere e svolgersi, guardata col cuore sgombro da ogni preoccupazione morale e religiosa, e con una esultanza cordiale per il suo bel fiorire: la vita che è gioco e vicenda della fortuna, vicenda or lieta e ilare ora drammatica e persino tragica"[55].

Gli incarichi presso le corti

Il poeta intanto aveva acquistato grande fama e gli venivano affidate, anche per le sue doti di eloquenza, prestigiosi incarichi da ambasciatore presso le varie corti.
Nel 1350 venne inviato presso i signori di Romagna, nel 1351 nel Tirolo presso il marchese di Brandeburgo, Ludovico di Wittelsbach e ancora, nel 1354 presso il papa Innocenzo VI ad Avignone e nel 1365 - 1367 a Roma presso Urbano V.

Due sono in questo periodo i fatti importanti nella vita del Boccaccio: l'amicizia con il Petrarca e la crisi religiosa del 1362.

L'influenza del Petrarca

La conoscenza del Petrarca che egli ammirava fin dagli anni giovanili, avvenne per la prima volta a Firenze nel 1350 e il Boccaccio ebbe l'occasione di rivederlo l'anno seguente a Padova, nel 1359 a Milano e nel 1363 a Venezia.
Con il Petrarca egli tenne una costante e affettuosa corrispondenza e quando nel 1374 il poeta morì ne pianse la scomparsa con parole di sincera commozione.

La crisi religiosa e le opere erudite

Sopraggiunsero intanto pesanti ristrettezze economiche e sofferenze fisiche che lo lasciarono in uno stato di gran malinconia gettandolo in una profonda crisi religiosa. In questo periodo egli si diede con grande intensità a studi di carattere soprattutto morale, religioso e ascetico. Alla fine del 1362, anno della crisi, il poeta si recò a Napoli per cercare una sistemazione ma rimase deluso sia dall'accoglienza poco calorosa dell'Acciaiuoli, sia nel vedere la città tanto cambiata dopo le guerre civili che aveva subito.

Gli ultimi anni della vita il Boccaccio li visse tra Certaldo e Firenze dove si dedicò allo studio dei classici antichi e di Dante e iniziò anche lo studio dei greci con l'aiuto di Leonzio Pilato, un erudito grecista che aveva lo studio a Firenze.

Nell'animo di Boccaccio si ritrovano pertanto tutti gli aspetti dell'Umanesimo italiano, da quello filologico a quello retorico e stilistico e spirituale tanto che egli avverte, come scrive il Sansone[56], "... l'ufficio della poesia, e più generalmente, il senso della vita in modo nuovo e fresco".

Tra le sue opere di carattere erudito si ricordano il "Bucolicum carmen" scritto tra il 1351 e il 1366 composto da sedici egloghe nelle quali egli riporta molti degli avvenimenti contemporanei e della sua vita; il "De casibus virorum illustrium" di carattere morale, scritto tra il 1356 e il 1374 nel quale tratta di tutti quei personaggi, a partire da Adamo, che sono precipitati da una condizione felice ad una misera; il "De claris mulieribus", composto negli stessi anni della precedente opera, che consiste in un trattato biografico di donne famose, da Eva alla regina Giovanna I e un'opera di carattere geografico, il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris scritto negli anni che vanno dal 1362 al 1366 nel quale, prendendo in esame molti nomi geografici ritrovati nelle opere dei classici, ne fornisce ampie informazioni.

Il maggiore tra i suoi trattati eruditi è comunque il Genealogia deorum gentilium, opera composta da quindici libri che formano una vera enciclopedia mitologica e che dimostrano per quei tempi un'erudizione veramente straordinaria e che, oltre a contenere la sua poetica, vi è anche la difesa dell'opera e in genere l'autodifesa dell'autore in quanto raccoglitore e narratore di favole[57].

L'influenza di Dante, che già si avvertiva nelle sue prime opere, ora si fa fortemente sentire nell'opera compiuta tra il 1357 e il 1362 intitolata Trattatello in laude di Dante dove il Boccaccio esalta le doti morali ed intellettuali del grande poeta e nel "Commento alla Commedia".

Nel 1373 gli venne dato l'incarico di leggere e commentare davanti al pubblico la "Commedia". Le lezioni, che egli tenne nella Chiesa di Santo Stefano di Badia, dovettero però essere interrotte prima del commento del 17º canto dell'"Inferno" a causa dell'acutizzarsi della malattia che lo costrinse a ritirarsi a Certaldo dove morirà il 21 dicembre del 1375.

Gli scrittori minori

Come scrive Natalino Sapegno[58] "Il Trecento è caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in cui acquista un rilievo predominante l'esperienza della lirica d'amore, dai siciliani agli stilnovisti, riflessa in forma consapevole nella dottrina del De vulgari eloquentia), dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme più dispersiva e obbediente a molte sollecitazioni discordanti".

La lirica

Il valore poetico della lirica prodotta in questo secolo, senza tenere ovviamente in considerazione il Petrarca, è assai scarso e, se pur si avverte lo sforzo di conservare lo stile del "Dolce stil novo", si avverte che essa è "svuotata della sua sostanza più intima"[59].

Lo stesso argomento in dettaglio: Cino Rinuccini e Fazio degli Uberti.

A distinguersi tra i numerosi rimatori aulici di questo periodo sono, ad inizio secolo il pisano Fazio degli Uberti per le canzoni politiche e soprattutto per le rime d'amore nelle quali si mescola l'influsso della poesia stilnovistica, provenzale, petrarchesca e di quella delle rime pietrose di dante; il padovano Matteo Correggiaio e, sul finire del secolo, il fiorentino Cino Rinuccini, la cui poesia risente dell'influsso di Dante, oltre che del modello petrarchesco.

Tra i vari rimatori di questo periodo molti sono i rimatori di corte, soprattutto nell'Italia settentrionale, che possiedono scarsa ispirazione e poca cultura, che errano da un signore all'altro mettendo al loro servizio la poesia non tanto corredata da sentimenti profondi ma da propositi di adulazione.

Tra questi rimatori si distingue Antonio Beccari di Ferrara, del quale ci sono giunte alcune rime di carattere amoroso e politico, tre frottole di stile giullaresco e alcune liriche di stile confessionale e Francesco di Vannozzo di Padova che visse nella seconda metà del secolo presso alcune corti, come quella dei Carraresi, degli Scaligeri e dei Visconti e che ci ha lasciato tra le sue rime politiche otto sonetti sotto il nome di Cantilena pro comite Virtutum, alcune rime autobiografiche a carattere di confessione, quattro frottole e alcuni sonetti d'amore che, pur riprendendo lo stile petrarchesco in modo grossolano, non mancano di freschezza di sentimenti.

La letteratura in prosa e in versi

Anche nella seconda metà del secolo XIV Firenze rimane un centro di viva cultura dove fiorisce una letteratura in prosa e in versi più che altro di genere confessionale, fatto di riflessioni, di aneddoti e di ammonimenti che ha tra gli autori degni di essere menzionati il campano Antonio Pucci che ci ha lasciato, in una metrica popolare e dal lessico brioso, una vasta e varia opera che comprende sonetti, serventesi quaternari, capitoli e cantari che possiedono "una vena ingenua e fresca di poesia e una certa attitudine a risentire e riprodurre i semplici affetti del popolo in mezzo al quale e per il quale scriveva"[60]. Nel Pucci si ravvisa l'influenza di Dante il cui culto è ormai molto vivo in Toscana e non solo, come dimostrano i numerosi commentari alla Commedia che fioriscono in questo periodo.

Fiorisce anche in questo periodo e sempre a Firenze un nuovo genere di poesia per musica che si esprime nella forma della ballata, del madrigale e della caccia alla quale si accosta l'opera di Ser Giovanni Fiorentino che è stato identificato da Pasquale Stoppelli in un giullare, Giovanni di Firenze, con il nome di "Malizia Barattone"[61] con la sua raccolta di ballate che all'interno della sua opera intitolata " Il Pecorone ", una raccolta di novelle di ispirazione boccaccesca, rappresentano la parte più riuscita.

Lo stesso argomento in dettaglio: Franco Sacchetti.

Ma tra gli scrittori che si avvicinano in questi anni a questi due nuovi generi letterari, il più significativo è il fiorentino Franco Sacchetti tra le cui opere risaltano "Il libro delle rime" e Il Trecentonovelle, "nel quale l'autore svela doti sicure di scrittore: abilità nello schizzare, se non "personaggi" a tutto tondo, almeno macchiette vivaci; sicurezza nel descrivere scene di folla, di confusione, di tumulto; scioltezza di una sintassi popolareggiante; compiacimento per una lingua quanto mai viva e sapida, colta felicemente da tutti gli strati linguistici"[62].

La letteratura devota

Stimmate di Santa Caterina da Siena, Domenico Beccafumi, 1515 circa
Lo stesso argomento in dettaglio: Jacopo Passavanti e Domenico Cavalca.

Durante tutto il Trecento fiorì anche un'abbondante letteratura di carattere religioso che si esprime sotto forma di prediche, trattati, lettere devote, laude, sacre rappresentazioni e opere di carattere agiografico.

Tra gli scrittori religiosi del Trecento si ricordano nell'ambito della tradizione domenicana il frate Jacopo Passavanti che raccolse in un trattato dal titolo "Specchio di vera penitenza" tutte le prediche che aveva tenuto nel 1354 durante il periodo della quaresima e Domenico Cavalca autore delle "Vite dei Santi Padri" e di numerosi testi latini, oltre che di sonetti, laude e serventesi.

In ambito francescano si trovano "I Fioretti di San Francesco" composti da un autore toscano anonimo che consiste in una raccolta di leggende che riguardano la vita del santo tradotte e ridotte i termini di favole dal carattere popolare da un testo latino redatto nelle Marche risalente alla fine del secolo XIII dal titolo "Actus beati francisci et sociorum eius".

Lo stesso argomento in dettaglio: Santa Caterina da Siena e Bianco da Siena.

Sempre nel Trecento un posto significativo occupa Caterina Benincasa della quale ci sono pervenute 381 "Lettere" e il "Dialogo della Divina Provvidenza" che furono scritte dai suoi discepoli sotto dettatura con una scrittura che "coniuga i modi dello stile biblico e della letteratura sacra con l'immediatezza e l'impressionismo di un linguaggio popolare"[63]. Nell'ambito della produzione laudistica trecentesca, si distingue Bianco da Siena, contemporaneo e concittadino di Caterina da Siena, e autore di numerose laude.

La storiografia

La storiografia in volgare rispecchia i caratteri principali della civiltà del Trecento con le sue storie o cronache che "escono fuori dai confini angusti e aridi della cronachistica medievale, dove così scarsi sono la comprensione e la scelta dei fatti, la cura dei nessi logici, il rilievo dei caratteri individuali... lucido specchio d'una civiltà, nella quale la lotta politica è più varia, mobile e appassionata, le relazioni commerciali più intense, la cultura sempre più ampia ed aperta"[64].

Lo stesso argomento in dettaglio: Dino Compagni e Giovanni Villani.

I più noti cronisti in volgare di questo periodo sono i due scrittori fiorentini Dino Compagni e Giovanni Villani rispettivamente autori, il primo, della "Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi", dove racconta le vicende a partire dal 1280 fino al 1312 e il secondo di una "Nova Cronica" divisa in dodici libri di cui i primi sei vanno dalla torre di Babele alla discesa in Italia di Carlo d'Angiò e gli altri sei dal 1265 al 1348.

Il Quattrocento

Alla morte del Petrarca e del Boccaccio e dopo una tanto ricca fioritura trecentesca si assiste nel Quattrocento ad uno strano fenomeno che, a parere di molti critici, "pare interrompere il corso iniziato nei primi decenni del duecento"[65] e che appare "uno dei più squallidi della nostra storia letteraria"[66] per non parlare, come dice il Migliorini, addirittura di "crisi quattrocentesca"[67].

Lo stesso argomento in dettaglio: Leonardo Bruni.

I letterati di questo periodo rinnegarono, disprezzandolo, tutto il lavoro fatto durante i due secoli precedenti per rendere la lingua volgare degna di essere chiamata lingua letteraria e composero non più in volgare ma in latino, arrivando a considerare l'opera di Dante, di Boccaccio e di Petrarca, come scrive Leonardo Bruni[68] nel primo dialogo all'amico Pietro Istriano della sua opera scritta in latino intitolata Ad Petrum Paulum Histrium, solamente "poesia per calzolai e panettieri".

L'Umanesimo

Lo stesso argomento in dettaglio: Umanesimo.

Ma questo periodo, cosiddetto dell'Umanesimo, che sotto molti aspetti può apparire di stagnazione, è in realtà solamente un "momento di pausa e di riflessione; un'età di appassionati studi critici e filologici; una specie di affannoso ed inconsapevole ritorno alle origini prime della nostra civiltà, attraverso il quale tutta la concezione della vita e degli ideali umani si rinnova, e al tempo stesso si opera una trasformazione della cultura e del gusto letterario, che si rivelerà appieno alla fine del secolo negli spiriti e nelle forme della nuova poesia"[69].

Immagine che ritrae Coluccio Salutati, proveniente da un codice della Biblioteca Laurenziana a Firenze

Il ritorno al latino

Il movimento dell'Umanesimo si diffuse con grande rapidità in tutta Italia e, pur assumendo caratteri diversi a seconda dei centri di diffusione, mantenne comuni caratteristiche dovute sia alla formazione e alle caratteristiche equalitarie ma soprattutto al comune uso della lingua latina.

Il latino degli umanisti, come già quello di Petrarca, è il latino classico, quello che avevano riscoperto attraverso i testi antichi di Cicerone, di Quinto Ennio di Virgilio, di Orazio, di Catullo e di Ovidio e che, con un attento studio filologico, riportano alla luce.

Lo stesso argomento in dettaglio: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.

Il più importante centro umanistico sorse a Firenze e l'iniziatore dell'umanesimo fiorentino fu Coluccio Salutati, allievo di Petrarca e scopritore delle Epistulae ad familiares di Cicerone, che con i suoi trattati e il ricco epistolario fu considerevole diffusore dei nuovi studi letterari.

Il movimento ebbe seguito a Firenze con altri autorevoli studiosi come Niccolò Niccoli, che trascrisse numerose opere greche e latine e compose una guida per ritrovare i manoscritti in Germania, Leonardo Bruni d'Arezzo, che oltre a tradurre dal greco numerose opere, fu l'autore di una Historia fiorentina scritta in chiave classicheggiante su imitazione di Livio e di Cicerone e infine Poggio Bracciolini che, durante i suoi numerosi viaggi in Francia e in Germania, scoprì antiche opere portando così a conoscere le Institutionies oratoriae di Quintiliano, le Silvae di Stazio, le Puniche di Silio Italico e il De rerum natura di Lucrezio.
Nel 1429 venne ritrovato a Lodi, dal vescovo Gerardo Landriani, il Brutus di Cicerone e nel 1429 il cardinale Giordano Orsini acquista un codice che conservava le dodici commedie di Plauto che fino a quel momento nessuno conosceva.

La storiografia

Lo stesso argomento in dettaglio: Lorenzo Valla, Flavio Biondo, Leonardo Bruni e Ciriaco d'Ancona.

Nel campo della storiografia umanistica, che ebbe come modello l'opera di Livio, si ricorda il romano Lorenzo Valla che seppe affrontare "problemi filosofici, storici, culturali, dovunque recando una spregiudicatezza critica che prelude alla grande direzione del pensiero del Rinascimento"[70]

Accanto al Valla è degna di essere ricordata la figura dell'umanista forlivese Flavio Biondo che instaurò il metodo scientifico negli studi storici dando l'avvio con la sua opera Roma instaurata alla scienza dell'archeologia, quella dell'aretino Leonardo Bruni e dell'anconetano Ciriaco d'Ancona.

L'epistolografia

Lo stesso argomento in dettaglio: Poggio Bracciolini.

Gli umanisti, molti dei quali erano al servizio dei signori italiani come segretari o cancellieri, furono anche ferventi scrittori di lettere più che altro di argomento politico, ma anche privato. In questo secondo settore notevole è l'epistolario lasciato da Poggio Bracciolini che, in base al modello ciceroniano, scrisse lettere ricche di umanità e di sentimento.

Il pensiero filosofico

Merito degli umanisti fu quello di aver ripulito la dottrina aristotelica da tutte quelle alterazioni fatte ad opera degli arabi e degli scolastici e soprattutto di aver scoperto nella sua totalità l'opera di Platone al quale andò la loro preferenza.

Dedicato a Platone fu il movimento sorto a Firenze con a capo Marsilio Ficino che, sotto la protezione dei Medici, raccoglieva nella villa di Careggi, quella che in seguito venne chiamata Accademia neoplatonica, numerosi personaggi dotti. Si ricordano inoltre Giannozzo Manetti, Giovanni Pico della Mirandola e Cristoforo Landino che seppero concepire una diversa dignità dell'uomo facendo intravvedere quella che sarà la filosofia moderna che avrà i suoi inizi nel Rinascimento italiano.

La letteratura in volgare nel primo Quattrocento

Nella prima metà del secolo accanto alla letteratura umanistica in latino nacque anche una letteratura in volgare sia di carattere devozionale e di mediocre valore, sia di carattere artistico e di alto tono.

Nella letteratura di carattere devozionale vennero composte laude, prediche e sacre rappresentazioni che spesso, accanto all'argomento sacro, "accoglievano anche personaggi e scene di un realismo rozzo e popolaresco, che avvicinavano ancor meglio lo spettacolo ai gusti del popolo che assisteva sulle piazze e che doveva ricavarne edificazione e diletto."[71]

Letteratura di devozione e predicatori

Lo stesso argomento in dettaglio: Feo Belcari, Bernardino da Siena e Girolamo Savonarola.

Tra gli autori della letteratura devozionale vanno menzionati il fiorentino Feo Belcari, San Bernardino da Siena e anche Girolamo Savonarola che, pur essendo vissuto nella seconda metà del secolo, può essere posto tra costoro per i suoi trattati di carattere morale, le sue laude e soprattutto per le sue vibranti prediche.

I memoralisti e i narratori

Lo stesso argomento in dettaglio: Facezia.

Tra i prosatori minori si ricordano anche i memoralisti, come lo scultore Lorenzo Ghiberti, il mercante Giovanni Morelli e il pittore Cennino Cennini che scrisse il Libro dell'arte, uno tra i primi trattati tecnici sulla pittura.

Non mancarono i novellieri che continuavano la tradizione trecentesca come Giovanni Gherardi autore di un romanzo dal titolo Il Paradiso degli Alberti, Giovanni Sabadino degli Arienti che scrisse una raccolta di novelle intitolate Porretane e il più valido Giovanni Sercambi, autore di un Novelliere ad imitazione del Decamerone.

Scrittori in versi

Tra gli scrittori in versi del primo Quattrocento sono da ricordare alcuni scrittori considerati di corte e di popolo.
A continuazione della tradizione trecentesca continuarono ad essere recitati i cantari, ad esserne composti dei nuovi e si diffuse la produzione di versi di argomento politico e di tipo comico-realistico.

Scrittori popolari

Lo stesso argomento in dettaglio: Burchiello (poeta).

Tra i poeti più noti a carattere burlesco si ricorda Domenico di Giovanni, soprannominato il Burchiello, che compose numerosi sonetti caudati dove riprendeva lo stile della poesia giocosa e delle frottole del Trecento.

Tra i poeti giocosi che vissero presso le corti quattrocentesche si ricordano Antonio Cammelli, detto il Pistoia che ebbe molta fama presso le corti settentrionali e che visse presso le corti dei Da Correggio, degli Estensi e di Ludovico il Moro. Egli compose sonetti di carattere satirico dove viene rappresentata la società del suo tempo.

Poeti di corte

Lo stesso argomento in dettaglio: Cariteo.

Sempre presso le varie corti nacque anche una poesia più aristocratica che si rifaceva alla tradizione petrarchesca e alla lirica cortigiana della seconda metà del Trecento. Tra i poeti di questo periodo furono noti Giusto de' Conti di Valmontone, autore del canzoniere intitolato La bella mano , Benedetto Gareth, soprannominato il Chariteo autore di un canzoniere intitolato l' Endymione e Serafino de' Cimminelli conosciuto con lo pseudonimo di Serafino Aquilano che fu anche un musicista.

La letteratura in volgare nel secondo Quattrocento

A metà del secolo la letteratura in volgare prese il sopravvento e prevalse il concetto che la lingua italiana fosse pari a quella latina per la capacità di esprimere qualsiasi concetto o immaginazione come dirà Leon Battista Alberti nel proemio al II libro dei suoi Quattro libri della famiglia:

«ben confesso quella antica lingua latina essere copiosa molto e ornatissima; ma non però veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto da averla in odio che in essa qualunque benché ottima cosa scritta ci dispiaccia...E sia quanto dicono quella antica appresso di tutte le genti piena d'autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra, se i dotti la vorranno, molto con suo studio e vigile, essere elimata e polita".[72]»

Fu proprio l'Alberti, tipico esempio di uomo dell'Umanesimo e del Rinascimento, che promosse in Firenze una gara pubblica di poesia, il Certame coronario, per dimostrare quali fossero le potenzialità della lingua parlata.

A testimoniare come la lingua volgare e la letteratura assumessero una nuova dignità sono i commenti alla Divina Commedia di Cristoforo Landino, il commento alle rime del Petrarca da parte di Francesco Filelfo e l'epistola di Angelo Poliziano che accompagnava la antiche rime della Raccolta aragonese dove viene elogiata la lingua toscana.

Durante tutta la seconda metà del Quattrocento dunque la lingua volgare e la lingua latina si alternarono e spesso si affiancarono negli stessi scrittori, come si può osservare analizzando le loro opere del Poliziano, di Jacopo Sannazzaro, di Alberti e di molti altri.

La nuova letteratura che nacque ebbe un carattere colto e aristocratico perché coloro che ritornarono al volgare lo fecero su una base letteraria, convinti, come scrive Landino, che "per essere un "buon toscano" occorreva essere "buon latino", cioè conoscitore del latino"[73].

Leon Battista Alberti

Statua di L.B. Alberti in una nicchia degli Uffizi
Lo stesso argomento in dettaglio: Leon Battista Alberti.

Alberti, una tra le figure più poliedriche del Rinascimento fu non solo umanista e scrittore in lingua volgare e latina ma si interessò anche di architettura, di musica, di matematica, di crittografia, di linguistica di filosofia e teoria delle arti figurative.

Come scrittore egli realizzò una commedia latina dal titolo Philodoxeos fabula (L'amante della gloria), le Intercoenales (Dialoghi conviviali), tre libri in volgare intitolati Sulla pittura, dieci libri sull'architettura, il De re aedificatoria, i Dialoghi della tranquillità dell'anima, il Momus o De Principe (Momus, o Del principe), i Quattro libri della famiglia.

Leonardo da Vinci

Autoritratto, ca 1513, Torino, Biblioteca Reale
Lo stesso argomento in dettaglio: Leonardo da Vinci.

Superiore all'Alberti per via di una personalità poliedrica fu Leonardo da Vinci che però non ha un posto rilevante nell'attività letteraria ma in quella delle arti e delle scienze.

Di Leonardo possediamo una serie di passi che egli scelse e catalogò con il titolo "Trattato sulla pittura" e alcuni abbozzi e frammenti di idee che egli aveva l'abitudine di fissare su carta alle volte dandogli un'apparenza di piccola favola o di apologo che hanno un certo carattere letterario.

Lorenzo dei Medici il Magnifico

Lo stesso argomento in dettaglio: Lorenzo de' Medici.

Lorenzo de' Medici fu il promotore a Firenze della nuova letteratura in volgare e anche amico e protettore di umanisti come il Ficino e Cristoforo Landino. Egli, legato alla tradizione del Trecento, volle che la letteratura di quel secolo fosse diffusa ed egli stesso cercò di imitarla in molte sue opere, specialmente quelle della gioventù.

Angelo Poliziano

Lo stesso argomento in dettaglio: Angelo Poliziano.

Intorno a Lorenzo de' Medici, dove si era formato un circolo di poeti, letterati e artisti, visse Angelo Poliziano che, trasferitosi a soli 16 anni a Firenze e conoscendo già il greco e il latino, iniziò a tradurre in esametri latini l'Iliade. Fu apprezzato per le sue doti dal Magnifico che lo accolse alla sua corte dapprima come precettore del figlio Piero e in seguito gli affidò la cattedra presso lo Studio fiorentino di latino e greco, incarico che il poeta tenne fino alla sua morte avvenuta nel 1494. Egli compose in volgare alcune opere importanti sia dal punto di vista letterario che poetico, come le Stanze per la giostra e l'Orfeo.

Luigi Pulci

Lo stesso argomento in dettaglio: Luigi Pulci.

Al circolo di poeti medicei appartenne per un certo periodo anche Luigi Pulci che scrisse un poema in ottave intitolato il Morgante che riprende i motivi e la tecnica carolingia dei cantàri.

Matteo Maria Boiardo

Nato nel castello di famiglia di Scandiano nel 1441 da Lucia di Nanni Strozzi e Giovanni Boiardo, fu sempre legato alla famiglia d'Este per il vassallaggio del feudo di Scandiano, che sarà egli stesso a reggere insieme con il cugino Giovanni tra il 1460 ed il 1474. Matteo Maria Boiardo fu intellettuale e poeta di spicco nella seconda metà del Quattrocento. A lui si debbono un canzoniere amoroso, gli Amorum libri tres, dieci ecloghe comunemente chiamate Pastorale, ma soprattutto l'Orlando Innamorato, un poema epico narrativo incompiuto in ottave che sarà materia del Furioso di Ariosto, oltre, naturalmente, a componimenti poetici giovanili (spesso in latino) e a traduzioni dal greco.

Il Cinquecento

Statua di Niccolò Machiavelli nella Galleria degli Uffizi

I primi decenni del Cinquecento vedono una produzione letteraria di eccezionale livello, in diversi generi letterari. Si va dal poema dell'Ariosto, Orlando furioso, al Principe, trattato di teoria politica di Machiavelli; dal Cortegiano di Castiglione alle liriche petrarchistiche di Pietro Bembo.

In questo periodo, che si estende all'incirca fino al 1530 e che può essere identificato col pieno Rinascimento, la ricca sperimentazione del periodo umanistico comincia a lasciare il posto ad una progressiva regolarizzazione di forme e linguaggi. Non è un caso che l'Ariosto scelga per il suo poema il volgare toscano anziché quello settentrionale/emiliano usato dal Boiardo. Del resto, la discussione sulla lingua letteraria, che occupa intelletti acuti in riflessioni di grande interesse, approda ad una soluzione pressoché definitiva grazie alle Prose della volgar lingua del Bembo (1525), in cui si sostiene l'eccellenza del toscano letterario identificabile nella poesia di Petrarca e nella prosa di Boccaccio.

I valori tratti dalla letteratura classica, di cui si riscopre l'ampiezza di vedute, e la filosofia neoplatonica convergono nell'idea dell'uomo come individuo pieno di potenzialità, padrone della propria esistenza, chiamato a dar prova del proprio ingegno nelle concrete circostanze della storia e a realizzare nei vari momenti della vita un ideale di armonia e raffinatezza. L'ambiente della corte e il diffuso fenomeno del mecenatismo offrono agli scrittori del tempo la cornice e le condizioni adatte a perseguire quei modelli ideali; questo non impedisce però che ci sia chi mette a nudo, anche se con garbo ironico, il rovescio di quell'ambiente idealizzato, ovvero la mancanza di autonomia (Ariosto); o chi proprio dalla assidua riflessione sugli scritti degli antichi e dalla "continua esperienzia delle cose moderne" ricava norme di inaudita spregiudicatezza per l'agire politico (Machiavelli).

Un contributo molto significativo verso la definizione delle"regole" per la scrittura letteraria venne dalla traduzione, nel 1536, della Poetica di Aristotele, fino a quel momento conosciuta solo indirettamente e in parte attraverso l'Ars poetica di Orazio. La traduzione suscitò un immediato ma anche prolungato fervore di studi e di commenti, che tuttavia andarono in una direzione non del tutto coerente con le intenzioni del filosofo greco. Egli infatti - come è ben chiaro ai lettori attuali della Poetica (pervenuta in forma gravemente mutila) - non intese fornire norme per la creazione letteraria, ma descrivere e organizzare quanto la letteratura greca aveva fino a quel tempo prodotto.
Le argomentazioni di Aristotele sui diversi generi letterari, sugli elementi che compongono il testo poetico, sugli scopi della letteratura e così via vennero interpretate dagli studiosi del Cinquecento come altrettante norme da seguire in modo fedele per conseguire l'eccellenza in poesia. Secondo questa rigida impostazione, la poesia - nei tre generi: epica, lirica e drammatica - doveva proporsi un fine educativo da raggiungersi attraverso il diletto (nella versione oraziana miscere utile dulci).
La tendenza precettistica della letteratura confluì ben presto con il riaffermarsi del principio di autorità (ipse dixit) nei vari campi della cultura e con le esigenze di un ritorno alla moralità e alla religiosità promosse dal Concilio di Trento (1545-1563).

Questo orientamento normativo, che venne sviluppato negli scritti di Sperone Speroni, Gian Giorgio Trissino e molti altri, entrò in contrasto con la ricca e varia produzione letteraria del secolo precedente e dei primi decenni del Cinquecento. Ad esempio, un'opera che aveva ottenuto subito successo e ampia diffusione come l'Orlando furioso mal si accordava con le norme elaborate: non poteva dirsi poema epico, per la presenza assai debole dei motivi tipici di quel genere, ed il predominio della fantasia, dell'ironia, del diletto come scopo primario (anche se non unico). Tuttavia non era certo possibile ignorarne il valore, e proprio per questo si misurò con esso, per cercare una strada originale compatibile con il mutato clima culturale, Torquato Tasso.

La seconda metà del Cinquecento

Torquato Tasso

Un profondo mutamento delle funzioni dell'italiano volgare avvenne dalla fine del Cinquecento. A causa del rallentamento degli scambi economici tra le varie città d'Italia ricominciarono a prender piede i dialetti locali, mentre l'italiano venne relegato a funzione di linguaggio di corte. Lo spirito della controriforma del Concilio di Trento fece venir meno gli stimoli culturali innovatori che avevano animato i cenacoli letterarii. La fondazione dell'Accademia della Crusca nello stesso periodo cristallizzò questa situazione nei secoli successivi, facendo della lingua italiana una lingua artificiale.

In questo quadro nascono le opere letterarie di Torquato Tasso, il suo poema la Gerusalemme liberata si può considerare sotto l'aspetto letterario frutto del manierismo, in cui gli strumenti espressivi erano una serie di pose artificiose. L'italiano di fine Cinquecento è una lingua profondamente diversa, nell'anima, da quella dei secoli passati. Ce lo fa notare in alcune postille autografe Galileo Galilei confrontando l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, e la Gerusalemme liberata: per Galilei il Tasso dice parole, Ariosto cose. La lingua italiana che in origine era descrittiva e piena di contenuti diventa vuota espressione adatta solo per fare melodie e canti.

Niccolò Machiavelli

Ritratto di Machiavelli
Lo stesso argomento in dettaglio: Niccolò Machiavelli.

Figura rilevante del primo Cinquecento, è Niccolò Machiavelli. Egli fu cortigiano di Lorenzo il Magnifico, nella famiglia medicea al potere in Firenze. La figura di Machiavelli è soprattutto collegata al suo lavoro filologico (esempio sui libri di Tito Livio), consacrandolo come rappresentante dello studio umanistico, ma anche al suo pensiero politico, traendo spunto dallo studio per le grandi opere storiografiche dell’antichità, come Tucidide, Senofonte, Polibio e Tacito. La versatilità culturale machiavellica riguardo la politica è presente sia nelle sue opere saggistiche, che in quelle poetiche e teatrali, come "La mandragola".

Il Principe e il machiavellismo

Frontespizio de “Il Principe”

L’opera maggiore di Machiavelli è "Il principe ", trattato di politica in cui, citando le maggiori opere antiche sulla demagogia e il governo, dimostra il miglior metodo governativo alle generazioni future. Nell’opera si fanno anche riferimenti politici ad avvenimenti vicini all’epoca dell’autore, come le lotte di Ludovico il Moro con Cesare Borgia. L’opera è collegata alla “Guerra del Peloponneso” di Tucidide e alla “Repubblica” di Cicerone, nella quale Machiavelli illustra i vari mezzi di governo, come la tirannia, la monarchia, l’oclocrachia, e infine la Repubblica. Successivamente, dopo vari esempi, passa a descrivere la figura ideale del “principe”, ossia di colui che è in grado di tenere in equilibrio tutte le forme di potere, e tutti i suoi sudditi al governo. Maggiori temi trattati nell’opera sono “la fortuna”, e la “virtù”, caratteristiche inseparabili tra loro, perché ognuna ha bisogno dell’altra al governo: la prima offre le occasioni di potere, la seconda ha il metodo per carpirle e manovrarle nel miglior modo possibile. Infine c’è il terzo elemento: il carisma stesso del principe, che deve fungere da strumento regolatore di esse, non essendo troppo feroce, né troppo mansueto con il popolo. Con tale opera, nacque il termine “machiavellico”, che delinea una persona completamente legata alla conquista dei propri interessi mediante l’acuto uso della ragione e della mente.

Ludovico Ariosto

Frontespizio de "Orlando furioso"
Lo stesso argomento in dettaglio: Ludovico Ariosto.

Ludovico Ariosto è il maggior esponente della letteratura cortigiana nel Rinascimento, assieme a Torquato Tasso. Cortigiano del casato ferrarese, egli godette di notevole fama, fino a ritirarsi, al termine della vita, in una modesta villa. Egli rappresenta colui che ha garantito la ripresa letteraria del vecchio genere del romanzo cavalleresco, scrivendo un poema in chiave eroicomica in cui viene mostrata la società di Carlo Magno nel massimo dei suoi eccessi, intendendo criticare i costumi smodati del suo tempo, dove sebbene ci siano i cavalieri e i codici d’onore, qualsiasi azione e pensiero è portata all’estremo, fino alla totale distruzione.

L' Orlando furioso

Lo stesso argomento in dettaglio: Orlando furioso.

Opera maggiore di Ariosto è l’ Orlando furioso, poema che si rifà ai romanzi cavallereschi del ciclo bretone e del ciclo carolingio. Il poema ritratta ciò che è stato interrotto da Matteo Boiardo nel suo ’’Orlando innamorato ’’. La vicenda è ambientata al tempo delle guerre di Carlo Magno contro i Saraceni, e risulta essere una sorta di burla e di processo di distruzione della figura carismatica e inflessibile del cavaliere, votato alla castità, al rispetto, all’onore, e alla fede. La bellissima principessa Angelica fa innamorare chiunque alla sua corte, mentre Carlo Magno prepara l’assedio. Anche il prode paladino Orlando rimane paralizzato e offuscato dall’infatuazione, ma quando scopre che la principessa lo tradisce con Medoro, impazzirà, perdendo il senno, che va a finire sulla Luna. Il poema intreccia innumerevoli vicende, tratte da vari miti e storie dei popoli antichi, e il suo autore inserisce il personaggio di Angelica come figura del destino, capace di turbare anche gli spiriti più forti: dichiarazione poetica di mostrare la società attuale, assai piena di incertezze, così come l’animo umano è ricolmo di interrogativi. Il poema porta al definitivo svuotamento dell'originario scontro tra pagani e cristiani: la guerra, uno dei pochi fili rossi che è possibile tracciare con facilità all'interno del poema, non racchiude un'opposizione etica/ideologica tra due schieramenti come nella Chanson de Roland. Sulla dimensione epica comunque presente, se non altro come polarità dialettica (e basti considerare la prima ottava del poema), s'instaurano le infinite vie del romanzo, delle quali la tecnica dell'intreccio è immagine stilistica: al filone principale delle armi si mischiano gli amori, secondo un'operazione già boiardesca. All'eroe epico destinato alla vittoria proprio in quanto difensore di un'ideologica superiorità rispetto al nemico si sostituisce il cavaliere innamorato del Boiardo, ma solo ad un primo superficiale livello. Ariosto non può accontentarsi di arrivare a questo punto, e infatti spinge il proprio punto di vista letterario a complicare il meccanismo dell'innamoramento fino al paradosso: da una parte portando Orlando alla pazzia, alla condizione animalesca, a spogliarsi delle sue prerogative di cavaliere; dall'altra riprendendo e assolutizzando l'idea portante del romanzo medievale, il cavaliere alla ricerca della propria identità, da ritrovare dopo una "prova".

Il Seicento

La poesia

Il gusto barocco, col suo rifiuto del linguaggio ordinario e il suo gusto per l'artificioso e lo stravagante, trovò un campo di applicazione privilegiato nella lirica. Si tratta di una vasta produzione senza capolavori.

Un posto di rilievo è occupato dall'opera di Giambattista Marino, tanto celebre da essere chiamato come poeta di corte in Italia e a Parigi. Il suo testo maggiore, l'Adone, di proporzioni enormi (quasi tre volte la Divina Commedia), è un poema antinarrativo, che si sviluppa per digressioni attraverso una rete di analogie che evocano la realtà sottoponendola, transitoriamente, alla curiosità di tutti i sensi. Già la sproporzione fra la trama esile e la dispersione senza fine delle immagini dice la distanza dai modelli del Cinquecento. Marino portò al limite estremo la figura del letterato cortigiano che si avvale della sua penna per ottenere vantaggi e gloria, e fece anzi dei riconoscimenti del pubblico il criterio di validità estetica della sua opera. Il suo culto della metafora e l'ingegnosità mostrata nel costruire concettini e arguzie lo resero un maestro per i lirici del Seicento. Inoltre le qualità melodiche della sua poesia contribuirono allo sviluppo del melodramma e avrebbero trovato, nel Settecento, la continuazione migliore nelle opere, certo non barocche nell'ispirazione, di Metastasio.

La dissoluzione del genere epico narrativo in un grande castello lirico è un caso di quella anticlassica tendenza alla mescolanza dei generi che caratterizza il secolo. Ad Alessandro Tassoni, figura di letterato dissacratore, si deve il merito di aver creato (con La secchia rapita) il modello del genere eroicomico, un tipo di poema che, a parte gli intenti parodistici, si struttura sull'alternanza continuamente variata di serio e comico.

A conclusione del secolo si ricorda l'opera di due poeti che ebbero fortuna nel Settecento per la tendenza a conservare il senso della misura e della razionalità classicistiche in opposizione al concettismo del Marino. Si tratta anzitutto del savonese Gabriello Chiabrera, che si segnalò e venne in seguito valorizzato per la sensibilità metrica. I suoi risultati migliori stanno nella struttura della canzonetta, configurata sul modello lirico di Anacreonte e giocata su versi brevi, dalla musicalità lieve e scorrevole. L'altro poeta è il ferrarese Fulvio Testi che, nella ricerca di una poesia eroica, rifuggì dal gusto sensuale della metafora barocca e predilesse parole brevi e solenni.

Torquato Tasso

Frontespizio della "Gerusalemme liberata"

Torquato Tasso risulta essere il secondo maggior esponente del Rinascimento, a servizio della Corte Estense. Egli, a differenza di Ariosto, risente maggiormente della censura attuata dalla Controriforma. La sua vita tormentata ne è un esempio, ma lo è ancora di più il suo poema. Le tematiche affrontate da Tasso nelle sue opere riguardano la fusione tra l’antico e il moderno, attraverso la visione cristianizzante della Chiesa sovrana.

Aminta

Lo stesso argomento in dettaglio: Aminta (Tasso).

La tragedia pastorale riprende i classici temi bucolici del canone della Grecia antica. Con tale dramma, Tasso intende celebrare la potenza degli estensi, unendo il tempo attuale a quello arcaico. La storia è una tipica “favola boschereccia” in cui la protagonista Aminta ha paura di un giovane pastore che la ama, ma viene rapita prima da un mostruoso satiro, che cerca di violentarla, e poi crede, a causa di un equivoco, che il suo amico, che ora ama, sia morto. Il destino però permette ai due di unirsi.

La Gerusalemme liberata

Lo stesso argomento in dettaglio: Gerusalemme liberata.

L’opera di maggiori successo di Tasso è la ’’Gerusalemme liberata’’, poema epico in cui il poeta mette al centro della storia non più temi come la fondazione di una città (Virgilio), o la lotta tra due civiltà per la supremazia, o le varie peregrinazioni di un eroe (Omero). L’intento di Tasso è di glorificare in tutto e per tutto il potere sacro della Chiesa e di Cristo nel mondo intero. La storia riguarda le vicende della Prima crociata, in cui il cavaliere Goffredo di Buglione, comandante di tutto l’esercito, riceve la visita dell’Arcangelo Gabriele che gli ordina di assediare Gerusalemme, per liberare il Santo Sepolcro dalla mano degli infedeli musulmani. Il personaggio di Goffredo rappresenta la credenza religiosa indistruttibile, mentre il soldato Tancredi risulta essere l’esatto opposto: la figura dell’eroe che si smarrisce nel suo percorso, e che deve ritrovare la retta via. Egli combatte per la causa cristiana, ma finisce per invaghirsi della soldatessa saracena Clorinda, che si traveste da uomo nei combattimenti, per poi mostrarsi nella sua natura, ricambiando l’amore di Tancredi, senza che questi conosca il suo segreto. L’idea di scrivere un’opera sulla prima crociata è mossa da due obiettivi di fondo: raccontare la lotta tra pagani e cristiani, di nuovo attuale nella sua epoca, e raccontarla nel solco della tradizione epica-cavalleresca. Sceglie la prima crociata in quanto è un tema non così ignoto al tempo da lasciar pensare che fosse inventata, ma anche adatto all'elaborazione fantastica.
Il tema centrale è epico-religioso. Tasso cercherà di intrecciarlo con temi più leggeri, senza però sminuire l'intento serio ed educativo dell’opera. Nel poema si intrecciano due mondi, l' idillico e l' eroico.
Il centro dell’opera è l’assedio di Gerusalemme difesa da valorosi cavalieri. Da un lato i principali cavalieri cristiani tra cui Tancredi e Rinaldo dall’altro il Re Aladino, Argante, Solimano e Clorinda. Una serie di vicende si intrecciano nell’opera e ci sarà sempre il dualismo tra Bene e Male, e sebbene ci sia anche qui la magia, l’intervento sovrumano è dato da Cielo ed Inferno, angeli e demoni, intrecciate con suggestioni erotico-sensuali. Il poema ha una struttura lineare, con grandi storie d’amore, spesso tragiche o peccaminose; come se il tema dell’amore sensuale, sebbene contrapposto a quello eroico, fosse necessario e complementare ad esso.

La prosa in lingua

Francesco Guicciardini

Rispetto alla preziosità artificiosa della poesia, la prosa manifesta un maggiore interesse per l'attualità e la vita degli uomini e comporta alcune delle sperimentazioni più interessanti del secolo. Nel corso del Seicento si diffuse il romanzo in prosa che, anche quando è ambientato in luoghi esotici o fantastici, riproduce ambienti contemporanei riconoscibili e predilige tematiche erotiche e sensuali. Uno di questi romanzi è quell'Historia del cavalier perduto (1634) di Pace Pasini (1583-1644) che il critico Giovanni Getto ha voluto indicare come il manoscritto trovato da Manzoni e riscritto nei Promessi sposi. I romanzieri furono numerosi e godettero di buona fama anche all'estero. La lingua impiegata era ormai italiana, cioè sovraregionale. E il romanzo fu uno dei generi che accrebbero il numero dei lettori. Il risvolto più estroso della prosa barocca si ha con Il cane di Diogene (pubblicato postumo nel 1689) del genovese Francesco Fulvio Frugoni (1620 ca.-1684 ca.), pastiche in cui si combinano vari argomenti, e che ha come modelli la satira menippea e gli autori che la riproposero (Petronio, Luciano, Rabelais).

Paolo Sarpi, Istoria del Concilio tridentino, 1935

La prosa barocca era un prodotto della cultura laica della prima generazione barocca; ma poi i gesuiti, impegnati nel controllo della produzione e della trasmissione culturale, ne fecero uno strumento importante del proprio intervento nella società per definire comportamenti e scelte. E alcuni dei risultati migliori della prosa del Seicento si devono al padre Daniello Bartoli, autore dell'Historia della Compagnia del Gesù, oltre che di molte opere devozionali. La sua capacità di conciliare precisione e artificio avrebbe destato anche l'ammirazione di Giacomo Leopardi.

Nell'ambito della prosa il Seicento può vantare un'importante produzione storiografica che si ispirava alla linea politico-diplomatica della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini. L'opera più importante del secolo è probabilmente l'Istoria del concilio tridentino del frate veneziano Paolo Sarpi. L'opera, edita a Londra nel 1619 (in Italia solo nel 1689-90) venne subito inserita nell'Indice dei libri proibiti per la battaglia condotta dall'autore contro il sistema ecclesiastico in nome del valore autonomo delle strutture statali.

Tra la fine del Cinquecento e il Seicento proliferarono gli scritti sulla politica che ponevano al centro dell'attenzione gli interessi dell'organismo statale (il concetto della 'ragion di stato'). E per riflettere sui meccanismi del potere dispotico vennero recuperati il pensiero di Machiavelli e l'opera storica di Tacito. L'interesse per questo storico (tacitismo) trova espressione anche nella traduzione, che rivaleggia per concisione con l'originale latino, della sua opera per mano di Bernardo Davanzati (1529-1606). Fra i trattatisti politici si segnalano i nomi di Ludovico Zuccolo (1568-1630), Paolo Paruta (1540-1598), Traiano Boccalini e del gesuita Giovanni Botero, che pubblicò il trattato politico più famoso del tempo, Della ragion di stato (1589).

A fianco della trattatistica politica si sviluppò sul fronte letterario una trattatistica barocca, per precisare, approfondire e sistemare sul piano teorico e in termini retorici la grande avventura del nuovo gusto. Uno dei primi testi è quello dell'emiliano Matteo Peregrini (1595 ca. - 1652); ma il testo più importante è Il cannocchiale aristotelico (1654) del torinese Emanuele Tesauro (1592-1675): le infinite possibilità combinatorie della metafora divennero in lui un modo per celebrare la ricchezza della realtà e la superiorità del tempo presente sul passato.

La prosa dialettale

In parallelo alla prosa in lingua, nel Seicento ebbe un sensibile sviluppo la letteratura dialettale, per il peso delle tradizioni locali o per gusto bizzarro. Si tratta pur sempre di letteratura prodotta dall'alto, ma capace di registrare aspetti della vita popolare. È letteratura che in ogni caso non ambisce a porsi come alternativa a quella nazionale e accetta quindi la posizione subalterna. Le prove dialettali più interessanti e corpose sono quelle napoletane, ma vanno registrate quelle romanesche (il poema Meo Patacca, 1695, di Giuseppe Berneri), quelle bolognesi, quelle veneziane e quelle milanesi. Quella napoletana è legata ai nomi di Giulio Cesare Cortese (1575-1627), che si dedicò soprattutto alla poesia, e di Giambattista Basile, noto soprattutto per Lo cunto de li cunti (1634), cinquanta fiabe destinate ai piccoli e scritte in una lingua manipolata in modo assai personale. Un posto a sé occupa il bolognese Giulio Cesare Croce, la cui fama è legata a Le sottilissime astuzie di Bertoldo (1602) e a Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino (1608), che hanno nutrito a lungo l'immaginario popolare, e che esprimono valori moderati e l'accettazione della scala sociale.

Il teatro

Maschera di Arlecchino

Una delle costanti della cultura barocca è il senso della teatralità della vita, connesso a quello della vanità della stessa. Da qui lo sviluppo del teatro e delle sue tecniche. Si crearono nuovi generi non più corrispondenti alle forme classiche (dalla tragicommedia, al melodramma, alla Commedia dell'Arte) e nuove professioni legate al teatro, come quella dell'attore, e venne fissata la forma della sala teatrale, con la separazione degli spazi destinati alla scena e agli spettatori. La vitalità del teatro nel Seicento va ben oltre quella dei testi drammatici, che sono modesti in Italia rispetto all'Europa: in Francia (Corneille, Racine, Molière), in Spagna (Lope de Vega, Calderon de la Barca), in Inghilterra (Shakespeare e il teatro elisabettiano) abbondano grandi testi, a fronte dei quali l'Italia può vantare poco. Ma l'Italia tra Cinque e Seicento vide nascere, svilupparsi e passare poi in Europa forme teatrali fortemente spettacolari non dipendenti dal controllo della parola. Un caso è quello della Commedia dell'Arte, teatro profano del corpo e della maschera. È un teatro di professionisti che, organizzati in compagnie girovaghe, comunicano con la bravura tecnica e l'espressività del corpo, improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. Gli attori indossano la maschera per tipizzare qualità psicologiche o regionali del personaggio, e anche il linguaggio impiegato nella comunicazione orale è spesso una mescolanza di forme regionali di aree contigue, un plurilinguismo stereotipato. La prima compagnia di comici professionisti si formò a Padova nel 1545. Le compagnie girovaghe, che raggiungevano il popolo più comune nei centri più disparati e anche più piccoli, ebbero particolare successo nel Seicento e per buona parte del Settecento. Un altro caso è quello del dramma per musica (per il quale in seguito si sarebbe utilizzato il termine melodramma). Tutto aveva preso avvio nel tardo Cinquecento dalla sperimentazione della Camerata de' Bardi, e il primo melodramma fu la Dafne del poeta Ottavio Rinuccini, rappresentato a Firenze nel 1598. La produzione più ricca si ebbe a Venezia con la costruzione di teatri pubblici a pagamento e a Roma, dove gli ambienti ecclesiastici diedero vita a un teatro morale o basato sulla storia sacra. In mancanza di norme definite, il genere assunse forme varie, e nel processo evolutivo il testo drammatico assunse forme sempre più schematiche fino alla sua subordinazione alla musica. La commedia letteraria continuò nel Seicento con nuove forme e intrecci destinati a finalità moraleggianti. I centri di produzione più importanti furono Napoli, Firenze e Roma. Qui si sviluppò, alla fine del Cinquecento, un tipo di commedia semplice che riproduceva in forme letterarie gli schemi narrativi della Commedia dell'Arte. La tragedia, con attenzione alla politica e alle riflessioni sulla ragion di stato, indulgeva a un gusto truce e violento secondo il modello del latino Seneca. Lo scrittore più autorevole di questo genere fu il piemontese Federico Della Valle.

Il Settecento: l'età dell'Illuminismo

Monumento a Carlo Goldoni in Campo S. Bartolomeo a Venezia

Il Settecento è un secolo di grandi trasformazioni. In Europa si assiste al predominio culturale e politico della Francia, mentre una serie di guerre, dette di successione, vede cambiare il panorama politico e le aree di dominazione.
L'Italia è dominata al nord dagli Austriaci, che, in seguito alla pace di Aquisgrana del 1748, si sostituiscono alla dominazione spagnola; al sud dalla dinastia francese dei Borboni.
La Sardegna è, invece, unita al Piemonte e si costituisce il Regno di Sardegna, governato dalla dinastia dei Savoia.
La presenza straniera si fa comunque meno pressante e gli Stati italiani godono di una maggiore libertà.

Nella seconda metà del Settecento, si afferma in Inghilterra la Rivoluzione industriale: si diffonde cioè un nuovo modello di produzione delle merci, basato sulla fabbrica, dove si esegue il lavoro grazie all'uso di nuovi macchinari, che sfruttano l'energia prodotta dal vapore. Le prime installazioni sono i telai a vapore, che incrementano la produzione e, di conseguenza, allargano la disponibilità sul mercato delle merci, con enormi conseguenze sul settore economico, ma anche sociale e politico.
Si afferma definitivamente il potere economico e, quindi, anche sociale della borghesia, che basa la propria supremazia sulla proprietà dei mezzi di produzione, come le fabbriche, e la capacità di gestire il denaro. Essa, in contrapposizione all'aristocrazia delle corti, ormai decadente e impoverita, afferma la propria visione del mondo e i propri valori, legati all'intraprendenza e al guadagno.
Il conflitto sociale e culturale tra la nuova classe in ascesa e l'antica aristocrazia di sangue provoca alla fine del secolo la Rivoluzione francese, nel 1789, in cui il concetto stesso di potere monarchico entra in crisi, con la diffusione di valori nuovissimi come la libertà, l'uguaglianza e la fraternità.

Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria

Anche in campo filosofico il primato spetta alla Francia: il Settecento è infatti il secolo dei philosophes, ossia gli intellettuali che sostengono il razionalismo come base della conoscenza. Le cose, la realtà, la natura sono comprensibili con il solo aiuto della ragione. Questo fa sì che si attribuisca sempre maggiore importanza alle capacità della ragione umana.
I philosophes sono i fondatori dell'Illuminismo o filosofia dei lumi: la ragione è la luce che si apre nel buio dell'ignoranza e della superstizione e supporta la nuova scienza sperimentale che contrappone la libera ricerca intellettuale ai dogmi della religione.
L'Illuminismo troverà un'espressione politica nella Rivoluzione francese. Accanto ai valori già citati, il Settecento regalerà all'Europa i principi fondamentali della tolleranza religiosa e del cosmopolitismo.

Tra le maggiori scuole letterarie del secolo non possiamo non citare l'Arcadia, un'accademia letteraria fondata a Roma nel 1690 da Giovanni Vincenzo Gravina e da Giovanni Mario Crescimbeni affiancati da artisti operanti nei centri culturali urbani più evoluti d'allora: da Paolo Coardi (di Torino) a Jacopo Vicinelli (di Roma), passando per il più importante intellettuale italiano del '700: Pietro Metastasio. Questi letterati, promuovevano, con l'appoggio della Curia romana, l'antibarocchismo e la restaurazione classicistica (Arcadia è il nome di un'antica regione della Grecia, dove, secondo la tradizione letteraria, i pastori, vinta la durezza della vita primordiale, vivevano felici, in semplicità). I soci del circolo fondarono sezioni in tutta Italia. Il classicismo cui essi si rifanno è soprattutto quello di Petrarca, ma anche quello di Poliziano e Lorenzo il Magnifico.

Carlo Goldoni

Lo stesso argomento in dettaglio: Carlo Goldoni.
Maschera di Colombina

Goldoni è assai conosciuto nella letteratura italiana teatrale, per essere stato un innovatore del genere, portando le classiche commedie degli equivoci nella società intera. Infatti prima di ciò, esistevano filoni tipici territoriali (Venezia-Milano-Ferrara-Napoli), in cui la Commedia dell'Arte aveva le sue maschere predilette. Goldoni ha cercato di “imborghesire” il teatro, inserendo le maschere comiche di Arlecchino e Pantalone non più come padroni della scena, ma come servitori dei protagonisti borghesi. L’intenzione di Goldoni era di creare un teatro sociale nuovo, alla pari di Molière, e di mostrare i vizi e le piccolezze della società italiana media al mondo tramite dialoghi in prosa (e non più dialettali), che riuscissero chiaramente comprensibili ad un vasto pubblico. Di qui la tesi della teoria goldoniana del teatro e del mondo, sul cui palcoscenico non vengono più rappresentate baruffe comiche tra maschere, ma situazioni reali, in cui la maschera ha un piccolo, seppur ruolo fondamentale di accompagnamento.

La locandiera

Lo stesso argomento in dettaglio: La locandiera.

Il testo teatrale goldoniano di maggiori fortuna è "La locandiera", che ritratta tematiche amorose già incontrare nei suoi primi testi. La vicenda riguarda completamente il ruolo che ha la donna nella società veneziana settecentesca, e di come lei, conoscendo le debolezze dell’uomo, riesca a controllare ciascuno di essi. Mirandolina è la direttrice di una locanda vicino Firenze, dove arrivano un marchese, un conte e un cavaliere (quest’ultimo misogino). Mirandolina non si accontenta di avere in suo pugno gli altri due pretendenti, ma si lancia una sfida: riuscire a far innamorare di sé il cavaliere, e poi ingannarlo. Mirandolina dunque rappresenta il potere segreto che ha la donna, che riesce ad uscire nei momenti meno opportuni, e a distruggere qualsiasi megalomania tipica dell’uomo.

Tra il Settecento e l'Ottocento

Il Purismo

Mentre le passioni politiche più scottanti imperversavano, e mentre i più brillanti uomini di genio nella nuova scuola classica e patriottico erano puristi all'altezza della loro influenza, una questione è stata sollevata una collezione purista del linguaggio. Nella seconda metà del XVIII secolo, la lingua italiana era particolarmente piena di espressioni francesi. C'era grande indifferenza di tematiche, ancora di più l'eleganza di stile. La prosa doveva essere restaurata per il bene della dignità nazionale, e si riteneva che questo non poteva essere fatto, se non tornando agli scrittori del XIV secolo. Uno dei promotori della nuova scuola è stato Antonio Cesari di Verona, che ha ripubblicato autori antichi, e ha fatto uscire una nuova edizione, con aggiunte del Vocabolario della Crusca. Ha scritto una tesi "Sopra lo Stato non presente della lingua italiana", e ha cercato di stabilire la supremazia del toscano e dei tre grandi scrittori: Dante Alighieri, Petrarca e Boccaccio. In forza di tale principio ha scritto diversi libri, prendendo la briga di copiare i trecentisti il più fedelmente possibile. Ma il patriottismo in Italia ha sempre avuto qualcosa comune in sé stesso; così a questa supremazia toscana, proclamata e sostenuta da Cesari, si oppose una scuola lombarda, basata sui precetti del trattato dantesco sull’eloquenza volgare. Gli intellettuali della scuola lombarda erano Vincenzo Monti e Giulio Perticari. La disputa sul linguaggio ha preso il suo posto accanto a dispute letterarie e politiche, soprattutto su Dante, e tutta l'Italia ha preso parte in essa: Basilio Puoti a Napoli, Paolo Costa in Romagna, Marco Antonio Parenti a Modena, Salvatore Betti a Roma, Giovanni Gherardini in Lombardia, Luigi Fornaciari a Lucca, e Vincenzo Nannucci di Firenze.

Un patriota, classicista e purista tutto in una volta è stato Pietro Giordani, nato nel 1774; era quasi un compendio del movimento letterario del tempo. Tutta la sua vita è stata una battaglia per la libertà. Lesse autori greci e latini, e nei trecentisti italiani, ha lasciato solo pochi scritti, ma erano accuratamente elaborato nel punto di stile, e la sua prosa è stato molto ammirato a suo tempo. Giordani si chiude l'epoca letteraria dei classicisti.

I preromantici

Giuseppe Parini

Lo stesso argomento in dettaglio: Giuseppe Parini.
Giuseppe Parini

La figura di spicco della rinascita letteraria del XVIII secolo fu Giuseppe Parini. Nato in un villaggio longobardo nel 1729, è stato istruito a Milano, e da giovane era conosciuto tra i poeti arcadici con il nome di Darisbo Elidonio. Anche come arcadico, Parini ha mostrato originalità. In una raccolta di poesie ha pubblicato a 23 anni, sotto il nome di Ripano Eupilino, il poeta mostra la sua facoltà di prendere le sue scene di vita reale, e nei suoi pezzi satirici espone uno spirito di aperta opposizione al proprio volte. Queste poesie, anche se derivato, indicano una risoluta determinazione a sfidare le convenzionalità letterari. Miglioramento ci fu sulle poesie della giovinezza: si mostrò un innovatore nei suoi testi, rifiutando al tempo stesso petrarchismo, il Seicentismo e l’Arcadia, le tre malattie che pensava aveva indebolito l'arte italiana nei secoli precedenti. Nel Odi la nota satirica è già sentito, ma esce più forte a "Il giorno", in cui si immagina di essere insegnante di un giovane milanese patrizie tutte le abitudini e modi di vita galante; si fa vedere tutte le sue frivolezze ridicoli, e con delicata ironia smaschera le futilità delle abitudini aristocratiche. Dividendo il giorno in quattro parti, il Mattino, il Mezzogiorno, il Vespero, e la Notte, egli descrive le minuzie di cui sono stati fatti, e il libro assume quindi grande valore sociale e storico.

Come artista, andando subito al forme classiche, che aspirano ad imitare Virgilio e Dante, aprì la strada alla scuola di Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e Vincenzo Monti. Come un'opera d'arte, il Giorno è meraviglioso per la sua delicata ironia. Il versetto ha nuove armonie; a volte è un po 'difficile e rotto, come protesta contro la monotonia arcadico.

Il Giorno

Lo stesso argomento in dettaglio: Il giorno (Parini).

Opera maggiore pariniana. Scritto in endecasillabi sciolti, mira a rappresentare in modo satirico, attraverso l'ironia antifrastica, l'aristocrazia decaduta di quel tempo. Con esso inizia di fatto il tempo della letteratura civile italiana.

Il poemetto era inizialmente diviso in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera. L'ultima sezione venne in seguito divisa in due parti incomplete: il Vespro e la Notte. Ecco come Parini suddivideva la giornata ideale del suo pupillo, "il giovin signore", appartenente

Vittorio Alfieri

Lo stesso argomento in dettaglio: Vittorio Alfieri.
Alfieri

Patriottismo e classicismo sono i due principi che hanno ispirato la letteratura di Vittorio Alfieri. Adorava l'idea della tragedia greca e romana della libertà popolare in armi contro la tirannia. Ha preso i soggetti delle sue tragedie della storia di queste nazioni (e dai rispettivi tragediografi) e ha fatto i suoi antichi personaggi parlano come rivoluzionari del suo tempo. La scuola arcadica di cui era rappresentante, con la sua prolissità e banalità, è stata tuttavia respinta dal pubblico. Il suo obiettivo era quello di essere breve, conciso, forte e amaro, a mirare al sublime in contrasto con gli umili e pastorale. Ha salvato la letteratura da vacuità arcadiche, conducendolo verso un fine nazionale, e si è armato di patriottismo e classicità.

Saul

Lo stesso argomento in dettaglio: Saul (Alfieri).
Foscolo

Ogni tragedia di Alfieri, tranne alcune, sono versioni italiane di quelle di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Poche sono invece opere originali, come il "Saul", tratto dai Libri delle Cronache e dal Secondo libro di Samuele della Bibbia, nel quale si narra la battaglia tra Saul e Davide per la successione del trono ebraico, mentre infuria la battaglia tra il popolo di Dio e i Filistei. La tragedia si concentra sui complessi e originali aspetti psicologici dei due protagonisti: David e Saul. David incarna l’eroe vittorioso e valoroso, mentre Saul il buon regnante, che però pecca di tracotanza senza nemmeno accorgersene, arrivando a cadere nella pazzia, tormentato dall’ossessione di vedere il proprio trono rubato da David, che si innamora di sua figlia.

È così che Saul si trova a combattere, in perenne fluttuazione tra due passioni opposte. Egli non riesce più ad essere contemporaneamente padre e re vincente. Il suo è un io disgregato, incapace di ritrovare l’unità. Questo aspetto in particolare fu analizzato dall'allievo di Freud Jung nell'analisi degli archetipi. È proprio un percorso verso l’unità di Saul, quello che si compie lungo i cinque atti della tragedia. Saul passa attraverso i sentimenti più contrapposti mentre si avvicina man mano la sua ultima meta: il suicidio. Sarà però un suicidio eroico il suo. Egli troverà finalmente la sua integrità attraverso una rinuncia radicale: uomo che rifiuta la vita, padre che rinuncia alla figlia, re che rinuncia al suo popolo che “cade”. Ma ritrova un’immagine definitiva e coerente che nessuno potrà annullare. È così che la rinuncia va letta come un supremo possesso: con la morte Saul espia i suoi eccessi sanguinosi e tirannici, rinuncia alla figlia dandogli una prova di offerta d’amore, intesa come vero possesso.

Ugo Foscolo

Lo stesso argomento in dettaglio: Ugo Foscolo.

Ugo Foscolo rappresenta il preromanticismo italiano. Trovandosi in un periodo difficile per l’Italia, il poeta si alleò con Napoleone Bonaparte, vedendo in lui l’eroe che avrebbe salvato il Paese dalla distruzione e dall’ignoranza politica e culturale. Dopo la delusione, avendo visto i progetti di Napoleone andati in fumo con l’emanazione dell’editto sui Cimiteri, Foscolo andò come esule in Inghilterra, e vi morì. Ha scritto per i lettori inglesi alcuni saggi sul Petrarca e sui testi di Boccaccio e di Dante.

Ultime lettere di Jacopo Ortis

Lo stesso argomento in dettaglio: Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Tratto da "I dolori del giovane Werther" di Goethe, Foscolo ha convertito la vicenda sotto un gusto patriottico italiano. Il protagonista è un giovane lombardo che spera nel cambiamento del Paese con la venuta di Bonaparte. Nel frattempo ama una ragazza, però promessa ad un pomposo proprietario terriero. Con il fallimento delle sue illusione, dacché Napoleone tratta l’Italia come una provincia (dopo la vittoria ad Arcole), e dopo lo sposalizio della sua amata con il secondo partito, Jacopo si uccide. Il romanzo è scritto in forma epistolare, riprendendo dallo schema goethiano. Foscolo è stato uno dei primi ad introdurre tale genere nel suo tempo. Il tema è tipicamente preromantico, dacché Foscolo, essendone il precursore, sogna un riscatto dell’Italia, che non avverrà immediatamente, oppressa dalla Francia e dall’Austria. Nel romanzo egli raccoglie tutti i tipici sentimenti che saranno presenti nel Romanticismo, come lo sturm und drang, lo slancio emotivo, la violenza patriottica, e l’amore per la natura e il passato classico.

Dei sepolcri

Lo stesso argomento in dettaglio: Dei sepolcri.

Il secondo maggior lavoro di Foscolo è la poesia "Dei sepolcri", basata sull’editto di Saint Cloud di Napoleone. Il poeta in quattro sezioni celebra il passato italico, partendo dal concetto di non venerare troppo i morti, dopo la dipartita, con sfarzose tombe, seguendo poi con l’elenco dei migliori poeti e scrittori italiani sepolti nella Basilica di Santa Croce a Firenze, narrando infine l’importanza della sepoltura, affinché permanga il ricordo, citando l’esempio omerico della morte di Ettore. I temi principali oscillano dal materialismo al preromanticismo.

L'Ottocento

L’Ottocento italiano in ambito letterario è scandito da tre principali correnti letterarie:

Il Romanticismo

Nella prima meta dell'Ottocento si diffonde in Europa il movimento culturale noto come Romanticismo. Le idee romantiche nascono in Germania propagandosi dal movimento dello Sturm und Drang. Le idee romantiche vengono fatte conoscere grazie alla rivista Athenaeum fondata dai fratelli Friedrich e Wilhelm August von Schlegel. Le idee romantiche trovano adesione in Francia e Inghilterra. I romantici rivalutano il sentimento, la passione e la libertà. Riavvertono il bisogno di Dio. Si sente un profondo legame con la natura. Da qui atteggiamenti come il pessimismo, vittimismo ma anche il ribellismo ovvero la voglia di ribellarsi a ogni vincolo morale, ma anche lo slancio eroico e passionale. I principali autori italiani del Romanticismo sono Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni. Invece la poetica di Ugo Foscolo meriterebbe di essere distaccata sia dal Romanticismo che da stili precedenti ed essere analizzata di per sé.

Alessandro Manzoni

Lo stesso argomento in dettaglio: Alessandro Manzoni.
Ritratto di Manzoni ad opera di Francesco Hayez

Manzoni (1785-1873) è considerato il “padre del romanzo italiano”, nonché della lingua, assieme a Dante Alighieri. Egli, vissuto a Milano, risente di vari correnti letterarie: dal giansenismo al romanticismo e agli ideali della rivoluzione francese, fino alla conversione al cristianesimo. Nelle sue opere giovanili è presente anche il pensiero illuminista, essendo nipote di Cesare Beccaria. La fama di Manzoni è dovuta al patriottismo, e alla creazione ufficiale della lingua italiana, nonché del romanzo storico.

La questione della lingua e del romanzo storico

Una scena de "Il conte di Carmagnola"

Quando scrisse "I promessi sposi ", Manzoni compose tre versioni (una nel 1823, con titolo differente, una seconda, corretta in parte nel 1827 – “ventisettana”, e l’ultima nel 1840: la “quarantana”). Manzoni lavorò molto sul piano linguistico, più che stilistico. Il problema di Manzoni era infatti l’uso del linguaggio, essendovi vari idiomi italiani raggruppati in quattro settori: il lombardo, il fiorentino, il napoletano e il siciliano. Manzoni, studiano Dante e i maggiori scrittori italiani, decide di adottare la prosa romanza del volgare toscano, più unitario e facilmente comprensibile in tutta la penisola. Quanto al fatto di trovare un nuovo genere per il romanzo, egli lesse l’ "Ivanhoe " di Walter Scott, e decide di comporre un’opera ambientata nel passato, ma che fosse d’esempio per la generazione attuale, inserendo episodi non assai dissimili a quelli della situazione storica del suo tempo. Un esempio è la dominazione dell’Austria nell’Italia ottocentesca, che nel romanzo appare sotto la figura seicentesca di Don Rodrigo, signorotto spagnolo.
Fonti principali manzoniane per la documentazione riguardo il periodo storico scelto (1628-1630), e la descrizione della peste di Milano, furono le cronache di Giuseppe Ripamonti.

La questione della tragedia italiana

Busto di Aristotele: Manzoni si oppose alle regole della poetica aristotelica, rispettate nei secoli in Italia, per le quali non si riusciva a trovare un nuovo genere che differisse dal classico

In qualità di romantico, Manzoni aveva letto il trattato di Madame De Stael, che invitava gli italiani a comporre nuovi generi, tralasciando le ricopiature dei classici greci e latini. Il modello proposto era Shakespeare, ma Manzoni trovò l’ostacolo delle regole di Aristotele, espresse nella sua "Poetica", ossia la presenza dei personaggi in un’unica sala, la durata di non oltre 24 ore, e l’assenza di coro. Traendo spunto da Schlegel e dai saggisti tedeschi, Manzoni iniziò ad elaborare la sua tesi della “tragedia storica”, così come fece in base al romanzo, intendendo raccontare storie italiane del passato, ma che fossero intese attraverso un’occhiata al presente. Le uniche tragedie manzoniane sono "Il conte di Carmagnola" e l’"Adelchi".

Adelchi

Lo stesso argomento in dettaglio: Adelchi (Manzoni).

La tragedia è ambientata al tempo di re Carlo Magno è in lotta con i Latini. Alla corte dei Longobardi, il principe Adelchi vede che la sorella Ermengarda è stata ripudiata da Carlo Magno, come dono di alleanza e matrimonio. Adelchi così si vede costretto a schierarsi da parte dei Longobardi, o dei Franchi, e la sua scelta risulta assai difficile. Mentre Adechi combatte contro i Franchi, Ermengarda spera che Carlo cambi idea, ma invece costui si sposa nuovamente. I temi della tragedia, oltre al fatto della storicità, riguardano con un nuovo occhio quelli della tragedia classica, ossia l’espiazione dei peccati di una famiglia da parte dei figli, del tutto innocenti ed estranei ai mali dei loro genitori. Figura interessante è quella di Ermengarda, eroina romantica che si interroga sul suo destino ed appare tormentata, fino a giungere al passionale atto di suicidio, a causa della pazzia causatale dalla notizia delle nuove nozze di Carlo Magno.

I promessi sposi

Lo stesso argomento in dettaglio: I promessi sposi.
Frontespizio de "I promessi sposi"

Il romanzo storico è ambientato nel 1628, presso il lago di Como. I contadini Renzo Tramaglino e Lucia Mondella sono innamorati, e vorrebbero sposarsi con l'aiuto di Don Abbondio (che lo nega), ma sono osteggiati dal prepotente nobile Don Rodrigo, che costringe i due a rifugiarsi da Padre Cristoforo. Costui propone a Renzo di andare nella grande Milano, mentre Lucia andrà in un monastero a Monza. Di qui le varie peripezie dei due sposi, sempre assillati da Don Rodrigo, e dal suo compare l'Innominato, fino a giungere alla peste di Milano. Renzo conosce i tumulti di Milano per il prezzo del pane, e scopre la complicazione politica e i suoi sotterfugi, venendo anche ingannato dall'apparente bonario Antonio Ferrer, mentre Lucia si abbandona alle grazie della monaca di Monza, che la vende a Don Rodrigo. Portata nel castello dell'Innominato, Lucia riesce a fare breccia nel suo cuore, e costui, dopo anni di delitti, coglie l'occasione della visita del Cardinale Federico Borromeo per pentirsi e fare del bene, aiutando Lucia a sfuggire da Don Rodrigo.

Tuttavia scoppia la peste, e sia Renzo, Lucia che Don Rodrigo vengono contagiati. Sebbene i due riescano a guarire, Don Rodrigo muore, assistito da Frate Cristoforo nel lazzaretto e dal nemico Renzo, che lo perdona. Tornati al borgo natio, Renzo e Lucia finalmente posso sposarsi ed avere dei figli.

I personaggi del romanzo
Renzo
Lucia

Come disse Italo Calvino, la struttura dei personaggi è binaria, in quanto ciascuna figura preponderante ha un suo opposto, così come la gerarchia di essi, che rappresenta il potere e l’umiltà di una stessa cosa. Un esempio è Don Rodrigo che incarna il potere corrotto, mentre l’Innominato il potere buono.

  • Renzo - Don Rodrigo: vittima (eroe cercatore) e oppressore (eroe negativo)
  • Lucia: eroina paziente, che agisce in luoghi chiusi, e cerca aiuto nella fede
  • Fra' Cristoforo - Don Rodrigo: potere buono contro potere corrotto
  • Fra' Cristoforo - Federico Borromeo: Chiesa povera e pura che si allea con la Chiesa potente e saggia
  • Don Abbondio - Monaca di Monza: Chiesa povera e corrotta e Chiesa potente a corrotta
  • Don Rodrigo - L'Innominato: potere corrotto e potere corrotto che trova il riscatto finale.

I protagonisti del romanzo sono i primi, con Manzoni, a simboleggiare l'entrata in scena del popolo nella letteratura italiana, e non più dei ricchi e dei nobili. Renzo e Lucia sono tuttavia poveri con un animo "umile", ma anche "nobile", pieno di buoni valori. Scelta condivisibile di Manzoni, giacché lui aveva aderito pienamente al Romanticismo, e dunque si era distaccato dai classici temi del pre-romanticismo e del classicismo, rappresentando la vita normale, anziché quella oziosa dei ricchi. Anzi, i ricchi nel romanzo simboleggiano in gran parte il vizio e la corruzione, nonché l'ingiustizia, contro cui gli umili devono combattere. La fede cattolica, del resto, è la forza spirituale romantica che circonda tutto il libro, e che porta i protagonisti ad andare avanti, avendo fiducia in Dio, che è in grado di cambiare le situazioni e gli accadimenti avversari. La fede manzoniana tuttavia è collegata alla filosofia di Blaise Pascal, ossia al giansenismo, nel quale Dio è qualcosa che va cercato, e che non è facilmente manifesto a tutti, sebbene presente.
I personaggi del romanzo che incarnano la fede sono divisi in due gruppi: Don Abbondio e la Monaca, che simboleggiando la Chiesa corrotta, che inganna il popolo, mentre Fra' Cristoforo e Federico Borromeo incarnano la Chiesa pura. Fra' Cristoforo inoltre appare come un tipico personaggio romantico, al pari di Ermengarda, che è continuamente tormentato nel suo processo religioso, giacché dal giovane era noto come un arrogante nobile milanese, che compì un delitto d'onore, e che poi si rifugiò in convento. Frate Cristoforo non riesce mai a raggiungere la pazienza e la concordia con sé stesso, perché spesso è incline all'ira, come nell'esempio in cui scongiura Don Rodrigo di lasciare stare Lucia.

Altra figura di spicco è la Monaca di Monza, la quale rappresenta un atto di denuncia di Manzoni nei confronti della fede assunta con la forza. Ciascun personaggio manzoniano infatti, tranne Don Rodrigo (che inscena il cattivo per natura), ha il suo comportamento in base all'educazione e ai traumi ricevuti in gioventù. La monaca ha subito la monacazione forzata sin da bambina, per volere del padre, e sebbene abbia tentato di fuggire,ogni tentativo è stato vano. Da qui il termine la sventurata rispose. Inoltre il processo del destino, legato alla fede, fa in modo che la Monaca, con l'atto iniziale di entrata prematura in convento, cada in azioni sempre più tragiche e meschine, come la relazione amorosa con il brigante Egidio, che uccide la suora che un giorno li scopre insieme. Per Manzoni tale personaggio, dopo il rifiuto della fede (sebbene sia stata imposta con forza ad essa), non può più redimersi, ed è condannato a vivere nell'oblio.

Ippolito Nievo e Le confessioni di un italiano

Lo stesso argomento in dettaglio: Ippolito Nievo e Le confessioni di un italiano.

Il secondo grande romanzo patriottico italiano, nonché romanzo storico vero e proprio che rappresenta il connubio del dialetto toscano colle altre lingue italiane, è l'opera di Ippolito Nievo. Nievo fu un soldato che partecipò alle battaglie dei Mille di Giuseppe Garibaldi, e che morì prematuramente affogato.
La sua opera è narrata in prima persona, all'inizio, e racconta, in maniera quasi auto-biografica, le vicende di un giovane eroe italiano, che sogna l'Italia unita, e lascia la ragazza che ama e il suo borgo per partecipare alla spedizione dei Mille.

I temi sono:
il tema patriottico è presente e sorretto da un senso religioso del dovere che si esprime nel sacrificio della giovinezza e della vita.

L'amore è inteso come trasporto dei sensi e passione sublime nel contempo. La Pisana è l'espressione della passione genuina che ha in sé la sua redenzione (differente posizione da quella di Manzoni). Esprime inoltre una rivolta contro il moralismo cattolico-conformista.

Il tema storico-evocativo (il castello di Fratta, la caduta di Venezia, l'incontro con Napoleone Bonaparte, ecc.) è basato su una salda fede e su una costante e rinnovata speranza nel riscatto della patria.[74]

La figura della Pisana è una riuscita rappresentazione di figura femminile: frivola, incostante, capricciosa, angelo e peccatrice insieme, ma profondamente legata a Carlino, pronta a sacrificarsi a lui quando è necessario.

Giacomo Leopardi

Lo stesso argomento in dettaglio: Giacomo Leopardi.
Leopardi

Leopardi, nato nel 1798 e morto nel 1837 è considerato il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario. inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialiste – derivate principalmente dall'Illuminismo – si formarono invece sulla lettura di filosofi come il barone d'Holbach[75], Pietro Verri e Condillac[76], a cui egli unisce però il proprio pessimismo.

Materialismo e pessimismo leopardiano

Frontespizio dei "Pensieri" leopardiani

Inizialmente Leopardi, studiando Rousseau e interrogandosi sulla condizione infelice umana, sviluppò un primo pessimismo, il cosiddetto “pessimismo storico”, che poi diventerà il “pessimismo cosmico”. Il primo pessimismo, secondo Leopardi, è dovuto alla condizione umana che non ha più valori, e ha perduto il senso di coraggio e di virtù dei grandi personaggi della classicità. Compiendo azioni virtuose e passionali, l’uomo dovrebbe riconquistare la felicità. Leopardi tuttavia si rese conto, studiano il materialismo, che l’uomo è assai lontano da Dio, così come Dio è lontano dalle sue creature, e che l’uomo è sempre portato, in quanto carne, a desiderare qualcosa, che tuttavia non potrà mai appagarlo totalmente, dacché, dopo averla posseduta, è sempre spinto da continue ricerche e desideri a trovare qualcosa che appaghi la sua sete, senza mari arrivare all’eterna felicità. Leopardi sostiene che la felicità si possa raggiungere soltanto da morti, e che sia qualcosa di eternamente opposto allo schema dell’universo, dominato dalla crudele Natura, che ha creato la vita, ma che la fa soffrire indicibilmente da millenni.
Nasce così il pessimismi cosmico, dove Leopardi è alla continua ricerca della felicità, e potrà trovarla soltanto se l’uomo rifiuterà il progresso del secolo attuale, falso portatore di allegria e buoni propositi, e si unirà ai suoi fratelli contro la natura, soffrendo fino alla morte naturale, raggiungendo la felicità.

Canti pisano-recanatesi

Lo stesso argomento in dettaglio: Canti (Leopardi).

«Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e, vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti, e procedere il chiami[77]»

L’opera più importante di Leopardi, nel contesto poetico, sono i "Canti", che si uniscono agli "Idilli". Sono una grande raccolta di poesie, che abbracciano le tre fasi del pessimismo leopardiano. La prima fase è composta da inni e odi che trattano temi eroici, come "All’Italia", "Ad un vincitore nel gioco del pallone". La seconda fase è dominata dai canti composti a Recanati, quelli più importanti tra i quali "L'infinito", Il passero solitario ", "Il sabato del villaggio" e "A Silvia". In questa fase si delinea il pessimismo cosmico: il rapporto morboso e conflittuale del poeta con la Natura matrigna, e delle sventure nel campo amoroso. Leopardi ha elaborato il suo pessimismo cosmico, sull’infelicità totale della vita, e sull’impotenza dell’uomo di cercare illusioni, e di nascondersi dietro il velo del progresso, e delle nuove scoperte. In tali poesie inoltre primeggia il tema del materialismo, e dell’anti-romanticismo.
Nella terza fase il poeta, dopo il passaggio dei componimenti del "ciclo di Aspasia ", passa a "La ginestra", dove riepiloga, descrivendo l’operato del Vesuvio, tutta la tragedia della vita umana, paragonandola ad una semplice ginestra. Leopardi consiglia al genere umano di comportarsi come il fiore, che cresce nei luoghi più impervi, ma che sa resistere tenacemente alle distruzioni della natura, per rigenerarsi.

Operette morali

Manoscritto de l’ "Infinito"

L’opera in prosa maggiore di Leopardi sono le "Operette", dialoghi satirici, ispirati a quelli di Luciano di Samosata, in cui Leopardi presenta il suo manifesto di poetica: l’avversione contro la natura, lo scetticismo per i tentativi dell’uomo di rendersi felice, e la presa di coscienza della vanità dell’esistenza umana. Di particolare rilevanza sono i dialoghi de "La scommessa di Prometeo", nel quale il titano fa una scommessa con Zeus, dicendogli che avrebbe trovato sulla Terra un uomo felice. Dopo tre tentativi, Prometeo pagherà la scommessa, perdendola. O nel "Dialogo della Natura e di un islandese", nel quale un giovane dell’Islanda (terra ritenuta all’epoca assai lontana dal mondo) si trova dinanzi alla Natura: una donna simile ad una statua, enorme, brutta e massiccia, a cui accusa tutti i mali del mondo. La Natura replica che lei non ha colpa delle sofferenze umane, perché tutto è segnato dal destino dell’esistenza, che si affida puramente al caso. L’islandese si allontana scoraggiato, e muore nel deserto.

Lo "Zibaldone"

Lo stesso argomento in dettaglio: Zibaldone.

Si tratta di un enorme diario personale, nel quale Leopardi annota dal 1817 tutti i suoi pensieri e riflessioni riguardo il suo sistema filosofico. I temi trattati sono: la religione cristiana, la natura delle cose, il piacere, il dolore, l'orgoglio, l'immaginazione, la disperazione e il suicidio, le illusioni della ragione, lo stato di natura del creato, la nascita e il funzionamento del linguaggio (con anche diverse annotazioni etimologiche), la lingua adamica e primitiva, la caduta dal Paradiso, il bene e il male, il mito, la società, la civiltà, la memoria, il caso, la poesia ingenua e sentimentale, il rapporto tra antico e moderno, l'oralità della cultura poetica antica, il talento, e, insomma, tutta la filosofia che sostiene e nutre la propria poesia.
Le situazioni affrontate con più interesse sono il “dolore” e il “ricordo”. Per Leopardi infatti il dolore è la causa delle sofferenze, nonché la vera natura di esse. Il dolore tuttavia induce a pensare e a riflettere, facendo scaturire il desiderio della felicità. Il ricordo è ciò che l’uomo possiede nella mente, grazie al quale riesce a catturare tutti i momenti felici del passato, e che può far rivivere soltanto con il cervello, permettendogli di affrontare le sofferenze.

Movimento degli scapigliati

Lo stesso argomento in dettaglio: Scapigliatura.
Luigi Capuana

La Scapigliatura fu un movimento artistico e letterario sviluppatosi nell'Italia settentrionale a partire dagli anni sessanta dell'Ottocento; ebbe il suo epicentro a Milano e si andò poi affermando in tutta la penisola. Il termine, che si impose nel corso degli anni cinquanta dell'Ottocento, è la libera traduzione del termine francese bohème (vita da zingari), che si riferiva alla vita disordinata e anticonformista degli artisti parigini descritta nel romanzo di Henri Murger Scènes de la vie de bohème (1847-1849).

Gli scapigliati erano animati da uno spirito di ribellione nei confronti della cultura tradizionale e il buonsenso borghese. Uno dei primi obiettivi della loro battaglia fu il moderatismo della cultura ufficiale italiana. Si scagliarono sia contro il Romanticismo italiano, che giudicavano languido ed esteriore, sia contro il provincialismo della cultura risorgimentale. Guardarono in modo diverso la realtà, cercando di individuare il nesso sottile che legava quella fisica a quella psichica. Di qui il fascino che il tema della malattia esercitò sulla loro poetica, spesso riflettendosi tragicamente sulla loro vita che, come quella dei bohémiens francesi, fu per lo più breve.

La Scapigliatura - che non fu mai una scuola o un movimento organizzato con una poetica comune precisamente codificata in manifesti e scritti teorici - ebbe il merito di far emergere per la prima volta in Italia il conflitto tra artista e società, tipico del Romanticismo europeo: il processo di modernizzazione post-unitario aveva spinto gli intellettuali italiani, soprattutto quelli di stampo umanista, ai margini della società, e fu così che tra gli scapigliati si diffuse un sentimento di ribellione e di disprezzo radicale nei confronti delle norme morali e delle convinzioni correnti che ebbe però la conseguenza di creare il mito della vita dissoluta ed irregolare (il cosiddetto maledettismo).

Negli scapigliati si forma una sorta di coscienza dualistica (una lirica di Arrigo Boito si intitola appunto Dualismo) che sottolinea lo stridente contrasto tra l'"ideale" che si vorrebbe raggiungere e il "vero", la cruda realtà, descritta in modo oggettivo e anatomico. Si sviluppa così un movimento che richiama innanzitutto i modelli tipicamente romantici tedeschi di E. T. A. Hoffmann, Jean Paul, Heinrich Heine, e francesi, in special modo Charles Baudelaire.

Il termine "scapigliatura" venne utilizzato per la prima volta da Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti) nel romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862).

Tra Ottocento e Novecento

Il verismo

Giovanni Verga
Grazia Deledda

Il Verismo (o realismo) è un movimento letterario che si diffonde in Italia nell'ultimo trentennio dell'Ottocento dietro la spinta di un analogo movimento francese, il Naturalismo. Carattere fondamentale del Naturalismo è il ritorno alla natura che si esprime attraverso la composizione di opere letterarie che hanno come argomento la realtà umana e sociale (anche quella più umile, penosa e sgradevole), rappresentata con rigore scientifico, in modo cioè del tutto oggettivo, distaccato.

I veristi italiani riprendono i principi del Naturalismo francese calandoli però in una situazione storica diversa. In Italia, infatti, l'industrializzazione che ha investito l'Europa in particolare l'Inghilterra e la Francia, è solo agli inizi, per lo più la raggiunta unità politica ha aggravato problemi già esistenti, come il profondo divario tra regione e regione e la netta separazione tre il Nord e il Sud. Nasce, infatti, proprio in questi anni la cosiddetta questione meridionale, che per molti aspetti è ancor oggi irrisolta. Il Verismo acquista così un carattere giornalistico, nel senso che gli scrittori analizzano e descrivono nelle loro opere le proprie realtà regionali in tutta la loro crudezza e drammaticità, con toni a volte decisamente pessimistici. I caratteri fondamentali del Verismo si possono così sintetizzare:

  • rappresentazione di una precisa realtà umana e sociale in modo obiettivo, quasi"fotografico"; l'opera letteraria viene ad assumere quindi l'aspetto di un documento oggettivo;
  • narrazione impersonale dei fatti, senza interventi (giudizi, considerazioni personali, partecipazione emotiva) da parte dell'autore che rimane così completamente estraneo alla vicenda;
  • utilizzo di un linguaggio semplice e diretto che, dovendo riflettere il modo di esprimersi della gente umile, comprende anche espressioni tipiche delle parlate regionali.

I maggiori rappresentanti del Verismo italiano sono senz'altro Giovanni Verga, Luigi Capuana e Matilde Serao. Tuttavia secondo alcuni critici sembrerebbe aderire a questi modi anche Grazia Deledda, anche se questi si trovavano in difficoltà nel collocarla tra Verismo o Decadentismo; in effetti la scrittura della Deledda merita un discorso a parte.

Giovanni Verga

Lo stesso argomento in dettaglio: Giovanni Verga.
Il faraglione di Aci Trezza nel film di Luchino Visconti

Giovanni Verga rappresenta il grande ritorno della Sicilia nel campo della letteratura italiana. Egli attraversa due periodi: il romanticismo e il verismo. Nel primo periodo Verga si limita a scrivere opere che riguardano il Risorgimento italiano, che non avranno molto successo. Il passaggio tra i due movimenti letterari è segnato dal romanzo "Storia di una capinera", nella quale già si delinea la triste condizione di impotenza dei personaggi delle varie classi sociali della Sicilia ottocentesca di Catania. Con il romanzo "I Malavoglia", e la novella "Rosso Malpelo", Verga compie il balzo al verismo. Lo stile di Verga si basa in parte su quello di Flaubert e Zola, soltanto che compie il processo della regressione, in quanto deve essere creata una forma inerente al soggetto. Inoltre ciò che viene rappresentato, è mostrato nella sua cruda realtà, senza omissioni (ad esempio la condizione di vita dei poveri e ricchi siciliani, e la loro parlata difficilmente comprensibile). Il processo di regressione di Verga è mostrato attraverso non solo il comportamento dei personaggi, ma anche tramite il narratore, che cambia in base alla materia trattata: uno stile basso per i pescatori dei "Malavoglia", il secondo più imborghesito per "Mastro-don Gesualdo ", che rappresenta il secondo maggior libro dell’incompiuto ciclo dei Vinti.

I Malavoglia

Lo stesso argomento in dettaglio: I Malavoglia.
Frontespizio dei Malavoglia

La vicenda è ambientata dopo l'Unità d'Italia, nel borgo siciliano di Acitrezza. Una famiglia di pescatori, capeggiata da Padron 'Ntoni, cade in fallimento, dopo che una tempesta ha distrutta la barca "Provvidenza", e il carico di lupini da vendere, una parte dei quali doveva essere distribuita allo Zio Crocifisso. I Malavoglia stentano a risollevarsi dal fallimento, e accadono gravi disgrazie, come la morte di alcuni familiari (il figlio di 'Ntoni con la tempesta, e Luca quando va a fare servizio militare). Rimane 'Ntoni, nipote di Padron 'Ntoni, che anziché aiutare la famiglia, si lascia distruggere dalla depressione, distruggendo la sua onorabilità.

Il romanzo è il manifesto di Verga del verismo, nel quale dichiara che la condizione sociale, nella stratificazione dei ceti, non può essere cambiata, come ad esempio il desiderio del Malavoglia di diventare veri commercianti di pesce. Occorre che la situazione rimanga la stessa, perché, per volere naturale, è immutabile. Il romanzo inoltre mostra temi di sconforto nei confronti dell'Unità, dacché il Sud Italia è stato abbandonato a sé stesso, senza futuro. Infatti Verga si mostra ostile al progresso delle industrie del nord, dove 'Ntoni vorrebbe andare, a lavorare a Milano. Padron 'Ntoni rispecchia tutti i sacri valori della famiglia siciliana, composti di obblighi e di proverbi infallibili, ma che cedono dinanzi al cambiamento improvviso della società, dei giovani, che desiderano abbandonare la "famiglia-guscio", simbolo di protezione, e di andare a perdersi nelle grandi città.

Mastro-don Gesualdo

Lo stesso argomento in dettaglio: Mastro-don Gesualdo.

Il secondo romanzo della "saga dei Vinti", ripercorre le vicende di un muratore: Mastro Gesualdo Motta, che giunge a Catania per sposarsi con la nobile Bianca Trao, caduta in disgrazia. Il popolo di Catania vede come un nemico Mastro-don Gesualdo, un uomo che lavora i mattoni, e pretende di essere un ricco signore. Nel frattempo Gesualdo crea una gabbia d'oro attorno a lui, odiando tutti, e temendo che ciascuno possa rubargli i suoi possedimenti. Acquista tutte le terre di Catania, e vive nel lusso, venendo odiato però anche dai suoi familiari. Infatti costringe sua figlia a sposare il Duca de Leyra, sebbene lei ami un modesto artista. Quando giunge la vecchiaia, Don Gesualdo è troppo debole, e si ammala di cancro, morendo nell'indifferenza di tutti.

I temi si concentrano in una radicalizzazione e universalizzazione del programma del ciclo dei Vinti. Il protagonista, che sale di condizione sociale (un borghese latifondista), cerca come i Malavoglia di scalare la sua classe, e di diventare un nobile. Tuttavia il popolo catanese gli rinfaccia sempre la sua condizione di misero muratore, mentre la malattia mentale di Gesualdo dell'amore folle per la roba, lo portano all'autodistruzione.

Federico De Roberto

Lo stesso argomento in dettaglio: Federico De Roberto.
Federico De Roberto

La fama di De Roberto è nota per essere considerato il "successore" di Verga. Siciliano anche lui, operò con Verga e Luigi Capuana nel movimento degli scapigliati, aderendo successivamente al naturalismo, e al verismo. La sua opera più famosa è I Viceré, che molti considerano essere il continuo del terzo romanzo incompiuto da Verga del ciclo dei Vinti.

I Viceré

Lo stesso argomento in dettaglio: I Viceré.

Nella Sicilia del 1853, la nobile famiglia degli Uzeda vede morire la Contessa Teresa. Il figlio Giacomo intende appropriarsi di tutti i possedimenti di famiglia, ma metà vanno al fratello Raimondo. Giacomo è sconvolto e arrabbiato, perché ha sempre odiato la madre, e sfoga la sua rabbia sul figlio Consalvo, che tratta sempre male. Quando Giacomo esce dal seminario, ormai è stata proclamata l'Unità d'Italia e torna a Catania, nel Palazzo Uzeda, per amministrare i beni di famiglia. Tuttavia i continui litigi con il padre guastano anche il potere e la solidità dei rapporti di famiglia. Molti familiari vengono comandati dal Principe Giacomo, che è riuscito a spodestare il fratello, e che non si accorhe che il fratellastro Don Blasco, in punto di morte, lascia i suoi beni al fratellastro Carmelo. Consalvo nel frattempo si avvicina alla carriera politica di Montecitorio, dacché suo zio lo invita ad appassionarsi del potere al parlamento, essendo il futuro, così spietato che distruggerà anche la stessa nobiltà. Nel frattempo il Principe Giacomo, sempre più potente ma ormai vecchio, inizia ad ammalarsi, e l'odio enorme che i parenti portano per lui finisce per schiacciarlo, e muore solo, senza che il figlio Consalvo, diventato deputato, lo perdoni.

Il romanzo include molti dei temi veristi, come l'ossessione per qualcosa. Nei romanzi verghiani erano il potere del commercio e della roba, nel romanzo di De Roberto è il "potere" vero e proprio sul popolo.

Giosuè Carducci e il neoclassicismo

Il tema maggiore delle opere di Carducci è l'Italia: il poeta, infatti, spesso si lamenta dell'Italia della seconda metà dell'Ottocento, dicendo che si è scordata dei valori della vecchia Italia e di quelli del Risorgimento.
Altro argomento importante nella poetica di Carducci sono i ricordi e le memorie dell'infanzia.
La lingua che egli usa nella sua poesia è rigida, colta e legata alla tradizione latina, ma non per questo familiare ed incomprensibile: spesso trasmette sensazioni tramite le suggestive immagine che il poeta riesce ad evocare.[senza fonte]

Le Odi barbare e il pensiero carducciano

Lo stesso argomento in dettaglio: Odi barbare.
Copetina delle Odi barbare

Il libro rappresenta il tentativo da parte di Carducci di riprodurre la metrica quantitativa dei Greci e dei Latini con quella accentuativa italiana. I due sistemi sono decisamente diversi, ma già altri poeti prima di lui si erano cimentati nell'impresa, dal Quattrocento in poi. Egli pertanto chiama le sue liriche barbare perché tali sarebbero suonate non solo ad un greco o ad un latino, ma anche a molti italiani.[78]

Assieme alle Rime, è il libro più rilevante del poeta. Tra le poesie che rispecchiano il suo programma di poetica vi sono Pianto antico e Alla fermata della stazione. La prima poesia è dedicata al piccolo Dante, suo figlio, morto prematuramente. Carducci usa moltissime metafore e termini che si collegano alla poesia classica greca, nonché ai carmi di Catullo e di Orazio. Tra queste c'è il melograno, che rappresenta la fertilità, la vita, e dunque la resurrezione dopo la morte.
La seconda poesia mostra l'ostilità di Carducci verso il progresso e le nuove macchine meccaniche, come appunto una locomotiva. Il poeta descrive il rombo, il rumore e gli sbuffi della macchina, paragonandola con varie metafore e similitudini ad un mostro mitologico, che non fa altro che disturbare la gente e rovinare la quiete della natura.

Purtroppo il pensiero carducciano, che nel suo tempo risultava essere un passo indietro della letteratura verso il passato, incontrarono l'ostilità del pubblico, e anche della critica. Infatti la corrente letteraria in voga di quel tempo era appunto il versimo, e successivamente Carducci venne rivalutato con il decadentismo, sebbene per poco tempo.

Il Decadentismo

Luigi Pirandello
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Francobollo di Fiume raffigurante Gabriele D'Annunzio

Il Decadentismo è una corrente artistico-letteraria che si sviluppa nei primi anni del Novecento. Durante questo periodo i poeti e gli scrittori si sentono estranei da un mondo che considerano materialista. Partecipano al senso di decadenza morale della loro epoca. Sentono che solo l'intuizione e la sensibilità, il sentimento, possano farli penetrare nei misteri della vita e farli distaccare dal materialismo. Per questo la loro poesia è libera, leggera, carica di significato e simbologie. I principali autori italiani di questo periodo sono Giovanni Pascoli, Italo Svevo e Luigi Pirandello. Il principale interprete del decadentismo è Gabriele D'Annunzio, molto coinvolto nella vita politica del tempo, noto per le sue poesie e la letteratura molto ridondante, retorica ed elaborata.

Giovanni Pascoli

Lo stesso argomento in dettaglio: Giovanni Pascoli.
Giovanni Pascoli

Il poeta romagnolo è il primo rappresentante del decadentismo italiano, assieme a Gabriele D'Annunzio. Avendo vissuto una vita tranquilla e mite, in solitudine, circondato solo dalle sue sorelle, Pascoli potette in maniera notevole riuscire a carpire i movimenti letterari del suo tempo, tra i quali il decadentismo, giungendo anche a dare una connotazione impressionistica ai suoi componimenti.

Myricae e l'impressionismo pascoliano

Lo stesso argomento in dettaglio: Myricae.

Il titolo della raccolta poetica, pubblicata nel 1891, è tratto da un verso delle Bucoliche di Virgilio, in cui sono citate le "tamerici".
Come accaduto per altri grandi raccolte, a cominciare dal Canzoniere di Petrarca, essa si estende per quasi tutto l'arco della produzione poetica dell'autore, così che la storia compositiva di Myricae si può dire coincida con lo sviluppo stesso della coscienza poetica di Pascoli. Per queste ragioni, l'identificazione di una unità strutturale della raccolta non può essere che il risultato di una interpretazione che prenda in considerazione, accanto alla lettura dei testi, gli eventi e le esperienze psicologiche che segnarono l'esistenza del poeta.
Il saggetto da lui scritto sul Fanciullino, mostra il suo programma di poetica: il poeta deve avere lo spirito di un fanciullo, che ancora non conosce tutte le cose del mondo, e guarda qualsiasi elemento della natura con occhi curiosi, e grande slancio di passione per quella novità. Il poeta inoltre deve usare un linguaggio "puro", senza artifici, che usi metafore, per far comprendere solo al lettore ciò che si nasconde di simbolico. Per Pascoli il poeta deve essere una sorta di veggente, che è in grado di comunicare i misteri della natura, e di decriptare il suo linguaggio visivo con le parole della poesia.
Temi frequenti nelle poesie pascoliane sono il linguaggio ornitologico (costitutito dall'anafora, dall'onomatopea e dalla sinestesia), con cui Pascoli fa parlare gli animali che descrive (spesso uccelli), nonché l'uso di termini che si avvicinino il più possibile al suono di tuoni, gorgoglii del mare e dei fiumi, e parole che riportino le immagini visive di maggior livello impressionista, come lampi, squarci nel cielo, lucciole notturne.

L'ammasso aperto delle Pleiadi (M45), nella costellazione del Toro. Pascoli lo cita col nome dialettale di "Chioccetta" ne Il gelsomino notturno. La visione dello spazio buio e stellato è uno dei temi ricorrenti nella sua poesia

Secondo gruppo di temi pascoliani riguarda il luogo familiare. Dato che Pascoli sin da ragazzo subì il trauma della morte violenta del padre, della madre, di una sorella e di un fratello, molte delle sue poesie (X agosto) sono composte da temi che invitano il poeta stesso ad avere fiducia solo e soltanto nel nido familiare, e di stare lontano dal mondo sconosciuto, incerto e pericoloso. La sua metafora del nido lo vede come uno roveto adorno di spine, dentro cui però c'è un cespuglio pieno di fiori. Il cespuglio è il nido, e le spine il mezzo di difesa della roccaforte contro le insidie del mondo.
Altri temi cari al poeta sono quelli della madre morta, a cui il poeta vorrebbe tanto ricongiungersi, ma con cui può comunicare soltanto con la poesia, e il sogno. I sogni pascoliani, così come la casa familiare, sono circondati dall'andare dei morti e degli spiriti dei parenti defunti prematuramente. Il poeta, dialogando con essi, si sente a suo agio, e di nuovo protetto, specialmente accanto allo spirito della madre.
Un tema che è negato, ma solo accennato nelle poesia di Pascoli, è l'amore. Il poeta, non essendo stato mai sposato in vita sua, e non avendo avuto mai alcuna relazione sentimentale, sembra quasi non sapere cosa sia tale sentimento, e quasi lo rifiuta apertamente. Questa è una delle caratteristiche del fanciullino-veggente pascoliano, che deve rimanere assolutamente "puro" da ogni tentazione del mondo, intento nel suo connubio tra "poesia bucolica" (riguardante situazioni terrene), e "poesia cosmica" (che riguarda gli elementi del cielo: il sole, la luna, le stelle).

La struttura formale coincide nelle sue linee portanti con i grandi temi strutturali della raccolta: innanzitutto, il dialogo tra l'io del poeta e la realtà esterna, costituita dal "piccolo mondo" mitizzato delle cose di natura, col loro carico di significati altrettanto simbolici, con un frequente senso del mistero.

Due elementi principali: l'evocazione e contemplazione della morte (il punto di vista soggettivo della poetica del dolore e del ricordo).

Se si vuole trovare una traccia dell'evoluzione stilistica del poeta nella complessa opera di strutturazione di Myricae, questa non può che essere data dall'evoluzione della sua lingua poetica; dai primi componimenti, anteriori al 1891, fino a X agosto e Canzone d'aprile, Pascoli sviluppa quella capacità del poeta-fanciullo di scoprire, sotto le maglie sempre più fitte delle convenzioni sociali, la lingua delle cose, lingua che si esprime attraverso la visione di ciò che esse sono in sé stesse; una visione che non è interpretazione storica, ma l'essenza stessa del loro essere.

Gabriele D'Annunzio

Lo stesso argomento in dettaglio: Gabriele D'Annunzio.
Ritratto di D'Annunzio

Il poeta abruzzese rappresenta l'altra faccia del decadentismo, più legata alla letteratura francese e all'estetismo di Oscar Wilde. La vita di D'Annunzio fu un susseguirsi di peregrinazioni e viaggi, e specialmente di situazioni paradossali e simboliche, atte a creare un'immagine pubblica di grande uomo e cesellatore della poesia e della parola, che immediatamente il pubblico italiano amò. La sua vicenda di "superuomo" infatti è molto legata al comportamento che, nel fascismo, Benito Mussolini assunse.

Il piacere e l'estetismo dannunziano

Lo stesso argomento in dettaglio: Il piacere (romanzo).
Ritratto di D'Annunzio in veste di Principe di Montenevoso

Il romanzo Il piacere risulta il primo dei Romanzi della Rosa, pubblicato nel 1889 Per D'Annunzio fu l'inizio del successo, giacché l'opera mostra il suo programma di estetismo. D'Annunzio crea la figura del dandy italiano, così come fece Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray, giovane di buona famiglia atto all'assaporare la bella vita, a ricordare il glorioso passato letterario e all'amore dell'arte. L'esteta dannunziano è sempre un nobile che venera il principio dell' arte per arte: che l'arte è qualcosa di insuperabile e di irraggiungibile, che vale ancora di più della stessa vita umana, e che è assolutamente da celebrare con lo stile ricercato, e le parole auliche e rare. L'esteta dannunziano inoltre deve ricercare una compagna con cui condividere il suo piacere di vivere, e il suo amore per l'arte, che purtroppo andrà a finire nella rottura di tale rapporto, non essendoci per l'esteta dannunziano alcuna donna (se non la fèmme fatale), in grado di misurarsi con lui.

Il romanzo è ambientato a Roma: il nobile abruzzese Andrea Sperelli si lascia con la sua amata Elena Muti, già promessa sposa ad un altro. L'opera compie un ampio flashback, in cui narra come Sperelli incontra Elena, e di come giunga a lotta con il suo fidanzato. Portato a Francavilla al Mare per essere curato, Andrea compone un ampio sonetto, simbolo del suo amore per l'estetismo, e si innamora di Maria Bianchi, con cui ha una relazione tormentata, specialmente quando giunge nuovamente a Roma, nel Palazzo Zuccari. Il triangolo amoroso tra Andrea, Elena e Maria non può funzionare a lungo, perché Elena si concentra di più sulla relazione con il suo promesso sposo, mentre Andrea, non potendo staccarsene, arriva addirittura a chiamare Maria con il nome di Elena. La relazione di Andrea con entrambe si rompe, quando si accorge che il suo periodo di gloria sta iniziando a svanire: la casa di Elena viene venduta all'asta, a causa dei ritardi di pagamento, e Andrea non può far altro che restare a guardare la plebaglia che si appropria degli oggetti di lusso.

Per molti aspetti tale romanzo è stato giudicato come il primo ad avere come protagonista il cosiddetto inetto (che sarà presente in Italo Svevo).

Il trionfo della morte e il superomismo dannunziano

Lo stesso argomento in dettaglio: Il trionfo della morte.
Il Duomo di Guardiagrele descritto nel Trionfo della morte

Con Il trionfo della morte, D'Annunzio inscena la figura del superuomo nietzschiano, che unisce alla figura dell'esteta già annunciata ne Il piacere. L'esteta superuomo rappresenta il venerante dell'Arte per eccellenza in D'Annunzio, che è alla ricerca sempre di una compagna, ma che vede il popolo e la borghesia come una minaccia per il suo mondo d'oro. La massa viene infatti sempre rappresentato come ente negativo, brutto e orripilante, che alla fine vincerà contro gli intenti dell'esteta-superuomo, essendo cambiata la moda, ed essendo concessa ad essa la possibilità di espressione.

Pubblicato nel 1894, Il trionfo della morte è ambientato inizialmente a Roma, ma successivamente nell'Abruzzo selvaggio dell'Ottocento, di contadini e cafoni arricchiti, di nobili decaduti e di streghe che ingannano gente superstiziosa. Il ricco Giorgio Aurispa giunge nel borgo montano di Guardiagrele, perché il padre ha sperperato tutti i beni familiari, e vive in dissoluzione in una villa, con la sua giovane amante. Giorgio rimane impotente dinanzi alla miseria della sua famiglia, e decide di scappare verso il mare Si rifugia in una villetta a San Vito Chietino, raggiunto dalla sua amata Ippolita, contemplando le macchina da pesca della costa dei Trabocchi, e scrivendo poesia appassionate. Giorgio è assai amareggiato dall'ambiente selvaggio della natura adriatica abruzzese, e dalla gente che si affida alla superstizione e al potere di false fattucchiere; invece Ippolita sembra esserne assai affascinata, essendo donna di città.
L'occasione per Ippolita di assistere ad una scena di comunione naturale morbosa degli abruzzesi con la natura e lo spirito, avviene durante un pellegrinaggio a Casalbordino, al Santuario della Madonna dei Miracoli. Giorgio rimane terrificato dalla scena dei poveri e degli ammalati che si umiliano fino a diventare delle bestie per ricevere la grazia, mentre Ippolita è stupefatta e divertita. Giorgio allora inizia a pensare che lei sia una !nemica", piuttosto che la sua compagna, e si uccide con lei.

La poesia delle Laudi del cielo, della terra, del mare e degli eroi

Lo stesso argomento in dettaglio: Laudi.
Ritratto di Gabriele D'Annunzio

Con il ciclo delle Laudi, il poeta pescarese afferma il genere poetico del decadentismo. I cinque libri del ciclo intendono celebrare l'unione e la comunione panica del poeta con la natura, ma anche con le gesta storiche degli eroi italiani, e con l'universo intero. D'Annunzio usa la massima forma di stile ricercato, raggiungendolo nel libro Alcyone (es. La pioggia nel pineto), in una continua euforia di amore e di visioni con la compagna Eleonora Duse. Altre tematiche sono le citazioni di grandi poeti, come Dante e Petrarca, e la messa in scena del suo sconforto verso la morte imminente, che giunge a rovinare la bellezza delle situazioni descritte, e del suo stupore e attrito verso essa. Molti miti dell'antica Grecia inoltre sono rielaborati per permettere lo slancio poetico dannunziano nei componimenti.

Maia - Laus vitae
Lo stesso argomento in dettaglio: Maia (poesia).

Il primo libro, Maia, fu composto nel 1903 e pubblicato nello stesso anno; è la mitizzazione del suo viaggio in Grecia, spunto per un'esaltazione panica della natura. Il sottotitolo, Laus Vitae, ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale ed un naturalismo pagano impreziosito dai riferimenti classici e mitologici. Contiene diverse liriche famose come l'Inno alla vita, l'Annunzio, il Canto amèbeo della guerra, la Preghiera alla Madre Immortale e La quadriga imperiale. Il tema principale è quello del superuomo e artista perfetto, incarnato nel poeta stesso, profeta di un nuovo mito.

Elettra
Lo stesso argomento in dettaglio: Elettra (D'Annunzio).

Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 e pubblicato nel 1903, è dedicato al mito del superuomo nell'arte e nell'eroismo universale. Segna anche la nascita del nazionalismo dannunziano. D'Annunzio stesso rimane in genere in secondo piano e diviene il cantore degli eroi immortali: nelle prime due parti celebra principalmente gli eroi della patria (La notte di Caprera dedicata a Garibaldi), in cui l'Italia viene trasformata nella "supernazione", proprio come il poeta è diventato "superuomo", e dell'arte (A Dante, Per la morte di Giuseppe Verdi, ma anche le liriche dedicate a Victor Hugo e a Nietzsche); nella terza parte, i "Canti della ricordanza e dell'aspettazione", sono cantate venticinque "Città del silenzio" (Ferrara, Ravenna, Pisa, ecc.), simbolo del passato glorioso dell'Italia; nella quarta si trovano il Canto di festa per Calendimaggio e il famoso Canto augurale per la Nazione eletta, che infiammò di entusiasmo i nazionalisti, e chiude il libro.

Alcyone
Lo stesso argomento in dettaglio: Alcyone.

Il terzo libro, Alcione, fu pubblicato assieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del D'Annunzio poeta (La pioggia nel pineto, La sera fiesolana, Stabat nuda Aestas, I pastori, Meriggio, Le stirpi canore, La tenzone e vari "ditirambi"). Esso è un unico e vasto poema solare, che raffigura l'estate trascorsa dal poeta con la compagna Ermione (Eleonora Duse) sulla costa della Versilia. In essa il superuomo si fonde totalmente con la natura, divenendone parte ("panismo dannunziano").

Merope - Canti della guerra d'oltremare
Lo stesso argomento in dettaglio: Merope (D'Annunzio).

Il quarto libro, Merope, raccoglie i canti celebrativi della conquista della Libia e della guerra italo-turca in Dodecaneso, composti ad Arcachon, e pubblicati dapprima sul Corriere della Sera e poi in volume nel 1912. Si tratta di una nuova divagazione sul tema patriottico e nazionalista e sul mito di Roma. Nota è La canzone dei Dardanelli, inizialmente censurata per alcuni versi ritenuti offensivi verso l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria.

Asterope - Inni sacri della guerra giusta
Lo stesso argomento in dettaglio: Asterope (D'Annunzio).

Il quinto libro, incluso nelle Laudi dopo la morte di D'Annunzio, fu in realtà concepito come parte di esse. Racconta l'esperienza del poeta nella prima guerra mondiale e le imprese compiute dagli italiani per il completamento dell'Unità d'Italia contro l'Austria. L'ultima parte è dedicata all'impresa di D'Annunzio come Comandante a Fiume della Reggenza italiana del Carnaro. In essa si trova la famosa lirica La canzone del Quarnaro, celebrazione della beffa di Buccari a cui aveva partecipato lo stesso poeta nel febbraio del 1918.

La figlia di Jorio: la tragedia dannunziana

Lo stesso argomento in dettaglio: La figlia di Iorio.
Copertina de La figlia di Iorio

La figura di D'Annunzio è rilevante anche nel campo della tragedia. Infatti egli è uno dei restauratori del genere teatrale in Italia, caduto in declino in quegli anni del fine Ottocento, e risorto completamente con Luigi Pirandello. D'Annunzio infatti intende applicare il suo metodo del superuomo esteta anche nel teatro, mostrando situazioni irreali, mistiche, di riflessione intorno alla natura e al rapporto morboso e carnale con la fèmme fatale, che porta il protagonista all'autodistruzione. Tuttavia le maggiori opere teatrali dannunziane riguardano quelle ambientate nella sua terra: l'Abruzzo, nell'intento del poeta di eternizzare le figure pastorali antiche, grazie alla scoperta dell'immutata sostanza della natura umana. L'autore ricerca oggetti come utensili, suppellettili che abbiano l'impronta della vita vera, e nel tempo medesimo vuole diffondere sulla realtà dei quadri un velo di sogno antico.
Perciò è proprio un sogno antico che riconduce il poeta alla sua terra d'origine, che nell'opera viene riportata ad uno stadio primitivo ed innocente, caratterizzato da usi e costumi arcaici. È infatti alla natura aspra della sua gente che il poeta salda la tragedia del destino.

Nella tragedia de La figlia di Iorio, D'Annunzio riesce ad unire tutti i suoi intenti. Ambientata nella montagna di Lama dei Peligni, la storia parla di un capofamiglia: Lazaro di Roio del Sangro, che è entusiasta per il matrimonio di suo figlio Aligi. Le nozze sono imminenti, e i preparativi sono quasi ultimati, quando durante la cerimonia, giunge una ragazza, inseguita dalla folla, accusata di essere una strega. Lo sposo rimane folgorato dalla bellezza della ragazza, e se ne innamora, troncando il matrimonio. Da quel momento Aligi è costretto a vivere come un ricercato, e fugge con la ragazza nella Grotta del Cavallone, dove vivono come eremiti. Aligi, successivamente, decide di andare a cercare qualcuno che dia aiuto a loro, per riconoscere il loro sentimento in maniera ufficiale con uno sposalizio, ma nel frattempo la povera ragazza viene catturata dai cittadini di Lama, e bruciata viva.

Letteratura di svago tra l'Ottocento e il Novecento: Salgari e Guareschi

Copetina de Le tigri di Mompracem

La letteratura italiana, tra l'Ottocento e il Novecento, è anche pervasa da opere e romanzi che si sono rivelati successi commerciali, sia in Italia che all'estero, ma che furono osteggiati dalla critica della penisola, e giudicati soltanto come atti al puro diletto. Oggigiorno essi sono stati ampiamente rivalutati.

Emilio Salgari
egli, vissuto a Verona e Torino, è stato il padre di Sandokan, la tigre della Malesia, con il romanzo Le tigri di Mompracem, e tanti altri del ciclo indo-malese. Sandokan rappresenta la figura dell'eroe indiano buono, ma feroce, un tempo principe, spodestato dai soldati dell'Inghilterra vittoriana, durante le campagne di colonizzazione dell'India, ed ora pirata, che cerca vendetta e aiuta il popolo indiano dalle angherie britanniche e dei fanatici thugs. Il suo acerrimo nemico è James Brooke, con cui ha numerose battaglie, sebbene Sandokan sia sempre aiutato dal portoghese Yanez de Gomera, e dal bengalese Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti.

Altro eroe caratteristico salgariano è il Corsaro Nero, ossia un filibustiere italiano, che opera nel Seicento, nelle spiagge di Maracaibo, alla ricerca delle vendetta contro Wan-Guld, che ha ucciso i suoi fratelli: il Corsaro Rosso e il Corsaro Verde.

Giovannino Guareschi
lo scrittore e giornalista romagnolo è il padre di Don Camillo e Peppone, il prete del villaggio padano di Ponteratto e del sindaco comunista che sono sempre in lotta tra loro, apparsi per la prima volta nel libro Don Camillo.L'intento di Guareschi è di affermare la fiducia verso il partito della democrazia cristiana, e di osteggiare il comunismo, a lui sempre avverso. Ma soprattutto Guareschi intende rappresentare un certo tipo di vita, mite e tranquillo, fondato sui valori, che oggi non esiste più: ossia quello della bassa padana, dove anche Don Camillo e Peppone, sebbene avversari politici, infine sono amici e si riuniscono sempre, dopo le loro scazzottate.

Collodi e De Amicis: letteratura educativa infantile

Con il sistema di scolarizzazione del primo Novecento, nacquero anche opere divulgative e precettistiche, nell'intento di educare i bambini e le giovani generazioni attraverso storie fantastiche e di vita reale.

Pinocchio
Carlo Collodi
lo scrittore e umorista toscano è il padre di Pinocchio, apparso in Pinocchio - Storia di un burattino. Il piccolo burattino di legno disobbedisce sempre a Geppetto suo padre, che vorrebbe portarlo a scuola per fargli avere un buon mestiere, e spera sempre che, un giorno, possa portargli fortuna. Un altro personaggio di rilievo è la Fata Turchina, la quale seguirà Pinocchio nelle sue avventure e lo aiuterà a comprendere che cosa deve far esattamente, oltre che aiutarlo nei momenti di necessità estrema ed a non lasciarsi tentare dalle cattive compagnie, quali il Gatto e la Volpe, ed alla sua goliardica avventura nel Paese dei Balocchi, l'imminente trasformazione in somaro e la sequenza del Terribile Pesce-Cane.
Edmondo De Amicis
lo scrittore è noto per il suo romanzo Cuore, ambientato nella città di Torino, dove in una scuola elementare, si intrecciano le storie di un gruppo di scolari, amici tra loro. Ciascuna storia che il protagonista narra nel suo diario (cosa che il maestro vuole affinché i bambini imparino a scrivere e a relazionarsi con la società), è il simbolo di un valore della moderna società che De Amicis vorrebbe sia instaurato nella coscienza dei lettori.

Primo Novecento

Lo stesso argomento in dettaglio: Riviste letterarie del Novecento.

All'inizio del secolo esplodono a livello europeo le cosiddette avanguardie, movimenti artistici che intendono rompere definitivamente i ponti con le forme più tradizionali della letteratura. Tra i maggiori movimenti d'avanguardia, sia in campo artistico che letterario, sono il dadaismo con Marcel Duchamp; la pittura volutamente deformata di Picasso e in generale del Cubismo; l'espressionismo, che tendeva a far interagire codici linguistici e stilistici diversi tra loro; il futurismo, la prima e più consapevole avanguardia letteraria in Italia. Benedetto Croce giudicò molto severamente quasi tutti gli scrittori contemporanei, influenzando così un largo numeri di critici accademici. All'inizio del XX secolo si colloca, unica e folgorante, l'esperienza artistica del poeta Dino Campana che nel 1914 pubblica i Canti Orfici.

Nel 1908 fu fondata, da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, La Voce, rivista di cultura e politica. Continuò le pubblicazioni fino al 1916. Fu una delle più importanti riviste culturali italiane del Novecento. Con l'interventismo emergono autori come Scipio Slataper e Filippo Corridoni.

Il libro poetico più rilevante della fase primonovecentesca è senza dubbio L'allegria di Giuseppe Ungaretti[79]. Per quanto riguarda la narrativa, essa si presenta in Italia dotata di una tradizione molto meno forte rispetto alla lirica, e comunque dominata per lungo tempo dal modello de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. In questo primo novecento occupano la scena della narrativa Gabriele D'Annunzio e Antonio Fogazzaro. Ma la critica tende oggi a individuare i testi più significativi fra quelli di Luigi Pirandello, che, pur partendo da premesse tardoveriste, si propone nel 1904 come sperimentatore e addirittura precorritore di alcune soluzioni metanarrative con Il fu Mattia Pascal, in cui si colgono nel testo le componenti della poetica pirandelliana più tipica: l'antipositivismo e l'antirazionalismo, non ben apprezzate da Croce. Altro romanziere fondamentale del primo novecento, divenuto oggetto di grande attenzione critica solo molto tempo dopo la sua prematura scomparsa, è Federigo Tozzi, i cui romanzi superano le barriere ormai logore del naturalismo anticipando la grande narrativa psicologica ed esistenzialista europea.

Nel contempo, intorno agli anni venti, si veniva rafforzando una tendenza antinovecentesca, cioè ostile ai caratteri sperimentali tipici del primo novecento, che trovava il suo punto di riferimento nel Canzoniere di Umberto Saba.

Luigi Pirandello

Lo stesso argomento in dettaglio: Luigi Pirandello.
Ritratto di Pirandello

Pirandello, siciliano, è stato il creatore della corrente letteraria, definita come "umorismo". Egli, oltre al campo del romanzo (Il fu Mattia Pascal - Uno, nessuno e centomila), è noto soprattutto nel campo teatrale, tra le quali opere spicca Sei personaggi in cerca d'autore. Ciò ha contribuito alla creazione del termine pirandelliano, che significa la classificazione di personaggi curiosi, strani, o di situazioni tragicomiche e bizzarre che accadono in maniera del tutto involontaria.

Il fu Mattia Pascal e lo sviluppo dell'umorismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Il fu Mattia Pascal.

Il romanzo, pubblicato nel 1904, inscena l'insieme delle situazioni dalle quali nasce il termine "umorismo" e "pirandelliano". Il concetto dell'umorismo era già stato definito dall'autore in un suo saggio, in cui descriveva una donna buffa e vecchia, che cerca di apparire giovane, ma che risulta da un primo momento oggetto di riso, e successivamente di compassione.

Pirandello

Nel romanzo sono spiegati i temi del rifiuto del protagonista verso la caduta nel vasto mondo, che è impossibile a comprendersi per la sua vastità, e che preferisce meglio vivere nell'ignoranza del paese, piuttosto che perdersi. Tuttavia per il protagonista Mattia accade l'esatto contrario, e il caso lo porta in un vortice di situazioni paradossali, in cui Mattia perde addirittura la sua identità. Nel colloquio successivo con un suo amico, il romanzo ha la possibilità di spiegare l'assoluta incertezza dell'umanità nel tempo presente, dove non solo sono caduti i valori, ma addirittura è caduta l'identità di ciascuno. Da qui la teoria della lanterninosofia, in cui l'esistenza è un immenso nulla nero, dove esistono solo i lanternini, simbolo delle certezze, e i lanternoni, che incarnano i valori. Ogni tanto accade che qualche lanternino o lanternone si spenga, e che quindi anche un valore cada, fino al buio totale. Pirandello tuttavia invita il pubblico a non avere paura del buio, perché solo il buio in realtà rappresenta la verità, diversa dalla realtà falsa e bigotta costruita dall'uomo, per cui ogni valore va a scatafascio e ciascun comportamento è considerato ambiguo, se non conforme alla massa.
Di qui anche la teoria dello strappo nel cielo di carta, in cui Mattia, assistendo alla rappresentazione di una tragedia di Sofocle, vede strapparsi il cielo finto della scenografia, e il protagonista diventare Amleto: ossia che l'eroe greco arcaico, consapevole del suo destino, e dei suoi valori perfettamente incastonati nel suo spirito, con l'aprirsi del cielo, e dell'uscire dal suo piccolo mondo verso il grande universo, si trasforma nell'eroe confuso e meditativo, ossia quello di Shakespeare.

Il protagonista dunque è Mattia Pascal, che vive nel suo borgo, costretto ad un matrimonio per colpa di un suo errore. Egli è in continua lotta con la vedova Pescatore, sua suocera, e così decide di scappare dalla sua villetta, e di andare a Montecarlo a praticare il gioco d'azzardo. Tornando nel suo pese, legge in giornale della morte di un certo Mattia Pascal; allora il protagonista coglie l'occasione per fuggire in varie città d'Italia, con il nome di Adriano Meis, e di trasferirsi in affitto a Roma. Lì conosce una simpatica famiglia, con problemi economici, e successivamente Mattia/Adriano si innamora della timida figlia. Dopo un equivoco, Mattia vorrebbe denunciare un suo aggressore, ma si rende conto che non ha più identità, e così si accorge del suo grande errore di aver cercato di cambiare personaggio, diventando un "nessuno". Dunque torna al suo paese, sconsolato, dove sua moglie si è risposata. Lui chiarirà l'equivoco e andrà a vivere vicino una biblioteca, dove fa conversazioni filosofiche con il parroco.

Sei personaggi in cerca d'autore e Uno, nessuno e centomila: la caratterizzazione delle maschere e dei personaggi

Lo stesso argomento in dettaglio: Sei personaggi in cerca d'autore e Uno, nessuno e centomila.

Nella crescita delle fasi dell'umorismo, Pirandello arriva a definire nuovi concetti: prima di tutto la liberazione dell'individuo, costretto in una gabbia dai commenti della gente per i suoi comportamenti (a meno che non si adegui alla massa), liberazione dal quale passerà ad una nuova fase, diventando un "nessuno", e poi vari personaggi (Uno nessuno e centomila), in base al modo in cui è considerato dai suoi prossimi, nel giro della sua vita. In secondo luogo, Pirandello arriva a definire il sistema delle "persone-personaggi", e delle maschere. La maschera è ciò di cui si serve un personaggio per apparire ciò che non è, e che usandola o no, non assumerà mai un'identità, perché si trova sempre, nella vita, a recitare una parte. Dovrà soltanto affrontare la tesi della lanterninosofia, e superare il trauma dello strappo nel cielo di carta per apparire come una persona, ossia nella sua vera natura, incurante del giudizio dei prossimi.

Questo è l'esempio di Uno, nessuno e centomila, e di Sei personaggi in cerca d'autore. Nel dramma teatrale la vicenda dell'incertezza esistenziale è portata al massimo, raggiungendo livelli mai toccato dal teatro italiano fino ad allora: il giungere in scena di una famiglia di personaggi di una sconosciuta opera, in cerca del loro autore.

Italo Svevo e La coscienza di Zeno

Lo stesso argomento in dettaglio: Italo Svevo e La coscienza di Zeno.
Italo Svevo

Svevo fu assai giudicato male per le sue opere, essendo stato uno dei precursori della psicoanalisi di Freud nel campo letterario. Il suo maggiore romanzo è La coscienza di Zeno.

Il protagonista è Zeno Cosini, triestino, che attraversa varie fasi della sua vita, in cura da un certo dottor S., sperimentando la psicanalisi. Momenti cruciali della sua vita sono stati quello in cui si fa curare per smettere di fumare (l'ultima sigaretta), quello in cui si sente in colpa per la morte di malattia del padre (lo schiaffo del padre), le vicende matrimoniali e la sua fortuna industriale durante la Grande guerra.
Zeno rappresenta l' inetto per eccellenza, personaggio scomodo nella società e malvisto, perché nell'inconscio della sua mente compie azioni senza senso, e completamente sbagliate, che si risolvono sempre in un totale fallimento, inspiegabile. Ad esempio nei capitoli (blocchi narrativi), ricorda quando non riesce a smettere di fumare, si sente in colpa per aver litigato con il padre, e per aver ricevuto uno schiaffo (sebbene sia stato un equivoco), ama una donna bella, promessa ad un altro, e si convince di sposare la sorella, assai brutta, ma pura di spirito, sua compagna ideale. Unica cosa che gli riesce perfettamente è la fortuna durante lo scoppio della Prima guerra mondiale, producendo armi.

Il pessimismo tuttavia sveviano è permeante, visto che il protagonista, in cura psicologica, non riesce a trovare una soluzione ai suoi problemi, e addirittura ritiene che tale scoperta progressista sia una truffa per ingannare la gente. Egli si ritiene un malato in una società di folli, che tuttavia in quanto malato, ragionando diversamente, riesce a superare le incertezze e le difficoltà, non provandone dolore; mentre invece la gente che si crede sana, quando non riesce un'azione nei propri progetti, si amareggia e si dispera. Dunque Zeno, sebbene il dottor S. lo dichiari insano di mente, si crede guarito, considerando il resto della società insano di mente, e preannuncia che per arrivare ad un nuovo ordine cosmico, necessita l'esplosione di tutto l'universo conosciuto, partendo proprio dal globo terrestre. Solo così si arriverà alla calma quiete dell'inizio, prima del big bang.

Il Crepuscolarismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Crepuscolarismo.

Crepuscolari fu l'aggettivo con cui il critico Giuseppe Antonio Borgese definì[80] un gruppo di poeti che operarono all'incirca nel primo ventennio del XX secolo e che interpretarono in modo particolare la sensibilità e i temi del Decadentismo italiano.

Il crepuscolo è il momento della giornata che segue il tramonto, è l'ora in cui si diffonde una luce tenue e morente: i poeti crepuscolari derivano il loro nome dal gusto per la penombra e dall'amore per gli aspetti più grigi, meno appariscenti e meno solari dell'esistenza.

Essi cantano le piccole cose di ogni giorno, gli oggetti e gli ambienti più banali, le abitudini, gli affetti e l'intimità di una vita senza grandi ideali, rifiutando l'impegno nella realtà sociale, sognando il ritorno all'infanzia e aspirando ad una vita semplice, confortata dai valori della tradizione. Essi stessi si considerano figli della poetica del Pascoli, il primo e più grande cantore delle"piccole cose" e del verso slegato ed intimo.

Manca nei poeti crepuscolari, che non costituirono mai un movimento o una scuola ben definita, lo slancio e la passione ed essi considerano con ironia il loro sogno di una felicità quieta, quasi modesta. Il ripiegamento nostalgico su sé stessi, unito alla malinconia dell'esistenza, ebbero però una precisa funzione polemica contro il lirismo dannunziano: attraverso modulazioni di linguaggio tendenti all'andamento prosastico e discorsivo anziché al canto pieno, i crepuscolari sottolineavano il loro rifiuto del superuomo e dei miti estetizzanti[81].

Fra i crepuscolari il poeta che ha acquistato maggior fama è Guido Gozzano, accanto a lui si ricorda Sergio Corazzini e, per quanto riguarda le prime opere, Corrado Govoni e Marino Moretti.

Il Futurismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista.
File:Aldo Palazzeschi.jpg
Aldo Palazzeschi

Nei primi anni del Novecento, opposta a quella dei crepuscolari fu la voce dei futuristi. Mentre i primi si ripiegavano su se stessi e con linguaggio prosastico e dimesso invocavano un ritorno ai buoni sentimenti del passato, i secondi reagivano alla caduta di ideali della loro epoca proponendo una fiducia fermissima nel futuro.

Fondatore del movimento futurista è Filippo Tommaso Marinetti che a Parigi, nel febbraio del 1909, pubblica il primo Manifesto futurista.

In esso si proclama la fede nel futuro e nella civiltà delle macchine, si affermano gli ideali della forza, del movimento, della vitalità, del dinamismo e dello slancio e si spronano i letterati a comporre opere nuove, ispirate all'ottimismo e ad una gioia di vivere aggressiva e prepotente.

Si auspica inoltre la nascita di una letteratura rivoluzionaria, liberata da tutte le regole, anche quelle della grammatica, dell'ortografia e della punteggiatura.

I futuristi sperimentano nuove forme di scrittura per dar vita ad una poesia tutta movimento e libertà, negano la sintassi tradizionale, modificano le parole, le dispongono sulla pagina in modo da suggerire l'immagine che descrivono.

La loro necessità di liberarsi del passato e il loro desiderio di incendiare musei e biblioteche che lo proteggono, vengono proclamate con enfasi e violenza: dall'esaltazione del movimento si passa all'esaltazione euforica della guerra, vista come espressione ammirabile di uomini forti e virili.

I futuristi sostengono la necessità dell'intervento nella prima guerra mondiale e in seguito aderiscono all'impresa di Fiume e ai primi sviluppi del fascismo.

Fra i poeti che partecipano all'esperienza futurista, oltre che a Marinetti, si ricordano Aldo Palazzeschi, Luciano Folgore, Ardengo Soffici e Corrado Govoni.

Durante il Regime

Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura italiana durante il fascismo.

La letteratura italiana nel Novecento è fortemente influenzata, più ancora che in altri secoli, da fattori storico-politici e socioculturali in genere. Sul primo versante, per esempio, non si può sottovalutare che, durante il ventennio fascista, (1922-1943), la libera circolazione delle idee è stata impedita o fortemente limitata, e che perciò il dibattito letterario è stato fortemente condizionato, e tornato in primo piano poi alla fine della seconda guerra mondiale, con una massiccia adesione degli scrittori alle ideologie di sinistra.

Sul versante socioculturale ebbe grande influenza il filosofo e critico Benedetto Croce, tra i pochissimi intellettuali a rimanere indipendente dal fascismo a differenza del suo collega Giovanni Gentile.

Tuttavia si deve sottolineare che anche sotto il regime fascista rimase vivace l'interesse per il confronto letterario, grazie soprattutto alle riviste fiorentine, come Solaria, alla quale collaboravano autori quali Eugenio Montale o Carlo Emilio Gadda o le riviste letterarie di Mino Maccari e Leo Longanesi. Insieme alla consacrazione di Luigi Pirandello, Premio Nobel per la letteratura nel 1934, emersero scrittori come Antonio Baldini, Curzio Malaparte, Massimo Bontempelli.

Tra i caratteri fondamentali del panorama letterario italiano della prima metà del Novecento è fondamentale l'interazione fra la lingua nazionale, impostasi di fatto solo nell'ultimo scorcio dell'Ottocento e dopo l'unità (1861), e i dialetti, ovvero le vivacissime lingue legate alle tante realtà socioculturali della nazione. Questa interazione portò spesso all'uso di un bilinguismo, ben evidente per esempio in molti poeti del primo novecento come il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che fu membro dell'Accademia d'Italia, o il veneto Giacomo Noventa che, pur essendo un intellettuale colto ed eclettico, scriveva versi soprattutto nel suo idioma materno, in implicita polemica con l'odiatissimo regime fascista.

I Quaderni dal carcere di Gramsci

Lo stesso argomento in dettaglio: Antonio Gramsci e Quaderni dal carcere.
Ritratto di Gramsci

I Quaderni furono composti da Gramsci dal 1929 e fino al 1935, durante la sua prigionia nelle carceri fasciste.

Vennero pubblicati in una prima edizione tra il 1948 e il 1951, secondo un ordine tematico, ottenendo un grande impatto nel mondo della politica, della cultura, della filosofia e delle altre scienze sociali dell'Italia del dopoguerra. Nel 1975, curata da Valentino Gerratana, uscì un'innovativa edizione critica con un'accurata ricostruzione cronologica.

I temi trattati di maggior rilevanza possono essere così riassunti:

  • l'egemonia, nella sua accezione più vasta, considerata l'arma che permette a una classe di mantenere il controllo sociale di un Paese;
  • il ruolo degli intellettuali, che devono contribuire a creare le condizioni perché tale egemonia passi al proletariato;
  • considerazioni sulla filosofia crociana, considerata condivisibile per l'impianto storicistico, ma da ribaltare nella priorità della sfera ideale su quella materiale;
  • l'analisi dell'esperienza risorgimentale, considerata una rivoluzione mancata, a causa delle contraddizioni presenti nelle classi egemoniche nell'affrontare e gestire il cambiamento strutturale del Paese;
  • lo studio del folklore, inteso come espressione della visione del mondo delle classi dominate, dotate di loro capacità di resistenza critica e rivoluzionaria nei confronti dei valori borghesi;
  • la questione meridionale, ovvero il problema principale dell'organizzazione del proletariato, con la necessità di creare una coscienza di classe rivoluzionaria per le masse di contadini del sud;
  • considerazioni sulla critica letteraria ed artistica, con la distinzione tra valutazione estetica e sociologica-politica, e un tentativo di mediazione tra le due.

Anti-novecentismo

Umberto Saba

Lo stesso argomento in dettaglio: Umberto Saba.

La vita di Saba fu assai tormentata. Egli rappresenta l'anti-Novecentismo, in cui rifiuta i canoni della poesia novecentista, del futurismo e del crepuscolarismo, tornando ad una poesia classica. Infatti il suo modello sarà Francesco Petrarca, e i temi si svolgeranno attorno alla sua vita personale.

Il Canzoniere

Lo stesso argomento in dettaglio: Canzoniere (Umberto Saba).
Saba

L'opera, pubblicata inizialmente nel 1919, è stata ripubblicata altre volte, e notevolmente ampliata, venendo divisa in tre sezioni; e risulta essere un ampio percorso di vita del poeta, così come la Vita di un uomo di Ungaretti. Saba nell'opera si propone di raccontare il processo di ricerca di un semplice uomo, ossia il poeta stesso, verso la purificazione totale. Infatti egli nella raccolta racconta dall'infanzia all'anzianità quasi tutta la sua vita in versi. Il tema principale è quello dell'infanzia del poeta, travagliata dal trauma della separazione a tre anni del fanciullo dalla balia che lo aveva accudito. L'educazione repressiva della madre induce Saba a vivere un trauma, tant'è che egli nei componimenti chiama la sua balia "Madre di gioia", mentre la figura della madre porterà il soprannome di "Madre mesta". Saba inoltre attribuirà queste due figure ad ogni donna che incontrerà nella sua vita. Nel primo volume Lina, sua moglie, verrà paragonata alla figura della madre, in quanto di carattere oscuro come la genitrice, mentre nel volume secondo, in particolare nella raccolta Fanciulle, Saba darà alle varie donne che incontrerà l'attributo della madre di gioia.
Particolarmente la figura di Lina è legata al poeta, che la ritrae nella poesia A mia moglie (Casa e campagna) paragonandola a varie forme di animali di campagna mansueti, che però hanno atteggiamenti duri e severi, come quelli della madre stessa del poeta.

Eugenio Montale: Ossi di seppia e La bufera e altro

Lo stesso argomento in dettaglio: Eugenio Montale, Ossi di seppia e La bufera e altro.

Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l'affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza: in una delle liriche introduttive, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell'opera designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l'uomo, che con l'età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale.

In tal modo Montale capovolge l'atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all'uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale "Divina indifferenza" è l'esatto contrario della "Provvidenza divina" manzoniana. La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere).

Quelli di La bufera e altro sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti. Per quanto riguarda l'engagement tipico di quegli anni, non ce n'è alcuna traccia.[82]

I Narratori


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Il Neorealismo

File:Moravia and Morante.jpg
Elsa Morante e Alberto Moravia a Capri negli anni quaranta

La narrazione realistica prosegue anche nel Novecento, ma spesso cambia di prospettiva. Se nel secolo precedente i personaggi concorrevano alla rappresentazione di un dato ambiente, ora l'attenzione è più concentrata sulle contraddizioni interne del personaggio, inquieto per i grandi dubbi esistenziali, sconvolto per il devastante impatto di grandi tragedie storiche: è il caso di tanti protagonisti di Pavese. Nel novecento si afferma inoltre il filone della memorialistica, le cui opere, a essere precisi, non possono essere considerate dei veri e propri romanzi; infatti in esse non ci sono invenzioni narrative, ma solo testimonianze di fatti ed eventi realmente accaduti e vissuti in prima persona dai protagonisti: è il caso delle opere di Primo Levi Se questo è un uomo e La tregua. Il romanzo realista, ormai con il nome di romanzo neorealista, presenta dunque un panorama quanto mai vario e quindi anche tecniche diverse rispetto alla tipologia di narratore e alla focalizzazione: in linea generale, si tende a far scomparire il narratore onnisciente a focalizzazione zero fissa, più caratteristico del romanzo storico; si va dal narratore esterno a focalizzazione esterna o interna, fino al narratore interno; spesso la focalizzazione è variabile e, nel caso dei romanzieri veristi italiani, si tende ad assumere un punto di vista corale.

La letteratura meridionalista


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L'ermetismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Ermetismo (letteratura).

La poesia ermetica fu così chiamata nel 1936 dal critico Francesco Flora che con l'aggettivo ermetico volle definire un tipo di poesia caratterizzata da un linguaggio difficile, a volte ambiguo e misterioso (il termine è derivato dal nome del dio greco Hèrmes, il Mercurio dei Romani, personaggio dai risvolti enigmatici).

I poeti ermetici con i loro versi non raccontano, non descrivono, non spiegano ma fissano sulla pagina dei frammenti di verità a cui sono pervenuti attraverso la rivelazione poetica e non con l'aiuto del ragionamento.

I loro testi sono estremamente concentrati e racchiudono molti significati in poche parole e tutte le parole hanno un'intensa carica allusiva, analogica, simbolica.

La poesia degli ermetici vuole liberarsi dalle espressioni retoriche, dalla ricchezza lessicale fine a sé stessa, dai momenti troppo autobiografici o descrittivi e dal sentimentalismo.

Gli ermetici vogliono creare della "poesia pura" che possa essere espressa con termini essenziali. Concorrono a questa essenzialità anche la sintassi semplificata che spesso viene privata dei nessi logici, con spazi bianchi e lunghe e frequenti pause che rappresentano momenti di concentrazione, di silenzio, di attesa.

I poeti ermetici si sentono lontani dalla realtà sociale e politica del loro tempo. L'esperienza della prima guerra mondiale, e quella del ventennio fascista, li ha condannati ad una grande solitudine morale e l'impossibilità di farsi interpreti della realtà storico-politica li isola confinandoli in una ricerca riservata a pochi e priva di impegno sul piano politico. Possono considerarsi precursori dell'ermetismo i poeti Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Dino Campana, Arturo Onofri. I poeti sicuramente più rappresentativi della corrente sono Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959. Fra gli altri poeti: Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Mario Luzi.

Salvatore Quasimodo

Giuseppe Ungaretti

Lo stesso argomento in dettaglio: Giuseppe Ungaretti.
Ungaretti

La vita di Ungaretti fu segnata inesorabilmente dallo scoppio della Grande guerra e dalla Seconda guerra mondiale. Egli è lo sperimentatore di un nuovo metodo di fare poesia, basato sulla ricerca degli archetipi e dei veicoli, che riguardano la "cristallizzazione" della parola, alfine di giungere ad uno stile sublimato e puro, che abbracci la vita e la natura nei momenti di maggiore sconforto.

L'allegria

Lo stesso argomento in dettaglio: L'allegria.

La poesia che dà il titolo alla raccolta del 1916, Il porto sepolto, parla di un porto, sommerso, ad Alessandria, città natale dell'autore, che doveva precedere l'epoca tolemaica, provando che la città era un porto già prima d'Alessandro. I fiumi è una celebre composizione, nella quale Ungaretti rievoca, con i propri ricordi personali, i fiumi che li hanno attraversati, ossia, l'Isonzo, il Serchio, il Nilo, la Senna. Attraverso i fiumi il poeta ripercorre le "tappe" più importanti della sua vita. Pellegrinaggio esprime invece la capacità di trovare la forza interiore per salvarsi dalle macerie della guerra. In essa egli formula la nota definizione di sé: «Ungaretti / uomo di pena / ti basta un'illusione / per farti coraggio»[83].

La poesia più famosa dell'opera è Mattina (M'illumino / d'immenso)[84], scritta a Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917. «È la poesia più breve di Ungaretti: due parole, tra di loro unite da fitti richiami sonori. Nell'illuminazione del cielo al mattino, da cui nasce la lirica, il poeta riesce a intuire e cogliere l'immensità» (Marisa Carlà).[85] Romano Luperini ha notato come "l'idea della infinita grandezza... colpisce nella forma della luce".[86]

Ciò che colpisce maggiormente dell'opera è lo stile, che tende alla "verticalizzazione" della frase, ai continui enjambements, alle metafore e alle similitudine, nonché alla presenza dei deittici questo e quello, per indicare l'immediatezza. Il tema presente nell'opera è sempre la guerra, il desiderio del poeta di trovarsi in altri luoghi, e di ascendere alla comunione panica con l'universo (ES), trasmigrando dalla sua vita terrena che lo attanaglia (IN). L'acqua è un veicolo particolare per Ungaretti, giacché simboleggia per lui la rinascita e il ricordo, come nella poesia I fiumi, in cui il bagno nell'Isonzo aiuta il poeta a ricorda i momenti della sua infanzia e della sua gioventù, legati solamente ai fiumi dei posti che ha visitato, che lo aiutano a ricordare la sua identità, e a mantenere il suo attaccamento folle alla vita nei momenti di orte che lo circondano in trincea.

Altre poetiche

La poesia di Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale si può collegare all'ermetismo, ma dopo gli esordi si evolve poi in linee poetiche originali ed innovative.

La poesia di Umberto Saba è del tutto lontana dalla sensibilità ermetica per il tono discorsivo dei suoi versi e per il linguaggio semplice e prosastico. Il poeta crede nella poesia come in uno strumento di comunicazione fra gli uomini e come proposta di valori ideali.

Ugualmente lontana dall'ermetismo è la poesia di Vincenzo Cardarelli o quella di Idilio Dell'Era che, prendendo a modello la poesia di Leopardi, aspirano a perpetuare la tradizione classica.

Dopoguerra e secondo Novecento

Eugenio Montale

Nella seconda metà del secolo una caratteristica è la notevole divaricazione tra il destino della poesia e quello della narrativa: mentre la prima è senz'altro dotata di una propria tradizione, la seconda appare continuamente rinnovata.

La Poesia

Dopo la Seconda guerra mondiale molti poeti, in un rinnovato clima politico, riaffermano il valore sociale della poesia e criticano il disimpegno dell'ermetismo.

In questi anni di fronte a un'ampia fioritura della narrativa, la poesia si trovò spiazzata. Bisogna tuttavia notare che in questo stesso periodo si ha un progressivo spostamento degli interessi del grande pubblico verso il cinema italiano, e, dalla seconda metà degli anni cinquanta, si riscontra una prima polarizzazione tra produzione di largo consumo e cultura d'élite. Nel secondo dopoguerra, è Eugenio Montale a diventare il modello più seguito dai giovani autori. A Umberto Saba invece si ispirano poeti antinovecenteschi.

La letteratura: da Pavese a Fenoglio

Cesare Pavese

In questo periodo si sviluppa in Italia il Neorealismo. Questa nuova tendenza intendeva descrivere l'enormità degli eventi appena accaduti soprattutto durante la seconda guerra mondiale. In questi anni si assunse, in generale, un atteggiamento di condanna verso la letteratura italiana precedente, rea di aver collaborato con il fascismo, con l'eccezione dei realisti degli anni trenta. Principale interprete di questa condanna fu Elio Vittorini, attraverso la rivista Il Politecnico, nella quale inoltre ribadiva la libertà e l'indipendenza dell'artista dalla politica. La riacquisizione della libertà di stampa dopo la fine del Fascismo, favorì la nascita di un'editoria vivace e libera. Vicenda esemplare fu quella della casa editrice Einaudi, fondata da Giulio Einaudi, figlio del grande economista e presidente della repubblica Luigi Einaudi. Questa casa editrice coinvolse filosofi, storici e letterati più importanti dell'epoca.

Durante il periodo neorealista e soprattutto negli anni seguenti, la narrativa sperimenta forme e temi nuovi, in una grande varietà di produzione in cui è difficile distinguere dei filoni. Tra gli scrittori più noti: Carlo Cassola, Giorgio Bassani, Vasco Pratolini, Carlo Emilio Gadda, Emilio Lussu, Italo Calvino, Dino Buzzati, Carlo Levi, Alberto Moravia, Elsa Morante, Cesare Pavese, Ignazio Silone, Ennio Flaiano, Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Primo Levi e i siciliani Vitaliano Brancati, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Elio Vittorini, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.

E ancora Romano Bilenchi, Natalia Ginzburg, Giovanni Arpino, Umberto Eco, Beppe Fenoglio, Giuseppe Berto, Giovanni Testori, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Francesco Jovine, Antonio Delfini, Alberto Arbasino, Luciano Bianciardi, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Giorgio Orelli, Mario Soldati, Lucio Mastronardi, Antonio Pizzuto, Dacia Maraini, Tommaso Landolfi, Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri, Eugenio Corti.

Pier Paolo Pasolini

In quegli anni la scelta dei dialetti risulta soprattutto difensiva o per opposizione contro la massificazione e poi la globalizzazione, come nel caso di Pier Paolo Pasolini. L'intersezione dei dialetti diventa, nel secondo Novecento, da un lato molto più affine al plurilinguismo colto, e basato magari sul rapporto anche con lingue morte, dall'altro, come in Andrea Camilleri, il dialetto è intimamente integrato nel linguaggio in italiano e utilizzato nel discorso diretto e nelle citazioni di proverbi e modi di dire.

Ignazio Silone e Fontamara

Silone

Lo scrittore abruzzese è legato, nella letteratura italiana, alla sua opposizione al fascismo, e all'adesione al comunismo, che gli valse l'esilio. Il poeta, come D'Annunzio, è fortemente legato all'Abruzzo (stavolta nella Marsica), in cui narra le vicende di miseria dei poveri contadini durante l'oppressione fascista, e della resistenza contro tali frustrazioni.

Il nome del romanzo Fontamara racchiude in sé già un destino di sventure e sofferenze, inventato appunto dall'autore per rispecchiare meglio la realtà del paese. Quasi tutti i nomi dei personaggi del romanzo non sono casuali: Don Circostanza, infatti si adegua alle diverse situazioni tenendo prima la parte dei contadini, quindi quella degli agiati cittadini, cercando sempre un tornaconto personale; Don Abbacchio il prete, richiama il verbo “abbacchiare” infatti egli non farà altro che deprimere i poveri abitanti della Marsica, ignorando persino il suicidio di Teofilo, sacrestano della chiesa di Fontamara; Don Carlo Magna è il ricco proprietario terriero; l'Impresario, il podestà abile a speculare su alcuni terreni acquistati da don Carlo Magna a poco prezzo e sui quali farà deviare l'acqua del ruscello di Fontamara riducendo alla miseria i cafoni; Innocenzo, La Legge, il messo incaricato di portare i nuovi ordinamenti dalla città.

Fontamara inoltre è il nome del piccolo borgo marsicano dove il protagonista Roberto vive, che ritorna quando il regime fascista ha preso il potere su Pescina, Avezzano, Trasacco e le terre circostanti, violentando donne e facendo vivere il popolo in condizioni disumane. Roberto cercherà di opporsi a tale ingiustizia, ma finirà per venirne massacrato.

Alberto Moravia e Gli indifferenti

Moravia ha esplorato nelle sue opere i temi della sessualità moderna, dell'alienazione sociale e dell'esistenzialismo.

Nel romanzo Gli indifferenti, la storia, ambientata in una Roma provinciale, ruota attorno ad una tipica famiglia borghese. I fratelli Carla e Michele Ardengo sono due giovani incapaci di provare veri sentimenti, in balia della noia e dell'indifferenza di fronte al declino sociale ed economico della loro famiglia. Mariagrazia, la madre rimasta vedova, trascorre una vita abitudinaria e legata ai clichés morali della borghesia, in uno stato di inconsapevolezza.

I temi sono la passione civile e la curiosità culturale, che hanno accompagnato Moravia per tutta la sua attività letteraria, lo rende scrittore impegnato sempre teso verso la razionalità. L'opera di Moravia è legata al realismo ed egli indaga le patologie delle classi sociali, specialmente dell'alta e della media borghesia.
Moravia riesce a distaccarsi dalla sua materia in modo lucido e a descrivere in modo minuziosamente oggettivo le varie realtà, come nella migliore tradizione della narrativa verista, senza lasciarsi tentare da alcuna compiacenza narrativa sempre tesa a ricreare i caratteri e soprattutto gli stati d'animo.

Lo stile della sua prosa è spoglio e disadorno, le parole volutamente povere e comuni per concentrarsi sulla costruzione del periodo con una sintassi elaborata. Ogni proposizione della sua prosa corrisponde a singole osservazioni psicologiche che s'incastrano in un montaggio perfetto fino ad affermare uno stato d'animo particolare. Il suo è uno stile esclusivamente da narratore che non si compiace di effetti lirici ma si affida esclusivamente allo svolgersi del periodo.

Nelle opere più tarde la sua prosa diventa sempre più scarna legata ad una struttura dialogica che rende più evidente il monologo interiore come è tipico della grande narrativa del novecento.

I rapporti tra l'individuo e la società, tra l'es e il super-io vengono analizzati attraverso il tema del sesso secondo una tematica freudiana e marxista che segue le ideologie della trasgressione sia nella sfera politica, sia in quella privata.

Elsa Morante

Lo stesso argomento in dettaglio: Elsa Morante.

L'isola di Arturo

Lo stesso argomento in dettaglio: L'isola di Arturo (romanzo).
File:Moravia and Morante.jpg
Elsa Morante e Alberto Moravia

Ambientato intorno al 1938. Arturo Gerace è nato sull'isola di Procida e vive lì tutta l’infanzia e l’adolescenza. L'isola racchiude tutto il suo mondo, e tutti gli altri posti esistono per lui solo nella dimensione della leggenda. Passa il suo tempo a leggere storie sugli “eccellenti condottieri”, a studiare l’atlante per progettare i suoi viaggi futuri e a fare fantasie sulla figura del padre che crede il più grande eroe della storia. Tutto ciò che è legato al padre Wilhelm per lui è sacro. Anche gli amici del padre sono per lui delle figure mitiche: il solo fatto di essere stati degni di amicizia li rende ai suoi occhi delle persone straordinarie.

La Storia

Lo stesso argomento in dettaglio: La storia (romanzo).

Ambientato nella Roma della seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra, come romanzo corale è pretesto per un affresco sugli eventi bellici visti in soggettiva con gli occhi dei protagonisti e della popolazione ferita alle prese con problemi vecchi e nuovi dovuti ai tragici avvenimenti di quegli anni.

I quartieri romani martoriati dai bombardamenti e le borgate di periferia affollate da nuovi e vecchi poveri (San Lorenzo, Testaccio, Pietralata, il ghetto ebraico di Roma) e le alture dei vicini Castelli Romani - in cui si muovono le formazioni partigiane di opposizione al nazifascismo e alcuni dei protagonisti della vicenda che scandisce la narrazione come un naturale fil rouge - vengono descritti con realismo ma anche con una marcata visionarietà poetica.

Pier Paolo Pasolini

Lo stesso argomento in dettaglio: Pier Paolo Pasolini.
Pasolini

È considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo. Dotato di un'eccezionale versatilità culturale,[Nota 1] si distinse in numerosi campi, lasciando contributi come romanziere, sceneggiatore, drammaturgo, linguista, saggista, editorialista e cineasta, non solo in lingua italiana, ma anche friulana.

Ragazzi di vita e i borgatari pasoliniani

Lo stesso argomento in dettaglio: Ragazzi di vita.

Il libro racconta le vicende, nel corso di qualche anno, di alcuni ragazzi appartenenti al sottoproletariato romano. Anche il periodo storico, d'altronde, non è privo di significato nel contesto del libro: la storia, infatti, si svolge nell'immediato dopoguerra, quando la miseria era più tiranna che mai. In questo ambiente è facile comprendere come mai i ragazzi protagonisti del libro siano allo sbando più totale: le famiglie non costituiscono punti di riferimento, né sono valori e spesso sono costituite da padri ubriaconi e violenti, madri sottomesse e fratelli molte volte avanzi di galera; le scuole, presenti come edifici, ma non in funzione, sono destinate ad accogliere sfrattati e sfollati.

Nel libro Pier Paolo Pasolini sfrutta le semplici azioni di una piccola parte di giovani rispetto a tutta Roma e a tutta l'Italia intera per narrare, in verità, il degrado sociale che aveva colpito tutto il Paese dopo il conflitto. Lo si evince passo dopo passo quando il Riccetto e i compagni rovistano nell'immondizia e cercano pezzi di metallo da vendere, poi, al rigattiere; o quando, non trovando nulla, rompono persino le tubature per ricavarne del piombo. I "Ragazzi di vita" s’ingegnano anche in piccoli furti e rapine, come quando il Riccetto e il Lenzetta derubano in un autobus un'anziana signora. Non è raro, inoltre, che essi frequentino delle prostitute, a volte anche incinte che, disperate, si concedono per mantenere la famiglia.

L'intento di Pasolini è di descrivere una realtà italiana malvista dai politici e dai borghesi arricchiti: quella dei "borgatari" romani, giovani scapestrati che vivono alla giornata, incuranti dei pericoli e della giustizia. Pasolini vede in tali persone uno spirito di vita e di amore, ormai corrotto per sempre dal quarto potere, e dal bogottismo borghese. Molte altre opere pasoliniane, sia letterarie che cinematografiche sono legate al tema della povertà delle borgate romane, e all'assoluta innocenza e spensieratezza dei ragazzi che le abitano. Insomma intendeva descrivere un inno alla vita, che esaltasse la vita dell'uomo libero senza freni, incentrata sulla ricerca del piacere e del diletto in un'atmosfera parallela e fantasiosa, proprio come dei fanciulli, sebbene le giuste precauzioni.

Italo Calvino

Lo stesso argomento in dettaglio: Italo Calvino.
Calvino

Intellettuale di grande impegno politico, civile e culturale, è stato uno dei narratori italiani più importanti del Secondo Novecento. Ha seguito molte delle principali tendenze letterarie a lui coeve, dal Neorealismo al Postmoderno, ma tenendo sempre una certa distanza da esse e svolgendo un proprio personale e coerente percorso di ricerca. Di qui l'impressione contraddittoria che offrono la sua opera e la sua personalità: da un lato una grande varietà di atteggiamenti che riflette il vario succedersi delle poetiche e degli indirizzi culturali nel quarantennio fra il 1945 e il 1985; dall'altro, invece, una sostanziale unità determinata da un atteggiamento ispirato a un razionalismo più metodologico che ideologico, dal gusto dell'ironia, dall'interesse per le scienze e per i tentativi di spiegazione del mondo, nonché, sul piano stilistico, da una scrittura sempre cristallina e a volte, si direbbe, classica.[87]

La Trilogia dei nostri antenati

Lo stesso argomento in dettaglio: I nostri antenati.

L'opera maggiore di Calvino, nel suo "periodo fantastico" di poetica, è la trilogia de I nostri antenati, nel quale, in maniera allegroiace simbolica, lo scrittore narra particolari vicende del passato.

Il visconte dimezzato
un visconte della Boema del 1700 viene tranciato in due da una palla di cannone. Da quel momento le due parti del suo corpo si suddividono: una è buona, l'altra cattiva. Dopo varie peripezie, e un amore di ambo le parti per la stessa donna, il visconte viene ricucito, tornando in un solo corpo.
Il barone rampante
ambientato nella Francia prima della rivoluzione francese, la storia narra del giovanissimo barone Cosimo Piovasco di Rondò, che si ribella ai severi canoni familiari, e sale sui rami di un albero, decidendo di vivere per sempre a mezz'aria, promettendosi di non toccare assolutamente terra, altrimenti tornerà un oppresso. La storia prosegue così: Cosimo, bambino, arriva fino all'età adulta, suscitando lo stupore di tutti, mentre vive tra gli alberi, conoscendo briganti e principesse, e innamorandosi di una ragazza che lo tradirà. Alla fine della sua vita decide di salire sopra una mongolfiera, sparendo nel cielo.
Il cavaliere inesistente
all'epoca del regno di Carlo Magno, il cavaliere Agilulfo dei Guildiverni è noto perché non si è mai tolto l'armatura, e perché tra i soldati e i cavalieri circola la leggenda che lui non esista, e che non sia riconoscibile, se non per la sua corazza. Agilulfo nel frattempo, sebbene valoroso, è un eroe tormentato, alla ricerca della sua amata donna-angelo, che vive in un castello lontano. Con un buffo servitore si mette in viaggio, alla ricerca di lei, e la trova. Sconfortato dall'incontro con la donna, che non si mostra essere una fanciulla virtuosa, Agilulfo prosegue alla ricerca del Santo Graal per redimere la sua anima, ma vede che è stato già trovato da dei cavalieri senza onore. Dopo aver compiuto le sue imprese, il cavaliere scompare del tutto.

Le nuove correnti e la neo-avanguardia

La Generazione degli anni trenta, autori nati negli anni '30, pur essendo caratterizzata da esperienze eterogenee, le carriere di tali autori hanno fatto sì che oggi essi vengano considerati appartenenti ad una generazione matura. Tra i narratori si possono citare Dacia Maraini, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Fulvio Tomizza, tra i poeti Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni e Alda Merini.

Dopo gli anni '60 la poesia sembra volgersi a uno sperimentalismo linguistico più complesso. Tra i poeti più significativi di questa tendenza vanno ricordati Franco Fortini e Andrea Zanzotto. In questa generale tendenza al rinnovamento va iscritta anche la "neo-avanguardia" del Gruppo 63 costituitosi a Palermo nell'ottobre di quell'anno. Tra gli esponenti più significativi del gruppo (peraltro estremamente eterogeneo per intenzioni e interessi) troviamo Umberto Eco, Nanni Balestrini, Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli e i poeti Elio Pagliarani ed Edoardo Sanguineti.

L'Italia letteraria odierna

La letteratura italiana è naturalmente legata all'identità nazionale. Il discorso storico sulla letteratura si è intrecciato fin dalle origini con la prospettiva della nascita di una comunità, che da comunità letteraria è progressivamente diventata comunità nazionale.

Le storie della letteratura italiana hanno sempre puntato a rivendicare una specificità nazionale della letteratura italiana, da Giovanni Mario Crescimbeni e Giacinto Gimma fino a Girolamo Tiraboschi e Francesco De Sanctis. La letteratura è stata perciò il principale veicolo di unificazione degli italiani, al punto che si può parlare di un'Italia letteraria in contrapposizione o in aggiunta all'Italia costruita su base politica, etnica, o economica.

Alda Merini

Già Dante col De vulgari eloquentia si proponeva di creare una lingua e una letteratura capaci di superare i confini municipali per allargare lo sguardo a una comunità unita da sentimenti e interessi collettivi, basati prima di tutto sul discorso d'amore e sullo scambio culturale. In seguito testi famosissimi, su un percorso che va dalla canzone Italia mia di Francesco Petrarca alla canzone All'Italia di Giacomo Leopardi, hanno affrontato il problema del rapporto tra letteratura italiana e identità collettiva. Ancora nel corso del Novecento tutti i principali scrittori, da Gabriele D'Annunzio e Filippo Marinetti, passando per Giuseppe Ungaretti e Elio Vittorini, fino a Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Italo Calvino e Umberto Eco, si sono proposti come interpreti del sentimento nazionale.

Anche quando ci si è voluti opporre alla tradizione nazionale lo si è fatto all'interno di una prospettiva italiana, come è accaduto ai primordi della neoavanguardia con i romanzi, entrambi pubblicati nel 1963, Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, e Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti. Anche in tempi recenti gli scrittori continuano a confrontarsi col problema dell'Italia letteraria, come si evince dai titoli dei romanzi L'Italia spensierata di Francesco Piccolo, e Italia, De Profundis di Giuseppe Genna.

Gli anni '90 vedono l'affermarsi del fenomeno letterario dai critici definito "Cannibali", di genere pulp, con Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa.

Una recente proposta letteraria, il New Italian Epic di Wu Ming, si muove verso l'individuazione di una linea attuale, tutta italiana e tutta letteraria, di indagine della storia e di lavoro sullo stile.

Sulla stessa linea, infine, la raccolta di racconti pubblicati dalla Minimum Fax, a cura di Giorgio Vasta, Anteprima Nazionale (2009), con scritti di Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giancarlo De Cataldo, Valerio Evangelisti, Giorgio Falco, Giuseppe Genna, Tommaso Pincio, Wu Ming 1, che raccontano come sarà il nostro paese tra vent'anni.

Italiani premiati con il Premio Nobel per la letteratura

Il Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato per la prima volta nel 1901.

Anno Autore
1906 Giosuè Carducci
1926 Grazia Deledda
1934 Luigi Pirandello
1959 Salvatore Quasimodo
1975 Eugenio Montale
1997 Dario Fo

Note

  1. ^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 4
  2. ^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Palumbo, Firenze, 1968, pag. 9
  3. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 6
  4. ^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 1
  5. ^ Alberto Asor Rosa, op. cit., pag. 12
  6. ^ Da Luigi Morandi, Origine della lingua italiana, Stab. Tip. Scipione Lapi Editore, Città del Castello, 1897, pag. 11
  7. ^ Natalino Sapegno, 'op. cit.
  8. ^ Confronta Il placito capuano
  9. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 5
  10. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 5
  11. ^ Alberto Asor Rosa, op. cit., pag. 5
  12. ^ Confronta I documenti delle origini con testo
  13. ^ Per la classificazione di questo periodo storico si prende in considerazione la suddivisione fatta da Alberto Asor Rosa in Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986
  14. ^ op. cit., pag. 29
  15. ^ Giuseppe Petronio, op. cit., pag. 26
  16. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 52
  17. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 53
  18. ^ Il brano è tratto dalla volgarizzazione del testo da C. Salinari, C. Ricci, Storia della letteratura italiana con antologia degli scrittori e dei critici, Laterza, Bari, 1991, pag. 215
  19. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 63
  20. ^ C. Salinari, C. Ricci, Storia della letteratura italiana con antologia degli scrittori e dei critici, Volume 1, Dalle origini al Quattrocento, Laterza, Bari, 1991, pag. 197
  21. ^ Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, pagina 6
  22. ^ C. Salinari, C. Ricci, op. cit., pag. 125
  23. ^ Mario Sansone, op. cit., pag. 35
  24. ^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 23
  25. ^ Alberto Asor Rosa, op. cit., pag. 24
  26. ^ Francesco Flora, Storia della letteratura italiana, vol. I, Arnoldo Mondadori, Milano, 1958, pagg. 62-63
  27. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 38
  28. ^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 79
  29. ^ da il Purgatorio, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, Sansoni, Firenze, 1905, pag. 466
  30. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 39
  31. ^ Mario Sansone, op. cit. pag. 40
  32. ^ Mario Sansone, op. cit., pag. 40
  33. ^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 85
  34. ^ Francesco Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo, Prato, 1846.
  35. ^ Guasti, Storia del sonetto italiano corredata di cenni biografici e di note storiche.., Prato, 1839
  36. ^ Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, vol. II p. 630
  37. ^ Dei Trattati morali di Albertano da Brescia, volgarizzamento inedito del 1268 fatto da Andrea da Grosseto, a cura di Francesco Selmi, Commissione per i testi di lingua, Bologna, Romagnoli, 1873, Avvertenza, p.XII-XIII.
  38. ^ Cesare Segre in Corriere della Sera del 30 ottobre 1994
  39. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1960, pag. 41
  40. ^ Asor Rosa, Sintesi di storia di letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 28
  41. ^ Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, Vol. II, in Dante e il nuovo modello letterario, Mondadori, Milano, 2006
  42. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 62
  43. ^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 136
  44. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 75
  45. ^ Rosanna Bisacca, Maria Paolella, L'Altra Biblioteca, volume triennale, Lattes, Torino, 2000, pag. 226
  46. ^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle Origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 167
  47. ^ Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 44
  48. ^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 201
  49. ^ Natalino Sapegno, Compendio della storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 183
  50. ^ Rosanna Bicacca Maria Paolella, L'altra biblioteca, volume triennale, Lattes, Torino, 2000, pag. 231
  51. ^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986
  52. ^ Mario Sansone, Compendio di Storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, 1956
  53. ^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 52
  54. ^ G. Padoan, Sulla datazione del Corbaccio, in Il Boccaccio Le muse, Firenze, 1978, pagg. 199-228
  55. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, 1960, pag. 110
  56. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1956, pag. 107
  57. ^ Da Mario Sansone, op. cit., pag. 108
  58. ^ Natalino Sapegno, Introduzione ai Poeti minori del Trecento, in Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, pagg. 197-200
  59. ^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 253
  60. ^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 260
  61. ^ Pasquale Stoppelli, Malizia Barattone (Giovanni di Firenze) autore dell'opera "Il Pecorone", in "Filologia e critica" II (1977)), pagg. 1-34
  62. ^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Palumbo, 1968, pag. 99
  63. ^ Roberto Mercuri, La letteratura del Trecento in Toscana in Letteratura italiana, Einaudi, Firenze, 2007, pag. 570
  64. ^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 282
  65. ^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, 1968, pag. 103
  66. ^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 288
  67. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze, 1971, pag. 240
  68. ^ Leonardo Bruni, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, Istituto Nazionale sul Rinascimento, 1994
  69. ^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 288
  70. ^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano-Messina, 1960, pag. 137
  71. ^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Palumbo, 1968
  72. ^ Leon Battista Alberti, in Proemio, Opere volgari, a cura di C. Grayson, vol. I, Laterza, Bari, 1960
  73. ^ Citata in Giuseppe Petronio, Compendio di Storia della letteratura italiana, Palumbo, Firenze, 1968
  74. ^ F. Gavino Olivieri, Storia della letteratura italiana, '800-'900, Nuove Edizioni Del Giglio, Genova, 1990, pag. 82.
  75. ^ Uno sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus.it. URL consultato il 16 febbraio 2014.
  76. ^ Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo Leopardi, su emsf.rai.it. URL consultato il 16 febbraio 2014.
  77. ^ Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, in Tutte le opere, Mondadori, Milano, 1937-1949, vol. I, pag. 42
  78. ^ G. Carducci, Opere, Bologna, Zanichelli, vol. XXVII, p. 36: «Queste odi poi le intitolai barbare, perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani».
  79. ^ Alberto Casadei, "Il Novecento", il mulino, Bologna, 2005
  80. ^ Antonio Maria Borgese. Poesia crepuscolare pubblicato su La Stampa del 10 settembre 1910, all'interno della rubrica Cronache letterarie
  81. ^ Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, vol. 1, 3ª ed., Milano, Principato Editore, 1971, p. 86.
  82. ^ Giacinto Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, 1994, ISBN 88-7983-416-9, p. 292
  83. ^ G. Ungaretti, Vita d'un Uomo - Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Segrate 1969, p. 46
  84. ^ G. Ungaretti, cit., p. 65
  85. ^ Marisa Carlà, Epoche e Culture, volume 2, tomo II pagina 634.
  86. ^ R.Luperini, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo editore, volume 3, tomo III, pagina 144.
  87. ^ Romano Luperini, Pietro Cataldi; Lidia Marchiani; Valentina Tinacci, La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo Editore, 2005, p. 736, ISBN 88-8020-557-9.

Riferimenti

  1. ^ La grande energia che l'opera di Pasolini continua a trasmettere nel mondo è dovuta alla pluralità di campi d'intervento, alle incursioni piratesche in terreni al di fuori delle sue competenze e di mostrare le incoerenze, i punti deboli del sistema, e soprattutto la sua capacità di porre dubbi, seminare interrogativi, abbattere verità accettate convenzionalmente. Pasolini era uno straordinario uomo-orchestra, un re Mida che dominava i materiali espressivi più eterogenei, trasformandoli al minimo contatto (Gian Piero Brunetta, in Cent'anni cinema italiano, Laterza, Bari 1991 - p. 494)

Bibliografia

  • Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870.
  • Luigi Morandi, Origine della lingua italiana, Città del Castello, Stab. Tip. Scipione Lapi Editore, 1897.
  • Attilio Momigliano, Storia della letteratura italiana, Messina-Milano, 1936.
  • Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1947 [1936].
  • Francesco Flora, Storia della letteratura italiana, Milano, 1940.
  • Benedetto Croce, La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, Bari, Laterza, 1960 [1956].
  • Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Milano, Principato, 1960.
  • Luigi Russo, Compendio storico della letteratura italiana, Messina-Firenze, D'Anna, 1961.
  • Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1969 [1965].
  • Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, 3ª ed., Palermo, Palumbo, 1968.
  • Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, 3ª ed., Milano, Principato Editore, 1971.
  • Ettore Bonora, Storia della Letteratura Italiana, Torino, Petrini, 1976.
  • Alberto Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1986.
  • Carlo Ricci e Carlo Salinari, Storia della letteratura italiana con antologia degli scrittori e dei critici, Roma, Laterza, 1991.
  • Ugo Dotti, Storia della Letteratura italiana, Laterza, 1991.
  • Antonio Piromalli, Storia della letteratura italiana, 2ª ed., Cassino, Garigliano, 1994.
  • Andrea Battistini (a cura di), Storia della letteratura italiana, 6 volumi, 2005, il Mulino, Bologna
  • Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, collana Dante e il nuovo modello letterario, vol. 2, Milano, Mondadori, 2006.
  • Stefano Jossa, L'Italia letteraria, Bologna, il Mulino, 2006.

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