Irredentismo italiano: differenze tra le versioni

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Irredentismo in Dalmazia e in Istria; Nozione di Venezia giulia e di Litorale adriatico; censimento austriaco dell'Istria nel 1910
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I vari movimenti irredentisti proponevano (pur se con diverse sfumature) l'annessione delle terre, considerate italiane, che dopo la [[terza guerra di indipendenza italiana]] del 1866 si trovavano ancora in territorio straniero, quali in particolare il [[Provincia autonoma di Trento|Trentino]] (e non l'[[Provincia autonoma di Bolzano|Alto Adige]] o Sud Tirolo), la [[Venezia Giulia]], la [[Dalmazia]], il [[Contea di Nizza|Nizzardo]], la [[Corsica]] e [[Malta]] o parte di altre realtà politiche come il [[Canton Ticino]] e le valli italofone del [[Canton Grigioni]]. I territori considerati irredenti erano definiti tali secondo criteri variabili: a volte si considerava il criterio ''linguistico-culturale'', ossia la presenza di [[italofoni]], altre volte quello ''geografico'', cioè l'appartenenza ai confini naturali, altre ancora quello ''storico'', ossia l'appartenenza del territorio, in passato, a uno degli antichi stati italiani.
I vari movimenti irredentisti proponevano (pur se con diverse sfumature) l'annessione delle terre, considerate italiane, che dopo la [[terza guerra di indipendenza italiana]] del 1866 si trovavano ancora in territorio straniero, quali in particolare il [[Provincia autonoma di Trento|Trentino]] (e non l'[[Provincia autonoma di Bolzano|Alto Adige]] o Sud Tirolo), la [[Venezia Giulia]], la [[Dalmazia]], il [[Contea di Nizza|Nizzardo]], la [[Corsica]] e [[Malta]] o parte di altre realtà politiche come il [[Canton Ticino]] e le valli italofone del [[Canton Grigioni]]. I territori considerati irredenti erano definiti tali secondo criteri variabili: a volte si considerava il criterio ''linguistico-culturale'', ossia la presenza di [[italofoni]], altre volte quello ''geografico'', cioè l'appartenenza ai confini naturali, altre ancora quello ''storico'', ossia l'appartenenza del territorio, in passato, a uno degli antichi stati italiani.
Cronologicamente vi furono due ''irredentismi'' italiani: uno ''risorgimentale'' e uno ''fascista''. Il primo voleva l'unione al [[Regno d'Italia]] di tutti i territori con popolazione a maggioranza italiana rimasti fuori dall'unificazione nel 1870 e completare in tal modo il periodo risorgimentale.
Cronologicamente vi furono due ''irredentismi'' italiani: uno ''risorgimentale'' e uno ''fascista''. Il primo voleva l'unione al [[Regno d'Italia]] di tutti i territori con popolazione a maggioranza italiana rimasti fuori dall'unificazione nel 1870 e completare in tal modo il periodo risorgimentale.

In particolare l'irredentismo risorgimentale si sviluppa a Trento e in Trentino, a Trieste, Gorizia, nella Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia.

Gli italiani abitavano in grandissima maggioranza queste terre: sicuramente tutto il Trentino era di lingua e cultura italiana, con esclusione della val di fassa che era ladina, di lingua e cultura italiana e friulana era la terra della Contea di Gradisca, cioè tutta la zona pineggiante del Friuli e della lagina di Grado; a maggioranza italiana era Gorizia, con presenza di friulani e di sloveni; a maggioranza italiana era Trieste, ma con forte presenza pure di sloveni; a grande maggioranza italiana erano tutti i comuni costieri dell'Istria occidentale e del Buiese, mentre nel resto dell'Istria la situazione era mista, con netta prevalenza croata e slovena nelle campagne e prevalenza italiana nelle citta; Fiume era a maggioranza italiana, con forti presenze croate e ungheresi; la Dalmazia, esclusa Zara che era a prevalenza italiana, era sempre stata prevalentemente croata o serba anche durante il dominio della Repubblica di Venezia, anche se vi erano forti presenze di italiani in alcune città come Spalato).

Durante tutto il Risorgimento italiano aspirarono sempre all'unione col resto delle terre italiane che aspiravano all'Unità. Fino al 1866 costoro parteciparono spesso ai moti risorgimentali e chiesero pure di essere uniti al Regno Lombardo-Veneto.

All’epoca dei preliminari del trattato di Villafranca (11 luglio 1859), mentre si vagheggiava la creazione di una Confederazione di Stati italiani nella quale avrebbe dovuto entrare a fare parte anche la Venezia (pur restando sotto gli Asburgo), di nuovo i Comuni istriani tornarono sulla questione dei confini doganali, chiedendo in una nuova petizione l’unione dell’Istria col Veneto, accampando interessi generali e soprattutto economici. La lettera sottoscritta dai Sindaci istriani, il cui invio fu ostacolata dalle autorità governative, venne poi inoltrata a Vienna e rimase senza risposta.

Durante la II guerra di indipendenza si mobilitarono anche i popolani dell’Istria che, nonostante la loro povertà, parteciparono con mille franchi alla sottoscrizione nazionale per l’acquisto di fucili proclamata da Giuseppe Garibaldi e le donne istriane, insieme a quelle del Friuli, offrirono in dono ai battaglioni 37° e 38* della brigata Ravenna due vessilli da loro mirabilmente lavorati (marzo 1860).

Il 9 maggio del 1861 fu mandato a Torino da parte del Comitato Centrale Veneto un corposo opuscolo (memoriale) al Senato a alla Camera dei deputati intitolato “Trieste e l’Istria e loro ragioni sulla questione italiana”. Con esso si richiedeva che i suddetti territori facessero parte integrante della patria comune, giacché “la natura, la storia, la nazionalità, gli interessi commerciali, le ragioni geografiche, militari e politiche e il generale sentimento italiano del popolo, manifestato anche testé dalle legali rappresentanze di Trieste e dell’Istria, concorrono a consacrare il diritto di questa estrema regione dell’Istria orientale di non restare esclusa dall’italiana famiglia, che sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele felicemente risorge ora a nazione.”

Sono del 1863 le parole di [[Giuseppe Garibaldi]] «So che l'Istria e Trieste anelano frangere le catene con cui le avvince l'odiata signoria straniera, e che affrettano con il desiderio il compimento del voto di essere restituite a madre Italia. Quantunque la tristizia di tempi e di uomini sembra voglia impedire il compimento di quel voto, io ho fede che non sia lontano il giorno delle ultime battaglie e delle ultime vittorie, da cui sarà suggellato il completo nazionale riscatto.»

Nello stesso 1863 fu coniata dal glottologo goriziano Graziadio Ascoli per il territorio di Istria, Trieste e Gorizia, l’espressione “'''Venezia Giulia”''', in contrapposizione a quella ufficiale di “Litorale Austriaco”. Il termine, che faceva riferimento al glorioso passato e ai miti risorgimentali di Roma e di Venezia, ebbe in seguito molto fortuna presso i patrioti mentre venne osteggiata dall’Austria. L’Ascoli, in suo articoletto “Le tre Venezie” (Venezia Euganea, Venezia Giulia e Venezia Tridentina) apparso sul giornale “L’alleanza”, giustificava la nuova espressione con precise ragioni storiche e culturali richiamandosi alla gens Iulia, nelle figure di Giulio Cesare e dell’imperatore Ottaviano Augusto (che aveva riorganizzato l’Italia in regioni, fra le quali era annoverata anche la “X Regio Venetia et Histria”) e alla Repubblica di Venezia, che aveva influenzato per secoli non solo l’Istria ma anche le vicine città di Trieste e di Gorizia.

Il Litorale austriaco divenne una organizzazione territoriale autonoma all'interno dell'Impero austriaco, con organi elettivi, uno per Trieste, uno per Gorizia, uno per l’Istria, Scomparso il Regno d’Illiria, l’Istria fu trasformata in margraviato.

Il '''''Litorale austriaco''''' era una nuova unità amministrativa che comprendeva oltre all’Istria e alle isole di Cherso, Lussino e Veglia (già veneziane), anche possedimenti ereditari della casa d’Austria come la città di Trieste con il suo circondario e la Contea di Gorizia e di Gradisca. Era retta da un imperial-regio Governatore (in seguito ''Luogotenente'') con sede a Trieste ed era suddiviso in vari ''Circoli'', amministrati localmente da ''Capitani Circolari''.

Nel primo periodo della Restaurazione, si era posto il problema di un assetto costituzionale per il Litorale come per le altre vecchie province dell’Impero asburgico e, a tale fine, venne chiesto un parere ai Circoli perché si pronunciassero sul progetto di una costituzione ''provinciale'', che fosse rappresentativa del territorio, sulla base delle differenti esperienze locali. Per il Circolo d’Istria vennero interpellati il Conte Giovanni Totto di Capodistria, il commissario distrettuale di Pirano Felice Lanzi e il marchese Giovanni Paolo Polesini che formularono dei pareri scritti, come pure fecero i Circoli di Gorizia, di Fiume e di Carlstadt e la Commissione di Trieste, ma alla fine il progetto di una rappresentanza politica unitaria e di una ''Costituzione provinciale'' per il Litorale fu accantonata, forse per la manifesta diversità delle tradizioni giuridiche e amministrative sussistenti al suo interno.

Dopo vari rimaneggiamenti, dal 1825 il Litorale austriaco fu suddiviso in due Circoli, il ''Circolo di Gorizia'' e il ''Circolo dell’Istria'' (che ebbe sede a Pisino e successivamente a Parenzo e a Pola). Il territorio di Trieste faceva parte a sé, mentre Fiume e il litorale liburnico erano assegnati all’Ungheria, nell’ambito dell’Impero.

I Circoli furono suddivisi in distretti, alla cui autorità furono sottoposti i Comuni istriani, la cui autonomia fu soppressa insieme agli antichi Statuti non più operanti in seguito all’introduzione della legislazione austriaca.

Con l’aggregazione al Circolo di Pisino negli anni 1823-25 di nuovi distretti, che erano di etnia slava come Podgrad-Castelnuovo, Bellai e Castua, venne ulteriormente alterata la fisionomia etnica e culturale della regione istriana, non avendo i nuovi abitanti lingua e storia in comune con gli istro-veneti.

L’autorità provinciale del Litorale aveva funzioni di amministrazione generale, di polizia e di controllo delle autorità locali. Il podestà era nominato da i.r. commissari distrettuali, burocrati di scarsa preparazione e cultura, per lo più stranieri che spesso ignoravano la lingua e le tradizioni del luogo. La “modernizzazione” dell’Istria consistette nel trapasso da una forma di governo aristocratico, quel’era quello della Repubblica di S. Marco, ad un regime rigidamente burocratico, che prevedeva un legame diretto dei sudditi all’Imperatore a cui si doveva fedeltà; il vincolo dinastico, che veniva esaltato dalla propaganda del clero, era l’unica forma di aggregazione per territori tanto disomogenei.

Quando fu consentita l'elezione a suffragio ristretto degli organi dei Comuni dell'Impero austroungarico la grande maggioranza dei Comuni siti in queste terre elessero consigli comunali a forte prevalenza italiana, anche perchè gli italiani soprattutto nelle città erano la popolazione più benestante e più istruita.

Dopo la III^ guerra di indipendenza, quando fu chiaro che il Veneto sarebbe tornato all'Italia, ma che tutte le altre terre sarebbero rimaste nell'Impero austro-ungarico inizio un'opera attiva da parte delle autorità austroungariche di repressione della popolazione di lingua italiana in favore della popolazione di lingua tedesca e soprattutto slava, considerate più defeli.

In tal senso occorre ricordare che il 12 novembre 1866 si riunisce il Consiglio della Corona il cui Verbale della Corona (reperibile in ''Die Protokolle des Österreichischen Ministerrates 1848/1867. V Abteilung: Die Ministerien Rainer und Mensdorff. VI Abteilung: Das Ministerium Belcredi'', Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst, Vienna 1971; la citazione compare alla Sezione VI, vol. 2, seduta del 12 novembre 1866, p. 297), riporta:

''Se. Majestät sprach den bestimmten Befehl aus, daß auf die entschiedenste Art dem Einflusse des in einigen Kronländern noch vorhandenenitalienischen Elementes entgegengetreten und durch geeignete Besetzung der Stellen von politischen, Gerichtsbeamten, Lehrern sowie durch den Einfluß der Presse in Südtirol, Dalmatien und dem Küstenlande auf die Germanisierung oder Slawisierung der betreffenden Landesteile je nach Umständen mit aller Energie und ohne alle Rücksicht hingearbeitet werde. Se. Majestät legt es allen Zentralstellen als strenge Pflicht auf, in diesem Sinne planmäßig vorzugehen.''

«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale ''per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno.'' Sua Maestà impone il rigoroso dovere a tutti gli uffici centrali di procedere secondo quanto deliberato in questo senso».

Iniziò dunque dal 1866 al 1918 un'attiva opera di oppressione della popolazione italiana che viveva in quei territori dell'Impero austroungarico, mediante una molteplicità di azioni:

a) sull'identificazione stessa dell'appartenenza ai vari gruppi linguisitici, che si fondava sugli atti dello stato civile (nascita ecc.) che nell'impero austriaco furono sempre di competenza delle parrocchie, la cui grande maggioranza fu amministrata da parroci non appartenenti al gruppo italiano, e guidati da vescovi nominati dal Papa col consneso dell'Imperatore e in quel periodo furono tutti di lingua e cultura slovena o croata. A questo clero fu spesso rimproverato di agire in favore del gruppo slocveno o croato e soprattutto di avere modificato o falsificato gli atti di nascita, slavizzando nomi e così alterando l'appartenenza linguitica che allora era spesso vaga e confusa, spersso di elezione, talvolta resa .

sull'uso della lingua pubblica, che fu collegata al censimento dei gruppi linguistici (che fu spesso contestato)

b) sull'uso della lingua italiana nella scuola, che fu limitato o soppresso nei comuni a maggioranza non italiana. Infatti le scuole medie, che dipendevano dal governo centrale, furono progressivamente slavizzate nelle terrre con maggioranza slovena o croata e altrettanto accadde per le scuole elementari nei comuni governati da maggioranze slave

c) sulla gestione dei comuni da parte di amministrazioni sempre meno italiane

Opera di snazionalizzazione si cercò di attuare anche in campo culturale interrompendo, ad esempio, la consuetudine plurisecolare degli studenti istriani e dalmati di frequentare l’Università di Padova. Da una certa data non fu più riconosciuto il valore legale della laurea patavina ed essi furono costretti a continuare gli studi a Graz o a Vienna. Fra gli istriani illustri che nel corso dei secoli precedenti avevano frequentato lo Studio di Padova ricordiamo il beato di Capodistria Antonio Martissa che si addottorò in teologia nel 1473, gli umanisti Pier Paolo Vergerio il Vecchio e Pier Paolo Vergerio il Giovane, lo scienziato Santorio Santorio, amico di Galilei, che a Padova insegnò medicina teoretica, e ancora l’illuminista Gian Rinaldo Carli e il violinista e compositore di Pirano Giuseppe Tartini.

Non ebbe particolari ripercussioni sui territori adriatici, la riforma del 1867 che trasformò l’Impero d’Austria in duplice “imperiale e regia” Monarchia austro-ungarica, riconoscendo l’esistenza di due Regni distinti sotto un unico sovrano che era Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria (Kaiserclich und Königlich Monarchie).

L’Istria rimase soggetta all’Imperatore dì Austria (margraviato d’Istria), come pure la Dalmazia (Regno di Dalmazia); ambedue rimasero staccate dal Regno di Croazia, che invece faceva parte del territorio sotto amministrazione ungherese.

Fiume, dopo un ventennio di occupazione croata (1848-1868) tornò ad essere corpus separatum della Corona Ungherese, riacquistando una certa autonomia municipale e antichi privilegi, come quello dell’uso ufficiale della lingua italiana.

a) la '''Dalmazia,''' che per 350 anni fino al 1797 fece parte della Repubblica di Venezia e che, a parte una breve annessione al regno d'Italia napoleonico, fu annesso fin dal 1797 all'Impero d'Austria, ma, pur essendo a maggioranza croata, essendo popolata anche da serbi e da italiani non era parte, all'interno di esso, del regno di Croazia. A partire da quell'epoca nella Dieta provinciale di Dalmazia i membri italiani e i mmebri croati e serbi si scontrarono duramente: gli italiani, spesso affiancati dai serbi, propendevano per una visione autonomistica (la Dalmazia come Regno o entita distinta all'interno dell'Impero), mentre i membri croati miravano all'unione col Regno di Croazia, seppur sempre interno all'Impero; questo scontro si riverberò in tutti i Comuni e man mano che si estese il suffragio le amministrazioni comunali dalmate persero il governo degli elementi italiani, con l'eccezione di Spalato, il cui sindaco autonomista Bajamonti fino al 1882 cercò la concordia tra tutti i gruppi nazionali. Intanto in tutta la Dalmazia a maggioranza croata le autorità imperiali imposero l'uso della lingua croata sia nelle scuole, sia nella toponomastica, sia negli atti pubblici.

Le scuole medie, che dipendevano, a differenza di quelle elementari, dal governo centrale, furono progressivamente croatizzate. Lo stesso successe con le scuole elementari nei comuni governati da maggioranze slave. La lingua italiana perse così il suo status storico, mantenendo però il suo prestigio quale "lingua culturale" (persino [[Frano Supilo]], uno dei maggiori esponenti del movimento nazionale croato, dichiarava di "pensare in italiano, pur essendo croato"). La consistenza della comunità italiana nelle città costiere cominciò a diminuire progressivamente, con l'unica eccezione di [[Zara]].

Lo storico [[Matteo Bartoli]] nel suo libro "Le parlate italiane della Venezia Giulia e della Dalmazia" scrisse che:

«[...] Dopo la battaglia navale di Lissa del 1866, in Dalmazia come nel Trentino e nella Venezia Giulia tutto ciò che era italiano venne avversato dagli austriaci. Non potendo tedeschizzare quelle terre perché troppo lontane dall'Austria, venne favorita la cultura slava a danno di quella italiana. Nelle varie città dalmate a mano a mano l'amministrazione da italiana passava a croata. Nel 1861 gli 84 comuni dalmati erano amministrati da italiani. Nel 1875 risultava che 39 di essi avevano amministrazione croata, 19 italiana ed i restanti bilingue. I comuni con amministrazione italiana erano: Blatta, Brazza, Cittavecchia di Lesina, Clissa, Comisa, Lissa, Meleda, Mezzo, Milnà, Pago, Ragusa, Sabbioncello, Selve, Slarino, Spalato, Solta, Traù, Verbosa e Zara. Nel 1873 Sebenico passò all'amministrazione croata, così come nel 1882 Spalato, nel 1886 Traù, nel 1904 Arbe e nel 1910 Slarino che lasciava sola Zara.

Inoltre dal 1866 al 1914 - ad eccezione di Zara - vennero chiuse le scuole italiane e aperte quelle croate. Il tracollo della componente italiana in Dalmazia è dovuto soprattutto a questo fatto, non avendo più essi libertà di espressione culturale. La trasformazione delle scuole italiane in croate fu accompagnata da numerose proteste, persino nella remota Tenin in cui numerose famiglie chiedevano il mantenimento della lingua italiana. A Lissa una petizione fu portata addirittura all'imperatore. Fu così fondata negli anni novanta la Lega Nazionale, la cui sezione dalmata gestiva a proprie spese scuole private italiane. Esse erano presenti a: Cattaro, Ragusa, Curzola, Cittavecchia di Lesina, Spalato, Imoschi, Traù, Sebenico, Scardona, Tenin, Ceraria, Borgo Erizzo, Zara ed Arbe (oltre a Veglia, Cherso, Unie e Lussino).

Tutto questo avveniva in un clima di continue vessazioni da parte degli slavi che a mano a mano conquistavano il potere. Antonio Baiamonti fu podestà di Spalato prima che essa cadde nelle mani dell'amministrazione croata. Egli spese tutta la vita e le proprie sostanze per la sua città, sostanze che mai vennero rimborsate dagli austriaci nonostante le ripetute promesse. Morirà a 69 anni indebitato fino al collo. Diceva spesso: "A noi italiani di Dalmazia non resta che un solo diritto: quello di soffrire!. [...]»

La politica di collaborazione con i [[serbi]] locali, inaugurata dallo [[Zara|zaratino]] Ghiglianovich e dal raguseo Giovanni Avoscani, permise poi agli italiani la conquista dell'amministrazione comunale di [[Ragusa (Croazia)|Ragusa]] nel 1899. Nel [[1909]] la [[lingua italiana]] venne vietata però in tutti gli edifici pubblici e gli italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali. Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall'impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie. I contrasti politici e nazionali determinarono un'atmosfera di tensione, che si tradusse in episodici atti di violenza, quali aggressioni di persone e devastazioni od incendi d'edifici.

b) in '''Istria''' importante fu il trasferimento, da [[Venezia]] a [[Pola]], della principale base della [[K.u.k. Kriegsmarine|Marina imperiale]], a seguito dell'[[Repubblica di San Marco|insurrezione di Venezia]] nel [[1848]]-49. In pochi anni Pola ebbe uno sviluppo tumultuoso, passando da poche centinaia di abitanti ai 30-40.000 di fine Ottocento.

Nella prima metà del XIX secolo ci fu da parte del Governo austriaco un tentativo di germanizzazione del Litorale con l’imposizione della lingua tedesca nelle scuole Medie e Superiori e nelle pratiche di governo, anche se in Istria l’italiano rimase la lingua usata nell’amministrazione locale, nonché nei tribunali (la Patente Sovrana del 1815 prevedeva “''Le Parti, non meno che i loro Patrocinatori dovranno nei loro atti servirsi dell’idioma italiano”)''.

In ogni caso l’Istria, dopo il distacco dal Veneto che godeva nel Regno Lombardo Veneto di una costituzione più liberale (in cui l’italiano era riconosciuto come lingua di governo) soffrì di trovarsi isolata dalla sua tradizionale area di appartenenza e aggregata ad una realtà etnica e culturale ad essa estranea, di carattere continentale, di tradizione agricolo-feudale e clerico-dinastica.

Era naturale perciò che i ceti più colti dell’Istria, che si formavano all’Università di Padova o in altre istituzioni italiane, assorbissero le idee progressiste del liberalismo italiano nelle sue diverse forme.

Il fenomeno dell’irredentismo adriatico (anche se il termine fu coniato appena nel 1877 da parte di Francesco Imbriani), ebbe modo di manifestarsi già nel ’48, all’indomani delle insurrezioni scoppiate a Vienna e successivamente a Venezia (in cui fu proclamata la Repubblica). A Milano, i cittadini insorti costrinsero le truppe austriache del maresciallo Radetsky ad evacuare la città e con l’intervento militare del Regno Sabaudo in Lombardia iniziò la prima guerra di indipendenza.

Tali avvenimenti suscitarono nelle cittadine istriane entusiasmi e speranze. Fu istituita la Guardia nazionale di napoleonica memoria e la popolazione si abbandonò a baldorie per le strade, salutando con euforia la emanazione della Costituzione di Vienna, esibendo coccarde bianche, rosse e verdi, in segno di appartenenza nazionale italiana e inneggiando a Papa Pio IX.

Il timore di una insurrezione creò allarme nella autorità austriache come si desume, ad esempio, dalle lettere fra l’I.R. Luogotenente del Litorale e il commissario del distretto di Pirano. Quest’ultimo, l’11 aprile rispondeva al suo superiore che sarebbe stato opportuno rinforzare la guarnigione di Pirano, portandola ad almeno 600 uomini per le sempre più manifeste simpatie della popolazione per l’Italia. Temeva che potesse essere issata la bandiera repubblicana, dato che la gioventù del luogo, in specie la Guardia nazionale con a capo l’avv. Venier, portava sul petto una croce come simbolo di una crociata italiana che si stava organizzando.

Lo stesso generale Nugent, presente in Istria, propose di armare le popolazioni slave dell’Istria interna e montana per servirsene, al bisogno, contro gli italiani animati di sentimenti ostili all’Austria. Per fortuna la proposta fu saggiamente bocciata dal capitano del Circolo di Pisino, barone Grimschitz, timoroso di alimentare una guerra civile, perché gli slavi dell’Istria ex austriaca, avrebbero potuto sfogare il proprio odio con rapine ed atti di violenza, indiscriminatamente, nell’Istria ex veneta.

La flotta sardo-veneziana intanto incrociava al largo della costa istriana alimentando l’entusiasmo e la volontà di molti giovani, decisi a combattere a fianco dei piemontesi nella prima guerra di indipendenza e in difesa della Repubblica Veneta proclamata da Daniele Manin. Gli istriani domiciliati a Venezia sottoscrissero la propria adesione alla Repubblica e il nobile Nicolò de Vergottini di Parenzo fu nominato prefetto dell’ordine pubblico (e a lui si deve se l’ordine della città assediata non fu mai seriamente turbato).

A Venezia venne anche istituita una Commissione per la costituzione di una Legione dalmato-istriana per coloro che già militavano nei vari corpi dell’esercito veneto.

Al fine di domare quelli che vennero definiti i “repubblicani” dell’Istria, si dichiarò pronto ad accorrere con duemila Cicci (slavi dell’altopiano) il Capitano distrettuale di Pinguente (nell’Istria interna), mentre altrettanti Castuani sarebbero arrivati da oltre il Monte Maggiore.

Per contrastare i sentimenti irredentisti degli italiani della provincia istriana iniziava così da parte delle autorità austriache la politica del ''divide et impera'', che si attuò con una azione di propaganda nei confronti dell’etnia slava, per inculcare nella popolazione croata, che era a quei tempi prevalentemente contadina e interessata più che altro a scuotersi dal giogo feudale, il sentimento di appartenenza nazionale. Tramite il clero slavo delle campagne, si faceva intendere che l’Istria fosse storicamente terra slava e che gli italiani non fossero altro che “ospiti” sul suo territorio.

Nel giugno 1848 ci furono le elezioni per i rappresentanti istriani alla Assemblea Costituente di Vienna a cui furono eletti quattro italiani (Antonio de Madonizza di Capodistria, Michele Fachinetti di Visinada, Carlo De Franceschi di Moncalvo di Pisino, FrancescoVidulich di Lussimpiccolo) e un croato (Giuseppe Vlach) del distretto di Castua.

I quattro rappresentanti italiani, si batterono energicamente, in primo luogo, contro la proposta del deputato germanico Raumer che nella dieta di Francoforte (parlamento della Confederazione germanica di cui faceva parte anche l’Austria) aveva richiesto che anche l’Istria veneta venisse aggregata a tale Confederazione. Nell’agosto dello stesso anno, il deputato Carlo de Franceschi rispose con un vibrante articolo “Per l’italianità dell’Istria”, in cui argomentava le ragioni dell’assurdità della proposta.

Giovandosi inoltre dell’equiparazione delle nazionalità e delle lingue dell’Impero che era stata messa in atto durante i lavori della costituente di Vienna, i deputati istriani impetrarono il riconoscimento ufficiale della nazionalità italiana dell’Istria, richiedendo che da tutti gli uffici, anche nell’uso interno (ad eccezione che nel distretto di Castelnuovo, che era slavo) venisse abolito l’uso del tedesco.

La risposta del Conte Stadion, Ministro dell’Interno, si fece attendere a lungo, ma alla fine (nel dicembre del 1848) fu negativa con la motivazione che “coll’ordinanza ministeriale emanata mesi fa, che le autorità dell’Istria nelle pertrattazioni colla popolazione italiana debbano adoperare esclusivamente la lingua italiana, fu soddisfatto al diritto della nazionalità italiana; e riesce del tutto indifferente pe’suoi interessi e diritti qual linguaggio usino i dicasteri nelle comunicazioni fra loro e colla popolazione slava”.

Nel 1849 fu tuttavia stabilito che la lingua d’istruzione nelle scuole dell’Impero fosse quella materna anziché quella tedesca.

I quattro rappresentanti italiani a Vienna, che si trovarono in perfetto accordo con i deputati d’estrema sinistra, democratici-rivoluzionari nella loro attività antigovernativa e antidinastica, si adoperarono anche (senza l’apporto del quinto rappresentante istriano di Castua che si era mostrato di idee conservatrici) per chiedere la libertà dai vincoli feudali per le plebi rurali, in massima parte slave dell’Istria ex arciducale, come quelle che nel 1847 avevano inscenato una sommossa, duramente repressa, a Lupogliano contro le onerose prestazioni cui erano sottoposte. In quell’occasione l’avvocato Francesco Combi di Capodistria si era speso in loro difesa con coraggiosi scritti che avevano provocato il suo esonero dalla carica di podestà e l’avvio a suo carico di un processo criminale da parte dell’I.R. commissario Grimschitz.

La proposta di abolizione di ogni vincolo feudale venne a stento approvata e in seguito sanzionata con decreto imperiale nel settembre del Quarantotto

Nel 1860 furono istituite inoltre in tutto l’Impero le Diete provinciali (parlamenti locali) che avrebbero dovuto inviare deputati alla Camera di Vienna (Consiglio dell’Impero).

La Dieta per l’Istria doveva aver luogo a Parenzo, presieduta dal Capitano provinciale marchese Giampaolo Polesini.

In quell’occasione il comitato patriottico segreto, capeggiato dallo studioso capodistriano Carlo Combi, che aveva contatti con il comitato centrale veneto di Milano tramite Tommaso Luciani, dopo aver chiesto suggerimenti sul comportamento da seguire in quel delicato frangente, decise concordemente con i “cugini” veneti che i rappresentanti della Dieta di Parenzo avrebbero espresso il loro sentimento separatista e antiaustriaco, rifiutandosi di eleggere i due deputati al Consiglio dell’Impero. Dopo essersi riuniti la sera precedente il voto nell’aprile del 1861 in casa del membro della Giunta provinciale Giuseppe de Vergottini (che propose un solenne giuramento) essi espressero il loro rifiuto, non servendosi di schede bianche, ma scrivendo “Nessuno” sulle schede stesse.

Nonostante l’ intervento del Luogotenente del Litorale Barone Burger accorso di persona a Parenzo, anche le successive votazioni ebbero esito negativo e la Dieta istriana venne dichiarata disciolta. L’episodio divenne noto come la “Dieta del Nessuno”.

Nella seconda Dieta, istituita nel settembre 1861, in cui gli irredentisti scelsero la strada dell’astensione ai lavori, risultarono poi eletti come rappresentanti istriani a Vienna, il tedesco Luogotenente del Litorale Burger e il vescovo croato mons. Dobrila.

Poiché i patrioti non potevano agire alla luce del sole per il costante controllo poliziesco delle autorità austriache e il sentimento nazionale non si poteva esternare in pubblico, esso si manifestava con la partecipazione popolare agli avvenimenti festosi o luttuosi (come la sottoscrizione popolare per il monumento funebre a Cavour) che interessavano il Regno d’Italia.

Grande fu l’entusiasmo per la celebrazione del VI centenario della nascita di Dante il 14 maggio 1865, che si celebrò a Trieste e in molte città istriane, fra mille sospetti delle autorità austriache. A Firenze, allo scoprimento del monumento eretto al Poeta a Santa Croce, fra le bandiere di tutta Italia fu presente anche quella dell’Istria, inalberata dal marchese Giuseppe Gravisi di Capodistria e dal barone Lazzarini di Albona.

In quel giorno, gli Istriani mandarono un saluto a Firenze. Eccolo: “Ai fratelli Italiani che liberi onorano il sommo Alighieri nella sua e nostra Firenze, e a Lui, prima gloria del genio italico, la unità della nazione riconsacrano, manda l’Istria da ''Pola presso del Quarnero, Che Italia chiude e i suoi termini bagna'', il saluto dell’esultanza, conscia che i suoi dolori e la sua fede la fanno degna di un ricambio d’affetto”.

( “''Sì come a Pola, presso del Quarnaro, Che Italia chiude e i suoi termini bagna''” sono versi della Divina Commedia, tratti dal Canto IX, 112-114 dell’ Inferno).

Nel 1866, nell’imminenza della terza guerra dì indipendenza italiana, a cui, come al solito parteciparono volontari della Venezia Giulia, il Governo austriaco prese misure precauzionali in Istria, invitando ad abbandonare il paese con decreti di allontanamento, personalità sospette, come denunciato da Tomaso Luciani al giornale “La Nazione “ di Firenze: “L’Austria usa largamente dei diritti che le dà la sospensione della libertà personale e lo stato d’assedio. Da ogni luogo principale e dai secondari perfino manda a domicilio coatto ed in bando distinti cittadini, senza riguardo ad età, a circostanze familiari o di professione, o a stato di salute perfino. La legge del sospetto è in pieno trionfo….”.

Fra costoro c’erano il già citato Giuseppe de Vergottini e il capodistriano Carlo Combi, abilissimo promotore e organizzatore del movimento clandestino unitario, autore di numerosi scritti storici (“Prodromi alla storia dell’Istria”) e politici (come la famosa strenna “La porta orientale” e La frontiera orientale d’Italia e la sua importanza”).

In seguito all’esito infausto della guerra, dopo le sconfitte a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, quando svanirono le speranze di uno sbarco italiano in Adriatico e le illusioni di una aggregazione dell’Istria al Regno d’Italia, lo studioso pubblicò il suo ”Appello degli istriani all’Italia”, vero e proprio compendio dei suoi precedenti saggi. In esso viene ribadita la necessità dell’appartenenza dell’Istria al Regno d’Italia per combattere “le pretese della forza col diritto dei popoli” con argomentazioni di carattere storico, culturale, geografico e politico-militari. Eccole in sintesi:

Le Alpi Giulie e non il “fiumicello” Isonzo, imposto dall’Austria, rappresentano il confine orientale naturale d’Italia, nonché la frontiera strategica per sbarrare la via d’accesso alla penisola italiana. Inoltre è essenziale il possesso dell’Istria (con il porto di Pola) per contrastare sia il dominio austriaco in Adriatico, sia le mire della Slavia “la quale è sveglia anch’essa e balda di giovanili spiriti va incontro all’avvenire”.

Quanto agli slavi dell’Istria, “di venti o più stirpi”, pacificamente importativi dai dominatori per popolare le terre disertate dalle guerre e dalle pestilenza, sono “stranieri fra loro fino a non intendersi e stranieri agli Slavi d’oltralpe….” Rappresentano popolazioni che “vissero e vivono senza storia, senza memoria, senza istituzioni…“.

L’Istria invece è parte della nazione italiana, sia per ragioni storiche (era regione d’Italia fin dal tempo dei romani) che culturali perché “non sorge un villaggio in cui si agiti un po’ di vita civile il quale non sia prettamente italiano. Il carattere nazionale è spiccatissimo in ogni sua esteriore manifestazione” segue l’enumerazione di costumi, tradizioni, architettura, pittura, letteratura, istituzioni legislative (fin dagli Statuti comunali del Duecento) e dei “bellissimi nomi fra i migliori ingegni d’Italia”, per concludere che “la civiltà dunque è tutta nostra”.

Infine, per l’Istria, essere sottratta al tentativo dell’Austria di spegnere la sua italianità è questione di vita o di morte. E la causa dell’Istria “è causa anch’essa, e non ultima, d’Italia”.

Dopo questo suo scritto, Carlo Combi non poté più rientrare nella sua amata terra e rimase esule per tutta la vita. Alla sua morte, avvenuta nel 1884, le autorità austriache proibirono perfino che le sue esequie fossero celebrate nel duomo di Capodistria.

Dopo il 1870 l’Istria si ritrovò abbandonata a se stessa, ancor più dopo che nel 1882 il Rewgno d'Italia, l'Impero Austroungarico e l'Impero tedesco strinsero la Triplice alleanza.

Nacque allora una diversa fase di irredentismo che si nutrì di cultura e simboli patriottici più che di azione militante e che, accanto al carattere antiaustriaco ne assunse anche uno nuovo, quello antislavo. Infatti, in seguito alla nascita del sentimento nazionale degli Slavi del sud, apertamente appoggiati dalla politica governativa asburgica, la popolazione slovena e croata dell’Istria venne ormai avvertita come un “nemico” da contrastare.

Nel 1894 l'introduzione del bilinguismo italiano-slavo, in città con decisa prevalenza etnica italiana aumentò i malumori, che a [[Pirano]] sfociarono in una [[Rivolta di Pirano|rivolta]], che tuttavia non modificò la politica asburgica.

Secondo il censimento austriaco del 1910, su un totale di 404 309 abitanti dell'Istria, si ebbe la seguente ripartizione:

* 168 116 (41,6%) parlavano [[Lingua serbocroata|serbo-croato]] (dialetti kajkavo e ibridi štokavo-ciakavo) prevalentemente concentrati nella zona centrale della penisola e nella costa orientale
* 147 416 (36,5%) parlavano [[Lingua italiana|italiano]] ([[Lingua veneta|istroveneto]] e [[istrioto]] in massima parte) prevalentemente concentrati lungo la costa occidentale e in alcune cittadine dell'interno
* 55 365 (13,7%) parlavano [[Lingua slovena|sloveno]] prevalentemente concentrati nella zona rurale nord occidentale
* 13 279 (3,3%) parlavano [[Lingua tedesca|tedesco]], prevalentemente concentrati nel comune di Pola
* 882 (0,2%) parlavano romeno ([[Lingua istrorumena|istrorumeno]])
* 2116 (0,5%) parlavano altre lingue
* 17 135 (4,2%) erano cittadini stranieri a cui non era stato chiesto di dichiarare la lingua d'uso (in massima parte di nazionalità italiana).

Più specificamente, ecco la suddivisione per comune dell'intera provincia istriana nel 1910, con le rilevazioni della lingua d'uso:
{| class="wikitable sortable"
!Comune
!Nome croato/sloveno
!Lingua d'uso italiana
!Lingua d'uso slovena
!Lingua d'uso croata
!Lingua d'uso tedesca
!Dialetti istriani e stranieri
!Attuale appartenenza statale
|-
|[[Rovigno]]
|Rovinj
|10 859
|63
|57
|320
|1024
|[[Croazia]]
|-
|[[Capodistria]]
|Koper
|9840
|2278
|154
|74
|464
|[[Slovenia]]
|-
|[[Villa Decani|Decani]]
|Dekani
|9
|6231
|0
|0
|11
|[[Slovenia]]
|-
|[[San Dorligo della Valle]]
|Dolina
|1
|5198
|1
|4
|57
|[[Italia]]
|-
|[[Maresego]]
|Marezige
|0
|3126
|0
|0
|2
|[[Slovenia]]
|-
|[[Muggia]]
|Milje
|8671
|2299
|4
|38
|566
|[[Italia]]
|-
|[[Occisla-San Pietro di Madrasso]]
|Očisla-Klanec
|4
|2682
|0
|6
|3
|[[Slovenia]]
|-
|[[Paugnano]]
|Pomjan
|719
|3624
|0
|0
|1
|[[Slovenia]]
|-
|[[Pinguente]]
|Buzet
|658
|2105
|14164
|7
|23
|[[Croazia]]
|-
|[[Rozzo]]
|Roč
|216
|46
|3130
|8
|14
|[[Croazia]]
|-
|[[Isola (Slovenia)|Isola]]
|Izola
|6215
|2097
|2
|34
|113
|[[Slovenia]]
|-
|[[Pirano]]
|Piran
|12 173
|2209
|118
|161
|549
|[[Slovenia]]
|-
|[[Cherso (città)|Cherso]]
|Cres
|2296
|97
|5708
|4
|148
|[[Croazia]]
|-
|[[Lussingrande]]
|Veli Lošinj
|873
|6
|1169
|130
|285
|[[Croazia]]
|-
|[[Lussinpiccolo]]
|Mali Lošinj
|5023
|80
|2579
|288
|420
|[[Croazia]]
|-
|[[Ossero]]
|Osor
|1692
|5
|541
|0
|7
|[[Croazia]]
|-
|[[Albona]]
|Labin
|1767
|151
|9998
|39
|73
|[[Croazia]]
|-
|[[Fianona]]
|Plomin
|629
|15
|4141
|1
|897
|[[Croazia]]
|-
|[[Antignana]]
|Tinjan
|84
|16
|4100
|4
|2
|[[Croazia]]
|-
|[[Bogliuno]]
|Boljun
|18
|14
|3221
|4
|4
|[[Croazia]]
|-
|[[Gimino]]
|Žminj
|156
|34
|5498
|0
|25
|[[Croazia]]
|-
|[[Pisino]]
|Pazin
|1378
|58
|15 966
|44
|181
|[[Croazia]]
|-
|[[Buie]]
|Buje
|6520
|61
|518
|9
|73
|[[Croazia]]
|-
|[[Cittanova (Croazia)|Cittanova]]
|Novigrad
|2086
|0
|0
|0
|189
|[[Croazia]]
|-
|[[Grisignana]]
|Grožnjan
|2903
|32
|1064
|0
|29
|[[Croazia]]
|-
|[[Umago]]
|Umag
|5609
|8
|321
|4
|150
|[[Croazia]]
|-
|[[Verteneglio]]
|Brtonigla
|2610
|2
|1
|1
|37
|[[Croazia]]
|-
|[[Montona]]
|Motovun
|2052
|1042
|3147
|14
|21
|[[Croazia]]
|-
|[[Portole]]
|Oprtalj
|3817
|784
|1182
|0
|7
|[[Croazia]]
|-
|[[Visignano]]
|Višnjan
|2421
|5
|2566
|0
|97
|[[Croazia]]
|-
|[[Visinada]]
|Vižinada
|2714
|8
|1708
|7
|16
|[[Croazia]]
|-
|[[Orsera]]
|Vrsar
|2321
|19
|2577
|6
|68
|[[Croazia]]
|-
|[[Parenzo]]
|Poreč
|8223
|1
|3950
|34
|324
|[[Croazia]]
|-
|[[Barbana (Croazia)|Barbana]]
|Barban
|94
|11
|3995
|1
|7
|[[Croazia]]
|-
|[[Dignano (Croazia)|Dignano]]
|Vodnjan
|5910
|84
|4520
|92
|129
|[[Croazia]]
|-
|[[Sanvincenti]]
|Svetvinčenat
|616
|2
|2555
|3
|13
|[[Croazia]]
|-
|[[Pola]]
|Pula
|30 900
|8510
|16 431
|9500
|10 607
|[[Croazia]]
|-
|[[Canfanaro]]
|Kanfanar
|889
|52
|2832
|5
|17
|[[Croazia]]
|-
|[[Valle (Croazia)|Valle]]
|Bale
|2452
|7
|187
|6
|5
|[[Croazia]]
|-
|[[Bescanuova]]
|Baška
|5
|9
|3666
|0
|36
|[[Croazia]]
|-
|[[Castelmuschio]]
|Omišalj
|3
|0
|2229
|0
|10
|[[Croazia]]
|-
|[[Malinsca-Dobasnizza|Dobasnizza]]
|Dubašnica
|14
|3
|2989
|4
|18
|[[Croazia]]
|-
|[[Dobrigno]]
|Dobrinj
|3
|1
|4038
|2
|2
|[[Croazia]]
|-
|[[Ponte (Croazia)|Ponte]]
|Punat
|17
|0
|3057
|0
|17
|[[Croazia]]
|-
|[[Veglia (città)|Veglia]]
|Krk
|1494
|14
|630
|19
|39
|[[Croazia]]
|-
|[[Verbenico]]
|Vrbnik
|8
|2
|2924
|0
|6
|[[Croazia]]
|-
|[[Castelnuovo d'Istria|Castelnuovo]]
|Podgrad
|7
|5471
|1809
|0
|7
|[[Slovenia]]
|-
|[[Elsane]]
|Jelšane
|0
|3729
|467
|1
|10
|[[Slovenia]]
|-
|[[Matteria]]
|Materija
|0
|4223
|755
|6
|4
|[[Slovenia]]
|-
|[[Castua]]
|Kastav
|81
|380
|19 252
|67
|523
|[[Croazia]]
|-
|[[Laurana]]
|Lovran
|595
|2334
|489
|376
|397
|[[Croazia]]
|-
|[[Moschiena]] o Moschenizze
|Moščenice
|12
|0
|3150
|0
|2
|[[Croazia]]
|-
|[[Apriano]] o Veprinaz
|Veprinac
|24
|104
|2401
|422
|500
|[[Croazia]]
|-
|[[Volosca-Abbazia]]
|Volosko-Opatija
|235
|724
|2155
|1534
|1904
|[[Croazia]]
|}
Questi dati si riferiscono all'intero marchesato d'Istria, che amministrativamente comprendeva anche aree non appartenenti alla penisola – tra cui le isole di [[Cherso (isola)|Cherso]] e [[Lussino]] (la cui popolazione era nel complesso a leggera maggioranza croata, con prevalenza italiana a [[Lussinpiccolo]], al tempo una delle più dinamiche cittadine dell'intera costa adriatica orientale), nonché l'[[Veglia (isola)|isola di Veglia]] – , o località carsiche ai confini settentrionali la cui appartenenza all'Istria non veniva da tutti accettata – come [[Castelnuovo d'Istria]] (abitata prevalentemente da sloveni). Per questa ragione i dati vennero criticati da storici e linguisti italiani come [[Matteo Bartoli]]. Altra critica che venne mossa al censimento del [[1910]] riguardò la nazionalità dei funzionari preposti ad effettuare le rilevazioni e che, essendo impiegati comunali avevano la possibilità di manipolare i risultati del censimento.

Gli italiani e gli slavi si accusarono a vicenda di falsificazioni. In senso generale, gli italiani erano maggioranza assoluta in tutta la fascia occidentale costiera e nell'agro buiese nonché in quasi tutti i centri principali dell'interno, il che aveva causato in epoca moderna una serie di dicotomie collegate alla differenziazione etnica di base: gli italiani in genere erano cittadini, più ricchi e più istruiti e dominavano nelle classi intellettuali; sloveni e croati erano invece in genere contadini e più poveri e solo nel tardo XIX secolo iniziarono ad esprimere dal proprio interno un ceto intellettuale. Frequente fu quindi in età moderna il processo di ''italianizzazione'' collegato allo spostamento delle famiglie dalle campagne verso le città o collegato al miglioramento economico: si assiste quindi a quel singolare fenomeno per cui fra i maggiori irredentisti filoitaliani vi siano stati anche dei personaggi appartenenti a famiglie di ceppo slavo, italianizzatesi nel tempo.

Secondo il demografo italiano Olinto Mileta Mattiuz, alla vigilia del primo conflitto mondiale gli italiani erano il 41% della popolazione istriana (44% se si contano anche i regnicoli), seguiti dai croati (35%) e dagli sloveni (11%).

Nel [[XIX secolo]], con la nascita e lo sviluppo dei movimenti nazionali italiano, croato e sloveno, iniziarono i primi attriti fra gli italiani da una parte e gli slavi dall'altra. L'Istria era una delle terre reclamate dall'[[irredentismo]] italiano. Gli irredentisti sostenevano che il governo Austro-ungarico incoraggiava l'immigrazione di ulteriori slavi nella regione per contrastare il nazionalismo degli italiani

Il più noto di questi [[irredentisti istriani]] fu [[Nazario Sauro]], tenente di vascello della [[Regia Marina]] nel primo conflitto mondiale, che fu giustiziato dall'Austria-Ungheria: solo nel 1918 l'Istria fu "redenta" (ossia unita alla madre patria). Ad un patriota [[Capodistria|capodistriano]], il generale [[Vittorio Italico Zupelli]], già distintosi nella Guerra italo-turca (1911-1912), fu addirittura affidato il "Ministero della guerra" italiano durante il primo conflitto mondiale.


In alcune terre di confine si verificarono situazioni conflittuali che misero a volte su posizioni opposte gli stessi abitanti del medesimo paese. Ad esempio, nel Trentino, i giovani in età adatta al servizio militare venivano arruolati dall'Impero Austroungarico e nel 1914 allo scoppio del conflitto molti partirono per il fronte, per un totale di circa 65000 a fine conflitto. Più di ottocento trentini, tuttavia<ref>{{Cita web|url=http://www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/censimento_volontari_irredenti.pdf|titolo=Censimento volontari terre irredente}}</ref>, scelsero l'Italia come loro patria invece dell'Austria, attraversando clandestinamente il confine e arruolandosi come volontari nel [[regio esercito]] italiano.
In alcune terre di confine si verificarono situazioni conflittuali che misero a volte su posizioni opposte gli stessi abitanti del medesimo paese. Ad esempio, nel Trentino, i giovani in età adatta al servizio militare venivano arruolati dall'Impero Austroungarico e nel 1914 allo scoppio del conflitto molti partirono per il fronte, per un totale di circa 65000 a fine conflitto. Più di ottocento trentini, tuttavia<ref>{{Cita web|url=http://www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/censimento_volontari_irredenti.pdf|titolo=Censimento volontari terre irredente}}</ref>, scelsero l'Italia come loro patria invece dell'Austria, attraversando clandestinamente il confine e arruolandosi come volontari nel [[regio esercito]] italiano.

Versione delle 13:23, 6 feb 2024

L'irredentismo italiano fu un movimento d'opinione, espressione dell'aspirazione italiana a perfezionare territorialmente la propria unità nazionale, liberando le terre soggette al dominio straniero.[1] Le principali "terre irredente", note con tale nome per antonomasia e in senso stretto, erano considerate le province di Trento e Trieste, territori italiani rimasti all'Austria anche dopo la terza guerra d'indipendenza e che l'Italia annesse alla fine della prima guerra mondiale.

Il movimento fu attivo principalmente in Italia, tra la seconda metà del XIX secolo e la prima del secolo successivo, a favore dell'integrazione nel Regno d'Italia di tutti i territori compresi nella regione geografica italiana o popolati da italofoni e collegati all'Italia da secolari legami storici, linguistici e culturali. Il movimento non aveva carattere unitario, essendo costituito da diversi gruppi e associazioni, generalmente non coordinati tra loro.

Storia

Origini

Secondo alcuni autori, le radici dell'irredentismo possono essere trovate già verso la fine del XVIII secolo, come conseguenza del tentativo francese di annettere – oltre alla Corsica – anche regioni italiane "continentali" come il Piemonte, la Liguria e la Toscana durante l'Impero napoleonico[2]. Tuttavia è nella seconda metà del XIX secolo, sul finire del Risorgimento, che il fenomeno diventa rilevante; proprio in quel periodo nacquero infatti diversi movimenti che facevano propri gli ideali irredentisti: ripetutamente quanto inutilmente i giuliani avevano chiesto, almeno, l'unione della Venezia Giulia al Regno Lombardo-Veneto, e all'epoca delle rivolte del 1848 il magistrato Carlo De Franceschi, di Pisino, Michele Facchinetti, di Visinada, Antonio Madonizza, di Capodistria, Francesco Vidulich, di Lussinpiccolo, Giuseppe Vlach, di Lussino, deputati alla Costituente austriaca, riuscirono a impedire l’aggregazione dell’Istria alla Confederazione Germanica, rivendicando, invece, l’appartenenza all'Italia e la riunificazione col Regno Lombardo-Veneto; lo scritto di De Franceschi "Per l’italianità dell’Istria" (agosto 1848)[3], pubblicato prima a Vienna e poi a Trieste, divenne il manifesto dell'autonomismo istriano.

Nel 1861 prese vita, a Parenzo, la Dieta Provinciale Istriana, nota, insieme alla Dieta Fiumana e a quella Dalmata, riunita a Zara, come “Dieta dei nessuno”, per il rifiuto opposto alle richieste di partecipazione rispettivamente al Parlamento di Vienna e alla Dieta di Zagabria.Carlo De Franceschi, Michele Facchinetti, Antonio Madonizza, insieme con Carlo Combi, di Capodistria, Niccolò De Rin, di Capodistria, Tomaso Lucani, di Lussino, furono gli animatori della Dieta Istriana; Carlo Combi, strenuo sostenitore della riunificazione della Venezia Giulia col Lombardo-Veneto, autore di saggi quali La frontiera orientale d'Italia e la sua importanza[4] e Importanza dell'Alpe Giulia e dell'Istria per la difesa dell'Italia orientale[5], pubblicati anche sul Politecnico di Carlo Cattaneo, divenne un punto di riferimento per il liberalismo italiano, ma nel 1866 fu bandito dall'Impero austriaco con l'accusa di “intelligenza” col governo e i comandi militari italiani.

Nel 1877 Matteo Renato Imbriani coniò il nuovo termine "terre irredente", utilizzandolo in occasione dei funerali del padre Paolo Emilio, a Napoli. Il corrispondente di un giornale viennese ironicamente lo definì "irredentista" per il saluto rivolto ai compatrioti italiani accorsi a Napoli da quelle zone per la cerimonia[6].

Nello stesso anno (7 maggio), per iniziativa dello stesso Imbriani e di alcuni altri, nacque l'Associazione in pro dell'Italia Irredenta; nel 1885 fu fondata a Trento la Pro Patria[7] e nel 1891 nacque, nei territori ancora dell'Impero austro-ungarico, la "Lega Nazionale Italiana".

Le diverse associazioni vennero (in momenti diversi) prima tollerate, quindi avversate o addirittura chiuse dallo stato italiano[senza fonte] (prima da Depretis e poi da Crispi), per motivi di opportunità di politica estera.

A Trieste, lungo il corso della notte del 2 agosto 1882, un uomo lanciò una bomba lungo un corteo di veterani, causando la morte del sedicenne Angelo Fortis e il ferimento di altre 10 persone. La sera del 17 agosto, grazie a una soffiata alla polizia, una bomba del tutto simile venne sequestrata a bordo del piroscafo Lloyd Milano che proveniva da Venezia. Gli episodi di cui rimangono ignoti i reali esecutori sono riconducibili a un proclama del 31 luglio 1882 pubblicato dal giornale La Stampa il 5 agosto 1882 in cui un gruppo che si firma come "I Triestini", lanciava invettive e invitava il boicottaggio della "Esposizione Industriale" di Trieste inaugurata il primo di agosto dal fratello dell'Imperatore d'Austria Ludovico d'Asburgo.

Nel 1882 il triestino Guglielmo Oberdan, insieme con Donato Ragosa di Buie, progettò un attentato a Francesco Giuseppe I d'Austria nel tentativo di far crollare il progetto della Triplice alleanza, ma la congiura fu scoperta e il tentativo fallì, Ragosa riuscendo a salvarsi con la fuga e Oberdan finendo sul patibolo. In omaggio a Combi e ad altri, tra i quali Vittorio Italico Zupelli, Capodistria fu considerata il santuario dell'Irredentismo giuliano,[senza fonte] ma estremamente importante, per quello che riguarda la Venezia Giulia fu anche l'apporto degli intellettuali triestini come Scipio Slataper[8] e Carlo e Giani Stuparich, così come quello degli esponenti (autonomisti o annessionisti indifferentemente) fiumani, da Michele Maylander al suo allievo Antonio Grossich, Presidente del Consiglio Nazionale Italiano, da Nevio Skull a Giuseppe Sincich a Mario Blasich, piuttosto che a Riccardo Gigante, eroe di guerra e luogotenente di D'Annunzio nella impresa di Fiume, per non citare Antonio Bajamonti, Luigi Ziliotto e Roberto Ghiglianovich in Dalmazia.[senza fonte]

Il Monumento a Dante di Trento fu eretto come simbolo della lingua italiana e dell'italianità quando il Trentino faceva ancora parte dell'Impero austro-ungarico

Irredentismo risorgimentale

I vari movimenti irredentisti proponevano (pur se con diverse sfumature) l'annessione delle terre, considerate italiane, che dopo la terza guerra di indipendenza italiana del 1866 si trovavano ancora in territorio straniero, quali in particolare il Trentino (e non l'Alto Adige o Sud Tirolo), la Venezia Giulia, la Dalmazia, il Nizzardo, la Corsica e Malta o parte di altre realtà politiche come il Canton Ticino e le valli italofone del Canton Grigioni. I territori considerati irredenti erano definiti tali secondo criteri variabili: a volte si considerava il criterio linguistico-culturale, ossia la presenza di italofoni, altre volte quello geografico, cioè l'appartenenza ai confini naturali, altre ancora quello storico, ossia l'appartenenza del territorio, in passato, a uno degli antichi stati italiani. Cronologicamente vi furono due irredentismi italiani: uno risorgimentale e uno fascista. Il primo voleva l'unione al Regno d'Italia di tutti i territori con popolazione a maggioranza italiana rimasti fuori dall'unificazione nel 1870 e completare in tal modo il periodo risorgimentale.

In particolare l'irredentismo risorgimentale si sviluppa a Trento e in Trentino, a Trieste, Gorizia, nella Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia.

Gli italiani abitavano in grandissima maggioranza queste terre: sicuramente tutto il Trentino era di lingua e cultura italiana, con esclusione della val di fassa che era ladina, di lingua e cultura italiana e friulana era la terra della Contea di Gradisca, cioè tutta la zona pineggiante del Friuli e della lagina di Grado; a maggioranza italiana era Gorizia, con presenza di friulani e di sloveni; a maggioranza italiana era Trieste, ma con forte presenza pure di sloveni; a grande maggioranza italiana erano tutti i comuni costieri dell'Istria occidentale e del Buiese, mentre nel resto dell'Istria la situazione era mista, con netta prevalenza croata e slovena nelle campagne e prevalenza italiana nelle citta; Fiume era a maggioranza italiana, con forti presenze croate e ungheresi; la Dalmazia, esclusa Zara che era a prevalenza italiana, era sempre stata prevalentemente croata o serba anche durante il dominio della Repubblica di Venezia, anche se vi erano forti presenze di italiani in alcune città come Spalato).

Durante tutto il Risorgimento italiano aspirarono sempre all'unione col resto delle terre italiane che aspiravano all'Unità. Fino al 1866 costoro parteciparono spesso ai moti risorgimentali e chiesero pure di essere uniti al Regno Lombardo-Veneto.

All’epoca dei preliminari del trattato di Villafranca (11 luglio 1859), mentre si vagheggiava la creazione di una Confederazione di Stati italiani nella quale avrebbe dovuto entrare a fare parte anche la Venezia (pur restando sotto gli Asburgo), di nuovo i Comuni istriani tornarono sulla questione dei confini doganali, chiedendo in una nuova petizione l’unione dell’Istria col Veneto, accampando interessi generali e soprattutto economici. La lettera sottoscritta dai Sindaci istriani, il cui invio fu ostacolata dalle autorità governative, venne poi inoltrata a Vienna e rimase senza risposta.

Durante la II guerra di indipendenza si mobilitarono anche i popolani dell’Istria che, nonostante la loro povertà, parteciparono con mille franchi alla sottoscrizione nazionale per l’acquisto di fucili proclamata da Giuseppe Garibaldi e le donne istriane, insieme a quelle del Friuli, offrirono in dono ai battaglioni 37° e 38* della brigata Ravenna due vessilli da loro mirabilmente lavorati (marzo 1860).

Il 9 maggio del 1861 fu mandato a Torino da parte del Comitato Centrale Veneto un corposo opuscolo (memoriale) al Senato a alla Camera dei deputati intitolato “Trieste e l’Istria e loro ragioni sulla questione italiana”. Con esso si richiedeva che i suddetti territori facessero parte integrante della patria comune, giacché “la natura, la storia, la nazionalità, gli interessi commerciali, le ragioni geografiche, militari e politiche e il generale sentimento italiano del popolo, manifestato anche testé dalle legali rappresentanze di Trieste e dell’Istria, concorrono a consacrare il diritto di questa estrema regione dell’Istria orientale di non restare esclusa dall’italiana famiglia, che sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele felicemente risorge ora a nazione.”

Sono del 1863 le parole di Giuseppe Garibaldi «So che l'Istria e Trieste anelano frangere le catene con cui le avvince l'odiata signoria straniera, e che affrettano con il desiderio il compimento del voto di essere restituite a madre Italia. Quantunque la tristizia di tempi e di uomini sembra voglia impedire il compimento di quel voto, io ho fede che non sia lontano il giorno delle ultime battaglie e delle ultime vittorie, da cui sarà suggellato il completo nazionale riscatto.»

Nello stesso 1863 fu coniata dal glottologo goriziano Graziadio Ascoli per il territorio di Istria, Trieste e Gorizia, l’espressione “Venezia Giulia”, in contrapposizione a quella ufficiale di “Litorale Austriaco”. Il termine, che faceva riferimento al glorioso passato e ai miti risorgimentali di Roma e di Venezia, ebbe in seguito molto fortuna presso i patrioti mentre venne osteggiata dall’Austria. L’Ascoli, in suo articoletto “Le tre Venezie” (Venezia Euganea, Venezia Giulia e Venezia Tridentina) apparso sul giornale “L’alleanza”, giustificava la nuova espressione con precise ragioni storiche e culturali richiamandosi alla gens Iulia, nelle figure di Giulio Cesare e dell’imperatore Ottaviano Augusto (che aveva riorganizzato l’Italia in regioni, fra le quali era annoverata anche la “X Regio Venetia et Histria”) e alla Repubblica di Venezia, che aveva influenzato per secoli non solo l’Istria ma anche le vicine città di Trieste e di Gorizia.

Il Litorale austriaco divenne una organizzazione territoriale autonoma all'interno dell'Impero austriaco, con organi elettivi, uno per Trieste, uno per Gorizia, uno per l’Istria, Scomparso il Regno d’Illiria, l’Istria fu trasformata in margraviato.

Il Litorale austriaco era una nuova unità amministrativa che comprendeva oltre all’Istria e alle isole di Cherso, Lussino e Veglia (già veneziane), anche possedimenti ereditari della casa d’Austria come la città di Trieste con il suo circondario e la Contea di Gorizia e di Gradisca. Era retta da un imperial-regio Governatore (in seguito Luogotenente) con sede a Trieste ed era suddiviso in vari Circoli, amministrati localmente da Capitani Circolari.

Nel primo periodo della Restaurazione, si era posto il problema di un assetto costituzionale per il Litorale come per le altre vecchie province dell’Impero asburgico e, a tale fine, venne chiesto un parere ai Circoli perché si pronunciassero sul progetto di una costituzione provinciale, che fosse rappresentativa del territorio, sulla base delle differenti esperienze locali. Per il Circolo d’Istria vennero interpellati il Conte Giovanni Totto di Capodistria, il commissario distrettuale di Pirano Felice Lanzi e il marchese Giovanni Paolo Polesini che formularono dei pareri scritti, come pure fecero i Circoli di Gorizia, di Fiume e di Carlstadt e la Commissione di Trieste, ma alla fine il progetto di una rappresentanza politica unitaria e di una Costituzione provinciale per il Litorale fu accantonata, forse per la manifesta diversità delle tradizioni giuridiche e amministrative sussistenti al suo interno.

Dopo vari rimaneggiamenti, dal 1825 il Litorale austriaco fu suddiviso in due Circoli, il Circolo di Gorizia e il Circolo dell’Istria (che ebbe sede a Pisino e successivamente a Parenzo e a Pola). Il territorio di Trieste faceva parte a sé, mentre Fiume e il litorale liburnico erano assegnati all’Ungheria, nell’ambito dell’Impero.

I Circoli furono suddivisi in distretti, alla cui autorità furono sottoposti i Comuni istriani, la cui autonomia fu soppressa insieme agli antichi Statuti non più operanti in seguito all’introduzione della legislazione austriaca.

Con l’aggregazione al Circolo di Pisino negli anni 1823-25 di nuovi distretti, che erano di etnia slava come Podgrad-Castelnuovo, Bellai e Castua, venne ulteriormente alterata la fisionomia etnica e culturale della regione istriana, non avendo i nuovi abitanti lingua e storia in comune con gli istro-veneti.

L’autorità provinciale del Litorale aveva funzioni di amministrazione generale, di polizia e di controllo delle autorità locali. Il podestà era nominato da i.r. commissari distrettuali, burocrati di scarsa preparazione e cultura, per lo più stranieri che spesso ignoravano la lingua e le tradizioni del luogo. La “modernizzazione” dell’Istria consistette nel trapasso da una forma di governo aristocratico, quel’era quello della Repubblica di S. Marco, ad un regime rigidamente burocratico, che prevedeva un legame diretto dei sudditi all’Imperatore a cui si doveva fedeltà; il vincolo dinastico, che veniva esaltato dalla propaganda del clero, era l’unica forma di aggregazione per territori tanto disomogenei.

Quando fu consentita l'elezione a suffragio ristretto degli organi dei Comuni dell'Impero austroungarico la grande maggioranza dei Comuni siti in queste terre elessero consigli comunali a forte prevalenza italiana, anche perchè gli italiani soprattutto nelle città erano la popolazione più benestante e più istruita.

Dopo la III^ guerra di indipendenza, quando fu chiaro che il Veneto sarebbe tornato all'Italia, ma che tutte le altre terre sarebbero rimaste nell'Impero austro-ungarico inizio un'opera attiva da parte delle autorità austroungariche di repressione della popolazione di lingua italiana in favore della popolazione di lingua tedesca e soprattutto slava, considerate più defeli.

In tal senso occorre ricordare che il 12 novembre 1866 si riunisce il Consiglio della Corona il cui Verbale della Corona (reperibile in Die Protokolle des Österreichischen Ministerrates 1848/1867. V Abteilung: Die Ministerien Rainer und Mensdorff. VI Abteilung: Das Ministerium Belcredi, Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst, Vienna 1971; la citazione compare alla Sezione VI, vol. 2, seduta del 12 novembre 1866, p. 297), riporta:

Se. Majestät sprach den bestimmten Befehl aus, daß auf die entschiedenste Art dem Einflusse des in einigen Kronländern noch vorhandenenitalienischen Elementes entgegengetreten und durch geeignete Besetzung der Stellen von politischen, Gerichtsbeamten, Lehrern sowie durch den Einfluß der Presse in Südtirol, Dalmatien und dem Küstenlande auf die Germanisierung oder Slawisierung der betreffenden Landesteile je nach Umständen mit aller Energie und ohne alle Rücksicht hingearbeitet werde. Se. Majestät legt es allen Zentralstellen als strenge Pflicht auf, in diesem Sinne planmäßig vorzugehen.

«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno. Sua Maestà impone il rigoroso dovere a tutti gli uffici centrali di procedere secondo quanto deliberato in questo senso».

Iniziò dunque dal 1866 al 1918 un'attiva opera di oppressione della popolazione italiana che viveva in quei territori dell'Impero austroungarico, mediante una molteplicità di azioni:

a) sull'identificazione stessa dell'appartenenza ai vari gruppi linguisitici, che si fondava sugli atti dello stato civile (nascita ecc.) che nell'impero austriaco furono sempre di competenza delle parrocchie, la cui grande maggioranza fu amministrata da parroci non appartenenti al gruppo italiano, e guidati da vescovi nominati dal Papa col consneso dell'Imperatore e in quel periodo furono tutti di lingua e cultura slovena o croata. A questo clero fu spesso rimproverato di agire in favore del gruppo slocveno o croato e soprattutto di avere modificato o falsificato gli atti di nascita, slavizzando nomi e così alterando l'appartenenza linguitica che allora era spesso vaga e confusa, spersso di elezione, talvolta resa .

sull'uso della lingua pubblica, che fu collegata al censimento dei gruppi linguistici (che fu spesso contestato)

b) sull'uso della lingua italiana nella scuola, che fu limitato o soppresso nei comuni a maggioranza non italiana. Infatti le scuole medie, che dipendevano dal governo centrale, furono progressivamente slavizzate nelle terrre con maggioranza slovena o croata e altrettanto accadde per le scuole elementari nei comuni governati da maggioranze slave

c) sulla gestione dei comuni da parte di amministrazioni sempre meno italiane

Opera di snazionalizzazione si cercò di attuare anche in campo culturale interrompendo, ad esempio, la consuetudine plurisecolare degli studenti istriani e dalmati di frequentare l’Università di Padova. Da una certa data non fu più riconosciuto il valore legale della laurea patavina ed essi furono costretti a continuare gli studi a Graz o a Vienna. Fra gli istriani illustri che nel corso dei secoli precedenti avevano frequentato lo Studio di Padova ricordiamo il beato di Capodistria Antonio Martissa che si addottorò in teologia nel 1473, gli umanisti Pier Paolo Vergerio il Vecchio e Pier Paolo Vergerio il Giovane, lo scienziato Santorio Santorio, amico di Galilei, che a Padova insegnò medicina teoretica, e ancora l’illuminista Gian Rinaldo Carli e il violinista e compositore di Pirano Giuseppe Tartini.

Non ebbe particolari ripercussioni sui territori adriatici, la riforma del 1867 che trasformò l’Impero d’Austria in duplice “imperiale e regia” Monarchia austro-ungarica, riconoscendo l’esistenza di due Regni distinti sotto un unico sovrano che era Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria (Kaiserclich und Königlich Monarchie).

L’Istria rimase soggetta all’Imperatore dì Austria (margraviato d’Istria), come pure la Dalmazia (Regno di Dalmazia); ambedue rimasero staccate dal Regno di Croazia, che invece faceva parte del territorio sotto amministrazione ungherese.

Fiume, dopo un ventennio di occupazione croata (1848-1868) tornò ad essere corpus separatum della Corona Ungherese, riacquistando una certa autonomia municipale e antichi privilegi, come quello dell’uso ufficiale della lingua italiana.

a) la Dalmazia, che per 350 anni fino al 1797 fece parte della Repubblica di Venezia e che, a parte una breve annessione al regno d'Italia napoleonico, fu annesso fin dal 1797 all'Impero d'Austria, ma, pur essendo a maggioranza croata, essendo popolata anche da serbi e da italiani non era parte, all'interno di esso, del regno di Croazia. A partire da quell'epoca nella Dieta provinciale di Dalmazia i membri italiani e i mmebri croati e serbi si scontrarono duramente: gli italiani, spesso affiancati dai serbi, propendevano per una visione autonomistica (la Dalmazia come Regno o entita distinta all'interno dell'Impero), mentre i membri croati miravano all'unione col Regno di Croazia, seppur sempre interno all'Impero; questo scontro si riverberò in tutti i Comuni e man mano che si estese il suffragio le amministrazioni comunali dalmate persero il governo degli elementi italiani, con l'eccezione di Spalato, il cui sindaco autonomista Bajamonti fino al 1882 cercò la concordia tra tutti i gruppi nazionali. Intanto in tutta la Dalmazia a maggioranza croata le autorità imperiali imposero l'uso della lingua croata sia nelle scuole, sia nella toponomastica, sia negli atti pubblici.

Le scuole medie, che dipendevano, a differenza di quelle elementari, dal governo centrale, furono progressivamente croatizzate. Lo stesso successe con le scuole elementari nei comuni governati da maggioranze slave. La lingua italiana perse così il suo status storico, mantenendo però il suo prestigio quale "lingua culturale" (persino Frano Supilo, uno dei maggiori esponenti del movimento nazionale croato, dichiarava di "pensare in italiano, pur essendo croato"). La consistenza della comunità italiana nelle città costiere cominciò a diminuire progressivamente, con l'unica eccezione di Zara.

Lo storico Matteo Bartoli nel suo libro "Le parlate italiane della Venezia Giulia e della Dalmazia" scrisse che:

«[...] Dopo la battaglia navale di Lissa del 1866, in Dalmazia come nel Trentino e nella Venezia Giulia tutto ciò che era italiano venne avversato dagli austriaci. Non potendo tedeschizzare quelle terre perché troppo lontane dall'Austria, venne favorita la cultura slava a danno di quella italiana. Nelle varie città dalmate a mano a mano l'amministrazione da italiana passava a croata. Nel 1861 gli 84 comuni dalmati erano amministrati da italiani. Nel 1875 risultava che 39 di essi avevano amministrazione croata, 19 italiana ed i restanti bilingue. I comuni con amministrazione italiana erano: Blatta, Brazza, Cittavecchia di Lesina, Clissa, Comisa, Lissa, Meleda, Mezzo, Milnà, Pago, Ragusa, Sabbioncello, Selve, Slarino, Spalato, Solta, Traù, Verbosa e Zara. Nel 1873 Sebenico passò all'amministrazione croata, così come nel 1882 Spalato, nel 1886 Traù, nel 1904 Arbe e nel 1910 Slarino che lasciava sola Zara.

Inoltre dal 1866 al 1914 - ad eccezione di Zara - vennero chiuse le scuole italiane e aperte quelle croate. Il tracollo della componente italiana in Dalmazia è dovuto soprattutto a questo fatto, non avendo più essi libertà di espressione culturale. La trasformazione delle scuole italiane in croate fu accompagnata da numerose proteste, persino nella remota Tenin in cui numerose famiglie chiedevano il mantenimento della lingua italiana. A Lissa una petizione fu portata addirittura all'imperatore. Fu così fondata negli anni novanta la Lega Nazionale, la cui sezione dalmata gestiva a proprie spese scuole private italiane. Esse erano presenti a: Cattaro, Ragusa, Curzola, Cittavecchia di Lesina, Spalato, Imoschi, Traù, Sebenico, Scardona, Tenin, Ceraria, Borgo Erizzo, Zara ed Arbe (oltre a Veglia, Cherso, Unie e Lussino).

Tutto questo avveniva in un clima di continue vessazioni da parte degli slavi che a mano a mano conquistavano il potere. Antonio Baiamonti fu podestà di Spalato prima che essa cadde nelle mani dell'amministrazione croata. Egli spese tutta la vita e le proprie sostanze per la sua città, sostanze che mai vennero rimborsate dagli austriaci nonostante le ripetute promesse. Morirà a 69 anni indebitato fino al collo. Diceva spesso: "A noi italiani di Dalmazia non resta che un solo diritto: quello di soffrire!. [...]»

La politica di collaborazione con i serbi locali, inaugurata dallo zaratino Ghiglianovich e dal raguseo Giovanni Avoscani, permise poi agli italiani la conquista dell'amministrazione comunale di Ragusa nel 1899. Nel 1909 la lingua italiana venne vietata però in tutti gli edifici pubblici e gli italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali. Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall'impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie. I contrasti politici e nazionali determinarono un'atmosfera di tensione, che si tradusse in episodici atti di violenza, quali aggressioni di persone e devastazioni od incendi d'edifici.

b) in Istria importante fu il trasferimento, da Venezia a Pola, della principale base della Marina imperiale, a seguito dell'insurrezione di Venezia nel 1848-49. In pochi anni Pola ebbe uno sviluppo tumultuoso, passando da poche centinaia di abitanti ai 30-40.000 di fine Ottocento.

Nella prima metà del XIX secolo ci fu da parte del Governo austriaco un tentativo di germanizzazione del Litorale con l’imposizione della lingua tedesca nelle scuole Medie e Superiori e nelle pratiche di governo, anche se in Istria l’italiano rimase la lingua usata nell’amministrazione locale, nonché nei tribunali (la Patente Sovrana del 1815 prevedeva “Le Parti, non meno che i loro Patrocinatori dovranno nei loro atti servirsi dell’idioma italiano”).

In ogni caso l’Istria, dopo il distacco dal Veneto che godeva nel Regno Lombardo Veneto di una costituzione più liberale (in cui l’italiano era riconosciuto come lingua di governo) soffrì di trovarsi isolata dalla sua tradizionale area di appartenenza e aggregata ad una realtà etnica e culturale ad essa estranea, di carattere continentale, di tradizione agricolo-feudale e clerico-dinastica.

Era naturale perciò che i ceti più colti dell’Istria, che si formavano all’Università di Padova o in altre istituzioni italiane, assorbissero le idee progressiste del liberalismo italiano nelle sue diverse forme.

Il fenomeno dell’irredentismo adriatico (anche se il termine fu coniato appena nel 1877 da parte di Francesco Imbriani), ebbe modo di manifestarsi già nel ’48, all’indomani delle insurrezioni scoppiate a Vienna e successivamente a Venezia (in cui fu proclamata la Repubblica). A Milano, i cittadini insorti costrinsero le truppe austriache del maresciallo Radetsky ad evacuare la città e con l’intervento militare del Regno Sabaudo in Lombardia iniziò la prima guerra di indipendenza.

Tali avvenimenti suscitarono nelle cittadine istriane entusiasmi e speranze. Fu istituita la Guardia nazionale di napoleonica memoria e la popolazione si abbandonò a baldorie per le strade, salutando con euforia la emanazione della Costituzione di Vienna, esibendo coccarde bianche, rosse e verdi, in segno di appartenenza nazionale italiana e inneggiando a Papa Pio IX.

Il timore di una insurrezione creò allarme nella autorità austriache come si desume, ad esempio, dalle lettere fra l’I.R. Luogotenente del Litorale e il commissario del distretto di Pirano. Quest’ultimo, l’11 aprile rispondeva al suo superiore che sarebbe stato opportuno rinforzare la guarnigione di Pirano, portandola ad almeno 600 uomini per le sempre più manifeste simpatie della popolazione per l’Italia. Temeva che potesse essere issata la bandiera repubblicana, dato che la gioventù del luogo, in specie la Guardia nazionale con a capo l’avv. Venier, portava sul petto una croce come simbolo di una crociata italiana che si stava organizzando.

Lo stesso generale Nugent, presente in Istria, propose di armare le popolazioni slave dell’Istria interna e montana per servirsene, al bisogno, contro gli italiani animati di sentimenti ostili all’Austria. Per fortuna la proposta fu saggiamente bocciata dal capitano del Circolo di Pisino, barone Grimschitz, timoroso di alimentare una guerra civile, perché gli slavi dell’Istria ex austriaca, avrebbero potuto sfogare il proprio odio con rapine ed atti di violenza, indiscriminatamente, nell’Istria ex veneta.

La flotta sardo-veneziana intanto incrociava al largo della costa istriana alimentando l’entusiasmo e la volontà di molti giovani, decisi a combattere a fianco dei piemontesi nella prima guerra di indipendenza e in difesa della Repubblica Veneta proclamata da Daniele Manin. Gli istriani domiciliati a Venezia sottoscrissero la propria adesione alla Repubblica e il nobile Nicolò de Vergottini di Parenzo fu nominato prefetto dell’ordine pubblico (e a lui si deve se l’ordine della città assediata non fu mai seriamente turbato).

A Venezia venne anche istituita una Commissione per la costituzione di una Legione dalmato-istriana per coloro che già militavano nei vari corpi dell’esercito veneto.

Al fine di domare quelli che vennero definiti i “repubblicani” dell’Istria, si dichiarò pronto ad accorrere con duemila Cicci (slavi dell’altopiano) il Capitano distrettuale di Pinguente (nell’Istria interna), mentre altrettanti Castuani sarebbero arrivati da oltre il Monte Maggiore.

Per contrastare i sentimenti irredentisti degli italiani della provincia istriana iniziava così da parte delle autorità austriache la politica del divide et impera, che si attuò con una azione di propaganda nei confronti dell’etnia slava, per inculcare nella popolazione croata, che era a quei tempi prevalentemente contadina e interessata più che altro a scuotersi dal giogo feudale, il sentimento di appartenenza nazionale. Tramite il clero slavo delle campagne, si faceva intendere che l’Istria fosse storicamente terra slava e che gli italiani non fossero altro che “ospiti” sul suo territorio.

Nel giugno 1848 ci furono le elezioni per i rappresentanti istriani alla Assemblea Costituente di Vienna a cui furono eletti quattro italiani (Antonio de Madonizza di Capodistria, Michele Fachinetti di Visinada, Carlo De Franceschi di Moncalvo di Pisino, FrancescoVidulich di Lussimpiccolo) e un croato (Giuseppe Vlach) del distretto di Castua.

I quattro rappresentanti italiani, si batterono energicamente, in primo luogo, contro la proposta del deputato germanico Raumer che nella dieta di Francoforte (parlamento della Confederazione germanica di cui faceva parte anche l’Austria) aveva richiesto che anche l’Istria veneta venisse aggregata a tale Confederazione. Nell’agosto dello stesso anno, il deputato Carlo de Franceschi rispose con un vibrante articolo “Per l’italianità dell’Istria”, in cui argomentava le ragioni dell’assurdità della proposta.

Giovandosi inoltre dell’equiparazione delle nazionalità e delle lingue dell’Impero che era stata messa in atto durante i lavori della costituente di Vienna, i deputati istriani impetrarono il riconoscimento ufficiale della nazionalità italiana dell’Istria, richiedendo che da tutti gli uffici, anche nell’uso interno (ad eccezione che nel distretto di Castelnuovo, che era slavo) venisse abolito l’uso del tedesco.

La risposta del Conte Stadion, Ministro dell’Interno, si fece attendere a lungo, ma alla fine (nel dicembre del 1848) fu negativa con la motivazione che “coll’ordinanza ministeriale emanata mesi fa, che le autorità dell’Istria nelle pertrattazioni colla popolazione italiana debbano adoperare esclusivamente la lingua italiana, fu soddisfatto al diritto della nazionalità italiana; e riesce del tutto indifferente pe’suoi interessi e diritti qual linguaggio usino i dicasteri nelle comunicazioni fra loro e colla popolazione slava”.

Nel 1849 fu tuttavia stabilito che la lingua d’istruzione nelle scuole dell’Impero fosse quella materna anziché quella tedesca.

I quattro rappresentanti italiani a Vienna, che si trovarono in perfetto accordo con i deputati d’estrema sinistra, democratici-rivoluzionari nella loro attività antigovernativa e antidinastica, si adoperarono anche (senza l’apporto del quinto rappresentante istriano di Castua che si era mostrato di idee conservatrici) per chiedere la libertà dai vincoli feudali per le plebi rurali, in massima parte slave dell’Istria ex arciducale, come quelle che nel 1847 avevano inscenato una sommossa, duramente repressa, a Lupogliano contro le onerose prestazioni cui erano sottoposte. In quell’occasione l’avvocato Francesco Combi di Capodistria si era speso in loro difesa con coraggiosi scritti che avevano provocato il suo esonero dalla carica di podestà e l’avvio a suo carico di un processo criminale da parte dell’I.R. commissario Grimschitz.

La proposta di abolizione di ogni vincolo feudale venne a stento approvata e in seguito sanzionata con decreto imperiale nel settembre del Quarantotto

Nel 1860 furono istituite inoltre in tutto l’Impero le Diete provinciali (parlamenti locali) che avrebbero dovuto inviare deputati alla Camera di Vienna (Consiglio dell’Impero).

La Dieta per l’Istria doveva aver luogo a Parenzo, presieduta dal Capitano provinciale marchese Giampaolo Polesini.

In quell’occasione il comitato patriottico segreto, capeggiato dallo studioso capodistriano Carlo Combi, che aveva contatti con il comitato centrale veneto di Milano tramite Tommaso Luciani, dopo aver chiesto suggerimenti sul comportamento da seguire in quel delicato frangente, decise concordemente con i “cugini” veneti che i rappresentanti della Dieta di Parenzo avrebbero espresso il loro sentimento separatista e antiaustriaco, rifiutandosi di eleggere i due deputati al Consiglio dell’Impero. Dopo essersi riuniti la sera precedente il voto nell’aprile del 1861 in casa del membro della Giunta provinciale Giuseppe de Vergottini (che propose un solenne giuramento) essi espressero il loro rifiuto, non servendosi di schede bianche, ma scrivendo “Nessuno” sulle schede stesse.

Nonostante l’ intervento del Luogotenente del Litorale Barone Burger accorso di persona a Parenzo, anche le successive votazioni ebbero esito negativo e la Dieta istriana venne dichiarata disciolta. L’episodio divenne noto come la “Dieta del Nessuno”.

Nella seconda Dieta, istituita nel settembre 1861, in cui gli irredentisti scelsero la strada dell’astensione ai lavori, risultarono poi eletti come rappresentanti istriani a Vienna, il tedesco Luogotenente del Litorale Burger e il vescovo croato mons. Dobrila.

Poiché i patrioti non potevano agire alla luce del sole per il costante controllo poliziesco delle autorità austriache e il sentimento nazionale non si poteva esternare in pubblico, esso si manifestava con la partecipazione popolare agli avvenimenti festosi o luttuosi (come la sottoscrizione popolare per il monumento funebre a Cavour) che interessavano il Regno d’Italia.

Grande fu l’entusiasmo per la celebrazione del VI centenario della nascita di Dante il 14 maggio 1865, che si celebrò a Trieste e in molte città istriane, fra mille sospetti delle autorità austriache. A Firenze, allo scoprimento del monumento eretto al Poeta a Santa Croce, fra le bandiere di tutta Italia fu presente anche quella dell’Istria, inalberata dal marchese Giuseppe Gravisi di Capodistria e dal barone Lazzarini di Albona.

In quel giorno, gli Istriani mandarono un saluto a Firenze. Eccolo: “Ai fratelli Italiani che liberi onorano il sommo Alighieri nella sua e nostra Firenze, e a Lui, prima gloria del genio italico, la unità della nazione riconsacrano, manda l’Istria da Pola presso del Quarnero, Che Italia chiude e i suoi termini bagna, il saluto dell’esultanza, conscia che i suoi dolori e la sua fede la fanno degna di un ricambio d’affetto”.

( “Sì come a Pola, presso del Quarnaro, Che Italia chiude e i suoi termini bagna” sono versi della Divina Commedia, tratti dal Canto IX, 112-114 dell’ Inferno).

Nel 1866, nell’imminenza della terza guerra dì indipendenza italiana, a cui, come al solito parteciparono volontari della Venezia Giulia, il Governo austriaco prese misure precauzionali in Istria, invitando ad abbandonare il paese con decreti di allontanamento, personalità sospette, come denunciato da Tomaso Luciani al giornale “La Nazione “ di Firenze: “L’Austria usa largamente dei diritti che le dà la sospensione della libertà personale e lo stato d’assedio. Da ogni luogo principale e dai secondari perfino manda a domicilio coatto ed in bando distinti cittadini, senza riguardo ad età, a circostanze familiari o di professione, o a stato di salute perfino. La legge del sospetto è in pieno trionfo….”.

Fra costoro c’erano il già citato Giuseppe de Vergottini e il capodistriano Carlo Combi, abilissimo promotore e organizzatore del movimento clandestino unitario, autore di numerosi scritti storici (“Prodromi alla storia dell’Istria”) e politici (come la famosa strenna “La porta orientale” e La frontiera orientale d’Italia e la sua importanza”).

In seguito all’esito infausto della guerra, dopo le sconfitte a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, quando svanirono le speranze di uno sbarco italiano in Adriatico e le illusioni di una aggregazione dell’Istria al Regno d’Italia, lo studioso pubblicò il suo ”Appello degli istriani all’Italia”, vero e proprio compendio dei suoi precedenti saggi. In esso viene ribadita la necessità dell’appartenenza dell’Istria al Regno d’Italia per combattere “le pretese della forza col diritto dei popoli” con argomentazioni di carattere storico, culturale, geografico e politico-militari. Eccole in sintesi:

Le Alpi Giulie e non il “fiumicello” Isonzo, imposto dall’Austria, rappresentano il confine orientale naturale d’Italia, nonché la frontiera strategica per sbarrare la via d’accesso alla penisola italiana. Inoltre è essenziale il possesso dell’Istria (con il porto di Pola) per contrastare sia il dominio austriaco in Adriatico, sia le mire della Slavia “la quale è sveglia anch’essa e balda di giovanili spiriti va incontro all’avvenire”.

Quanto agli slavi dell’Istria, “di venti o più stirpi”, pacificamente importativi dai dominatori per popolare le terre disertate dalle guerre e dalle pestilenza, sono “stranieri fra loro fino a non intendersi e stranieri agli Slavi d’oltralpe….” Rappresentano popolazioni che “vissero e vivono senza storia, senza memoria, senza istituzioni…“.

L’Istria invece è parte della nazione italiana, sia per ragioni storiche (era regione d’Italia fin dal tempo dei romani) che culturali perché “non sorge un villaggio in cui si agiti un po’ di vita civile il quale non sia prettamente italiano. Il carattere nazionale è spiccatissimo in ogni sua esteriore manifestazione” segue l’enumerazione di costumi, tradizioni, architettura, pittura, letteratura, istituzioni legislative (fin dagli Statuti comunali del Duecento) e dei “bellissimi nomi fra i migliori ingegni d’Italia”, per concludere che “la civiltà dunque è tutta nostra”.

Infine, per l’Istria, essere sottratta al tentativo dell’Austria di spegnere la sua italianità è questione di vita o di morte. E la causa dell’Istria “è causa anch’essa, e non ultima, d’Italia”.

Dopo questo suo scritto, Carlo Combi non poté più rientrare nella sua amata terra e rimase esule per tutta la vita. Alla sua morte, avvenuta nel 1884, le autorità austriache proibirono perfino che le sue esequie fossero celebrate nel duomo di Capodistria.

Dopo il 1870 l’Istria si ritrovò abbandonata a se stessa, ancor più dopo che nel 1882 il Rewgno d'Italia, l'Impero Austroungarico e l'Impero tedesco strinsero la Triplice alleanza.

Nacque allora una diversa fase di irredentismo che si nutrì di cultura e simboli patriottici più che di azione militante e che, accanto al carattere antiaustriaco ne assunse anche uno nuovo, quello antislavo. Infatti, in seguito alla nascita del sentimento nazionale degli Slavi del sud, apertamente appoggiati dalla politica governativa asburgica, la popolazione slovena e croata dell’Istria venne ormai avvertita come un “nemico” da contrastare.

Nel 1894 l'introduzione del bilinguismo italiano-slavo, in città con decisa prevalenza etnica italiana aumentò i malumori, che a Pirano sfociarono in una rivolta, che tuttavia non modificò la politica asburgica.

Secondo il censimento austriaco del 1910, su un totale di 404 309 abitanti dell'Istria, si ebbe la seguente ripartizione:

  • 168 116 (41,6%) parlavano serbo-croato (dialetti kajkavo e ibridi štokavo-ciakavo) prevalentemente concentrati nella zona centrale della penisola e nella costa orientale
  • 147 416 (36,5%) parlavano italiano (istroveneto e istrioto in massima parte) prevalentemente concentrati lungo la costa occidentale e in alcune cittadine dell'interno
  • 55 365 (13,7%) parlavano sloveno prevalentemente concentrati nella zona rurale nord occidentale
  • 13 279 (3,3%) parlavano tedesco, prevalentemente concentrati nel comune di Pola
  • 882 (0,2%) parlavano romeno (istrorumeno)
  • 2116 (0,5%) parlavano altre lingue
  • 17 135 (4,2%) erano cittadini stranieri a cui non era stato chiesto di dichiarare la lingua d'uso (in massima parte di nazionalità italiana).

Più specificamente, ecco la suddivisione per comune dell'intera provincia istriana nel 1910, con le rilevazioni della lingua d'uso:

Comune Nome croato/sloveno Lingua d'uso italiana Lingua d'uso slovena Lingua d'uso croata Lingua d'uso tedesca Dialetti istriani e stranieri Attuale appartenenza statale
Rovigno Rovinj 10 859 63 57 320 1024 Croazia
Capodistria Koper 9840 2278 154 74 464 Slovenia
Decani Dekani 9 6231 0 0 11 Slovenia
San Dorligo della Valle Dolina 1 5198 1 4 57 Italia
Maresego Marezige 0 3126 0 0 2 Slovenia
Muggia Milje 8671 2299 4 38 566 Italia
Occisla-San Pietro di Madrasso Očisla-Klanec 4 2682 0 6 3 Slovenia
Paugnano Pomjan 719 3624 0 0 1 Slovenia
Pinguente Buzet 658 2105 14164 7 23 Croazia
Rozzo Roč 216 46 3130 8 14 Croazia
Isola Izola 6215 2097 2 34 113 Slovenia
Pirano Piran 12 173 2209 118 161 549 Slovenia
Cherso Cres 2296 97 5708 4 148 Croazia
Lussingrande Veli Lošinj 873 6 1169 130 285 Croazia
Lussinpiccolo Mali Lošinj 5023 80 2579 288 420 Croazia
Ossero Osor 1692 5 541 0 7 Croazia
Albona Labin 1767 151 9998 39 73 Croazia
Fianona Plomin 629 15 4141 1 897 Croazia
Antignana Tinjan 84 16 4100 4 2 Croazia
Bogliuno Boljun 18 14 3221 4 4 Croazia
Gimino Žminj 156 34 5498 0 25 Croazia
Pisino Pazin 1378 58 15 966 44 181 Croazia
Buie Buje 6520 61 518 9 73 Croazia
Cittanova Novigrad 2086 0 0 0 189 Croazia
Grisignana Grožnjan 2903 32 1064 0 29 Croazia
Umago Umag 5609 8 321 4 150 Croazia
Verteneglio Brtonigla 2610 2 1 1 37 Croazia
Montona Motovun 2052 1042 3147 14 21 Croazia
Portole Oprtalj 3817 784 1182 0 7 Croazia
Visignano Višnjan 2421 5 2566 0 97 Croazia
Visinada Vižinada 2714 8 1708 7 16 Croazia
Orsera Vrsar 2321 19 2577 6 68 Croazia
Parenzo Poreč 8223 1 3950 34 324 Croazia
Barbana Barban 94 11 3995 1 7 Croazia
Dignano Vodnjan 5910 84 4520 92 129 Croazia
Sanvincenti Svetvinčenat 616 2 2555 3 13 Croazia
Pola Pula 30 900 8510 16 431 9500 10 607 Croazia
Canfanaro Kanfanar 889 52 2832 5 17 Croazia
Valle Bale 2452 7 187 6 5 Croazia
Bescanuova Baška 5 9 3666 0 36 Croazia
Castelmuschio Omišalj 3 0 2229 0 10 Croazia
Dobasnizza Dubašnica 14 3 2989 4 18 Croazia
Dobrigno Dobrinj 3 1 4038 2 2 Croazia
Ponte Punat 17 0 3057 0 17 Croazia
Veglia Krk 1494 14 630 19 39 Croazia
Verbenico Vrbnik 8 2 2924 0 6 Croazia
Castelnuovo Podgrad 7 5471 1809 0 7 Slovenia
Elsane Jelšane 0 3729 467 1 10 Slovenia
Matteria Materija 0 4223 755 6 4 Slovenia
Castua Kastav 81 380 19 252 67 523 Croazia
Laurana Lovran 595 2334 489 376 397 Croazia
Moschiena o Moschenizze Moščenice 12 0 3150 0 2 Croazia
Apriano o Veprinaz Veprinac 24 104 2401 422 500 Croazia
Volosca-Abbazia Volosko-Opatija 235 724 2155 1534 1904 Croazia

Questi dati si riferiscono all'intero marchesato d'Istria, che amministrativamente comprendeva anche aree non appartenenti alla penisola – tra cui le isole di Cherso e Lussino (la cui popolazione era nel complesso a leggera maggioranza croata, con prevalenza italiana a Lussinpiccolo, al tempo una delle più dinamiche cittadine dell'intera costa adriatica orientale), nonché l'isola di Veglia – , o località carsiche ai confini settentrionali la cui appartenenza all'Istria non veniva da tutti accettata – come Castelnuovo d'Istria (abitata prevalentemente da sloveni). Per questa ragione i dati vennero criticati da storici e linguisti italiani come Matteo Bartoli. Altra critica che venne mossa al censimento del 1910 riguardò la nazionalità dei funzionari preposti ad effettuare le rilevazioni e che, essendo impiegati comunali avevano la possibilità di manipolare i risultati del censimento.

Gli italiani e gli slavi si accusarono a vicenda di falsificazioni. In senso generale, gli italiani erano maggioranza assoluta in tutta la fascia occidentale costiera e nell'agro buiese nonché in quasi tutti i centri principali dell'interno, il che aveva causato in epoca moderna una serie di dicotomie collegate alla differenziazione etnica di base: gli italiani in genere erano cittadini, più ricchi e più istruiti e dominavano nelle classi intellettuali; sloveni e croati erano invece in genere contadini e più poveri e solo nel tardo XIX secolo iniziarono ad esprimere dal proprio interno un ceto intellettuale. Frequente fu quindi in età moderna il processo di italianizzazione collegato allo spostamento delle famiglie dalle campagne verso le città o collegato al miglioramento economico: si assiste quindi a quel singolare fenomeno per cui fra i maggiori irredentisti filoitaliani vi siano stati anche dei personaggi appartenenti a famiglie di ceppo slavo, italianizzatesi nel tempo.

Secondo il demografo italiano Olinto Mileta Mattiuz, alla vigilia del primo conflitto mondiale gli italiani erano il 41% della popolazione istriana (44% se si contano anche i regnicoli), seguiti dai croati (35%) e dagli sloveni (11%).

Nel XIX secolo, con la nascita e lo sviluppo dei movimenti nazionali italiano, croato e sloveno, iniziarono i primi attriti fra gli italiani da una parte e gli slavi dall'altra. L'Istria era una delle terre reclamate dall'irredentismo italiano. Gli irredentisti sostenevano che il governo Austro-ungarico incoraggiava l'immigrazione di ulteriori slavi nella regione per contrastare il nazionalismo degli italiani

Il più noto di questi irredentisti istriani fu Nazario Sauro, tenente di vascello della Regia Marina nel primo conflitto mondiale, che fu giustiziato dall'Austria-Ungheria: solo nel 1918 l'Istria fu "redenta" (ossia unita alla madre patria). Ad un patriota capodistriano, il generale Vittorio Italico Zupelli, già distintosi nella Guerra italo-turca (1911-1912), fu addirittura affidato il "Ministero della guerra" italiano durante il primo conflitto mondiale.

In alcune terre di confine si verificarono situazioni conflittuali che misero a volte su posizioni opposte gli stessi abitanti del medesimo paese. Ad esempio, nel Trentino, i giovani in età adatta al servizio militare venivano arruolati dall'Impero Austroungarico e nel 1914 allo scoppio del conflitto molti partirono per il fronte, per un totale di circa 65000 a fine conflitto. Più di ottocento trentini, tuttavia[9], scelsero l'Italia come loro patria invece dell'Austria, attraversando clandestinamente il confine e arruolandosi come volontari nel regio esercito italiano.

Figure come Cesare Battisti, Nazario Sauro, Damiano Chiesa e Fabio Filzi furono tra le più rappresentative, in questo senso. Tutti coloro che si schierarono per una parte o per l'altra, volontariamente o accettando la chiamata alle armi, vennero chiamati, a seconda dei casi, traditori o fedeli alla loro terra. Così Battisti, Sauro, Chiesa e Filzi furono eroi per gli italiani mentre per anni Bruno Franceschini, probabilmente coinvolto suo malgrado nell'episodio della cattura di Battisti e Filzi, venne considerato un rinnegato.[10][11][12][13] Viceversa, l'Austria considerò traditori Battisti, Filzi e Chiesa, condannandoli a morte.

Irredentismo fascista

Il secondo, quello fascista fu più aggressivo e portò – in parte – al disastro della seconda guerra mondiale . Infatti dopo la fine della prima guerra mondiale il movimento fu egemonizzato[14], manipolato e stravolto dal fascismo, che ne fece uno strumento di propaganda nazionalista, posto al centro di una politica, condizionata da tardive ambizioni imperiali, che si concretizzava nelle "italianizzazioni forzate", nell'aspirazione per la nascita di una Grande Italia e un vasto impero coloniale. Il fascismo considerò "irredenti" anche territori quali la Savoia e Corfù (e, con quest'ultima, anche le restanti Isole Ionie: Zante, Leucade, Cefalonia, Itaca, Paxo), non appartenenti alla regione fisica italiana o storicamente alquanto estranei alla tradizione italiana e quasi privi di abitanti italofoni.

Il progetto fascista nazionalista-irredentista della Grande Italia (in rosso), inserito in una parte dell'impero coloniale (in giallo)

Situazione dopo il secondo dopoguerra

A partire dal secondo dopoguerra in poi il governo italiano ha cessato del tutto qualsiasi politica irredentistica, considerando come definitivi i confini nazionali stabiliti dopo il trattato di Parigi del 1947, il Memorandum di Londra e il trattato di Osimo del 1975.

Tuttavia, secondo alcuni movimenti non esclusivamente appartenenti alla destra radicale, in seguito alla cessione di gran parte della Venezia Giulia alla ex Jugoslavia, l'irredentismo italiano non avrebbe ancora completato il suo programma. Esistono gruppi e movimenti di opinione che affermano (senza che necessariamente ciò comporti una pressione per la revisione dei confini politici post-bellici) l'italianità della Venezia Giulia oltreconfine.

Nei primi anni novanta la dissoluzione della Jugoslavia ha fatto infatti riemergere in tali ambiti sentimenti nazionalistici;[15] si ricordano a tal proposito le manifestazioni triestine «per un nuovo irredentismo» del 6 ottobre 1991, promosse dal Movimento Sociale Italiano e che traevano spunto da voci circa trattative per il passaggio tramite Trieste delle truppe jugoslave espulse dalla Slovenia, che videro la partecipazione di migliaia di persone al comizio in piazza della Borsa a seguire un lungo corteo per le vie della città, e dell'8 novembre 1992, sempre a Trieste[16].

Lo stesso MSI e Alleanza Nazionale chiesero la rivisitazione dei trattati di pace, soprattutto per quanto riguarda la zona B del Territorio Libero di Trieste e Pola, atteso che la qualificazione di Slovenia e Croazia come eredi della Jugoslavia non era scontata (come sottolineato dalla stessa Federazione Jugoslava e dalla Serbia) e che la spartizione dell'Istria occupata tra Slovenia e Croazia avrebbe contraddetto le clausole del "trattato di pace" che, almeno, garantivano l'unità della superstite componente italiana nelle terre giuliane assegnate alla Jugoslavia, proponendo la creazione di una euro regione istriana comprendente anche la città di Fiume.[17].

Tali rivendicazioni, riguardanti anche la Dalmazia (comprese isole quali Pago, Ugliano, Lissa, Lagosta, Lesina, Curzola e Meleda) e la costa con le città di Zara, Sebenico, Traù e Spalato, rimasero sempre inascoltate dai diversi governi italiani succedutisi in quel periodo[18][19][20].

I territori considerati irredenti

Terre irredente in senso stretto

Trento e Trieste erano considerate le principali terre irredente, al punto che il concetto di "terre irredente" indicava per antonomasia Trento e Trieste.

Di seguito i territori considerati irredenti fino a prima della prima guerra mondiale e che fanno parte della Repubblica Italiana.

Queste terre sono anche dette "terre redente", proprio per l'essere state annesse all'Italia.

Territori compresi nell'Italia geografica

Territori al di fuori dei confini della regione geografica italiana

Mappa del Regno d'Italia nel 1919; in verde sono evidenziate altre terre irredente rispetto alle province di Trento e Trieste

Inoltre, pur oggetto di minore rivendicazione da parte italiana, talvolta sono stati considerati irredenti anche i seguenti territori al di fuori dei confini naturali:

Le popolazioni italiane dell'Italia irredenta

Vennero portate, come argomentazioni a supporto delle tesi irredentiste di rivendicazione, diversi punti, come l'appartenenza geografica di quelle terre alla Penisola italiana o la presenza di più o meno numerose comunità di italiani o italofoni.

Agli inizi del Novecento la situazione delle terre irredente era la seguente:[24]

Attualmente, gli italofoni sono aumentati nella Contea di Nizza (principalmente per immigrazione), sono rimasti invariati nel Canton Ticino, hanno conosciuto una leggera flessione nei Grigioni, mentre sono diminuiti a Malta (per effetto dell'assorbimento della cultura italiana a quella più propriamente maltese) e in Venezia Giulia (per effetto dell'esodo istriano) e quasi scomparsi in Dalmazia (sempre a causa dell'esodo).

Riguardo alla Corsica, la lingua italiana è compresa da una parte della popolazione, ma viene usata molto marginalmente; di contro, si assiste a una più larga concessione sull'utilizzo del corso, strettamente imparentato al gallurese (parlato nell'estremo nord della Sardegna) e ai dialetti del gruppo centrale toscano (in particolare ha conservato diverse caratteristiche dei dialetti medioevali toscani ancora parlati in Garfagnana e alta Versilia) e in misura minore col ligure.

Infine, riguardo alle Isole Ionie, le ultime tracce del dialetto veneziano locale – specialmente a Corfù – sono scomparse negli anni Sessanta (comunque vi resta marginalmente l'uso dell'italkian, una lingua mista di matrice ebraica con molti termini veneti e pugliesi).

Note

  1. ^ Francesco Bruni, Irredentismo, su Storia della Lingua Italiana, italica.rai.it (archiviato dall'url originale il 30 marzo 2009).

    «Con "irredentismo" si designa l'aspirazione di un popolo a completare sul piano territoriale la sua unità nazionale, liberando le terre soggette al dominio straniero. La paternità di questa parola va attribuita al patriota e uomo politico Matteo Renato Imbriani, che nel 1877, ai funerali del padre Paolo Emilio, usò l'espressione "terre irredente", cioè non salvate; subito dopo, un giornalista viennese lo definì "irredentista" per dileggiarlo.»

  2. ^ Angelo Vivante, Irredentismo adriatico, capitolo primo.
  3. ^ Carlo de Franceschi, su Istria on the Internet - Prominent Istrians. URL consultato il 14 giugno 2019.
  4. ^ La frontiera orientale d'Italia e la sua importanza, in Il Politecnico, XIII, Milano, 1862.
  5. ^ Importanza strategica delle Alpi Giulie e dell'Istria, in Rivista Contemporanea, XLV, Torino, 1866.
  6. ^ Annamaria Isastia, Il Circolo Garibaldi come congiunzione fra massoneria ed irredentismo, su Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Intervento sul libro dello storico della massoneria Luca Giuseppe Manenti, 20 ottobre 2016. URL consultato il 10 febbraio 2019 (archiviato dall'url originale il 10 febbraio 2019).
  7. ^ Pro Patria, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  8. ^ Il mio Carso, riedito nel 2011, Venezia, Mursia, ISBN 978-88-425-4734-1.
  9. ^ Censimento volontari terre irredente (PDF), su museodellaguerra.it.
  10. ^ Cesare Veronesi, p.98.
  11. ^ Cesare Veronesi, pp.94-96.
  12. ^ Attilio MORI, Oreste FERRARI, BATTISTI, Cesare, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 2 dicembre 2016.
    «Fatto prigioniero e subito riconosciuto con Fabio Filzi, suo conterraneo e suo ufficiale subalterno, da un rinnegato della sua terra, l'alfiere Bruno Franceschini»
  13. ^ Silvana Casmirri, FILZI, Fabio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 2 dicembre 2016.
  14. ^ Renato Monteleone, La politica dei Socialisti e democratici irredenti in Italia nella grande guerra, in Studi Storici, Anno 11, n. 2, Apr.-Giu. 1970, pp. 313-346.
    «Sovrastando una pur forte presenza delle sinistre durante la grande guerra»
    .
  15. ^ Articoli "Il Giornale", "Il Piccolo", "Il Secolo d'Italia".
  16. ^ Roberto Bianchin, Trieste si ribella il MSI è pronto a 'sconfinare', in la Repubblica, 8 novembre 1992. URL consultato il 31 maggio 2022.
  17. ^ http://www.radioradicale.it/scheda/91686/la-revisione-del-trattato-di-osimo
  18. ^ https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/04/27/parola-ordine-patria.html
  19. ^ A 40 anni dal trattato di Osimo un convegno della Fondazione An.
  20. ^ Il revanscismo italiano è poca cosa, ma i Balcani non lo sanno.
  21. ^ Luigi Tomaz, Il confine d'Italia in Istria e Dalmazia, Conselve, 2004.
  22. ^ Mappa della Venezia Giulia di Carlo Battisti (JPG), su upload.wikimedia.org.
  23. ^ Claudio Susmel, I confini naturali d'Italia.
  24. ^ Giulio Vignoli, Gli Italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa.

Bibliografia

Voci correlate

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