Trattativa Stato-mafia: differenze tra le versioni

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Nel periodo successivo all'omicidio di [[Salvo Lima]], l'onorevole [[Calogero Mannino]], all'epoca nominato ministro per gli interventi straordinari del Mezzogiorno, nel [[Governo Andreotti VII|VII Governo Andreotti]], si mise in contatto, attraverso il maresciallo [[Giuliano Guazzelli]], con [[Antonio Subranni]], all'epoca comandante del [[Raggruppamento Operativo Speciale|ROS]], perché Mannino aveva ricevuto un avviso mafioso, una corona mortuaria di fiori, evidente minaccia di morte e temeva a sua volta di essere ucciso<ref name=autogenerato6>{{Cita news|lingua=|url=http://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/commissioni/bicamerali/antimafiaXVI/STENOGRAFICI/Resosteno_19.03.11.pdf|titolo=Audizione del procuratore Francesco Messineo dinanzi la Commissione Parlamentare Antimafia - XVI LEGISLATURA}}</ref><ref>[http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/18/mannino-temeva-essere-ucciso-diede-alla-trattativa-stato-mafia/234314/ ''Mannino temeva di essere ucciso e diede il via alla trattativa Stato-mafia'']. Giuseppe Pipitone. Il fatto quotidiano. Giustizia e impunità. 18 maggio 2012.</ref><ref>[http://palermo.repubblica.it/cronaca/2014/10/08/news/stato-mafia_la_procura_mannino_ha_avviato_la_trattativa-97616679/ ''Stato-mafia la procura: Mannino temeva di essere ucciso e avviò la trattativa'']. Salvo Palazzolo. Repubblica. Cronaca. Palermo. 8 ottobre 2014.</ref>.
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Versione delle 13:01, 2 mar 2015

La trattativa tra Stato italiano e Cosa nostra[1] (spesso brevemente indicata come trattativa stato-mafia) fa riferimento ad una negoziazione che si è sviluppata in seguito alla stagione delle bombe del '92 e '93 al fine di giungere a un accordo tra importanti funzionari delle istituzioni italiane e rappresentanti di cosa nostra.[2] Oggetto ipotizzato dell'accordo sarebbe stato la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure detentive previste dall'articolo 41 bis[3][4]. L'ipotesi è oggetto di indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche.

Sinossi storica

Nel settembre-ottobre 1991, durante alcune riunioni della "Commissione regionale" di Cosa Nostra avvenute nei pressi di Enna e presiedute dal boss Salvatore Riina, venne deciso di dare inizio ad azioni terroristiche, perché erano state arrestate 475 persone sospettate di essere mafiosi. Il terrorismo mafioso contro lo Stato italiano doveva essere rivendicate con la sigla "Falange Armata"[5].
Subito dopo, nel dicembre 1991, avvenne una riunione della "Commissione provinciale", sempre presieduta da Riina, in cui si decise di colpire in particolare i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma anche i politici: il parlamentare siciliano della Democrazia Cristiana Salvo Lima, e il suo assistente Sebastiano Purpura democristiano[6], il ministro per gli interventi straordinari del Mezzogiorno Calogero Mannino democristiano, il ministro della Giustizia Claudio Martelli socialista, il ministro delle Poste e Telecomunicazioni Carlo Vizzini socialista e il ministro della Difesa Salvo Andò socialista,[7][8]. Claudio Martelli era nel mirino dei boss

mafiosi perché secondo i pentiti Angelo Siino, Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza era fra quei quattro “crasti” socialisti che prima si erano presi i nostri voti, nell’’87, e poi ci avevano fatto la guerra[9]. In particolare Claudio Martelli aveva chiamato Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero[7].

Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò la sentenza del Maxiprocesso che condannava Riina e molti altri boss all'ergastolo; in seguito alla sentenza, i capi della "Commissione" mafiosa regionale e provinciale decisero di avviare la stagione stragista già progettata.

Il 12 marzo 1992 l'onorevole Salvo Lima, parlamentare siciliano della Democrazia Cristiana, venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche, perché non era più in grado di garantire gli interessi delle cosche mafiose nel governo, in particolare perché non era riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione[7][10]. Il vero bersaglio era Giulio Andreotti: Cosa nostra avrebbe voluto rivalersi sul presidente del Consiglio, ma era troppo protetto, era irraggiungibile. Così si ripiegò sul capo corrente di Andreotti in Sicilia,[10] e l'omicidio rivendicato con la sigla "Falange Armata"[11].

Nel periodo successivo all'omicidio di Salvo Lima, l'onorevole Calogero Mannino, all'epoca nominato ministro per gli interventi straordinari del Mezzogiorno, nel VII Governo Andreotti, si mise in contatto, attraverso il maresciallo Giuliano Guazzelli, con Antonio Subranni, all'epoca comandante del ROS, perché Mannino aveva ricevuto un avviso mafioso, una corona mortuaria di fiori, evidente minaccia di morte e temeva a sua volta di essere ucciso[12][13][14].

Il 4 aprile 1992 il maresciallo Guazzelli venne ucciso lungo la strada Agrigento-Porto Empedocle e l'omicidio venne rivendicato con la sigla "Falange Armata"[15][16]. Guazzelli fu ucciso perché i capi mafiosi volevano dare un segnale forte a Mannino e Subranni, alzare il tiro e imporre accordi ad alti livelli[17].

Il 23 maggio 1992 avvenne la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, perché la Commissione" regionale e provinciale di Cosa Nostra e presiedute dal boss Salvatore Riina, voleva vendicarsi della sua attività di magistrato antimafia[18]. Nella strage persero la vita anche la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro; l'attentato venne rivendicato con la sigla "Falange Armata"[19].

Il Consiglio dei ministri nella seduta dell'8 giugno 1992, in seguito alla strage di Capaci, approvò il decreto-legge "Scotti-Martelli" (detto anche "decreto Falcone"), che introdusse l’articolo 41 bis, cioè il carcere duro riservato ai detenuti di mafia: il giorno successivo giunse una telefonata anonima a nome della sigla "Falange Armata" in cui si minacciava che il carcere non si doveva toccare[8][20].
Nello stesso periodo, il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno contattò Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo, per conto del colonnello Mario Mori (all'epoca vicecomandante del ROS) che informò il generale Subranni; a sua volta Ciancimino e il figlio Massimo contattarono Salvatore Riina attraverso Antonino Cinà (medico e mafioso di San Lorenzo)[8][12]. In quello stesso periodo, il maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta contattò Antonino Gioè (capo della Famiglia di Altofonte) attraverso Paolo Bellini (ex terrorista nero e confidente del SISMI) al fine di recuperare alcuni pezzi d'arte rubati; il maresciallo Tempesta informò il colonnello Mori di quei contatti[21].

Alla fine del giugno 1992 il capitano De Donno incontrò a Roma la dottoressa Liliana Ferraro, vice direttore degli affari penali presso il Ministero della Giustizia, alla quale chiese copertura politica al rapporto di collaborazione con Ciancimino; la dottoressa Ferraro lo invitò a riferire al giudice Paolo Borsellino. Il 25 giugno il colonnello Mori e il capitano De Donno incontrarono il giudice Borsellino: secondo quello che viene riferito da Mori e De Donno, durante questo incontro Borsellino discusse con i due ufficiali sulle indagini dell'inchiesta "mafia e appalti"[12][22]. Il 28 giugno Borsellino incontrò a Roma la dottoressa Ferraro, che gli parlò dei contatti tra il colonnello Mori e Ciancimino: tuttavia Borsellino si dichiarò già informato di questi contatti; lo stesso giorno si insediava il Governo Amato I, che nominò l'onorevole Nicola Mancino come ministro dell'interno al posto di Vincenzo Scotti[23].
In quel periodo, Salvatore Riina mostrò a Salvatore Cancemi un elenco di richieste dicendo che c'era una trattativa con lo Stato che riguardava pentiti e carcere; sempre in quel periodo, Riina disse anche a Giovanni Brusca che aveva fatto un "papello" di richieste in cambio di fare finire le stragi[8].

Il 1º luglio 1992 il giudice Borsellino, che si trovava a Roma per interrogare il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, venne invitato al Viminale per incontrare il ministro Mancino; secondo Mutolo, Borsellino tornò dall'incontro visibilmente turbato[12][24].
Nello stesso periodo, Giovanni Brusca ricevette da Salvatore Biondino la disposizione di sospendere la preparazione dell'attentato contro l'onorevole Mannino perché "erano sotto lavoro per cose più importanti". Secondo Salvatore Cancemi, in quei giorni Riina insistette per accelerare l'uccisione di Borsellino e per eseguirla con modalità eclatanti[8].

Il 15 luglio Borsellino confidò alla moglie Agnese che il generale Subranni era vicino ad ambienti mafiosi mentre qualche giorno prima le aveva detto che c'era un contatto tra mafia e parti deviate dello Stato[8][25].
Nello stesso periodo, Riina disse a Brusca che la trattativa si era improvvisamente interrotta e c'era "un muro da superare"[8].

Il 19 luglio 1992, nella Strage di via D'Amelio a Palermo, fu ucciso Paolo Borsellino. L'attentato venne sempre rivendicato con la sigla "Falange Armata"[26]. Secondo il pm Antonino di Matteo l'assassinio di Borsellino fu eseguito per proteggere la trattativa dal pericolo che il dott. Borsellino, venutone a conoscenza, ne rivelasse e denunciasse pubblicamente l’esistenza, in tal modo pregiudicandone irreversibilmente l'esito auspicato”.[27] Dal luogo del delitto non verrà mai rinvenuta l'agenda rossa, nella quale il magistrato annotava tutte le sue intuizioni investigative senza separarsene mai. In seguito alla strage di via d'Amelio, il decreto "Scotti-Martelli" venne convertito in legge e oltre 100 mafiosi detenuti particolarmente pericolosi vennero trasferiti in blocco nelle carceri dell'Asinara e di Pianosa e sottoposti al regime del 41 bis, che venne applicato pure ad altri 400 mafiosi detenuti.

Il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via d'Amelio, la Procura di Palermo deposita l'istanza di archiviazione dell'indagine definita "Mafia e Appalti"[28], a cui avevano lavorato con grande interesse sia Giovanni Falcone che, successivamente, Paolo Borsellino[29]. Il decreto di archiviazione venne emesso il 14 agosto 1992.[30]Processo Mannino, il pm: Il suo nome depurato dai Ros dall’informativa su Mafia e appalti. Giuseppe Pipitone. Il fatto quotidiano. 8 ottobre 2014.</ref> che indagava sulla ditta Calcestruzzi SPA[31]
Il 22 luglio il colonnello Mori incontrò l'avvocato Fernanda Contri (segretario generale a Palazzo Chigi) affinché riferisse al presidente del consiglio Giuliano Amato dei contatti intrapresi con Ciancimino[8].

Il 10 agosto 1992 viene approvato in via definitiva un pacchetto di misure contro la mafia: invio in Sicilia di 7000 uomini dell’esercito; oltre 100 boss mafiosi vengono trasferiti nel carcere dell'Asinara.

Nel settembre 1992 Riina disse a Brusca che la trattativa si era interrotta e quindi ci voleva un altro "colpettino": per questo lo incaricò di preparare un attentato contro il giudice Piero Grasso, che però non andò in porto per problemi tecnici[8].
Nello stesso periodo, il colonnello Mori incontrò l'onorevole Luciano Violante (all'epoca presidente della Commissione Parlamentare Antimafia) per caldeggiare un incontro riservato con Ciancimino per discutere di problemi politici, che però venne rifiutato da Violante[8][12].
Tra ottobre e novembre 1992, Giovanni Brusca e Antonino Gioè fecero collocare un proiettile d'artiglieria nel Giardino di Boboli a Firenze al fine di creare allarme sociale e panico per riprendere la trattativa con il maresciallo Tempesta che si era interrotta: tuttavia la rivendicazione telefonica con la sigla "Falange Armata" non venne recepita e per questo il proiettile non venne trovato nell’immediatezza ma solo in un momento successivo[32].
In quel periodo, il generale dei carabinieri Francesco Delfino anticipò al ministro Martelli che Riina verrà individuato ed arrestato entro dicembre; il 12 dicembre il ministro Mancino affermò in un convegno a Palermo che Riina stava per essere catturato. Nello stesso mese, il colonnello Mori consegnò una mappa di Palermo a Ciancimino affinché indicasse dove si trovava il covo di Riina.

Tuttavia, il 19 dicembre Ciancimino venne arrestato dalla polizia per un residuo di pena, prima della riconsegna delle mappe[33],[34].

Il 15 gennaio 1993, a Palermo, Totò Riina, capo di Cosa Nostra, viene arrestato dai carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale, uomini del colonnello Mori e del generale Delfino, che utilizzarono il neocollaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio per identificare il latitante[8].. Era latitante da ben 23 anni. In seguito all'arresto di Riina, si creò un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri), mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente"[35].

Il 9 febbraio 1993 giunse un’altra telefonata anonima a nome della sigla "Falange Armata" che minacciava il ministro Mancino, il capo della polizia Vincenzo Parisi e Nicolò Amato (all'epoca direttore del DAP, la direzione delle carceri)[36].
Il 10 febbraio il ministro Martelli fu costretto a dimettersi a causa dello scandalo di Tangentopoli e venne sostituito con l'onorevole Giovanni Conso[8].

Il 6 marzo 1993 il dottor Nicolò Amato inviò al ministro Conso una lunga nota in cui esprimeva la sua linea di abbandono totale dell'articolo 41 bis per ripiegare su altri strumenti penitenziari di lotta alla mafia, su sollecitazione del capo della polizia Parisi e del Ministero dell'Interno[8]. Il 17 marzo 1993 alcuni sedicenti familiari di detenuti mafiosi dell'Asinara e di Pianosa inviarono una lettera minacciosa al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e, per conoscenza, al Papa, al Vescovo di Firenze, al Cardinale di Palermo, al presidente del consiglio Giuliano Amato, ai ministri Mancino e Conso, al giornalista Maurizio Costanzo, all'onorevole Vittorio Sgarbi, al CSM e al Giornale di Sicilia[37]. Il 1º aprile un'altra telefonata anonima a nome della sigla "Falange Armata" minacciò il Presidente Scalfaro e il ministro Mancino[38].

Tra marzo e maggio 1993 vennero revocati 121 decreti di sottoposizione al 41 bis a firma del dottor Edoardo Fazzioli (all'epoca vicedirettore del DAP), così come aveva suggerito il dottor Amato nella nota del 6 marzo[8].

Il 14 maggio 1993, a Roma, avvenne l'attentato in via Ruggiero Fauro ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso: tale attentato venne rivendicato con la sigla "Falange Armata"[39].

Il 27 maggio 1993, a Firenze, avvenne la strage di via dei Georgofili, che provocò cinque vittime e una quarantina di feriti: l'attentato venne pure rivendicato con la sigla "Falange Armata"[40].

Il 4 giugno 1993 il dottor Nicolò Amato, direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP) ed il vicedirettore Edoardo Fazzioli vennero estromessi[41] dalla guida del DAP su interessamento diretto del Presidente Scalfaro[37]; al loro posto vennero nominati il dottor Adalberto Capriotti come nuovo direttore e il dottor Francesco Di Maggio come vicedirettore:
il 14 giugno una telefonata anonima a nome della sigla "Falange Armata" manifestò "soddisfazione per la nomina di Capriotti in luogo di Amato" e parlò di una "vittoria della Falange".
Il 19 giugno un'altra telefonata a nome della "Falange Armata" tornò a minacciare il ministro Mancino e il capo della polizia Parisi[38].
Il 26 giugno il dottor Adalberto Capriotti, Direttore Generale Del Dipartimento Dell’amministrazione Penitenziaria Pro Tempore, inviò una nota al ministro Giovanni Conso, ministro della Giustizia, in cui spiegava la sua nuova linea di silente non proroga di 373 provvedimenti di sottoposizione al 41 bis in scadenza a novembre, che avrebbero costituito "un segnale positivo di distensione"[8][37]. Il 22 luglio Salvatore Cancemi si consegnò spontaneamente ai carabinieri e manifestò subito la volontà di collaborare con la giustizia, venendo trasferito in detenzione extra carceraria presso la sede romana del ROS, sotto la supervisione del colonnello Mori[37]. Tra il 20 e il 27 luglio il DAP prorogò numerosi provvedimenti di sottoposizione al 41 bis in scadenza che riguardavano alcuni detenuti mafiosi di elevata pericolosità[37]. Il 27 luglio il colonnello Mori incontrò il dottor Di Maggio, suo amico e vicedirettore del DAP, per affrontare il "problema detenuti mafiosi"[8].

La notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 avvenne la strage di via Palestro a Milano (cinque morti e tredici feriti) e qualche minuto dopo esplosero due autobombe davanti le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, senza però fare vittime: il giorno successivo due lettere anonime inviate alle redazioni dei quotidiani "Il Messaggero" e "Corriere della Sera" minacciarono nuovi attentati[37].

Il 22 ottobre 1993 il colonnello Mori incontrò nuovamente il dottor Di Maggio. Nello stesso periodo, l'imprenditore Tullio Cannella (uomo di fiducia di Leoluca Bagarella e dei fratelli Graviano) fondò il movimento separatista "Sicilia Libera", che si radunò insieme ad altri movimenti simili nella formazione della "Lega Meridionale"[5].

Nell'ottobre 1993, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza dichiarò che incontrò il boss Giuseppe Graviano in un bar di via Veneto a Roma per organizzare un attentato contro i carabinieri durante una partita di calcio allo Stadio Olimpico[8]; sempre secondo Spatuzza, in quell'occasione Graviano gli confidò che stavano ottenendo tutto quello che volevano grazie ai contatti con Marcello Dell'Utri e, tramite lui, con Silvio Berlusconi[16].

Il 2 novembre 1993 il ministro Conso non rinnovò circa 334 provvedimenti al 41 bis in scadenza per, a suo dire, "fermare le stragi"[16][37][42].

Tuttavia il 23 gennaio 1994, a Roma, l'attentato all'Olimpico fallì per un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l'esplosione e non fu più ripetuto[16][43].
In quel periodo, secondo Tullio Cannella (divenuto un collaboratore di giustizia), Bernardo Provenzano e i fratelli Graviano abbandonarono il progetto separatista di "Sicilia Libera" per fornire appoggio elettorale al nuovo movimento politico "Forza Italia" fondato da Silvio Berlusconi[5]. Secondo il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, i fratelli Graviano trattarono con Berlusconi attraverso l'imprenditore Gianni Jenna per ottenere benefici giudiziari e la revisione del 41 bis in cambio dell'appoggio elettorale a Forza Italia; secondo Giuffrè, anche Provenzano attivò alcuni canali per arrivare a Marcello Dell'Utri e Berlusconi per presentare una serie di richieste su alcuni argomenti che interessavano Cosa Nostra[44][45]. Anche altri collaboratori di giustizia parlarono dell'appoggio fornito da Cosa Nostra a Forza Italia alle elezioni del 1994[37][46].
Il 27 gennaio 1994 a Milano vennero arrestati i fratelli Graviano, che si erano occupati dell'organizzazione di tutti gli attentati: da quel momento, la strategia stragista di Cosa Nostra si fermò[8][37].

Precedenti

Nel 1992 il boss Giovanni Brusca cercò di aprire una prima "trattativa" attraverso il mafioso Antonino Gioè (che sarà uno degli esecutori materiali della strage di Capaci), che era stato avvicinato da un certo Bellini, un trafficante d’arte legato ai servizi segreti e all'eversione nera che lavorava per Roberto Tempesta, un maresciallo dei Carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Artistico[47]. Tramite Gioè, Brusca fece sapere a Tempesta che in cambio del recupero di altre preziose opere d'arte, voleva la concessione degli arresti domiciliari per cinque boss mafiosi, tra i quali il padre Bernardo Brusca. Il maresciallo Tempesta si rivolse ai suoi superiori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno del ROS dei Carabinieri, e la risposta fu che "la richiesta era improponibile"; Gioè allora minacciò che avrebbero potuto colpire il patrimonio artistico italiano, facendo riferimento ad un attentato alla torre di Pisa[21]

Il 12 marzo 1992 venne ucciso l'onorevole Salvo Lima . Omicidio inaspettato (l'esponente DC non aveva nemmeno la scorta), che segnò uno spartiacque nel rapporto tra mafia e referenti politici dell'epoca[48].
Il 16 marzo Vincenzo Parisi, capo della Polizia, emise un comunicato che allertava sulla possibilità di attentati e omicidi politici[49]; Parisi riferì all'allora ministro degli interni Vincenzo Scotti sul pericolo di attentati, ma entrambi non furono creduti[50][51].

Per timore di essere ucciso come Lima, l'onorevole Calogero Mannino si accordò con il generale Antonio Subranni, capo del ROS dei Carabinieri, e con il capo della polizia Parisi per "aprire" un contatto con Cosa Nostra ed arrivare ad un accordo[52][53].

Primi contatti

Il 23 maggio 1992 avvenne la strage di Capaci, in cui viene ucciso Giovanni Falcone. Qualche giorno dopo, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno incontrarono l'ex sindaco Vito Ciancimino per cercare di stabilire un contatto con il boss Salvatore Riina. Infatti Riina disse a Giovanni Brusca: «Si sono fatti sotto. Gli ho presentato un papello così grande di richieste», ordinandogli di bloccare la sua "trattativa" con il maresciallo Tempesta[47].

In quello stesso periodo il capitano De Donno, come egli stesso ha dichiarato[54], incontrò Liliana Ferraro, direttore del Ministero di Grazia e Giustizia, e le parlò dei contatti con Ciancimino. Liliana Ferraro avrebbe riferito al suo diretto superiore, Claudio Martelli[55], all'epoca Ministro di Grazia e Giustizia, il quale chiese all'allora Ministro dell'Interno Nicola Mancino come fosse possibile che alcuni uomini del ROS avessero preso l'iniziativa di usare Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, legato al Clan dei Corleonesi, per contattare i boss mafiosi[56], scavalcando la DIA, che era istituzionalmente competente per qualsiasi azione contro la mafia.

Successive testimonianze

Nel 2009, in relazione a tale vicenda, sono stati ascoltati come testimoni anche i politici Nicola Mancino, il quale ha dichiarato di non averne mai saputo nulla[57] e Luciano Violante, il quale invece ha dichiarato di essere venuto a conoscenza di questo dialogo tra il Ros e Ciancimino[58]. L'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino è stato indagato, il 9 giugno 2012 dalla procura di Palermo nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, con l'accusa di falsa testimonianza[59] e sottoposto a intercettazioni telefoniche mentre parlava con Giorgio Napolitano[60].

Secondo le dichiarazioni rilasciate da Massimo Ciancimino (figlio dell'ex-sindaco di Palermo Vito Ciancimino), la presunta trattativa, avviata da Totò Riina e Bernardo Provenzano all'inizio degli anni novanta, sarebbe proseguita almeno fino al 1994, con l'aggiunta della partecipazione dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano[61].

A quanto emerge dai primi risultati dell'indagine avviata nel 2009 (nella quale è stato sentito come testimone anche l'ex-ministro Claudio Martelli) la trattativa avrebbe avuto inizialmente due fasi distinte, prima e dopo le stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino[62].

La trattativa sarebbe stata siglata con il cosiddetto "papello", un foglio contenente le richieste di Cosa nostra allo Stato, che avrebbero dovuto essere soddisfatte per evitare la prosecuzione delle stragi di mafia. Il termine "papello", soprattutto in ambito giornalistico, fa riferimento al documento che avrebbe siglato i presunti tentativi di accordo tra elementi di Cosa nostra e pubblici ufficiali dello Stato italiano agli inizi degli anni novanta.

Il documento è stato citato per la prima volta da Massimo Ciancimino[63].

Il procuratore di Palermo Francesco Messineo, interrogato alla Camera il 17 luglio 2012, afferma che la trattativa tra lo Stato e la mafia "c'è stata ed è stata reale" [64]:

«"Abbiamo impiantato un procedimento, che è alla fase dell'avviso di conclusioni indagini e che verosimilmente si evolverà più avanti, basato sull'ipotesi che la trattativa ci sia stata e sia stata reale. Non mi sembra di poter assolutamente concordare con quelli che parlano di presunta trattativa, salvo poi il successivo vaglio processuale.»

Il Quirinale, il 16 luglio 2012, in una nota in merito alla presunta trattativa Stato-mafia[65] ed alle telefonate di Nicola Mancino al presidente della repubblica Napolitano, per chiedere un appoggio contro i giudici siciliani, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e altri, che stavano valutando la sua posizione processuale[66], scrive: [67],[68]:

«"Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi affidato all'avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato"[69]

Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo Borsellino, l'8 ottobre 2012 ha chiesto al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che vengano pubblicate le intercettazioni fra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano, in nome della trasparenza istituzionale e come segno di determinazione nel ricercare la verità[70].

Il "Protocollo Farfalla", le operazioni "Farfalla" e "Rientro"

Nell'ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia i magistrati stanno indagando anche sul cosiddetto "Protocollo Farfalla", siglato nel 2004.[71] Il vice presidente della Commissione antimafia, Claudio Fava, ha affermato di avere le prove dell'esistenza del protocollo, che era stata messa in dubbio da Rosy Bindi.[72] Il protocollo è un accordo tra i servizi segreti e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, per permettere ad agenti dei servizi segreti di entrare ed uscire dalle carceri e incontrare detenuti del 41 bis senza lasciare traccia, all'insaputa dell’autorità giudiziaria.[73]

Il 29 luglio 2014 il premier in carica Matteo Renzi ha fatto sì che venisse eliminato il segreto di stato sul protocollo,[72] e successivamente la procura della Repubblica di Palermo ha aperto un’inchiesta sul cosiddetto Protocollo Farfalla.[74] e successivamente ha acquisito il documento.[75]

Il Copasir ha aperto un'indagine sulle cosiddette operazioni 'Farfalla' e 'Rientro'.[76]

Le richieste di cosa nostra: il papello

Le richieste

Lo stesso argomento in dettaglio: Papello.

La volontà di Cosa nostra, allora comandata dallo stesso Riina, passò attraverso le mani di Vito Ciancimino con dodici richieste allo Stato, contenute in un papello:

  1. Revisione della sentenza del maxiprocesso di Palermo
  2. Annullamento del decreto legge che inasprive misure detentive previste dall'articolo 41 bis per i detenuti condannati per reati di mafia;
  3. Revisione della associazione di tipo mafioso (reato introdotto con la legge 13 settembre 1982 n. 646, detta "Rognoni-La Torre");
  4. Riforma della legge sui pentiti;
  5. Riconoscimento dei benefici dissociati per i condannati per mafia (come per le Brigate Rosse);
  6. Arresti domiciliari obbligatori dopo i 70 anni di età;
  7. Chiusura delle super-carceri;
  8. Carcerazione vicino alle case dei familiari;
  9. Nessuna censura sulla posta dei familiari;
  10. Misure di prevenzione e rapporto con i familiari;
  11. Arresto solo in flagranza di reato;[77]
  12. Defiscalizzazione della benzina in Sicilia (come per Aosta).[78][79]

Al primo elenco di richieste, prodotte direttamente da cosa nostra, ne venne allegato un altro, con modifiche alle richieste prodotte da Vito Ciancimino, come mostrato dal figlio dell'ex sindaco di Palermo, che ha consegnato ai giudici che si occupano del caso entrambi i manoscritti.[78]

L'abrogazione articolo 41 bis

Lo stesso argomento in dettaglio: Articolo 41 bis.

La seconda richiesta del papello[80] è "annullamento decreto legge 41 bis", che prevede il "carcere duro" per alcune categorie di crimini, tra cui la criminalità organizzata. Per questo l'indagine sulla trattativa Stato-mafia ha posto l'attenzione su episodi che lo riguardano, come il fatto che nel 1993 sono stati lasciati scadere circa trecento provvedimenti di carcere duro. Contemporaneamente nel giugno 1993 il ministro Conso rimuove Nicolò Amato, contrario alla trattativa, da direttore del DAP e nomina vice direttore Francesco Di Maggio[81], come ha dichiarato l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso[82] e sostiene che non ci fu trattativa.[83]

Come conseguenza fu revocato l'isolamento a Totò Riina; inoltre vennero coinvolte alcune persone che hanno cercato di modificare l'articolo 41 bis o che hanno avuto a che fare con l'articolo. Calogero Mannino, indagato per la trattativa, ha ricevuto un avviso di garanzia in cui "si parla genericamente di "pressioni" che Mannino avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare."[84][85] Vennero ascoltati sull'argomento anche Carlo Azeglio Ciampi.[86] e Oscar Luigi Scalfaro[87], al quale fu chiesto per lettera,[88] di revocare il decreto legge 41 bis sul carcere duro[89]

Il dibattito sull'autenticità del papello

Il pentito Giovanni Brusca è stato tra i primi a parlare del papello.[90] Nel 1999 anche il pentito Salvatore Cancemi ne conferma l'esistenza.[91] Afferma poi che Riina aveva preparato un papello, presentato ad una riunione, con cui chiedeva l’annullamento dell’ergastolo, la scarcerazione di alcuni boss, l’abolizione della legge sui collaboratori di giustizia e altre cose.[47]

Il 20 ottobre 2009, l'ex colonnello dei ROS, Mario Mori, imputato per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra, ha dichiarato al tribunale di Palermo che non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato[92], e in una intervista successiva, Mori ha smentito di aver mai ricevuto dalle mani di Massimo Ciancimino o di altri il presunto "papello", preannunciando azioni legali in merito[93].

Anche il capitano "Ultimo" ha ritenuto non attendibili le dichiarazioni di Massimo Ciancimino sulla collaborazione tra Stato e mafia nella cattura di Provenzano[94], indicando nel figlio dell'ex sindaco di Palermo un "servo di Totò Riina"[95].

La citata sentenza del 17 luglio 2013, getta una seria ombra sulla veridicità del papello presentato da Massimo Ciancimino, essendo stato lo stesso segnalato alla procura, dallo stesso Tribunale giudicante, per il reato di falsa testimonianza[96] e nelle motivazioni esclude "patti o accordi per la mancata cattura del boss corleonese"[97]

Il papello era stato ritrovato già nel 2005 nella villa di Massimo Ciancimino all’Addaura, durante una perquisizione dei carabinieri. Il capitano dei carabinieri Antonello Angeli lo ha fatto fotocopiare ma lo ha lasciato nella casa di Ciancimino, perché, secondo quanto ha affermato il maresciallo Saverio Masi, “dai superiori arrivò l’ordine di non procedere al sequestro”, in quanto si sarebbe trattato di “documentazione già acquisita”.[98] [99]

La Polizia Scientifica ha infine confermato l'autenticità del Papello e di molti altri documenti presentati da Massimo Ciancimino, 55 in tutto, e ha smentito l'autenticità di un altro documento, per il quale Ciancimino è ora indagato.[100]

Il contropapello

Massimo Ciancimino ha presentato anche altri documenti che la polizia scientifica ha confermato essere stati scritti esattamente nei periodi da lui indicati e firmati dal padre Vito Ciancimino[101], tra cui un "contropapello", cioè una revisione del papello. Il contropapello sarebbe stato scritto da Vito Ciancimino<[102] in quanto le richieste del papello originale di Riina sarebbero state troppo grandi per lo Stato, impossibili da applicare. Nel documento erano indicati due nomi: Mancino e Rognoni.[103] Nel film La trattativa, Sabina Guzzanti ha ipotizzato che Totò Riina sia stato arrestato perché le richieste del papello erano inaccettabili e che la trattativa tra Stato e mafia sia proseguita con Bernardo Provenzano tramite Vito Ciancimino, che aveva scritto il contropapello.

Le indagini

Nel 1998 la Procura di Firenze aprì un'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, scaturita dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Vito Ciancimino[104],[105],[106],[107],[108]; negli anni successivi, l'indagine passò alle Procure di Caltanissetta e Palermo[8]. Nel 2009 l'inchiesta ricevette nuovo impulso in seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (figlio di Vito), il quale dichiarò di aver fatto da tramite tra il padre e il ROS per giungere ad un accordo mirato alla cessazione delle stragi e alla consegna dei latitanti, che aveva la copertura politica degli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni; inoltre Massimo Ciancimino sostenne di avere ricevuto il "papello" con le richieste di Riina dal mafioso Antonino Cinà con l'incarico di consegnarlo al padre, che però scrisse un altro papello che doveva essere sempre indirizzato a Mancino e Rognoni (il cosiddetto "contro-papello") poiché le richieste di Riina erano, a suo dire, improponibili: tale circostanza venne anche confermata dal fratello di Ciancimino, Giovanni, che riferì ai giudici che il padre gli chiese un parere giuridico sulle richieste del "papello" di Riina[12].

In particolare Massimo Ciancimino dichiarò che nel periodo successivo alla strage di via d'Amelio lui e il padre ripresero i contatti con il colonnello Mori e il capitano De Donno per individuare il covo di Riina e per questo aprirono una seconda trattativa con il boss Bernardo Provenzano, che sarebbe durata fino al dicembre 1992, quando Vito Ciancimino venne arrestato: infatti, sempre secondo Ciancimino, il padre gli confidò che il ROS lo voleva togliere di mezzo dopo che aveva ricevuto le carte utili per arrestare Riina; sempre secondo le confidenze del padre, nei mesi successivi la trattativa continuò ed ebbe Marcello Dell'Utri come nuovo tramite al posto di Ciancimino[109][78]. Nell'ottobre 2009 Ciancimino consegnò ai magistrati di Palermo le fotocopie del "papello" di Riina e del "contro-papello"[102] insieme ad altri documenti appartenuti al padre[110][79]; gli esami della Polizia Scientifica accertarono che i documenti erano autentici[12].

In seguito alle dichiarazioni di Ciancimino, le Procure di Palermo e Caltanissetta ascoltarono Claudio Martelli[111], Liliana Ferraro, Fernanda Contri e Luciano Violante[112] come persone informate sui fatti e questi dichiararono di essere stati avvicinati dall'allora colonnello Mori in relazione ai contatti con Vito Ciancimino e che il giudice Paolo Borsellino era a conoscenza di questi contatti[113]; venne ascoltato anche Nicola Mancino, il quale però dichiarò di non averne mai saputo nulla e negò, come aveva già fatto in passato, di aver incontrato al Viminale il giudice Borsellino il 1º luglio 1992, nonostante la testimonianza dell'ex ministro Martelli e le agende del magistrato affermassero il contrario[8][12][114][115]. Per queste ragioni, nel giugno 2012 Mancino venne iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza[116]; anche l'ex ministro Calogero Mannino ricevette un avviso di garanzia in cui si parla genericamente di "pressioni" che Mannino avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni" sulla "tematica del 41 bis"[117].

Nello stesso periodo, il detenuto Rosario Pio Cattafi (ex avvocato messinese legato alla Famiglia di Catania) dichiarò ai magistrati che nel giugno 1993 venne incaricato dal dottor Francesco Di Maggio (appena nominato vice direttore del DAP) di contattare il boss Nitto Santapaola al fine di aprire un dialogo per fermare le stragi[118],[16][119]. Durante le indagini, la Procura di Palermo sottopose Mancino ad intercettazioni telefoniche e registrò casualmente alcune telefonate che l'ex ministro fece al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al dottor Loris D'Ambrosio (consigliere giuridico del Quirinale)[120][121]. Per queste ragioni, il mese successivo l'ufficio stampa del Quirinale diffuse la seguente nota:

«"Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi affidato all'avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato"[122]

Nel luglio 2012 Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso, chiese al Presidente Napolitano che vengano pubblicate le sue intercettazioni con Mancino, in nome della trasparenza istituzionale e come segno di determinazione nel ricercare la verità[123]. Tuttavia nel gennaio 2013 la Corte costituzionale accolse il ricorso del Quirinale contro la Procura di Palermo per conflitto di attribuzione e dispose la distruzione delle intercettazioni tra Napolitano e Mancino[124]. In seguito a queste disposizioni, gli avvocati di Massimo Ciancimino presentarono ricorso contro la distruzione delle intercettazioni presso la Corte di Cassazione, che però ritenne inammissibile il ricorso: nell'aprile 2013 il giudice per le indagini preliminari di Palermo distrusse le intercettazioni[125].

Il 28 ottobre 2014, Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica Italiana ha risposto alle domande dei pubblici ministeri e degli avvocati sulla "trattativa Stato-mafia" e ha chiesto che la trascrizione sia resa pubblica.[126]

Le indagini sulla P2

Anche la loggia massonica P2 è al centro dell'attenzione per il processo. In particolare, si indaga sui rapporti tra l'ex generale dei carabinieri Mario Mori e Licio Gelli e i contatti dell'ex ufficiale dell'Arma, per anni al Sid, con il terrorismo nero. Un ex ufficiale del Sid, Mauro Venturi, che negli anni '70 lavorò con Mori, racconta che Mori gli propose di entrare nella P2.[127]

Le sentenze

Nel 1998 la motivazione della sentenza di primo grado del processo per le stragi del 1993 ritenne sufficientemente provati i contatti tra Vito Ciancimino e il ROS, basandosi sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca e su quelle del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, i quali sostennero di avere preso quell'iniziativa per riuscire a catturare qualche latitante e per cercare di impedire altre stragi[128]

[129]: la sentenza affermò esplicitamente che si trattò di una "trattativa" e che le stragi erano state compiute per costringere lo Stato a scendere a patti con l'organizzazione mafiosa[130].

Nel maggio 2011 il Tribunale di Firenze condannò in primo grado all'ergastolo il boss Francesco Tagliavia, accusato di aver partecipato all'esecuzione delle stragi del 1993 in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Nella sentenza si legge: «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia»[131].

Il collegio giudicante di Firenze, che nel marzo 2012 ha condannato una quindicina di boss per la strage di via dei Georgofili, ha dedicato cento delle cinquecentoquarantasette pagine della motivazione della sentenza esclusivamente al movente degli attentati in Continente e alla trattativa tra uomini di stato e mafiosi[132]. Si legge nella prima pagina:

«"Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia".»

Il 17 luglio 2013 la IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo ha assolto in primo grado, il generale Mario Mori e il Colonello Obinu dei Carabinieri dall'accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Nel corso del dibattimento Massimo Ciancimino era stato più volte ascoltato e aveva prodotto diversi documenti appartenuti al padre Vito, tra cui il cosiddetto papello. Tutti i documenti erano stati verificati dalla difesa dei due imputati che ne aveva contestato la veridicità (tutti, tra l'altro, erano stati presentati in fotocopia). Dopo cinque anni di dibattimento il tribunale di Palermo ha pronunciato la seguente sentenza: "Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 del Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro del'imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l'articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle deposizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all'ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza"[133]. Il Tribunale ha quindi assolto con formula piena Mori e Obinu dalle accusa formulate e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell'accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell'art. 207 del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall’articolo 372 del Codice Penale (falsa testimonianza).

Nell'ottobre 2014 è in corso il processo d'appello nei confronti di Mario Mori e Mauro Obinu.

Il nuovo processo del 2012

Il pool coordinato dal procuratore aggiunto ha firmato la richiesta di processo per i dodici imputati dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Imputati i capimafia Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma anche gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, i senatori Marcello Dell'Utri e Calogero Mannino, accusati di attentato a un corpo politico. L'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, risponde invece per falsa testimonianza, mentre Giovanni Conso, Adalberto Capriotti e Giuseppe Gargani sono accusati di aver dato false informazioni ai pubblici ministeri.[134]

Il Gip di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, ritiene che la trattativa stato mafia ci sia stata e che Paolo Borsellino fu ucciso perché, secondo il boss Totò Riina, ostacolava questa trattativa[135]:

«"deve ritenersi un dato acquisito quello secondo cui a partire dai primi giorni del mese di giugno del 1992 fu avviata la cosiddetta 'trattativa' tra appartenenti alle istituzioni e l'organizzazione criminale Cosa nostra".»

dopo aver interrogato Salvino Madonia, il capomafia che ha partecipato alla riunione di Cosa nostra nella quale i mafiosi decisero l'avvio della strategia stragista[136]. Il GIP Giunta aggiunge anche che "con riferimento al possibile coinvolgimento nella strage di via D'Amelio di soggetti esterni a Cosa nostra non sono emersi elementi di prova utili a formulare ipotesi accusatorie concrete a carico di individui ben determinati".

La prima udienza del processo si è tenuta a Palermo il 27 maggio 2013.[137]

Il 7 novembre 2013 depone il pentito Francesco Onorato, che dice: "Perché Riina accusa sempre lo Stato? Perché è l’unico che sta pagando il conto, mentre lo Stato non sta pagando niente, per questo motivo Riina tira in ballo sempre lo Stato. Ha ragione ad accusare lo Stato, da Violante ad altri. È lo Stato che manovra, prima ci hanno fatto ammazzare Dalla Chiesa i signori Craxi e Andreotti che si sentivano il fiato addosso. Perché Dalla Chiesa non dava fastidio a Cosa Nostra. Poi nel momento in cui l’opinione pubblica è scesa in piazza i politici si sono andati a nascondere. Per questo Riina ha ragione ad accusare lo Stato".[138]

Il 21 novembre 2013 il pentito Nino Giuffrè dice: "Non è che la mafia sale su un carro qualunque. Scegliemmo di appoggiare Forza Italia perché avevamo avuto delle garanzie", "Nella seconda metà del ’93 è venuto fuori Marcello Dell’Utri che ha dato garanzie per la risoluzione dei problemi di Cosa nostra. A prescindere dal garantismo di Forza Italia, noi li scegliemmo perché ci diedero garanzie", "Tra la fine del ’93 e l’inizio del ’94 il posto che era stato tenuto da Vito Ciancimino nel rapporto con Cosa nostra fu preso da Marcello Dell’Utri" e "Nel ’93 c’è l’inizio di un nuovo capitolo: si apre un nuovo corso tra Cosa nostra e la Politica. Provenzano all’inizio era un po’ freddo poi, parlando di Dell’Utri e di Forza Italia, mi disse ‘Siamo in buone mani’".[139]

Il 12 dicembre 2013 il pentito Giovanni Brusca affermò: "Nel 1991, c’era interesse a contattare Dell’Utri e Berlusconi perché attraverso loro si doveva arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani Pulite, perché influisse sull’esito del maxiprocesso". "La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapeva quello che era avvenuto in Sicilia: gli attentati del ’93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. Che la sinistra sapeva lo dissi a Vittorio Mangano. Gli dissi anche: "I Servizi segreti sanno tutto ma non c’entrano niente." Mangano comprese e con questo bagaglio di conoscenze andò da Dell’Utri.".[140]

Il 23 gennaio 2014 il pentito Gioacchino La Barbera afferma che la mafia progettò l'omicidio di Pietro Grasso, che non venne realizzato per problemi tecnici.[141] Rivela inoltre che era stato pensato di distruggere la torre di Pisa con una bomba.[142]

Il 24 gennaio 2014 Giovanni Brusca dice: "Venti giorni dopo la strage di Capaci, vidi Riina a casa di Girolamo Guddo. Mi disse che aveva fatto un papello di richieste, per fare finire le stragi." e "Mi spiegò che avevano risposto, fecero sapere che le richieste erano assai. Ma non c'era una chiusura. E a questo punto Riina mi fece il nome di Mancino, la richiesta era finita a lui, così mi fu spiegato".[143]

Il 30 gennaio 2014 Francesco Di Carlo dice: "Il primo rivale di cosa nostra era Rocco Chinnici. In particolare Nino Salvo faceva come un pazzo.", Nino Salvo "ha chiesto a Michele Greco di farci il favore su Chinnici", ossia di fare assassinare il giudice. "Greco non faceva nulla senza parlare con Riina: io ero presente alla Favarella quando Nino Salvo incontrò Michele Greco per chiedere l'intervento di Cosa nostra.".[144] "Ho saputo anche che i cugini Salvo si sono rivolti ad Antonio Subranni per fare chiudere l'indagine sulla morte di Peppino Impastato." e "Badalamenti aveva interessato Nino e Ignazio Salvo per parlare col colonnello. Dopo poco tempo Nino Badalamenti mi ha detto: no, la cosa si è chiusa.".[145] "Per cosa nostra i militari dell'Esercito non sono considerati sbirri. Uno zio di Toto' Riina era maresciallo dell'esercito. E io fin dalla fine degli anni Sessanta avevo rapporti e frequentavo un colonnello dell'esercito applicato alla Presidenza del Consiglio. Lo avevo conosciuto frequentando il generale Vito Miceli (ex capo del SID dell'epoca) e anche il colonnello Santovito. Con quest'ultimo avevo un rapporto più di amicizia: quando andavo a Roma, ci vedevamo e andavamo spesso a pranzo assieme". Di Carlo sostiene che Santovito, direttore del Sismi, era consapevole, quando si incontravano, che lui fosse latitante.[146] "Quand’ero detenuto in Inghilterra vennero a trovarmi un tale Giovanni, forse uno dell’esercito, una persona inglese e un altro, che poi scoprii essere La Barbera, vedendo la sua foto sui giornali. Giovanni mi disse che si doveva procedere a fare andare via Falcone da Palermo, mi disse tante cose brutte su Falcone, che stava facendo grossi danni. Bisognava mandarlo fuori al più presto.". "Non mi hanno mai parlato di volere uccidere Falcone ma solo di farlo andare via da Palermo: io a quel punto mandai un biglietto a Salvo Lima, e scrissi che questi amici potevano essere utili a tutti, perché avevano anche promesso di aiutarmi.".[147]

Il 13 febbraio 2014 viene ascoltato Riccardo Guazzelli,[148] che afferma: "Dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’onorevole Mannino temeva per la sua vita. Lo confessò lui stesso a mio padre: "Hanno ammazzato Lima, il prossimo potrei essere io", gli disse".[149]

Il 13 marzo 2014 depone il pentito Spatuzza, che afferma: "Per le stragi di Capaci e via d’Amelio diciamo che erano anche miei nemici, in quell’ottica mi andava anche bene l’atto terroristico con cui vennero eseguite. Ma collocare più di cento chili di esplosivo in una stradina abitata non è cosa che appartiene a Cosa Nostra." ( riferendosi alla strage di via dei Georgofili a Firenze )[150] e: "Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l'allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi 'fate attenzione a Milano 2'. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Ho cercato di dare indicazioni nello specifico".[151]

Il 27 giugno 2014 il pentito Filippo Malvagna dice che Marcello D'Agata gli aveva detto: "Dobbiamo dire che si deve votare per Berlusconi, per un nuovo partito che sta per nascere. Perché questo qua sarà la nostra salvezza" e aggiunge: "D'Agata mi disse inoltre che nel giro di pochi anni avrebbero attenuato il 41 bis e smantellato la legge sui collaboratori di giustizia e che il partito di Berlusconi sarebbe stata la nostra salvezza".[152]

Il 3 luglio 2014 il pentito Maurizio Avola afferma: "Dovevamo uccidere il magistrato Antonio Di Pietro. C’era stato chiesto durante un incontro, organizzato all’hotel Excelsior di Roma al quale parteciparono Cesare Previti, il finanziere Pacini Battaglia, il boss catanese Eugenio Galea, il luogotenente di Nitto Santapaola Marcello D’Agata, Michelangelo Alfano ed un certo Sariddu che poi scoprì essere Saro Cattafi, o meglio Rosario Pio Cattafi soggetto in contatto con i Servizi Segreti. L’omicidio era voluto e sollecitato dal gruppo politico-imprenditoriale presente a quella riunione." e dice inoltre che il boss Eugenio Galea gli aveva detto: "Stiamo aspettando un segnale forte da Dell’Utri e da Michelangelo Alfano, un grosso massone, che non conosco.".[153]

Il 10 luglio 2014 Antonino Galliano riporta: "Mimmo Ganci non lo vedevo da qualche giorno. Quando lo rividi mi disse che era stato fuori perché aveva accompagnato Totò Riina in un luogo imprecisato della Calabria per partecipare ad una riunione a cui partecipavano anche generali, ministri, politici e esponenti delle istituzioni".[154]

L'11 luglio 2014 depone il presidente del Senato Pietro Grasso che afferma: "Avevo incontrato il senatore Mancino durante la cerimonia di auguri natalizi al presidente della Repubblica, nel dicembre del 2011. In quella occasione mentre eravamo al guardaroba in attesa dei nostri soprabiti, Mancino mi apostrofò dicendo che si sentiva perseguitato dalle indagini: ‘Qualcosa lei deve fare’, mi disse. Risposi che l’unico modo era il potere di avocazione, ma non c’erano i presupposti."[155]

Le conseguenze

Il maggiore Antonio Coppola, capo del nucleo investigativo, sarà trasferito. Negli stessi mesi in cui saranno sostituiti i vertici investigativi dell’Arma, anche negli uffici del palazzo di giustizia avverrà una massiccia rotazione[156], in base alla turnazione introdotta dalla Riforma Castelli del 2007[157].

Le presunte pressioni sulla politica

Il giornalista Marco Travaglio ha parlato di leggi che sono state proposte e a volte anche approvate da parte di governi sia di centrodestra che di centrosinistra nel corso degli ultimi 15 anni, che potrebbero aver favorito Cosa Nostra e che in alcuni casi rispettano le richieste del Papello per l'alleggerimento del 41 bis.

In particolare, ciò riguarderebbe i disegni di legge per la revisione dei processi, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara (nel 1997, con un governo di centrosinistra), le numerose proposte di abolire l’ergastolo (approvate per pochi mesi nel 1999, con il governo D’Alema), i tentativi al Dap per favorire la “dissociazione” dei mafiosi a costo zero, cioè senza che il pentito collabori (a cui si sono opposti tra gli altri il magistrato Alfonso Sabella e il giudice Sebastiano Ardita), l’indulto voluto da Mastella nel 2006 esteso ai reati dei mafiosi diversi da quelli associativi (ma compresi per esempio il voto di scambio e i delitti propedeutici alla commissione di quelli più gravi), la legge del secondo governo Berlusconi che stabilizza il 41-bis rendendone di fatto più facili le revoche.

La norma del 2009[non chiaro] che ha svuotato il sequestro dei beni mafiosi permettendo di metterli all’asta (cioè di farli ricomprare dai prestanome dei mafiosi), i tre scudi fiscali sul rientro dei capitali sporchi in forma anonima, che sarebbe potuto avvenire anche in forma non anonima.[158]

Considerazioni

La supposta trattativa è stata ritenuta riscontrata nella motivazione della sentenza[159] del processo a Francesco Tagliavia[160] per le bombe del '92 e '93.[161] Secondo quella sentenza l'iniziativa per la trattativa "fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia"[162]. Ad oggi (2014) tale negoziazione non è stata definitivamente e chiaramente dimostrata, anzi risulta corrente oggetto di diverse inchieste, per le quali sono stati indagati diversi esponenti di Cosa nostra come Totò Riina e Bernardo Provenzano, alcuni politici tra i quali l'ex senatore del Pdl Marcello Dell'Utri[163], il suo ex socio in affari[164][165] il finanziere Filippo Alberto Rapisarda[166], il deputato ed ex ministro democristiano Calogero Mannino[167] nonché alcuni appartenenti alle forze dell'ordine come il generale dei carabinieri e capo del ROS Antonio Subranni [168] l'allora colonnello Mario Mori[169] e il suo braccio destro al ROS, il capitano Giuseppe De Donno che disse: "Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa"[170].

Molti sostenitori dell'ipotesi indicano che la trattativa sia avvenuta[171] nel periodo tra la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino[172], e che quest'ultimo possa essere stato assassinato anche perché veniva considerato un ostacolo alla trattativa tra Stato e mafia[173], secondo le rivelazioni ancora da accertare di Gaspare Spatuzza[174] e di Giovanni Brusca[175].

Filmografia

Teatro

Note

  1. ^ Da Garibaldi a Totò Riina tutti i patti tra Stato e mafia. Attilio Bolzoni. Repubblica. Archivio. 16 dicembre 2011.
  2. ^ Stragi: La trattativa mafia-Stato ci fu. Forza Italia non fu mandante delle stragi. Corriere della Sera. Firenze. Notizie. 12 marzo 2012.
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  4. ^ Trattativa e 41-bis, un passato che non vuole passare. Fabio Repici e Marco Bertelli. Antimafia 2000. 16 febbraio giugno 2011.
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Bibliografia

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