Attentato di via Rasella: differenze tra le versioni
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Versione delle 03:15, 5 set 2019
Attentato di via Rasella attentato | |
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I resti dei militari del Polizeiregiment "Bozen" caduti nell'attentato adagiati sul ciglio della strada | |
Tipo | Attentato dinamitardo |
Data | 23 marzo 1944 15:50 circa[1] |
Luogo | Rione Trevi, Roma |
Infrastruttura | Via Rasella[N 1] |
Stato | Repubblica Sociale Italiana |
Coordinate | 41°54′09.84″N 12°29′20.41″E |
Armi | Ordigno esplosivo improvvisato[2] e 4 bombe a mano |
Obiettivo | 11ª Compagnia del Polizeiregiment "Bozen" |
Responsabili | 12 partigiani dei GAP al comando di Carlo Salinari "Spartaco" |
Conseguenze | |
Morti | 35 (33 soldati tedeschi, 2 civili italiani) |
Feriti | 64 (53 soldati tedeschi, 11 civili italiani) |
Mappa di localizzazione | |
L'attentato di via Rasella fu un'azione della Resistenza romana condotta il 23 marzo 1944 dai Gruppi di Azione Patriottica (GAP), unità partigiane del Partito Comunista Italiano, contro un reparto delle forze d'occupazione tedesche, l'11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment "Bozen", appartenente alla Ordnungspolizei (polizia d'ordine) e composto da reclute altoatesine. Fu il più sanguinoso e clamoroso attentato urbano antitedesco in tutta l'Europa occidentale[3].
L'azione, ordinata da Giorgio Amendola e compiuta da una dozzina di gappisti (tra cui Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna e Carla Capponi), consistette nella detonazione di un ordigno esplosivo al passaggio di una colonna di soldati in marcia e nel successivo lancio di quattro bombe a mano artigianali sui superstiti. Causò la morte di trentatré soldati tedeschi (non si hanno informazioni certe circa eventuali decessi tra i feriti nei giorni seguenti) e di due civili italiani (tra cui il dodicenne Piero Zuccheretti), mentre altre quattro persone caddero sotto il fuoco di reazione tedesco. Il 24 marzo, senza nessun preavviso, seguì la rappresaglia tedesca consumata con l'eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui furono uccisi 335 prigionieri completamente estranei all'azione gappista, tra cui dieci civili rastrellati nelle vicinanze di via Rasella immediatamente dopo i fatti.
Fin dalle prime reazioni, l'attentato è stato al centro di una lunga serie di controversie (anche in sede storiografica) sulla sua opportunità militare e legittimità morale, che lo hanno reso un caso paradigmatico della «memoria divisa» degli italiani[4]. Nella lunga storia processuale dei fatti del marzo 1944, anche la legittimità giuridica dell'attentato è stata oggetto di valutazioni diverse: sul piano del diritto internazionale bellico è stato giudicato, da tutte le corti militari britanniche e italiane che hanno processato e condannato gli ufficiali tedeschi responsabili delle Fosse Ardeatine, un atto illegittimo in quanto compiuto da combattenti privi dei requisiti di legittimità previsti dalla IV Convenzione dell'Aia del 1907; sul piano del diritto interno italiano è stato invece considerato, in tutte le sentenze emesse sul caso da giudici civili e penali, un atto di guerra legittimo in quanto riferibile allo Stato italiano allora in guerra con la Germania. Tale riconoscimento di legittimità ebbe luogo, secondo l'interpretazione di alcune sentenze al riguardo proposta da alcuni autori, in forza di una legislazione successiva al compimento dell'attentato[5][6]; secondo l'interpretazione delle medesime sentenze presentata da altri autori, l'attentato era da considerarsi legittimo anche al momento della sua attuazione[7][8].
Le motivazioni dell'attentato sono diverse: secondo un'intervista resa nel 1946 dal gappista Rosario Bentivegna, «scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi»[9]; secondo la deposizione di Giorgio Amendola al processo Kappler (1948), indurre i tedeschi al rispetto dello status di Roma città aperta smilitarizzando il centro urbano[10]; secondo la Commissione storica italo-tedesca (2012), contrastare l'occupante e «scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in cui versava»[11]. Tutte assai discusse, le motivazioni hanno costituito tra l'altro l'oggetto di una teoria del complotto che non ha trovato alcun riscontro né in sede storiografica né in sede giudiziale.
Contesto storico
La Resistenza romana
In seguito all'annuncio dell'armistizio italiano dell'8 settembre 1943 e alla fuga del re e del governo Badoglio, Roma (che era stata dichiarata "città aperta" dal governo italiano il 14 agosto)[12] fu rapidamente occupata dai tedeschi. Gli accordi per la resa, stipulati il 10 settembre fra le autorità militari tedesche e quelle italiane, prevedevano che le truppe tedesche dovessero «sostare al margine della città di Roma», occupando solamente l'ambasciata tedesca, l'EIAR e la centrale telefonica tedesca[13]. I tedeschi violarono fin dall'inizio tali accordi, occupando di fatto la capitale con le loro truppe[14][15], sebbene ridotte al minimo[16]. Un avviso firmato dal feldmaresciallo Albert Kesselring, massima autorità militare tedesca in Italia, comparso sui muri della città l'11 settembre, dichiara Roma «territorio di guerra», disponendo, fra l'altro, che «tutti i delitti commessi contro le Forze Armate Tedesche saranno giudicati secondo il diritto Tedesco di guerra» e che gli «organizzatori di scioperi, i sabotatori ed i franchi tiratori saranno giudicati e fucilati per giudizio sommario»[17].
Sul finire di settembre Roma entrò a far parte, senza il ruolo di capitale, della Repubblica Sociale Italiana (RSI). Il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, locale comandante della Sipo e dell'SD, arrestò numerosi sospetti antifascisti, organizzò in via Tasso un centro di detenzione e tortura, creò nella città un clima di terrore. La polizia effettuava frequenti rastrellamenti di ebrei (tra cui quello del ghetto del 16 ottobre) e di persone da destinare al lavoro forzato[18]. La città divenne per i tedeschi una retrovia militare ove transitavano truppe e mezzi diretti al fronte, anche se Kesselring fece in modo che i trasporti più consistenti la aggirassero da sud[16]; i carabinieri venivano disarmati e arrestati; si dava la caccia ai renitenti alla leva per l'esercito della RSI[19]. I rifornimenti alimentari erano precari e in costante peggioramento; la maggioranza della popolazione romana soffriva la fame; la borsa nera consentiva a molti di sopravvivere, fomentando però la corruzione e inasprendo il divario fra le classi sociali[20].
Fin dal 9 settembre i partiti antifascisti costituirono a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), assumendosi il compito di dirigere il movimento di liberazione in tutta l'Italia occupata; il ruolo di dirigere la lotta nell'ambito locale della città di Roma fu assunto, a partire da ottobre, da una giunta militare in cui erano rappresentati i sei partiti antifascisti: Partito Comunista Italiano (PCI), Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), Partito d'Azione (PdA), Democrazia Cristiana (DC), Partito Liberale Italiano (PLI) e Democrazia del Lavoro (DL). Tuttavia, di fatto l'attività partigiana era condotta in misura preponderante dai tre partiti di sinistra (PCI, PSIUP e PdA), i quali avevano formato tra di loro un «Tripartito»[21] e agivano in sostanziale autonomia dal CLN[22]. In rappresentanza del governo Badoglio e al di fuori del CLN operava il Fronte militare clandestino della resistenza (FMCR), guidato dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, la cui principale attività era la raccolta di informazioni sul nemico e la loro trasmissione via radio agli Alleati, non svolgendo alcun atto di resistenza armata[23]. Inoltre, nelle borgate notevole importanza assunse il gruppo d'ispirazione marxista Bandiera Rossa (noto anche come Movimento Comunista d'Italia), rivale a sinistra del PCI e anch'esso indipendente dal CLN[24].
Il movimento resistenziale romano era attraversato da diverse linee di frattura. Sul piano militare, le formazioni legate al governo Badoglio e la destra del CLN (democristiani, liberali e demolaburisti) erano orientate a impiegare contro i tedeschi tattiche puramente ostruzionistiche e di resistenza passiva, per fare in modo che nell'attesa degli Alleati la popolazione subisse il minore danno possibile, sperando che – anche in virtù della strategia diplomatica intrapresa dal Vaticano – Roma fosse tenuta fuori dalle ostilità grazie all'ambiguo status di città aperta. I tre partiti di sinistra, tra i quali il PCI esercitava un ruolo trainante, puntavano invece all'insurrezione ritenendo che le forze popolari dovessero partecipare attivamente alla lotta antitedesca, in modo da affermare la propria «decisiva influenza nella vita pubblica italiana»[25]; respingevano pertanto come "attesista" (o "attendista") ogni linea d'azione che non prevedesse l'attivo coinvolgimento delle masse nella lotta armata, essendo decisi a «prevenire ogni tentativo badogliano, a sfondo reazionario, di dare alla resistenza antitedesca un carattere passivo, limitato alle forze dell'esercito»[26], e a contrastare l'influenza di tale «manovra reazionaria» sul CLN[27].
A sua volta, il PCI al suo interno vedeva il centro dirigente di Roma, guidato da Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola (responsabile militare del PCI romano e suo rappresentante presso la giunta militare del CLN centrale), contrapporsi a quello di Milano, diretto da Luigi Longo e Pietro Secchia[N 2]. Il centro di Milano era intransigente contro l'"attesismo" e assolutamente insoddisfatto dell'andamento della lotta antitedesca a Roma nell'autunno 1943, rimproverando al PCI locale una scarsa attività partigiana. Secondo Secchia, la dirigenza comunista di Roma avrebbe dovuto operare per «essere in grado di dare un certo contributo effettivo alla guerra di liberazione nazionale, di combattere veramente e conquistarci di fronte agli inglesi, ecc. delle posizioni di forza che ci possono poi permettere di far sentire il nostro peso e la nostra volontà nelle soluzioni»[28]; la sollecitava dunque a sviluppare una guerriglia urbana tramite i Gruppi di Azione Patriottica (GAP): «È dai colpi, dagli attacchi audaci di oggi ad opera dei partigiani e dei GAP che scaturirà poi la sollevazione generale di domani»[29].
In risposta Amendola affermò che il PCI romano stava facendo tutto il possibile per incrementare l'attività partigiana, malgrado diversi fattori contrari, tra cui – scrisse – «il fatto politico che non abbiamo vinto l'attesismo nelle nostre file. A Roma la situazione generale è attesista al 100%. Si vive nell'attesa del prossimo arrivo degli inglesi: e questa attesa passiva snerva, corrompe, allontana dall'azione e crea anche nelle nostre file una resistenza attesista»[30].
Nel centro della città furono costituiti quattro GAP perciò detti "centrali" (per un totale di circa trenta militanti) dotati di autonomia operativa e coordinati da un organo apposito che fu capeggiato da Antonello Trombadori fino al suo arresto (2 febbraio 1944) e successivamente da Carlo Salinari. I GAP centrali furono protagonisti di diverse azioni, la prima delle quali il 18 ottobre 1943, quando attaccarono con bombe a mano un corpo di guardia della Milizia; fra le azioni più importanti vi furono un attacco con bombe a mano contro militari tedeschi il 18 dicembre e un attentato dinamitardo contro il Tribunale di guerra tedesco (che aveva sede all'Hotel Flora in via Veneto) il 19 dicembre[31]. In quest'ultima data, come reazione agli attentati dinamitardi, i tedeschi catturarono alcuni ostaggi e anticiparono l'orario di chiusura dei negozi[32], oltre a vietare l'uso delle biciclette[33].
Le azioni gappiste suscitarono preoccupazione negli altri partiti e in particolare Giuseppe Spataro, rappresentante della DC nella giunta militare, «manifesta[va] in ogni occasione la necessità di osservare cautela per non provocare le rappresaglie»[34]. Inoltre, un dirigente democristiano si oppose senza successo alla proposta di Amendola di inserire, in un documento del CLN indirizzato ai partigiani, la precisazione secondo cui bisognava colpire il nemico anche «negli uomini»[35].
Situazione dopo lo sbarco di Anzio
Lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944) cambiò il quadro strategico e impose all'alto comando tedesco nuove decisioni organizzative e operative; lo stesso giorno, l'intera provincia di Roma fu dichiarata "zona di operazioni" della 14ª Armata tedesca, ma le truppe presenti in città erano – secondo quanto riferito da Giorgio Amendola alla direzione milanese del partito – «numericamente ridottissime»[36]. Il feldmaresciallo Albert Kesselring affidò personalmente a Kappler la piena responsabilità dell'ordine pubblico di Roma[37]. Le iniziative di lotta armata si intensificarono, allorché comunisti e azionisti, nell'illusione di un imminente arrivo degli Alleati (e incoraggiati da un appello radio del comando alleato che incitava i partigiani a «combattere in tutti i modi possibili»[38]), tentarono di sollevare la popolazione romana[23]. Tuttavia, secondo Amendola
«la città era piuttosto fredda: la partita era giudicata vinta, ma vinta dalle forze militari alleate soltanto, e il dovere di contribuire alla cacciata dei tedeschi non era sentito dalla popolazione nel suo complesso. Tale passività veniva vieppiù rafforzata da voci diffusissime secondo cui un accordo era già stato stipulato in Vaticano tra i tedeschi e gli anglo-americani, in virtù del quale le autorità tedesche di occupazione si sarebbero impegnate a consegnare la città agli alleati senza dare battaglia. In questa atmosfera di attesismo (tanto più grave per il momento in cui esso si manifestava) il nostro compito era chiaro: vincere la passività della popolazione scatenando l'attacco armato contro le forze di occupazione (che abbiamo già detto essere ridottissime) e far coincidere questo attacco con la proclamazione dello sciopero generale insurrezionale. [...]
Sospesa la proclamazione dello sciopero, non abbiamo però sospesa la preparazione delle masse alla lotta e tutti i nostri sforzi sono ora tesi a vincere la passività, che potrebbe ritornare a pesare nello spirito delle masse, conducendo una agitazione per fare della preparazione dell'insurrezione non un problema di attesa, ma un problema di attacco immediato, naturalmente (per ora) in altre forme e con altri mezzi che non l'insurrezione[39][N 3].»
L'insuccesso del tentativo insurrezionale fu seguito da un'efficace azione repressiva dei nazifascisti, i quali catturarono importanti esponenti del PdA (fra cui il capo dell'organizzazione militare del partito, Pilo Albertelli), parecchi militanti di Bandiera Rossa, il colonnello Montezemolo assieme ai suoi più stretti collaboratori, nonché vari fra i più attivi militanti del PCI fra i quali Giorgio Labò e Gianfranco Mattei[40].
Il 31 gennaio fu annunciata, in rappresaglia per l'uccisione di un soldato tedesco e il ferimento di un secondo, la fucilazione di dieci prigionieri avvenuta a Forte Bravetta[N 4][41]. Appresa la notizia da Radio Roma, il giornalista Carlo Trabucco commentò nel suo diario: «Oramai sappiamo che gli ostaggi sono chiamati a pagare con la vita gli attacchi che i patrioti muovono ai tedeschi»[42]. Sempre in rappresaglia per attacchi partigiani nel centro di Roma, il 2 febbraio a Forte Bravetta seguì un'altra esecuzione di undici prigionieri[43].
Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1944 la repressione tedesca riuscì a ostacolare fortemente la resistenza partigiana: il Partito d'Azione e il gruppo di Bandiera Rossa dovettero ridurre al minimo le loro attività, mentre i GAP del centro di Roma vennero temporaneamente sciolti e i loro componenti si trasferirono nelle borgate, tornando attivi alla metà di febbraio[44]. Intensificando le azioni armate nel corso di febbraio, i comunisti tentarono più volte di radicalizzare il risentimento popolare contro i nazifascisti: il 3 marzo, dopo che le SS ebbero trucidato Teresa Gullace (una donna facente parte del gruppo di mogli che manifestavano davanti a una caserma in cui erano rinchiusi i loro mariti rastrellati), i GAP assaltarono i militi uccidendone alcuni, e permisero così la fuga di una parte dei prigionieri[40]. Il 5 marzo un gappista uccise un soldato tedesco in piazza dei Mirti a Centocelle: due giorni dopo a Forte Bravetta furono fucilati per rappresaglia dieci prigionieri, tra cui i tre gappisti Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Vincenzo Gentile[45][46]; i tedeschi annunciarono l'avvenuta rappresaglia tramite un comunicato[47][N 5].
L'attacco di via Tomacelli e i piani per nuove azioni
Nelle sue memorie Amendola scrive che, in seguito alle fucilazioni del 7 marzo, «per reagire alla paura bisognava colpire i tedeschi e i repubblichini» e «portare l'azione dei GAP su un piano più alto»[48]. Il 10 marzo, giorno in cui la RSI commemorava l'anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, un corteo di fascisti che marciava con alla testa gli appartenenti alla milizia "Onore e combattimento" fu colpito in via Tomacelli dall'assalto con bombe a mano di un gruppo di gappisti. Secondo Carla Capponi, che partecipò all'azione, i fascisti riportarono tre morti e vari feriti[49]. Amendola ha dichiarato che dopo questo attacco ricevette «molte congratulazioni per l'audacia dei gappisti, e nessuna critica o riserva»[50], cosicché il suo successo incoraggiò i gappisti «a proseguire con più impegno» nella lotta progettando «un nuovo e più grosso colpo»[51].
Si iniziò dunque a progettare un attacco per il 23 marzo, venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci italiani di combattimento, avvenuta il 23 marzo 1919. Per l'occasione i fascisti – sotto la guida del segretario locale del Partito Fascista Repubblicano (PFR), Giuseppe Pizzirani – avevano programmato alle 9 una messa in suffragio dei caduti nella chiesa di Santa Maria della Pietà in piazza Colonna, da cui sarebbe partito un corteo diretto al Teatro Adriano in piazza Cavour, dove alle 15:30 avrebbe tenuto un discorso il cieco di guerra Carlo Borsani[52].
Amendola scrive che Sandro Pertini, responsabile militare del PSIUP (i cui rapporti con il PCI in quella fase non erano buoni[N 6]), «mordeva il freno» e, «geloso delle prove crescenti di capacità e di audacia date dai Gap, chiese che si concordasse un'azione armata unitaria»[51]. In base a un accordo tra i due fu dunque previsto che il corteo fascista sarebbe stato attaccato in due punti diversi dai GAP e da una squadra delle Brigate Matteotti socialiste[N 7].
Parallelamente all'azione contro i fascisti, i gappisti iniziarono a studiare un attacco contro un reparto tedesco, l'11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment "Bozen", che marciava in colonna attraverso il centro rappresentando un bersaglio relativamente facile[53][N 8]. Il "Bozen" era formato da altoatesini arruolati nella polizia dopo che, nell'ottobre 1943, la provincia di Bolzano era stata occupata dai tedeschi e inserita nella cosiddetta Zona d'operazioni delle Prealpi, sulla quale la sovranità della RSI era nominale. La colonna, composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, quasi quotidianamente intorno alle 14 attraversava il centro di ritorno dall'addestramento al poligono di tiro di Tor di Quinto, diretta al Palazzo del Viminale (già sede del Ministero dell'Interno) dove era acquartierata. I soldati marciavano con fucili in spalla e bombe a mano alla cintola, in genere cantando marcette come Hupf, mein Mädel[54] (Salta, ragazza mia).
Giorgio Amendola ha affermato che il passaggio del "Bozen" fu segnalato al comando dei GAP da più parti e che egli stesso, avendolo notato dalla casa dello sceneggiatore Sergio Amidei in piazza di Spagna (sede della redazione clandestina de l'Unità), lo indicò ai gappisti «perché fosse oggetto di un attacco, lasciando poi – come sempre avveniva – al comando assoluta libertà d'iniziativa, e di preparare l'operazione con le modalità ritenute più opportune»[55][56]. In seguito ha aggiunto che, una volta ordinato al comando dei GAP che il "Bozen" fosse «obiettivo di una azione di carattere anche politico», si limitò «a dare le disposizioni generali e a indicare anche il punto dell'esplosione: via Rasella»[57]. Anche il gappista Mario Fiorentini "Giovanni" ha affermato di aver avvistato la compagnia dal suo appartamento in via Capo le Case e di aver ideato il piano[58].
Diversamente dall'attacco al corteo fascista, nessun altro membro della giunta militare del CLN fu preventivamente informato del progetto dell'attacco al "Bozen". Al processo Kappler (1948), Amendola e i rappresentanti militari degli altri due partiti di sinistra, il socialista Sandro Pertini e l'azionista Riccardo Bauer, dichiarono che l'attentato era stato conforme alle «direttive di carattere generale» della giunta militare[18]. In seguito Amendola attribuì la mancata comunicazione del piano alla consuetudine ed a «ragioni di sicurezza cospirativa»[59]. Alberto ed Elisa Benzoni ritengono invece che il piano, per i rischi che comportava, «non poteva assolutamente essere comunicato agli altri perché non poteva in alcun modo essere da loro condiviso»[60].
Preparazione
Per alcuni giorni Lucia Ottobrini "Maria" (ventenne impiegata), Mario Fiorentini "Giovanni" (venticinquenne studente di matematica), Rosario Bentivegna "Paolo" (ventiduenne studente di medicina) e Carla Capponi "Elena" (venticinquenne impiegata di un laboratorio chimico) studiarono il percorso dai militari tedeschi. In seguito ai diversi appostamenti, si appurò che la compagnia del "Bozen" percorreva quotidianamente lo stesso tratto di strada alla stessa ora (verso le due del pomeriggio); in un primo tempo i quattro militanti proposero a Carlo Salinari "Spartaco", responsabile dei GAP centrali, di lanciare alcune granate nel momento in cui i militari nemici avessero girato da via Rasella in via Quattro Fontane, ma il dirigente partigiano ritenne questo piano troppo limitato e decise invece di studiare un attacco più ambizioso con la partecipazione di molti elementi dei GAP romani[61][62].
Esaminato il percorso della colonna del "Bozen", si valutò che il punto più favorevole in cui attaccare era via Rasella, una strada piuttosto stretta in salita, attraversata dal solo incrocio con via del Boccaccio. La salita avrebbe ritardato la marcia della colonna, mentre l'angustia della strada avrebbe accresciuto i danni che le avrebbe inferto la bomba, oltre a ridurne la mobilità nel controattacco. L'ordigno sarebbe stato collocato al civico 156 di via Rasella (circa a un terzo dalla sommità della strada), di fronte a Palazzo Tittoni, in quanto l'edificio era allora semiabbandonato e la via appariva molto poco frequentata, soprattutto nel primo pomeriggio, quando anche i pochi negozi presenti nei dintorni rimanevano chiusi. La relativa esiguità di passanti avrebbe dovuto ridurre la possibilità di destare sospetti e il rischio di vittime civili[63].
Il piano definitivo, elaborato da Mario Fiorentini, prevedeva la partecipazione di numerosi gappisti: uno di essi, travestito da spazzino, al segnale convenuto avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all'interno di un carrettino della nettezza urbana (congegno che secondo la terminologia contemporanea verrebbe classificato come ordigno esplosivo improvvisato[2]), mentre gli altri, ad esplosione avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la compagnia.
Nel frattempo, dopo il discorso di papa Pio XII del 12 marzo contro la guerra aerea e l'invito rivolto a entrambe le parti belligeranti a non rendere Roma un campo di battaglia, a partire dal 19 marzo iniziarono a diffondersi voci sulla fuoriuscita dei tedeschi dalla città. Il 22 marzo Bruno Spampanato, direttore de Il Messaggero, annunciò che prossimamente il comando tedesco avrebbe ritirato le sue truppe da Roma e anche evitato il loro passaggio nella parte esterna della città, in modo da non dare agli Alleati motivi per bombardare. La notizia suscitò grandi speranze tra gli abitanti[64], che già il giorno seguente ebbero modo di notare un'effettiva diminuzione delle forze occupanti[65].
Secondo il diario di Calamandrei, proprio mentre si diffondeva la voce che i tedeschi fossero in procinto di lasciare la città, i gappisti notarono che le marce della colonna del "Bozen" attraverso il centro si diradavano: non passò il 18 e 19 marzo, tornò ad attraversare via Rasella il 20, cosicché si scelse di colpirla l'indomani, ma il 21 l'esplosivo non era pronto. Il 22 la colonna mancò nuovamente, per cui si temette che i tedeschi ne avrebbero modificato l'itinerario nell'ambito dell'annunciata evacuazione di Roma per rispettarne la qualità di città aperta[66].
La sera del 22 marzo, Raoul Falcioni portò nella cantina di via Marco Aurelio 47, nei pressi del Colosseo – utilizzata dai GAP come rifugio, deposito e laboratorio per la preparazione degli esplosivi – un carrettino per le immondizie, che aveva trafugato da un deposito della Nettezza urbana, e una divisa da spazzino (procacciata da Guglielmo Blasi). Duilio Grigioni, Giulio Cortini, Laura Garroni, Carla Capponi e lo stesso Bentivegna prepararono la bomba, costituita da «dodici chili di tritolo pressati in un contenitore metallico, di ghisa, con accanto altri sei chili di esplosivo e pezzi sfusi di ferro che sarebbero divenuti micidiali schegge; il tutto piazzato nel carrettino della spazzatura. Il contenitore di ghisa venne fabbricato dai membri della Sap Romana Gas di via Ostiense». Scrivono Rosario Bentivegna e Cesare De Simone che furono «alti ufficiali» del Fronte militare clandestino di Montezemolo a fornire ai gappisti, consegnandoli a Carla Capponi, sia il tritolo, sia le bombe da mortaio Brixia che, opportunamente modificate, dovevano essere usate nell'azione come bombe a mano[67]. Secondo Mario Avagliano, biografo di Montezemolo, gli esponenti del Fronte erano comunque «all'oscuro dell'azione in preparazione»[68][N 9].
La mattina del 23 marzo la colonna del "Bozen" fu avvistata mentre compiva il tragitto di andata del consueto percorso; la notizia fu accolta con gioia da Salinari e i gappisti si prepararono a colpire i soldati al loro ritorno nel pomeriggio secondo il piano. L'azione contro i fascisti fu invece annullata, dopo che a mezzogiorno si seppe dai giornali che la riunione all'Adriano non ci sarebbe stata e che tutte le celebrazioni si sarebbero svolte presso la federazione fascista in via Veneto[69]. Prevedendo un attentato analogo a quello di via Tomacelli, i tedeschi avevano infatti vietato altri cortei fascisti e il console Eitel Friedrich Moellhausen, durante una riunione da lui convocata presso l'ambasciata a Villa Wolkonsky, aveva convinto le autorità che la parata del 23 marzo rappresentava una «provocazione inutile»[70].
Esecuzione
Il compito di far brillare l'esplosivo fu affidato a Bentivegna "Paolo", il quale il 23 marzo travestito da spazzino partì dal rifugio gappista verso via Rasella, con il carretto contenente l'ordigno. Salinari ha in seguito testimoniato che i partigiani erano così disposti: Bentivegna accanto al carretto, Carla Capponi (che aveva un impermeabile nascosto, da mettere addosso a Bentivegna per coprirne la divisa da spazzino, e una pistola sotto i vestiti), in cima alla via; Fernando Vitagliano, Francesco Curreli, Raoul Falcioni e Guglielmo Blasi, sulle scalette di fronte all'incrocio con via del Boccaccio, pronti a lanciare le bombe a mano e poi scappare verso via dei Giardini; nei pressi Silvio Serra; all'angolo di via del Boccaccio si trovava Franco Calamandrei. Alcuni altri gappisti erano sistemati per coprirne la fuga[N 10].
In totale, prepararono o parteciparono all'azione diciassette partigiani; oltre ai nove citati anche Giulio Cortini, Laura Garroni, Duilio Grigioni, Marisa Musu, Ernesto Borghesi, Pasquale Balsamo, Mario Fiorentini (il quale fu escluso da Salinari dal gruppo degli esecutori, poiché rischiava di essere riconosciuto da un parente residente in zona[71]) e Lucia Ottobrini (quest'ultima partecipò solo alla preparazione del carico di tritolo ma non all'esecuzione, perché malata[72]).
I gappisti dovettero attendere circa due ore in più rispetto alla consueta ora di transito della compagnia nella via; il giovedì 23 marzo 1944 i soldati del "Bozen" erano partiti in ritardo dopo l'esercitazione di tiro effettuata al poligono di Tor di Quinto e solo alle ore 15:45 la colonna sbucò da Largo Tritone e girò verso via Rasella.
Calamandrei si tolse il copricapo (segnale per avvisare Bentivegna che i tedeschi si stavano avvicinando e che quindi doveva accendere la miccia ed allontanarsi velocemente). Alle 15:52 Bentivegna accese con il fornello di una pipa la miccia di cinquanta centimetri, preparata per innescare l'esplosione dopo circa cinquanta secondi, tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra il punto a valle usato per la segnalazione e il carretto.
Nel frattempo, con l'avvicinarsi dell'apertura dei negozi, la strada aveva iniziato a popolarsi di passanti, tra cui – come scrisse Pasquale Balsamo nel 1954 – «una frotta di bambini [che] si era accodata alla colonna nazista per giocare ai soldati. Fu un attimo terribile per tutti. Era troppo tardi per procrastinare di un solo secondo l'azione; il segnale, ormai, era stato dato»[76]. Questi bambini furono fatti allontanare dai gappisti, per evitare che fossero coinvolti nell'esplosione. Bentivegna ha dichiarato di aver fatto inoltre allontanare alcuni operai[77].
Secondo un sopravvissuto del "Bozen", l'effetto dell'esplosione fu accresciuto dalle susseguenti indotte esplosioni di alcune delle granate che i soldati avevano tutti alla cintola[78]. La potenza dell'onda d'urto fu tale da scardinare le porte e le finestre del collegio scozzese nei pressi di via Rasella, i cui vetri furono ridotti in frantumi[79] così come quelli dei piani superiori della Manica Lunga del Palazzo del Quirinale[80]; «devastare» varie case (tra cui quella dell'attore Marcello Giorda)[81]; danneggiare gli interni di Palazzo Tittoni[82]; sollevare e scagliare un autobus contro i cancelli di Palazzo Barberini[83].
Subito dopo l'esplosione alcuni gappisti lanciarono quattro bombe a mano (delle quali una rimase inesplosa)[84]. Dopo il lancio delle bombe a mano, i gappisti Raoul Falcioni, Silvio Serra, Francesco Curreli e Pasquale Balsamo impegnarono i tedeschi in uno scontro a fuoco, mentre Capponi e Bentivegna si misero in salvo. Nessuno dei gappisti partecipanti all'azione fu ferito o fatto prigioniero dai tedeschi e si ritrovarono tutti – «festanti» – in piazza Vittorio[85], dove li attendeva Carlo Salinari[86]. I soldati superstiti, credendo che le bombe fossero state lanciate dall'alto, risposero sparando a lungo (anche dopo che i partigiani si erano già dileguati) contro i piani elevati degli edifici circostanti[87], soprattutto verso le finestre sovrastanti i negozietti all'angolo di via del Boccaccio.
Morti e feriti
Militari del "Bozen"
Ventisei uomini del Polizeiregiment "Bozen" morirono nell'immediatezza dell'esplosione e altri nelle ore successive per le ferite riportate. Alle ore otto del mattino del 24 marzo si contarono trentadue morti, numero in base al quale gli alti comandi della Wehrmacht stabilirono il numero di prigionieri da fucilare secondo la proporzione di dieci per ogni soldato ucciso. Dopo l'emanazione di detto ordine morì un trentatreesimo militare (Vinzenz Haller), cosicché Kappler aggiunse di sua iniziativa all'elenco dei condannati a morte i nomi di dieci ebrei arrestati in mattinata[18][88].
Non è accertato il decesso di ulteriori soldati nei giorni successivi a causa delle ferite. Kappler, nel corso del processo a suo carico, indicò un totale di quarantadue morti, cifra però non suffragata da documenti[89]. Lo stesso numero, insieme a quello di otto civili italiani, è riportato nelle memorie del generale Siegfried Westphal, all'epoca capo di stato maggiore presso il comando del fronte sud-ovest, il quale afferma che i decessi successivi ai trentatré iniziali non furono comunicati a Hitler per non alimentare ulteriormente la sua ira[90].
Segue la lista dei trentatré militari uccisi[91] (tutti ricoprenti il grado di Unterwachtmeister, il più basso della gerarchia della polizia d'ordine dopo quello di allievo)[92].
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Dal giornale di guerra del comando della 14ª Armata risulta che i feriti furono cinquantatré[93].
Altre vittime
L'Agenzia Stefani, il 26 marzo, riportò in tutto sette morti italiani, indicandoli come «quasi tutti donne e bambini» e attribuendoli interamente ai «comunisti badogliani»[94]. Al contrario, il numero dell'Unità clandestina del 30 marzo, che rivendicava l'attentato, attribuì la morte di «parecchi passanti, tra i quali donne e bambini», esclusivamente al «cieco furore» della sparatoria successiva ad opera dei tedeschi[95].
Dagli studi successivi è emerso che gli italiani uccisi furono sei, di cui due morirono a causa dell'esplosione:
- Antonio Chiaretti (anni 48) - dipendente della TETI e partigiano di Bandiera Rossa[96][97], in seguito più volte indicato come caduto in combattimento[98];
- Piero Zuccheretti (anni 12) - apprendista presso un negozio di ottica in via degli Avignonesi.
Sul percorso di Zuccheretti sono state presentate due ipotesi alternative: Alessandro Portelli ha ipotizzato che fosse entrato in via Rasella dall'angolo con via del Boccaccio nell'attimo dell'esplosione, mentre Bentivegna si allontanava[99]; secondo il fratello Giovanni Zuccheretti, il bambino, diretto al negozio in cui lavorava, sarebbe sceso invece per via Rasella proveniente da via delle Quattro Fontane, attratto dai canti della compagnia del "Bozen" (che proprio in quel momento stava imboccando via Rasella proveniente da via del Traforo), incrociando quindi l'attentatore dopo che questi aveva acceso la miccia[100]. Nessuno dei gappisti presenti sulla scena dell'attentato ha mai dichiarato di aver visto il bambino.
Altre quattro persone furono uccise dai colpi di arma da fuoco esplosi dai soldati del "Bozen":
- Annetta Baglioni (anni 66) - domestica presso Palazzo Tittoni, affacciatasi alla finestra fu colpita alla testa da un proiettile[101];
- Pasquale Di Marco (anni 34);
- Enrico Pascucci - dipendente della TETI, partigiano di Bandiera Rossa;
- Erminio Rossetto (anni 20) - milite portuario del reparto speciale "Ettore Muti"; secondo il necrologio morì «colpito da mano nemica», mentre secondo Bentivegna il milite, autista del questore Pietro Caruso, giunse sul posto e scese dall'auto di servizio in borghese e con la pistola in pugno, venendo ucciso dai tedeschi perché scambiato per partigiano[102].
Tra i civili si contarono undici feriti[101], tra cui:
- Orfeo Ciambella - sessantenne guardiano di un magazzino della Croce Rossa in via Rasella, al momento dell'esplosione era appostato all'ingresso e riportò gravi ferite di cui subì le conseguenze per tutta la vita; Bentivegna ha dichiarato di averlo invitato senza successo ad allontanarsi prima di accendere la miccia[99];
- Efrem Giulianetti;
- Giorgina Stafford.
Ciambella, Giulianetti e Stafford, insieme ai familiari di alcune vittime delle Fosse Ardeatine, nel 1949 intrapresero un'azione civile per danni contro i partigiani[103]. Il processo terminò nel 1957, allorché la Corte di cassazione riconobbe l'attentato come legittima azione di guerra ed escluse pertanto la responsabilità civile dei partigiani.
Nelle memorie di Matteo Mureddu, allora funzionario presso il Quirinale e membro del Fronte clandestino di resistenza dei carabinieri, sono riportati i nomi di quattro donne con «i visi e i vestiti zuppi di sangue», di cui una con «un occhio quasi fuoruscito dall'orbita», che si rifugiarono presso le scuderie del Quirinale in cerca di aiuto: le sorelle Margherita Aliotti in Mollo e sua sorella Elena, Vincenza Angelina Mollo in Ricci e sua figlia ventenne Adele, sfollate da San Giovanni Incarico[104].
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Il necrologio di Piero Zuccheretti sul Messaggero del 25 marzo 1944
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L'annuncio dei funerali di Zuccheretti sul Messaggero del 27 marzo
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Il necrologio del milite Erminio Rossetto sul Messaggero del 26 marzo
L'immediata risposta tedesca
Mentre la sparatoria non era ancora terminata e iniziavano i rastrellamenti, giunsero sul posto – nell'ordine – il questore Pietro Caruso, il generale Kurt Mälzer, il diplomatico Eugen Dollmann e, insieme in automobile, il console Eitel Friedrich Moellhausen e il ministro dell'Interno della RSI Guido Buffarini Guidi, raggiunti in un secondo momento dal comandante delle SS Herbert Kappler[105].
Dollmann descrive nelle sue memorie quello che vide una volta giunto a via Rasella: «lo spettacolo era raccapricciante: mi permetto di dire che nel giudicare la reazione tedesca non bisogna perdere di vista l'impressione destata da una strage così tremenda. Qua e là giacevano disperse membra umane, in ogni dove si erano formate grandi pozze di sangue, dei feriti agonizzavano, l'aria era piena di gemiti e grida e dalle case si continuava a sparare»[108] (che i colpi provenissero dalle case era solo un'impressione dei tedeschi[109]).
Secondo le memorie di Dollmann e Moellhausen e le deposizioni di Kappler al proprio processo, alla vista della scena il generale Mälzer (secondo Moellhausen in stato di ubriachezza) fu preda di un violento scoppio d'ira dicendosi deciso a far saltare in aria tutti gli edifici dell'isolato tra via Rasella e via delle Quattro Fontane. Sull'opportunità di tale proposito si scontrò prima con Dollmann e poi, con maggior violenza, con Moellhausen, intimando ai due diplomatici di non intromettersi e attribuendo la responsabilità dell'accaduto alla linea politica del corpo diplomatico. Alla vista di camion del genio militare da cui si iniziavano a scaricare cassette di esplosivo, Moellhausen cercò ancora di distogliere Mälzer dalle sue intenzioni avvertendolo della possibile presenza di donne e bambini nelle case, ma il generale si disse irremovibile. Entrambi minacciarono di fare rapporto al feldmaresciallo Kesselring. Solo l'arrivo di Kappler, il quale propose di assumersi la gestione della questione, servì a calmare Mälzer e indurlo a rientrare al suo quartier generale[105][110].
Riavutisi dallo smarrimento seguito alle esplosioni, i superstiti del "Bozen", coadiuvati da altre forze tedesche e fasciste affluite sul posto (tra cui uomini del Battaglione "Barbarigo" della Xª Flottiglia MAS), iniziarono a rastrellare la popolazione della zona circostante, arrestando abitanti e passanti; i rastrellati furono allineati sotto la minaccia delle armi contro la cancellata di accesso a Palazzo Barberini e quindi condotti in parte presso l'intendenza della PAI, in parte presso il palazzo del Viminale[111]. In particolare, nelle cantine del Viminale furono ammassate circa trecento persone e trattenute per accertamenti sino alla mattina successiva; dieci di questo gruppo furono poi uccisi alle Fosse Ardeatine: Ferruccio Caputo, Cosimo D'Amico, Celestino Frasca, Romolo Gigliozzi, Fulvio Mastrangeli, Angelo e Umberto Pignotti, Antonio Prosperi, Ettore Ronconi e Guido Volponi[112]. I componenti di questo gruppo provenivano almeno in parte dall'immobile all'angolo di via del Boccaccio[106].
Dopo che l'SD di Kappler ebbe assunto il comando delle operazioni, il maggiore Borante Domizlaff e il capitano Hans Clemens organizzarono la perquisizione delle case di via Rasella partendo dai tetti, ma rinvennero solo una bandiera rossa, che Clemens considerò una prova di reato[113].
Risulta da vari documenti che durante i rastrellamenti e le perquisizioni alcune abitazioni furono saccheggiate[114][115]. Secondo Giorgio Bocca degli uomini del battaglione "Barbarigo" furono sorpresi dai tedeschi a rubare nelle case e arrestati[116].
Fra il pomeriggio del 23 e la mattina del 24 varie bande fasciste arrestarono nei quartieri del ghetto numerosi ebrei, che furono incarcerati a Regina Coeli per poi essere uccisi (assieme ad altri ebrei che erano già prigionieri al momento dell'attentato) alle Fosse Ardeatine[117]. Secondo Anna Foa, il fatto che molti di costoro siano stati arrestati per strada o nelle proprie case conferma che la rappresaglia non fu preceduta da nessun avviso, e indica forse che la notizia dell'attentato «non fu subito diffusa in tutta la città, perché altrimenti avrebbe certo messo in allarme gli ebrei nella loro semiclandestinità»[118].
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Subito dopo l'attentato, soldati del "Bozen" sorvegliano i piani alti della strada, mentre (a destra) il sottufficiale delle SS Franz Braun esamina i resti della bomba
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Retata di fronte a Palazzo Barberini, da parte di truppe tedesche e della RSI
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Uomini allineati nei pressi del cancello di Palazzo Barberini
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Militi della RSI durante la retata
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I catturati nella retata allineati lungo il muro del giardino di Palazzo Barberini
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Soldati tedeschi accanto ad un morto a via Rasella
L'eccidio delle Fosse Ardeatine
Il comunicato tedesco successivo all'eccidio definiva gli attentatori di via Rasella e i prigionieri uccisi nella rappresaglia «comunisti badogliani», in modo da accomunare la componente di sinistra della Resistenza, di cui i comunisti – del PCI e di Bandiera Rossa – costituivano il nerbo, e quella di destra del Fronte militare clandestino, fedele al governo di Pietro Badoglio. A causa della grande distanza politica e dei forti contrasti tra le due componenti (soprattutto nella fase antecedente alla svolta di Salerno), l'espressione appare un ossimoro.
Nelle sue memorie, Eugen Dollmann scrive di essersi vanamente adoperato, insieme al console Eitel Friedrich Moellhausen e al capo ufficio stampa dell'ambasciata tedesca Herbert von Borch, affinché non si emanasse il «pazzesco comunicato» con la «stupida frase "comunisti badogliani"», attribuito al quartier generale di Hitler a Berlino, e si lasciasse a loro la stesura dell'annuncio della rappresaglia[119].
Lo storico comunista Roberto Battaglia ipotizza che la scelta dei termini da parte dei tedeschi non fosse casuale, ma dettata da un «atroce sarcasmo» volto ad irridere all'unità della Resistenza come a un'utopia[120]. Robert Katz ritiene invece che i tedeschi, informati delle tensioni interne alla Resistenza e della contrarietà dei militari a questo tipo di azioni, e dunque pur sapendo che l'attentato era opera di un gruppo di sinistra (ma ignorando quale), ne attribuirono la responsabilità anche ai primi, con l'obiettivo di attirare anche su di loro il biasimo dell'opinione pubblica e indurli a una dissociazione dall'accaduto che avrebbe accresciuto le divisioni nella Resistenza[121].
In un'intervista del 1994, Rosario Bentivegna ha rivendicato come corretta e non contraddittoria la definizione di «comunisti badogliani» per i gappisti, i quali avrebbero agito in ottemperanza alle direttive generali del governo Badoglio di scacciare i tedeschi e liquidare il fascismo, nonostante non riconoscessero l'autorità del rappresentante militare del governo a Roma, generale Quirino Armellini[122].
La ricostruzione del processo decisionale che condusse all'eccidio presenta rilevanti margini d'incertezza, in quanto si basa principalmente sulle deposizioni difensive rese dagli uomini dell'esercito tedesco nei processi che ebbero luogo nel dopoguerra[123]. Secondo tali fonti, il colonnello Dietrich Beelitz (capo ufficio operazioni dello stato maggiore del feldmaresciallo Kesselring) avrebbe dapprima ricevuto, dal comando supremo in Germania, l'ordine proveniente dallo stesso Adolf Hitler di evacuare l'intero quartiere ove si trova via Rasella, farlo saltare in aria e fucilare cinquanta civili per ogni soldato tedesco morto nell'attentato; tuttavia tale disposizione di Hitler non sarebbe stata presa in seria considerazione dallo stesso Beelitz, in quanto da lui valutata come «uno sfogo d'ira del momento»; successivamente altri ordini di Hitler, pervenuti la sera del 23 marzo, avrebbero imposto di fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto, e di eseguire tale rappresaglia entro ventiquattr'ore. Di tali presunti ordini di Hitler non esistono peraltro né tracce scritte, né testimonianze dirette[124].
Nella tarda serata del 23, mentre già era in corso di compilazione la lista degli ostaggi da fucilare, Kappler diede ordine di cercare gli attentatori, ma senza curarsi dell'esecuzione di tale direttiva e senza attivare la polizia italiana; secondo la sentenza di primo grado del processo a suo carico (1948), «La ricerca degli attentatori non costituì l'attività prima del comando di polizia tedesca, ma fu effettuata in maniera blanda come azione marginale e successiva alla preparazione degli atti di rappresaglia»[18]. Né la radio tedesca né quella repubblichina diedero notizia dell'attentato (fu anzi diramata una velina con l'ordine di non parlarne)[125].
Nell'eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto il 24 marzo, furono uccisi quasi tutti i detenuti nelle carceri di via Tasso e Regina Coeli, tra cui il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e Pilo Albertelli, comandanti rispettivamente della resistenza militare e delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d'Azione. Soltanto il giorno dopo, a mezzogiorno del 25 marzo, i tedeschi diedero (assieme alla notizia di avere già eseguito la rappresaglia) notizia ufficiale dell'attentato, mediante la pubblicazione sui giornali del seguente comunicato, che era stato emanato dal comando tedesco di Roma alle 22:55 del 24 marzo:
«Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano.
Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito[126].»
Le vittime della strage furono in realtà 335: alla cifra di 320 stabilita dagli ordini superiori Kappler aggiunse di sua iniziativa altre quindici persone (dieci per il trentatreesimo soldato morto e cinque per errore), la cui uccisione non fu resa nota, cosicché tutti i comunicati e gli articoli pubblicati in quei giorni annunciarono l'uccisione di 320 prigionieri.
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Il comunicato tedesco successivo all'eccidio delle Fosse Ardeatine pubblicato su Il Messaggero del 25 marzo 1944
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Lo stesso comunicato riprodotto su La Stampa del giorno seguente
Le reazioni
La posizione della Santa Sede
Il 26 marzo L'Osservatore Romano pubblicò il comunicato tedesco che riportava la notizia dell'attentato e annunciava l'avvenuta rappresaglia, facendolo seguire da un commento non firmato che esprimeva pietà per le vittime dei due eventi, condannandoli entrambi: «Trentadue vittime da una parte: trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all'arresto, dall'altra». Il testo si concludeva con un appello: «non si può, non si deve spingere alla disperazione ch'è la più tremenda consigliera ma ancora la più tremenda delle forze, invochiamo dagli irresponsabili il rispetto per la vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai; il rispetto dell'innocenza che ne resta fatalmente vittima; dai responsabili la coscienza di questa loro responsabilità verso se stessi, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà»[127].
La posizione assunta dal Vaticano è stata oggetto di vari dibattiti e polemiche: tra gli autori che hanno asserito che papa Pio XII avrebbe potuto scongiurare la rappresaglia[128] e coloro che hanno escluso l'esistenza di tale possibilità[129]; e tra chi ha rimproverato al Vaticano una "scelta di campo" antipartigiana, individuando nel comunicato l'origine della tesi per cui l'eccidio fu l'effetto della mancata presentazione degli attentatori ai tedeschi[130][131], e chi invece ha giustificato l'atteggiamento della Chiesa, essendo la condanna della lotta armata a Roma un punto fermo della sua strategia diplomatica, mirante a evitare che la città diventasse un campo di battaglia[132][133].
Il comunicato tedesco del 26 marzo
Il 26 marzo, a complemento di precedenti disposizioni sul rispetto della città aperta, il comando superiore tedesco proclamò che a Roma non vi erano «né truppe d'impiego né apprestamenti militari» e che al suo interno non venivano compiuti traffici militari, quindi lanciò un ammonimento: qualora i «comunisti-badogliani» avessero compiuto altre «vili imboscate», sarebbe stato «costretto a prendere i provvedimenti militari» ritenuti «necessari all'interesse della condotta delle operazioni in Italia»[134].
La posizione del CLN
La giunta militare si riunì nel pomeriggio del 26 marzo, nel bel mezzo della crisi che il CLN attraversava da febbraio e che, proprio la mattina del 24 marzo, aveva spinto il suo presidente Ivanoe Bonomi a rassegnare le dimissioni, a causa del sospetto che le sinistre stessero preparando un governo rivoluzionario[135]. Secondo le memorie di Giorgio Amendola, durante la riunione egli chiese che fosse emanato un comunicato che, oltre a condannare l'eccidio, rivendicasse l'azione partigiana. Tuttavia, quest'ultima proposta trovò l'opposizione del delegato della Democrazia Cristiana, Giuseppe Spataro, il quale contestò l'opportunità dell'attentato e al contrario chiese un comunicato di dissociazione, proponendo inoltre che ogni futura azione fosse preventivamente approvata dalla giunta. Nell'«aspra discussione» che ne scaturì, Amendola replicò che, nel caso in cui la proposta democristiana fosse stata approvata, i comunisti sarebbero stati «costretti a prendere la [loro] libertà d'azione, anche a costo di uscire dal CLN». Poiché le deliberazioni venivano prese solo all'unanimità, nessuna delle due mozioni fu approvata, cosicché Amendola dichiarò «con una certa indignazione» che i comunisti si sarebbero autonomamente assunti – «con fierezza» – la responsabilità dell'attentato. La rivendicazione del PCI avvenne su l'Unità clandestina del 30 marzo tramite un comunicato dei GAP scritto da Mario Alicata (datato 26 marzo[136]), in cui tra l'altro si affermava che, in risposta al «comunicato bugiardo ed intimidatorio del comando tedesco», le azioni gappiste a Roma non sarebbero cessate «fino alla totale evacuazione della capitale da parte dei tedeschi»[137].
Su sollecitazione del segretario socialista Pietro Nenni, il 31 marzo Bonomi accettò di scrivere a nome del CLN «una nota di indignazione e di protesta» verso la strage delle Fosse Ardeatine. Il comunicato fu il risultato di un compromesso trovato dopo una serie di riunioni, discussioni e proposte di mediazioni, delle quali in mancanza di documentazione non è mai stato possibile ricostruire l'andamento. Sebbene comparve sulla stampa clandestina a metà aprile, per nascondere l'esitazione e il dissenso interni era retrodatato al 28 marzo[138]. Definito l'attentato «un atto di guerra di patrioti italiani», il comunicato del CLN vedeva nell'eccidio «l'estrema reazione della belva ferita che si sente vicina a cadere», alla quale le «forze armate di tutti i popoli liberi», ossia gli eserciti alleati avanzanti, avrebbero presto inferto «l'ultimo colpo», senza alcun riferimento alla prosecuzione delle azioni partigiane invocata dal comunicato comunista.
Effetti sulla guerra antipartigiana
Dollmann riporta nelle sue memorie che insieme alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine fu concepita un'ulteriore misura punitiva: il comandante supremo delle SS Heinrich Himmler ordinò al suo luogotenente in Italia, generale Karl Wolff, di organizzare «l'esodo forzoso dalla capitale della popolazione maschile dei quartieri più pericolosi, famiglie comprese, rastrellando le persone fra i diciotto e i quarantacinque anni»[139]. Per eseguire l'operazione, Wolff giunse a Roma la sera del 24 marzo (poche settimane prima aveva represso con delle deportazioni lo sciopero generale nel Nord Italia)[140]. La mancata realizzazione del piano è attribuita al rifiuto di Kesselring di distogliere dal fronte di Anzio le ingenti forze necessarie per l'operazione, la quale venne dunque rimandata fino a «cadere nel dimenticatoio»[N 11]. Secondo uno studio condotto dal ricercatore Pierluigi Amen, il rastrellamento del Quadraro del 17 aprile, deciso in seguito a un attentato partigiano del 10 aprile, costituì un'embrionale realizzazione dei ben più estesi piani concepiti dopo via Rasella menzionati da Dollmann[141][142]. Lo stesso giorno del rastrellamento i tedeschi emisero un comunicato intimidatorio in cui si lamentava la recente uccisione alla periferia di Roma di «parecchi soldati germanici», si deplorava la «poca comprensione» che «alcuni ambienti» avrebbero dimostrato verso la «dura risposta germanica» all'attentato di via Rasella (ossia verso l'eccidio delle Fosse Ardeatine), e si avvertiva la popolazione romana che essa avrebbe potuto evitare tali misure «partecipando attivamente alla lotta contro la delinquenza politica e informando il Comando superiore germanico»[143].
L'azione partigiana indusse inoltre i tedeschi a intensificare le misure per la sicurezza delle truppe. Lo stesso 23 marzo, alle truppe dipendenti dal comandante supremo del sud-ovest fu ordinato: «In futuro nelle località maggiori si dovrà marciare soltanto in ordine sparso, con adeguata protezione alla testa, alle spalle e ai fianchi. Durante la marcia le armi devono essere costantemente pronte a sparare. Bisogna rispondere immediatamente qualora dalle case venga fatto fuoco o si verifichino analoghi fatti ostili». In aggiunta, il 7 aprile Kesselring dispose: «Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Bisogna inoltre garantire la continua sicurezza della truppa contro attentati e attacchi. [...] In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco senza curarsi di eventuali passanti. Il primo comandamento è l'azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto i comandanti deboli e indecisi, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione»[144].
L'impatto dell'attentato sull'evoluzione della guerra antipartigiana è stato molto discusso: Lutz Klinkhammer ritiene che segnò una «cesura mentale per i comandi tedeschi in Italia», mentre Carlo Gentile, non riscontrando cambiamenti significativi nell'evoluzione della "guerra ai civili", la quale già dall'autunno 1943 aveva conosciuto episodi di estrema violenza al sud, scrive che risulta «difficile ritenere che le sue immediate conseguenze fossero davvero determinanti» e che le fonti non permettono di «affermare sulla base di prove concrete che la politica di repressione abbia subito trasformazioni decisive o si sia inasprita, almeno in un primo tempo», dato che proseguì nelle forme che aveva già assunto. Secondo Gentile, le offensive antipartigiane nelle retrovie della 14ª Armata iniziate alla fine di marzo non furono provocate dall'impressione dell'attentato, ma dalla momentanea sospensione dei combattimenti sul fronte di Cassino che, avvenuta proprio il 23 marzo in conseguenza del fallimento della prima offensiva alleata[145], rese possibile ai tedeschi la destinazione di forze alla lotta antipartigiana[146].
La Resistenza romana dopo via Rasella
Anni dopo Amendola ha ricordato che secondo il PCI «la strage delle Ardeatine imponeva uno sviluppo e non un arresto dell'azione partigiana, per rispondere al nemico colpo su colpo»[59]. Tuttavia, il diario di Calamandrei riporta che nei giorni successivi al massacro anche all'interno del partito si discusse sulla condotta da tenere. Dopo il comunicato tedesco del 26 marzo, si esaminò l'idea di fermare la lotta e «diffond[ere] nella sosta manifestini alla popolazione e ai tedeschi, i quali minaccino una ripresa terroristica se entro un termine certo l'evacuazione di Roma non sarà effettiva»[147]. Si decise invece di continuare con le azioni dei GAP, i quali il 27 marzo si introdussero nella sede della Gioventù italiana del littorio in via Fornovo, dove operavano degli enti assistenziali, lasciandovi due bombe che ferirono una donna e due bambini suscitando molto panico[148]. Elogiati e sollecitati a continuare a «picchiar duro» dalla direzione e dalla federazione laziale del PCI, il 28 marzo, dopo aver dato in stampa il comunicato che sarebbe stato pubblicato su l'Unità due giorni dopo, i gappisti continuarono a progettare nuove azioni, che tuttavia furono rinviate più volte[149].
Il gruppo di Bentivegna avrebbe dovuto attaccare il camion che trasportava il corpo di guardia della Gestapo da Regina Coeli alla caserma, che si decise di colpire in largo Tassoni a mezzogiorno del 28 marzo. Tuttavia, alle ore 11:45 del giorno stabilito, mentre i gappisti erano già tutti ai loro posti, una «trafelata» staffetta portò l'ordine perentorio di sospendere l'attacco. Bentivegna ritiene tale decisione una conseguenza del disaccordo su via Rasella sorto nel CLN, che avrebbe determinato il momentaneo imporsi di un «neo-attendismo», rimosso «in seguito a una dura battaglia politica» alcuni giorni più tardi, quando era ormai sfumato «l'effetto politico e militare che avrebbe potuto avere un'immediata durissima reazione alla rappresaglia nemica»[150]. Dal diario di Calamandrei risulta invece che il 2 aprile si tenne un'altra seduta del CLN «particolarmente burrascosa», in cui al rappresentante comunista fu nuovamente «rimproverato il fatto di via Rasella» dai delegati degli altri partiti, i quali risposero all'esortazione ad agire del primo con «irritate e decise obiezioni attesistiche»[151].
In aprile i tedeschi e i fascisti riuscirono ad arrestare molti gappisti, indebolendone in tal modo l'organizzazione clandestina. Franco Ferri, Pasquale Balsamo, Ernesto Borghesi e Marisa Musu furono catturati il 7 aprile in seguito a un conflitto a fuoco con la polizia giunta a prevenire una loro azione (un attentato alla vita di Vittorio Mussolini), ma si salvarono grazie al commissario, membro del fronte clandestino. Il 23 aprile si verificò un evento che rappresentò un duro colpo per i GAP, determinando il definitivo abbandono dei vari piani di attacco fino ad allora rimandati: la cattura del gappista Guglielmo Blasi. Dedito a furti e truffe, Blasi fu sorpreso durante il coprifuoco a scassinare un negozio e, trovato in possesso di una pistola e documenti tedeschi falsi, per evitare la pena scelse di mettersi al servizio della banda fascista di Pietro Koch, guidandola alla cattura degli ex compagni. Caddero prigionieri diversi importanti membri dell'organizzazione, tra cui Salinari e Calamandrei (ma quest'ultimo riuscì a scappare da una finestrella in un bagno della pensione Jaccarino, sede della banda Koch). Alcuni dei gappisti sfuggiti alla cattura, come Bentivegna e Capponi, si spostarono in provincia[152].
Dopo via Rasella le azioni gappiste a Roma subirono un drastico calo (Katz ne conta appena tre, a fronte delle quarantatré precedenti)[153] e, all'arrivo degli Alleati agli inizi di giugno, non si verificò – a differenza di tutte le altre grandi città d'Italia – alcuna insurrezione popolare. La storiografia più vicina al PCI ha attribuito la mancata sollevazione della città all'azione di forze conservatrici e attesiste (Vaticano, Alleati, esponenti monarchici), oltre che alle conseguenze del tradimento di Blasi. Altri autori la ritengono invece il risultato di un sostanziale fallimento della stretegia insurrezionale comunista: l'attentato del 23 marzo, avendo la conseguente rappresaglia aggravato le divisioni nella Resistenza e accentuato l'atteggiamento attesista della popolazione, sarebbe stato controproducente[154][155]. In proposito, la Commissione storica italo-tedesca riprende la spiegazione avanzata già nel 1945 dallo storico ed ex partigiano Roberto Battaglia, il quale scrisse che si dovesse ammettere «con sincerità» che la causa «forse più importante di tutt[e]» fosse che la maggioranza dei romani «nutriva soltanto una ansietà di pace e d'ordine, troppi dolori e troppi pericoli s'erano passati per accrescerli ancora una volta di propria volontà all'ultimo momento»[11][156].
Il rapporto tra l'attentato e la rappresaglia
L'attentato di via Rasella rappresenta, dato il suo legame con l'eccidio delle Fosse Ardeatine, uno dei principali argomenti di riflessione sull'opportunità degli attentati partigiani alla luce del ricorso alla pratica della rappresaglia da parte dei tedeschi e dei fascisti[157].
Il problema delle rappresaglie
I tedeschi, conformemente alla loro concezione di "guerra totale", consideravano potenziali ostaggi da destinare alle rappresaglie non solo i prigionieri partigiani, ma anche i loro familiari e l'intera popolazione civile[158]. Stante la pratica invalsa dall'esercito tedesco di attuare rappresaglie indiscriminate[159], varie furono le posizioni assunte dai diversi gruppi di resistenti, posti di fronte alla prospettiva di provocare ritorsioni sui compagni di lotta prigionieri o sui civili: in particolare, tra i partiti moderati del CLN e le formazioni militari, volendo evitare le rappresaglie, era diffuso un atteggiamento più prudente verso la lotta armata; atteggiamento criticato come "attendismo" o "attesismo" da quelle forze, soprattutto il PCI, che al contrario sostenevano la necessità di attaccare ugualmente gli occupanti[160].
Secondo Claudio Pavone, gli «atteggiamenti assunti dai resistenti di fronte alle rappresaglie nazifasciste si collocano lungo una linea che a un estremo ha la controrappresaglia partigiana, attraversa le posizioni di coloro che pur tenendo conto delle possibilità di rappresaglie non intendono comunque farsi dissuadere dalla lotta, e riscontra all'altro estremo una forte incentivazione all'attesismo in nome del risparmio di vite umane». Pavone ritiene che, fra i resistenti, «il punto focale del dissenso», al riguardo, stesse nell'accettare o meno che la rappresaglia funzionasse come «strumento di garanzia» a favore del nemico, in quanto piegarsi «di fronte alle rappresaglie poteva essere considerato – questo era il punto – un implicito riconoscimento del diritto del nemico a esercitarle»[161]. Di contro, Pavone cita alcuni documenti partigiani da cui si evince la preoccupazione (talora espressa in polemica con le formazioni comuniste) di non esporre la popolazione civile alle rappresaglie nemiche[157].
Una differenza fra i comunisti e gli altri partiti del CLN (specialmente la Democrazia cristiana e il Partito liberale) consisteva nel fatto che questi ultimi erano decisamente contrari allo «scatenamento del terrorismo urbano», e ciò sia per riserve di carattere morale, sia per il timore delle rappresaglie tedesche. Secondo Santo Peli, l'azione di tipo terroristico condotta dai GAP, se «evidenzia la diversità comunista nel panorama dell'antifascismo italiano» (orgogliosamente rivendicata dai comunisti stessi), giunge d'altra parte «a mettere a dura prova la scelta e la necessità di condurre la lotta in modo unitario» con le altre componenti del CLN[162].
La situazione a Roma
A Roma l'"attesismo" trovava maggior vigore che nel Nord Italia, circostanza che Giorgio Amendola il 13 dicembre 1943 attribuì a una serie di condizioni particolari, tra cui la presenza del Vaticano, rilevando come «Tutte le manovre sulla "città aperta", sulla "internazionalizzazione" ecc. hanno avuto una notevole influenza attesista sullo spirito della popolazione»[163]. Nel dopoguerra anche lo storico iscritto al PCI Roberto Battaglia attribuì un ruolo frenante al Vaticano, definendolo «il più potente degli alleati o dei promotori dell'attesismo»[164].
Il PCI romano espresse la propria posizione in merito al problema delle rappresaglie in un articolo pubblicato il 26 ottobre 1943 sull'edizione romana (clandestina) de l'Unità, intitolato Agire subito, che polemizzava contro le posizioni di tipo attendista, affermando la necessità di combattere subito e con tutti i mezzi possibili contro i nazifascisti, nonostante la minaccia di gravi rappresaglie da parte del nemico:
«Affiorano qua e là tendenze a non lottare subito contro i tedeschi e contro i fascisti, e specialmente contro i tedeschi, perché si dice:
a) alle nostre azioni d'importanza scarsa e limitata, i tedeschi reagiranno col terrore, per un loro morto ce ne saranno venti nostri, per un magazzino distrutto, bruceranno un intero villaggio;
b) perché ben poco di utile potremmo noi fare ora; bisogna attendere che gli anglo-americani siano vicini, allora ci sarà possibile intervenire nella lotta utilmente;
c) poiché la nostra organizzazione politica e militare è debole, se agiamo subito, prima di esserci consolidati, la reazione che provocheremo ci stroncherà e liquiderà la nostra organizzazione.
Orbene, tutti questi ragionamenti sono completamente errati dal punto vista politico, organizzativo e militare.»
L'articolo proseguiva elencando cinque ordini di motivi in base ai quali il Partito comunista riteneva «necessario agire subito e ampiamente contro i tedeschi e contro i fascisti, contro le cose e contro le persone»; ossia:
- «Per poter abbreviare la durata della guerra e liberare al più presto il popolo italiano dall'oppressione tedesca e fascista»;
- «per risparmiare decine di migliaia di vite umane e la distruzione di tutte le nostre città e villaggi. È vero che la lotta contro i tedeschi ed i fascisti costerà sacrifici, vittime e sangue. Ma questa lotta è necessaria per abbreviare l'occupazione tedesca dell'Italia»;
- «perché solo nella misura in cui il popolo italiano concorrerà attivamente alla cacciata dei tedeschi dall'Italia, alla sconfitta del nazismo e del fascismo, potrà veramente conquistarsi l'indipendenza e la libertà. Noi non possiamo e non dobbiamo attenderci passivamente la libertà dagli anglo-americani»;
- «per impedire che la reazione tedesca e fascista possa liberamente dispiegarsi indisturbata. Se noi non passiamo subito all'attacco, i tedeschi il terrore lo faranno ugualmente. Essi lo stanno già facendo»;
- «perché la nostra organizzazione si consolida e si sviluppa nell'azione».
L'articolo si concludeva riaffermando la necessità di
«reagire energicamente contro coloro che ci accusano di voler scatenare il terrore tedesco in Italia e che sostengono che per non scatenarlo è necessario non far nulla. Costoro sono dei reazionari, sono dei fascisti, sono dei filonazisti.
Costoro, coscientemente o no, collaborano coi tedeschi. No, non siamo noi a scatenare il terrore tedesco; ma il terrore tedesco lo hanno scatenato coloro che hanno voluto la guerra, coloro che hanno voluto e favorito l'occupazione dell'Italia da parte dei tedeschi. [...] Noi invece, agendo subito [...], vogliamo affrettare la cacciata dei banditi tedeschi dall'Italia, vogliamo al più presto liberare il nostro paese dal flagello del nazismo e del fascismo[165].»
Negli altri partiti di sinistra erano diffuse posizioni contrastanti: il 30 ottobre 1943 il giornale azionista L'Italia libera, in risposta all'eccidio di Pietralata, esortò il popolo italiano a non temere le rappresaglie in quanto «l'arma dell'intimidazione si ritorce su chi l'usa»[166]; ma il capo partigiano socialista Eugenio Colorni, più cauto, a novembre scrisse: «Le azioni contro i tedeschi sono permesse solo quando sia possibile eliminarne ogni traccia, perché altrimenti darebbero luogo a troppo gravi rappresaglie. E principalmente quello a cui si mira sono le azioni di sabotaggio»[167]. L'11 dicembre le direzioni romane dei tre partiti di sinistra illustrarono la loro politica militare alle rispettive direzioni del nord con un documento che, in merito alla lotta armata, dichiarava:
«L'intervento delle grandi masse popolari nella guerra partigiana e nella resistenza attiva all'occupante è decisivo per assicurare alle forze democratiche la direzione della guerra di liberazione e la loro decisiva influenza nella vita pubblica italiana: grazie a questa direzione il popolo italiano parteciperà attivamente accanto alle forze alleate alla cacciata dei tedeschi. L'azione militare va quindi condotta con estrema energia ed in tutte le sue forme contro i tedeschi come contro i fascisti. La possibilità di rappresaglie deve naturalmente essere tenuta in conto dai dirigenti locali che dovranno, caso per caso, proporzionare il rischio di un'operazione al suo rendimento. Ma essa non deve paralizzare l'azione contro l'invasore. Nelle città occupate, i tedeschi devono sentirsi in una atmosfera non solo di ostilità, ma di agguato e di attuale pericolo[25].»
Nettamente divergenti, sia per condotta raccomandata che per obiettivi, erano le direttive che il colonnello Montezemolo, comandante del Fronte militare clandestino, diramò il 10 dicembre attraverso l'Ordine 333 Op. Dopo aver affermato che in «Italia, terreno e popolazione poco si prestano alla guerriglia. Tuttavia, in obbedienza all'impegno del Governo di condurre a fondo la guerra al tedesco, è nostro dovere sviluppare con ogni energia tale forma di guerra in tutto il territorio occupato», detto ordine, al punto 9 ("organizzazione ed azione delle bande"), recitava:
«Nelle grandi città la gravità delle conseguenti possibili rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia. Vi assume preminente importanza la propaganda atta a mantenere nelle popolazioni spirito ostile ed ostruzionistico verso il tedesco, propaganda che è compito essenzialmente dei partiti; e la organizzazione della tutela dell'ordine pubblico, compito militare sia in previsione del momento della liberazione, sia per la eventualità che un collasso germanico induca l'occupante ad abbandonare improvvisamente il territorio italiano[168].»
Quattro giorni dopo, il Comando supremo dell'Esercito Cobelligerante Italiano rivolse alle formazioni partigiane dipendenti una direttiva (scritta da Montezemolo e firmata dal capo di Stato maggiore Giovanni Messe) che, ribadita l'esclusione di «atti aggressivi» nelle grandi città, raccomandava di valutare il rischio di ogni azione armata, da effettuare «contro singoli elementi tedeschi [...] in base a situazione e possibilità ed a un giusto esame del tedesco e delle possibili rappresaglie in relazione all'obbiettivo da conseguire»[169]. Analoghe direttive provenivano dai generali Quirino Armellini (dal 24 gennaio 1944 comandante del Fronte militare) e Roberto Bencivenga (successore del primo nella stessa carica a partire dal 22 marzo), i quali avevano dato disposizioni affinché non venissero compiuti attentati in città, ritenendo che i loro risultati si fossero «dimostrati sempre più nocivi che utili»[170] e che fossero quindi «inopportuni, per i pericoli della reazione tedesca che avrebbero potuto provocare»[171].
L'8 gennaio 1944, dalla direzione del PCI di Milano Luigi Longo, comandante generale delle Brigate Garibaldi, inviò alla direzione romana del partito una lettera in cui – nell'ambito di una generale critica al CLN centrale, accusato di inattività per non aver «agito come governo di fatto, come organo propulsore e regolatore di tutta questa lotta»[172] – la dichiarazione congiunta delle direzioni romane dei tre partiti di sinistra veniva contestata in più punti, compreso quello relativo alle azioni armate:
«in questo documento troviamo una espressione, sulla opportunità o meno di fare delle azioni, che noi non approveremmo. Si dice che si dovrà esaminare caso per caso, in base ai possibili colpi che il nemico ci potrebbe arrecare, la convenienza di attaccare. Certo non si deve attaccare senza criterio, le operazioni devono essere studiate e preparate con cura, ma il criterio se il nemico con le sue rappresaglie e la sua reazione ci potrà portare colpi ancora più duri, non può essere preso in considerazione: è l'argomento di cui si servono gli attendisti, ed è sbagliato, non perché, caso per caso, il loro calcolo non possa corrispondere a verità, anzi in astratto, caso per caso, il loro calcolo è sempre giusto, perché è evidente che se il nemico vuole, caso per caso, ci può sempre infliggere più perdite di quante noi ne possiamo infliggere a lui. Ma il fatto è che la convenienza o meno della lotta non si può misurare col metro del caso per caso; [...] si deve valutare sempre e solo nel quadro generale politico e militare della lotta contro il nazismo e il fascismo: il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati, ma si deve vedere tutte le misure di sicurezza, che il nemico deve prendere, tutta l'atmosfera di diffidenza e di paura che questo crea nelle file nemiche, lo spirito di lotta che queste azioni partigiane esaltano nelle masse nazionali, ecc. ecc[173].»
Viceversa Bandiera Rossa espresse dei dubbi sull'opportunità di attacchi che avrebbero potuto provocare rappresaglie verso i propri militanti prigionieri[174].
Dichiarazioni successive
Gli esponenti del PCI romano hanno spiegato più volte negli anni la loro posizione circa il problema delle rappresaglie in deposizioni processuali, discorsi, memorie e interviste: pur coscienti del rischio di dure rappresaglie, non solo contro partigiani prigionieri ma anche contro civili estranei alla lotta, dopo alcune esitazioni iniziali scelsero di non piegarsi al "ricatto" del nemico, di non rinunciare a colpirlo e anzi di rispondere ai massacri «colpo su colpo» con altri attacchi. D'altro canto, hanno affermato di non aver previsto che i tedeschi avrebbero reagito all'attentato di via Rasella con una rappresaglia dalle caratteristiche – modalità, entità e tempistica – dell'eccidio delle Fosse Ardeatine.
Dichiarazioni dei dirigenti
In una lettera non firmata inviata dal centro dirigente del PCI di Roma a quello di Milano il 30 marzo 1944, sei giorni dopo la strage, i comunisti romani rivendicarono di avere, all'interno della giunta militare del CLN, «portato fin dal primo annuncio delle rappresaglie tedesche la questione di rispondere intensificando l'azione», e di aver invitato gli altri partiti a fare altrettanto[175].
Giorgio Amendola, chiamato a deporre come testimone al processo Kappler del 1948, interrogato sulla previsione delle rappresaglie da parte dei partigiani, rispose: «Il comando tedesco non aveva mai lanciato avvertimenti. Comunque era stato preso in considerazione il problema della rappresaglia sul piano generale europeo: ma non si poteva assolutamente accettare il disarmo che avrebbe condannato i movimenti di liberazione nazionale. Non ci si poteva arrendere di fronte al vile e disumano ricatto nazista»[176].
Nella sua deposizione, Riccardo Bauer, all'epoca delegato azionista presso la giunta militare del CLN, affermò che fu la mancata previsione dell'entità che avrebbe assunto la reazione tedesca a determinare la decisione di attaccare: «debbo dire che se avessimo supposto che i tedeschi avrebbero reagito in modo così bestiale, non avremmo mosso un dito. Credevamo di combattere un esercito di soldati e non un'accolta di belve»[177].
Durante una celebrazione, nel 1954 Amendola disse:
«Sorse il problema delle rappresaglie, qualcuno osservò: "pagheranno gli innocenti". Ma questo era un prezzo inevitabile, che i popoli debbono pagare per conquistare la propria libertà. Un duro prezzo; ma rinunciare all'azione per questo significa pagare un prezzo ancora più alto, ancora più caro per tutti. Se il nemico reagisce, come reagì, versando il sangue degli innocenti, questo sangue ricade su di esso[178].»
Nel 1964, sempre Amendola scrisse in una lettera privata al politico radicale Leone Cattani:
«La più grossa responsabilità morale che abbiamo dovuto assumere nella guerra partigiana è quella dei sacrifici che si provocano, non soltanto i compagni di lotta che si inviano incontro alla morte – essi hanno scelto liberamente quella strada – ma gli ignari che possono essere colpiti dalle rappresaglie. Se non si supera questo tremendo problema non si può condurre la lotta partigiana. Noi del C.L.N., tutti, anche se nella pratica con maggiore o minore convinzione, sapemmo superare questo problema, e prenderci le necessarie responsabilità. Soltanto dei pavidi o degli ipocriti potevano fare finta di non comprendere le conseguenze che derivavano dalla posizione assunta. Affrontammo il rischio nell'unico modo possibile: non farci arrestare dal ricatto delle rappresaglie e, in ogni caso, rispondere al nemico colpo su colpo e continuare la lotta[179].»
Inoltre aggiunse: «non avevo preveduto le conseguenze dell'azione compiuta: le precedenti azioni dei GAP non erano state seguite da rappresaglie immediate. Invece questa volta s'era scatenato l'inferno». Ad ogni modo, circa la strage delle Fosse Ardeatine scrisse di aver «sempre sentito fortemente la responsabilità di quella tragedia»[180]. Concetti analoghi sono ribaditi nelle memorie di Amendola edite nel 1973, in cui si legge che, prima dell'attentato di via Rasella, «i tedeschi avevano reagito di fronte ai colpi dei GAP, accelerando il ritmo dei processi romani e della esecuzione delle condanne, con le fucilazioni eseguite a Forte Bravetta», ma che tuttavia questo non poteva fermare la lotta: «Il problema delle rappresaglie era stato posto e risolto una volta per sempre all'inizio della guerra partigiana, in Italia, come prima in Francia e negli altri paesi occupati dai nazisti. Accettare il ricatto della rappresaglia voleva dire rinunciare in partenza alla lotta. Questa era la linea che avevamo coerentemente seguito fin dall'inizio dell'occupazione tedesca in Francia a poi in Italia». Nonostante la drastica scelta iniziale, Amendola scrisse di non aver potuto trattenere la commozione allorché, il 25 marzo, Giuliana Benzoni lo aveva informato della rappresaglia delle Fosse Ardeatine: «All'annuncio della strage diventai pallido. [...]. Si aveva un bel risolvere una volta per sempre la questione delle rappresaglie, ma ogni volta il problema si ripresentava nella sua tragica e concreta umanità, ed io non potevo negare la parte di responsabilità individuale che mi spettava per quello che era avvenuto»[181].
In un promemoria, scritto nel 1949 a beneficio della difesa dei partigiani durante il processo civile per l'attentato e pubblicato nel 1985, Riccardo Bauer riferì:
«Quanto alla obiezione essere stato alla Gm [Giunta militare] noto che i tedeschi facevano dure rappresaglie, si può dire che la Gm era ben consapevole del prezzo che le ordinate operazioni sarebbero costate. È certo per altro che se si fosse accettato il ricatto tedesco nessuna operazione di disturbo sarebbe stata possibile e si sarebbe dovuto a priori rinunziare a quella lotta che doveva dimostrare la capacità e la volontà degli italiani di riconquistarsi la libertà piuttosto che di lasciarsela regalare dallo sforzo e dal sangue altrui[182].»
Dichiarazioni dei gappisti
Intervistato nel 1964, Bentivegna negò che «tra l'azione di via Rasella e l'eccidio delle Fosse Ardeatine vi sia un rapporto da causa ad effetto» e affermò di non sentire alcuna responsabilità per la strage, spiegandosi con un esempio: «Se io ti do un colpo, e tu per vendicarti ammazzi mia moglie, la responsabilità non è certo mia. È una questione che non riguarda me, ma te. Sei tu che hai ammazzato mia moglie, non io»[183].
Nelle sue memorie, scritte a partire dagli anni cinquanta ed edite nel 1983, Bentivegna ha ricordato che i gappisti si trovarono per la prima volta di fronte al problema delle rappresaglie sul finire dell'ottobre 1943, quando, nel timore che dei compagni fatti prigionieri potessero essere uccisi per rappresaglia, fu annullato un attentato contro gli esponenti della RSI Guido Buffarini Guidi e Francesco Maria Barracu presso un ristorante del centro:
«Mentre eravamo appostati ci raggiunse Mario Leporatti, comandante militare della zona, con il quale nei giorni precedenti avevamo messo a punto il piano. Ci venne incontro agitato, teso, ci richiamò dai tre angoli, nella piazzetta dove ci eravamo dislocati. "L'azione è sospesa", ci ordinò. "Emmanuele Rocco[N 12] e altri sono stati arrestati ieri, potrebbero essere uccisi per rappresaglia. Torniamo alla base."
Accettammo l'ordine ma ci si affollarono alla mente mille problemi ancora non risolti da noi. Per la prima volta ci apparve in tutta la sua sinistra brutalità l'ignobile ricatto del nemico.
[...] la sua [di Leporatti, ndr] angoscia si comunicò a noi, ma sentivamo che la spinta umana che la generava era in contraddizione con gli obiettivi che ci ponevamo [...] quella guerra, contro quel nemico, comportava rischi gravissimi non soltanto per la nostra vita, ma anche per quella di altri, compagni o cittadini inconsapevoli. Questa era la contraddizione in cui ci muovevamo: noi avevamo accettato l'idea di poter morire, ma intanto avremmo potuto esporre alla morte per rappresaglia proprio coloro per i quali eravamo disposti a rinunciare alla vita[184].»
Bentivegna aggiunge che a dicembre, dopo una serie di azioni contro militi della RSI, quando il loro comando «dette il via per attacchi militari ai tedeschi», i gappisti sollevarono «una quantità di obiezioni», tra cui, «prima di tutto, la preoccupazione delle rappresaglie». Avevano infatti previsto che attaccare truppe tedesche sarebbe stato diverso dal colpire i fascisti: per gli attacchi a questi ultimi sembrava che i tedeschi «non se la fossero presa troppo» limitandosi a proibire le manifestazioni fasciste, ma «[c]ertamente diversa, pensavamo, sarebbe stata la loro reazione se avessimo cominciato a colpire anche loro». Conseguentemente, per vincere le resistenze all'azione dei giovani militanti dei GAP, il PCI organizzò a casa di Carla Capponi diverse riunioni e discussioni sull'argomento, nelle quali Gioacchino Gesmundo insegnava loro a non temere le rappresaglie, rappresentando i partigiani «gli elementi più avanzati di una lotta cui partecipa la stragrande maggioranza del popolo», da cui avrebbero ricevuto rispetto e protezione[185].
Commentando l'azione contro il corpo di guardia tedesco di Regina Coeli, avvenuta il 26 dicembre 1943, Bentivegna scrive che a quell'epoca la posizione dei GAP «di fronte al problema della rappresaglia era cambiata. La paura del ricatto nemico, che ci aveva legato le mani nei primi mesi di occupazione, aveva lasciato posto alla decisione di condurre la guerra senza esclusione di colpi e senza cedimenti»[N 13].
Nel corso di un'intervista del 1982, fu domandato a Bentivegna: «Prima o dopo via Rasella ci furono altre rappresaglie naziste?». L'ex gappista rispose: «Qualche volta, a Forte Bravetta, i tedeschi fucilavano, a gruppi di dieci, dei condannati a morte. E riferivano l'esecuzione a certe azioni partigiane. Almeno una volta, che io sappia, lo fecero»[186]. In un'intervista del 1993, alla domanda «alle vostre azioni di quella fase [prima del 23 marzo] seguivano sempre rappresaglie tedesche?», Bentivegna invece rispose: «No, erano apparsi vari manifesti e avvisi che annunciavano che per ogni tedesco ucciso sarebbero stati fucilati dieci italiani, ma non hanno mai dato seguito in città a queste rappresaglie. Sapevamo che lo facevano in campagna, ma qui non succedeva, come non successe dopo che uccidemmo 16 tedeschi in piazza Barberini»[187]. In un'intervista dell'anno successivo si corresse parzialmente ricordando la rappresaglia del 7 marzo, sempre nella proporzione di dieci a uno, per l'uccisione di un militare tedesco in piazza dei Mirti da parte di un gappista[46].
Nel 1994, Bentivegna affermò: «il discorso era questo: dovevamo accettare il ricatto? Noi ci siamo risposti di no, e sapevamo che queste azioni che noi portavamo a termine avrebbero potuto comportare delle rappresaglie»[122]. Ancora: «La rappresaglia l'avevamo messo [sic] nel conto loro e noi. Si trattava di vedere se era giusto arrendersi perché ci sarebbe stata una rappresaglia o continuare la lotta. E noi decidemmo per la seconda ipotesi e continuammo anche dopo l'azione tedesca»[188]. Carla Capponi invece disse che molte persone avevano chiesto loro come si sarebbero comportati se, prima di compiere l'attentato, avessero saputo che ci sarebbe stata una rappresaglia di tale portata; a tale domanda rispose: «noi [l'attacco] l'avremmo fatto lo stesso perché la Resistenza non può prescindere dall'esistere senza pensare che poi il nemico si avvarrà di tutti gli strumenti che ha per le ritorsioni, questo non c'è dubbio, ma il nemico va combattuto comunque»[84]. Due anni dopo Bentivegna ribadì: «Noi sapevamo che i nazisti avevano fatto rappresaglie mostruose. Questo problema l'avevamo affrontato da tempo. Ma se non spariamo ai tedeschi, ci dicemmo, che razza di guerra facciamo? Decidemmo di correre il rischio della rappresaglia per salvare l'onore del paese»[189].
Circa l'eccidio delle Fosse Ardeatine, Marisa Musu affermò: «Quello è stato realmente un grosso, un grosso trauma; perché nessuno se l'aspettava. Noi abbiamo fatto anche delle azioni abbastanza consistenti: poi non abbiamo mai saputo quanti morti ci sono stati perché i tedeschi non l'hanno mai detto. Certo, non ne avevamo mai ammazzati trenta tutti insieme; però, in realtà rappresaglie non ce n'erano state. Cioè, si era ucciso, si era fucilato eccetera; però in realtà non si era mai collegato. Quindi per noi direi che è stato indubbiamente, un grande, un grande choc, eravamo sconvolti perché era una cosa... certamente non l'avevamo previsto». Secondo la testimonianza di Mario Fiorentini: «Quando noi abbiamo iniziato sapevamo che potevamo andare incontro alla rappresaglia. Come ci saremmo comportati? [...] Ma noi pensavamo a una trattativa, pensavamo a una fase negoziata»[190].
Carla Capponi tornò sulla questione nelle sue memorie pubblicate nel 2000: «Noi non avevamo previsto rappresaglie né potevamo piegarci a quel ricatto. [...] Nelle "lezioni" che Amendola, Gesmundo, Pellegrini e Lusana avevano tenuto in casa mia, ci era stato detto con chiarezza che alle azioni repressive tedesche si doveva reagire colpo su colpo, che il nemico avrebbe usato tutti i mezzi leciti e illeciti per indurci a desistere, a consegnarci, a rinunciare; che rappresaglie erano state compiute in ogni parte d'Europa e che prima ancora, nella guerra di Spagna, questo drammatico dilemma era stato definitivamente risolto con la scelta di lotta a oltranza»[191].
Valutazioni storiografiche
Nel diario di Pier Fausto Palumbo, membro della Resistenza romana, si legge che la pratica dei tedeschi di fucilare dieci prigionieri per ogni loro soldato ucciso in azioni di resistenza – che il 25 marzo Palumbo definì «consueto sistema del 'dieci per uno'» – ebbe inizio con l'occupazione dell'Italia nel settembre 1943[192].
Agli inizi del dicembre 1943 la stampa diede notizia di una rappresaglia dieci per uno, eseguita a Firenze il 2 dicembre a seguito di un attentato gappista che il giorno precedente aveva ucciso il tenente colonnello Gino Gobbi, comandante del locale distretto militare della RSI[193].
L'8 gennaio 1944 il dirigente comunista Luigi Longo invitò i comunisti romani a non tener conto delle rappresaglie contro i prigionieri nel valutare la convenienza degli attacchi partigiani, poiché «il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati»[194].
Il 9 febbraio il foglio clandestino il partigiano, nel commentare la rappresaglia eseguita a Forte Bravetta il 2 febbraio, menzionò fucilazioni di ostaggi nella «misura di dieci ostaggi per ogni tedesco»[195].
Il 25 marzo, dopo l'attentato di via Rasella e prima che fosse annunciata l'avvenuta rappresaglia, in una conversazione telefonica intercettata una donna, in pena per uno dei prigionieri, commentò: «Ogni volta che succede uno di quei fatti vanno là e ne prendono 10 per ogni tedesco»[196].
In un'opera del 1995 sui crimini di guerra tedeschi in Italia, Friedrich Andrae afferma che la rappresaglia dieci per uno ordinata dopo l'attentato del 23 marzo «corrisponde all'uso nei territori di competenza del comandante in capo del fronte sud-ovest»[197] (Kesselring).
In un volume del 2015 sullo stesso argomento, Carlo Gentile scrive che, contrariamente a quanto ritenuto da molti, nell'Italia occupata non esistevano disposizioni che imponessero un numero preciso di ostaggi da fucilare e che il «ricorrente» rapporto di dieci a uno fu soggetto a numerose eccezioni, venendo alterato per eccesso o per difetto in base alle disposizioni dei comandi locali[198].
Joachim Staron rileva come «infondata» la diffusa «affermazione secondo cui la rappresaglia nella proporzione di uno a dieci era espressamente consentita dalle norme dello ius in bello allora vigenti»[199].
In storiografia, circa il rapporto che lega via Rasella e le Fosse Ardeatine, esistono molteplici interpretazioni e giudizi.
Riprendendo le dichiarazioni dei membri del PCI romano, alcuni autori hanno sostenuto che la rappresaglia – nella sua stessa eventualità o comunque nelle sue modalità e dimensioni – non fu prevista dagli attentatori. Tale posizione è argomentata sostenendo che il modo di agire dei GAP non avrebbe contemplato – legittimamente[200] o colpevolmente[201] – un'attenta valutazione delle possibili conseguenze degli attacchi; oppure che la rappresaglia sarebbe stata oggettivamente imprevedibile. L'imprevedibilità sarebbe provata sia dall'asserita mancanza di significative reazioni agli attacchi partigiani già condotti in precedenza nella stessa Roma (a cui assimilano l'azione del 23 marzo tendendo a ridimensionare le specifiche particolarità di quest'ultima)[202][203][204], sia dal non rinvenimento di leggi di guerra od ordinanze tedesche che, nel caso di attentati subiti per mano di forze irregolari, prevedessero rappresaglie rigorosamente nella forma dell'esecuzione di un preciso numero di ostaggi per ogni militare ucciso[205].
Al contrario, altri autori hanno individuato proprio nella volontà di scatenare una prevedibile reazione tedesca, violenta al punto da indurre la popolazione a schierarsi attivamente contro gli occupanti, uno dei motivi che spinsero i partigiani comunisti a effettuare, nel pieno centro di Roma, un attacco che giudicano di portata senza precedenti[206]. Formulata inizialmente per affermare la "moralità rivoluzionaria" della strategia dei GAP[207], la tesi della rappresaglia cercata è stata in seguito proposta soprattutto dai loro critici, i quali ne hanno rilevato l'attitudine ad anteporre il raggiungimento dei propri obiettivi alla sorte della popolazione e dei prigionieri[208][209]. La prevedibilità di una dura rappresaglia sarebbe derivata da una generale notorietà della condotta degli eserciti di occupazione, compreso quello italiano, i quali in circostanze analoghe avevano già fatto abbondantemente ricorso a tale pratica su tutti i fronti del conflitto[210]. Alcuni di questi autori ritengono che, anche in assenza di precise disposizioni e di proclami, fossero inoltre prevedibili sia la specifica forma assunta dalla rappresaglia (esecuzione di prigionieri), sia la sua eccezionale portata (da rapportare a quella dell'attentato). Sarebbe infatti bastato, secondo tali storici, osservare la condotta tenuta dai tedeschi nella stessa Roma nelle settimane e nei mesi precedenti, allorché, in seguito ad alcuni attentati ai danni di uno o più dei loro soldati, avevano reagito fucilando a Forte Bravetta gruppi di una decina di prigionieri, in genere prelevati da via Tasso[211][212].
L'accusa della mancata presentazione
Formulazioni dell'accusa
Il più ricorrente argomento di polemica sull'attentato di via Rasella è rappresentato dall'accusa rivolta ai gappisti di non essersi presentati ai tedeschi nel tentativo di evitare la rappresaglia.
In un diario (pubblicato postumo nel 2011) Umberto Zanotti Bianco annota che il 25 marzo 1944, dopo aver appreso della strage commessa dai tedeschi, Edoardo Ruffini gli confidò di ritenere «che chi commette questi attentati dovrebbe lasciarsi prendere per evitare le rappresaglie contro gli ostaggi. Questo sarebbe coraggio, convinzione»[213]. Un giudizio del tutto analogo è contenuto in un libro del 1945 della scrittrice Jo' Di Benigno[N 14], collaboratrice del ministro della Guerra Antonio Sorice. Giudicato l'attentato un atto controproducente, Jo' Di Benigno scrisse che «una volta compiuto questo, piuttosto che lasciar sacrificare centinaia di vite preziose per il Paese, l'attentatore aveva il dovere di consegnarsi. Allora il suo atto poteva veramente essere utile e grande, servire quale esempio per molti e di stimolo. A convalidare questa affermazione, avevano il precedente del vice-brigadiere dei carabinieri Salvo D'Acquisto»[214]. Il confronto tra la «mancata presentazione» dei gappisti e il comportamento di Salvo D'Acquisto, che pur innocente si era accusato responsabile della morte di alcuni soldati tedeschi, rappresenta anch'esso un argomento largamente ricorrente nelle polemiche su via Rasella[215][N 15].
Negli anni, l'accusa della mancata presentazione è stata spesso accompagnata (com'è accaduto ancora nel 2013[216]) dall'affermazione secondo cui immediatamente dopo l'attentato i tedeschi avrebbero proclamato, mediante manifesti affissi sui muri o trasmissioni radio, che in caso di presentazione o cattura degli attentatori avrebbero rinunciato alla rappresaglia. Malgrado l'esistenza di tale appello tedesco sia stata più volte smentita, in sede storiografica quanto in sede giudiziaria, numerosi romani hanno continuato ad affermare con convinzione di averlo letto o ascoltato[217].
Alcuni autori hanno sostenuto che tale distorta versione dei fatti sarebbe stata ideata a scopi propagandistici dal federale fascista Giuseppe Pizzirani sul finire del marzo 1944, e ne hanno individuato l'origine in un volantino fatto stampare in quei giorni dal Partito Fascista Repubblicano, ove si affermava, fra l'altro, che «i banditi comunisti dei gap avrebbero potuto evitare questa rappresaglia, pur prevista dalle leggi di guerra, se si fossero presentati alle autorità germaniche che avevano proclamato, via radio e con manifesti su tutti i muri di Roma, che la fucilazione degli ostaggi non sarebbe avvenuta se i colpevoli si fossero presentati per la giusta punizione»[218][219].
L'invenzione venne ripresa dopo pochi giorni dal giornale clandestino Italia Nuova, di orientamento monarchico, che la ribadì anche (dopo la liberazione di Roma) a fine luglio 1944[220]. In risposta a questo secondo articolo di Italia Nuova, il quotidiano Il Tempo, allora di orientamento socialdemocratico, rilevò che «l'annunzio della repressione avvenuta fu dato simultaneamente con la notizia dell'attentato», e concluse affermando che l'attentato di via Rasella era stato «il fatto politico più importante dei nove mesi di oppressione nazi a Roma. Scopriamoci riverenti davanti ai martiri delle Fosse, e non offendiamoli col sospetto che il loro sacrificio sia stato vano»[221].
Una delle prime smentite dell'esistenza di inviti alla consegna dei partigiani si ebbe durante il processo ai generali von Mackensen e Mälzer del 1946, allorché il feldmaresciallo Kesselring, sentito come testimone il 15 novembre, a domanda rispose:
«"Ma voi avreste potuto dire: Se la popolazione romana non consegnerà entro un dato termine il responsabile dell'attentato io fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso?"
Kesselring: "Ora in tempi tranquilli, dopo tre anni passati, devo dire che l'idea sarebbe stata molto buona".
"Ma non lo faceste".
Kesselring: "No, non lo feci"[222].»
Durante il proprio processo, nel 1948, Herbert Kappler affermò che «la radio fascista [aveva annunciato] di quarto d'ora in quarto d'ora che se i gappisti di via Rasella non si fossero presentati, i tedeschi avrebbero fucilato 320 civili»; ma tale asserzione è priva di riscontri ed è smentita da altre testimonianze[223].
Enzo Piscitelli, nel difendere i gappisti dall'accusa di aver disatteso un invito a presentarsi per evitare la rappresaglia, fa notare che «nessun documento esiste su questo punto e tra l'esecuzione dell'attentato e l'inizio del massacro, compiuto di nascosto, passarono appena 24 ore!»[224]. In una cinquantina di conversazioni telefoniche intercettate in quei giorni, pubblicate dallo storico Aurelio Lepre nel 1996[225], nessuno menziona appelli tedeschi di alcun genere dopo l'attentato. Osserva Alessandro Portelli che «i tedeschi, che avrebbero tutto l'interesse di dire il contrario, ammettono di non aver fatto avvisi»; ciononostante «centinaia di italiani insistono a dire di averli letti o ascoltati. Ma non si è trovato nessuno che ricordi di averli scritti o trasmessi. Negli archivi tedeschi e italiani, nemmeno i più accaniti ricercatori di destra sono riusciti a scovarne una sola copia; non un esemplare è stato presentato ai processi»[226].
La quasi unanimità degli storici riconosce l'inesistenza dell'invito tedesco, tuttavia Paolo Simoncelli nel 2009 ritenne di riaprire la questione citando un memoriale inedito di Vittorio Claudi (medico di provata fede antifascista morto nel 2006), il quale scrisse: «Io ricordo perfettamente un manifesto affisso a Piazza Verdi, di fronte al Poligrafico [...] che recava tra due bande nere, una sopra e una sotto, l'avvertimento che qualora l'autore (o gli autori) dell'attentato non si fosse presentato, ci sarebbe stata l'esecuzione di 10 uomini per ogni soldato tedesco, secondo la legge di guerra tedesca»[227][228].
In un articolo pubblicato nel 2014, Luca Baiada, in base a una serie di indizi testuali, reputa di poter collocare in una data compresa fra il 30 marzo e il 18 aprile 1944 la stampa e la diffusione del sopra citato volantino del PFR che accusava «i banditi comunisti dei gap» di non essersi presentati. Baiada ritiene che tale volantino, forse anche affisso sui muri come manifesto, possa essere all'origine delle tante testimonianze circa l'appello tedesco, avendo potuto contribuire a formare, in molti di coloro che lo videro, il falso ricordo di aver visto il mai esistito invito a presentarsi evocato nel volantino stesso[219].
Risposte dei gappisti
Nel corso delle ricorrenti polemiche su via Rasella, i membri dei GAP si difesero dall'accusa di non essersi costituiti per salvare gli ostaggi dando negli anni risposte diverse e contrastanti: se inizialmente dichiararono di essere stati disposti a consegnarsi, ma di non averlo fatto a causa degli ordini del partito oppure unicamente perché i tedeschi non avevano rivolto loro un appello, in seguito affermarono che avrebbero disatteso la presentazione al nemico in ogni caso, ritenendola in contrasto con la qualifica di combattenti da essi rivendicata.
Il medico di fede politica democristiana Giuseppe Caronia (amico, mentore e protettore di Bentivegna durante la clandestinità, nonché testimone delle sue nozze con Carla Capponi nel settembre 1944[229]), nell'autobiografia pubblicata postuma nel 1979, scrisse di aver incontrato Bentivegna pochi giorni dopo i fatti e di averlo duramente rimproverato per non essersi presentato ai tedeschi dopo l'attentato, al che il giovane gappista gli avrebbe «freddamente» risposto di aver obbedito all'ordine di non presentarsi ricevuto dal suo partito[230]. Molti anni dopo Bentivegna negò la veridicità dell'episodio[231].
La scelta di non presentarsi fu comunque motivata da Bentivegna con il rispetto delle direttive del partito in un'intervista del 1946: «Non credo che se mi fossi costituito la rappresaglia non sarebbe avvenuta. Ad ogni modo il partito mi proibì di costituirmi, ho tenuto a freno la mia coscienza ed ero disposto a ripetere l'attentato se ne avessi ricevuto l'ordine»[9].
Al processo Kappler del 1948, Bentivegna affermò che i gappisti non si erano presentati in quanto nessuno aveva chiesto loro di farlo: «Se ci fosse stato [l'invito] nessuno di noi si sarebbe rifiutato di presentarsi, perché ognuno di noi, entrando nei G.A.P., aveva messo la sua vita al servizio dell'Italia!»[232]. Amendola affermò lo stesso: «Ci saremmo presentati ai tedeschi se ciò fosse stato necessario, ma da nessuno ci fu chiesto nulla. D'altronde, la nostra salvezza non ci importava per una esigenza personale: noi avevamo il dovere di vivere per continuare nella lotta, cosa che, in realtà, tutti facemmo e molti di noi caddero in azioni successive»[10].
In un'intervista del 1964, alla domanda «Perché non vi siete costituiti?», Carla Capponi rispose: «Perché nessuno ce lo ha mai chiesto». Alla domanda seguente «E se ve la avessero chiesta [la vita, per salvare i prigionieri], vi sareste costituiti?», la risposta di Carla Capponi fu: «Sì. Io sento molto i problemi di coscienza. Non presentarmi avrebbe significato morire ogni giorno per tutto il resto della vita». A quest'ultima domanda, Bentivegna in un primo momento replicò che probabilmente si sarebbe presentato armato in un disperato tentativo di salvare i detenuti destinati alla rappresaglia, ma in definitiva disse di non saper dare una risposta: «È troppo facile e anche irrazionale rispondere, adesso. In realtà, l'unica risposta possibile è: non lo so»[183].
Lo stesso anno, nella lettera a Leone Cattani, Amendola ribadì l'inesistenza dell'appello tedesco agli attentatori, ma stavolta affermò: «io non mi sono mai trincerato dietro questo dato di fatto, di fronte alla campagna condotta contro di noi da parte fascista con tutti i mezzi e anche in sede giudiziaria. Ho invece più volte dichiarato che, anche se l'appello fosse stato lanciato dal comando germanico, noi [...] non avevamo in alcun caso il diritto di presentarci, di consegnare, cioè, al nemico un comando partigiano ed un reparto d'assalto. A parte ogni motivazione personale, non avevamo il diritto di decapitare il movimento partigiano e di mettere in pericolo la sicurezza del movimento clandestino»[233]. Il dirigente comunista riprese gli stessi argomenti nelle sue memorie pubblicate nel 1973[234].
Nel 1983 Bentivegna riaffermò la difficoltà di dare una risposta, a posteriori, circa il comportamento dei gappisti nell'eventualità di una richiesta tedesca, ipotizzando che probabilmente qualcuno, o tutti, loro avrebbero all'epoca accettato di «morire al posto dei Martiri delle Ardeatine»; ma, continua Bentivegna, «Oggi noi sappiamo che era nostro dovere non presentarci a un bando del nemico [...]; sappiamo anche che avremmo scatenato una battaglia furiosa, a costo di morire tutti, per strappare al nemico le vittime che già aveva designato»[235]. Nel 1997 lo stesso Bentivegna, in due diverse testimonianze, affermò rispettivamente che, nel caso di una richiesta tedesca, lui si sarebbe «presentato, ma armato fino ai denti, a fa' un macello» e che «però, sai, di fronte a una cosa così sconvolgente [...] io non lo so quello che avremmo potuto decidere; io ipotizzo che la risposta non sarebbe stata una risposta di resa ma una risposta militare, dura, disperata, anche contro eventuali disposizioni del comando – un'ipotesi seppure infinitesimale di poterne salvare qualcuno, anche a costo di rimetterci la pelle»[236]. Commentando tali affermazioni, Portelli scrive: «A me non sembra che queste oscillazioni siano indice di insincerità, ma momenti di una ricerca: le diverse risposte che in diversi momenti della sua vita la stessa persona può dare a una domanda che si sente continuamente porre, ma che continua anche a porre a se stesso, e a cui non è possibile rispondere una volta per sempre»[237].
Nelle sue memorie, Carla Capponi scrive: «Quale reparto di un esercito combattente, consegnarci al nemico sarebbe stato un tradimento: avrebbe significato non solo rinunciare alla lotta, ma anche consegnare con noi notizie preziose di cui eravamo custodi. [...] "Chi si consegna al nemico è un traditore" avevano deciso le rappresentanze della Resistenza francese, olandese, italiana. Chi non se la sentiva di stare alle severe, dure regole della lotta clandestina aveva il dovere di rinunciare subito ritirandosi dall'impegno di combattere». Inoltre aggiunge che, se i tedeschi avessero chiesto la presentazione dei gappisti, «avrebbero certamente messo in crisi la nostra coscienza, ma non avrebbero incrinato le leggi che regolavano il comportamento di fronte al nemico»[191].
L'accusa di aver agito essendoci pochi uomini del PCI prigionieri
La ripartizione dei resistenti uccisi alle Fosse Ardeatine tra i diversi partiti antifascisti e le varie organizzazioni clandestine non può essere effettuata con piena certezza, dato che non pochi tra loro erano privi di una netta identità politica e collaboravano con vari gruppi, tra i quali in seguito si è verificata la tendenza a «spartirseli e litigarseli», rivendicandoli come propri martiri[238][N 16]. Secondo l'elenco dell'associazione delle famiglie delle vittime (ANFIM)[239], le formazioni più colpite furono:
- Partito d'Azione (57 vittime)
- Movimento Comunista d'Italia - Bandiera Rossa (44)
- Fronte Militare Clandestino (43)
- Partito Comunista Italiano (32)
I Benzoni ritengono che nella decisione del PCI di ordinare l'attentato avrebbe influito anche la circostanza che, in quel momento, a via Tasso e Regina Coeli il numero dei propri militanti di primo piano sarebbe stato relativamente esiguo, cosicché il rischio di rappresaglia sarebbe stato principalmente a carico di altri[240]. Ciò determinerebbe una «pesante» responsabilità morale del PCI, che avrebbe accolto la notizia della strage «con pressoché totale indifferenza come se si trattasse di un costo tutto sommato sopportabile»[241]. L'ipotesi che i gappisti, nel valutare il rendimento dell'azione di via Rasella, avessero considerato anche il rischio per i propri compagni detenuti, sarebbe dimostrata dalla loro condotta precedente e successiva: nell'autunno 1943, come ricordato da Bentivegna, l'azione contro Buffarini Guidi e Barracu era stata annullata nel timore di rappresaglie contro militanti comunisti prigionieri; in seguito, dopo il tradimento di Blasi e la conseguente cattura di vari gappisti, vi fu una drastica riduzione delle azioni contro i tedeschi[242].
I Benzoni scrivono che, per proteggere i propri uomini imprigionati, il PCI disponeva di una «rete di protezione» garantita da rapporti con funzionari della polizia italiana che, in vista della sconfitta del fascismo, cercavano di mettersi al riparo dall'annunciata condanna a morte per i collaboratori degli occupanti[243]. I due autori giudicano l'esistenza di tale rete «assolutamente indiscutibile» anche sulla base di una serie di fatti menzionati nelle memorie di Bentivegna, tra cui: la sua amicizia personale con Disma Leto e il padre Guido, direttore dell'OVRA (poi non toccato dall'epurazione postbellica), già intervenuto in un'occasione in favore del giovane gappista[244], al quale forniva «indicazioni e notizie» da lui riferite «al comando dei GAP»; la non collaborazione con i tedeschi del maresciallo Quagliotta dell'OVRA, che neutralizzò gli esiti – potenzialmente catastrofici per tutta la Resistenza romana – del tradimento del dirigente comunista Giulio Rivabene, impedendo che le informazioni trasmesse da quest'ultimo all'OVRA giungessero agli occupanti[245][246].
Tali rapporti spiegherebbero, secondo i Benzoni, la vicenda del principale prigioniero comunista al momento dell'attentato: il capo dei GAP Antonello Trombadori. Trasferito da via Tasso a Regina Coeli (senza che i tedeschi conoscessero la sua precisa identità), Trombadori fu sottratto alla rappresaglia grazie al ricovero in infermeria disposto dal direttore sanitario, il medico socialista Alfredo Monaco (e secondo i Benzoni anche con la collaborazione del direttore del carcere Donato Carretta), per poi essere inviato ai lavori forzati sul fronte di Anzio, da cui riuscì facilmente ad evadere[247]. I Benzoni menzionano anche altri episodi successivi alle Fosse Ardeatine: la liberazione dei quattro gappisti arrestati agli inizi di aprile grazie a un funzionario che collaborava con la Resistenza; la salvezza dei gappisti in seguito al tradimento di Blasi[248]; inoltre, attribuiscono a un atteggiamento compiacente della polizia anche la rocambolesca fuga di Calamandrei dalla pensione Jaccarino[249]. La rete di contatti non avrebbe tuttavia protetto anche gli altri partiti, come per i due storici dimostrerebbero le «criptiche» parole dell'azionista Emilio Lussu in merito a un suo incontro con Donato Carretta (poi linciato durante il processo all'ex questore Pietro Caruso nel settembre 1944):
«Se Carretta avesse avuto una maggiore fiducia non tanto nel suo avvenire quanto in quello della sua famiglia avremmo probabilmente salvato in tempo dalle Fosse Ardeatine, non solo i nostri compagni, ma tutti gli altri detenuti politici. Ed egli stesso si sarebbe salvato dalla folla...
Il risultato negativo di quell'incontro aggiunse al massacro delle Fosse Ardeatine altri otto dei nostri compagni detenuti a Regina Coeli, che il questore di Roma all'ultimo momento consegnò ai tedeschi, scegliendoli deliberatamente come dirigenti massimi dell'organizzazione di GL [Giustizia e Libertà][250].»
Dalla lettera inviata il 30 marzo dalla direzione comunista di Roma a quella di Milano sembra invece che l'uccisione dei compagni prigionieri fosse considerata l'inevitabile costo della lotta gappista, la quale sarebbe dovuta proseguire ugualmente anche dopo l'eccidio: «Nelle fucilazioni abbiamo perso molti compagni che si trovavano in carcere: è il duro prezzo che dobbiamo pagare e per il quale ogni buon compagno deve essere oggi preparato»[251].
All'uscita del saggio dei Benzoni, Carla Capponi, Pasquale Balsamo e Rosario Bentivegna definirono l'accusa «miserabile» e replicarono: «In carcere, oltre a Trombadori, nostro comandante, c'era il nostro Commissario Politico, Gioacchino Gesmundo [...], maestro, amico e compagno nei momenti più difficili della lotta; c'erano Valerio Fiorentini, Alberto Marchesi, Mosca, Felicioli, Umberto Scattoni, Romualdo Chiesa, comandante dei Gap dei Cattolici Comunisti, insieme ai quali avevamo combattuto in tante occasioni nelle settimane precedenti, e sono tutti caduti alle Ardeatine. Sono stati più di quaranta i comunisti del Pci assassinati in quella strage»[252].
Il presunto ruolo degli anglo-americani
Nel comunicato del 25 marzo successivo all'eccidio, i tedeschi annunciarono di star conducendo «indagini per chiarire fino a che punto» l'azione gappista fosse «da attribuirsi ad incitamento anglo-americano».
Secondo alcune fonti, in seguito allo sbarco di Anzio i partigiani romani iniziarono a ricevere dagli Alleati direttive sempre più pressanti di intensificare le azioni di lotta, di non concedere tregua ai tedeschi e di preparare l'insurrezione[253]. L'incontro tra Giorgio Amendola e Peter Tompkins, agente dell'OSS a Roma, si risolse tuttavia in un completo fallimento[N 17].
Nel 1964 Amendola scrisse che, in seguito all'insuccesso dello sbarco, data la pericolosità della situazione sul fronte di Anzio, gli agenti dei servizi segreti anglo-americani avrebbero chiesto ai partigiani romani di «intensificare le azioni offensive, per impedire che i tedeschi utilizzassero tranquillamente Roma come piazza di raccolta e di smistamento delle riserve e dei rifornimenti per i fronti di Cassino e di Anzio»[55]. In un'intervista del 1997, anche Paolo Emilio Taviani, allora partigiano in Liguria, sostenne la tesi secondo cui l'escalation di azioni gappiste, iniziata alla metà di febbraio e culminata con l'attacco di via Rasella, sarebbe stata una risposta alle sollecitazioni alleate[254][255].
Peter Tompkins nel 1962 affermò invece che gli agenti alleati in città erano venuti a conoscenza dell'attentato soltanto dopo la sua esecuzione e – impegnati a progettare la liberazione di Maurizio Giglio (loro importante informatore, poi ucciso alle Fosse Ardeatine) – accolsero la notizia con sfavore: «La prima cosa che pensammo fu che non c'era nessuna utilità nell'uccisione di trenta poliziotti militari tedeschi. Perché piuttosto non avevano rischiato la pelle in un assalto a via Tasso? perché non avevano scelto come bersaglio Kappler e la sua banda di macellai? Chissà quale sarebbe stata adesso la reazione dei tedeschi: di certo non era un buon auspicio per il movimento clandestino della città. Quello che ci rattristò di più fu l'ottima esecuzione e la precisione dell'attacco, la cui organizzazione appariva vicina alla perfezione!»[256].
Commentando le parole di Amendola, i Benzoni lo accusano di operare una «cosciente mistificazione», in quanto in realtà a marzo i combattimenti sul fronte di Anzio erano quasi fermi, e in quanto inoltre i comandi alleati «non si sarebbero mai sognati di sollecitare azioni» del tipo di via Rasella. Secondo i Benzoni, gli Alleati «avevano certamente invitato all'insurrezione al momento dello sbarco: ma si trattava allora di ostacolare e sabotare con tutti i mezzi il movimento delle truppe tedesche verso il fronte (e, se le cose fossero andate bene, di ostacolarne la ritirata). Prima e dopo le loro istruzioni si mantenevano nei limiti del sabotaggio e dell'informazione. Mai e poi mai, invece, avrebbero contemplato un'azione come quella del 23 marzo che avrebbe potuto avere la duplice negativa conseguenza: o di accentuare la presa tedesca sulla città che, per vari motivi, non desideravano, o di determinare quella insurrezione e quello scontro tra le varie fazioni della Resistenza che essi sommamente temevano»[257].
Processi
- Il processo contro von Mackensen e Mälzer fu celebrato nei giorni 18-30 novembre 1946 a Roma, dinanzi a un tribunale militare britannico. Entrambi i generali avevano partecipato al processo decisionale che aveva portato all'ordine di fucilare dieci prigionieri per ogni militare caduto in via Rasella. Durante il processo fu riconosciuto che per rispondere all'attentato di via Rasella, ritenuto un crimine secondo il diritto internazionale, «le Autorità tedesche erano autorizzate a compiere una rappresaglia, qualora fossero giunte alla conclusione che non si sarebbero potuti scoprire i responsabili e che ci sarebbe stato pericolo per la sicurezza delle loro truppe». Tuttavia, mentre per la difesa erano presenti entrambe le condizioni, per l'accusa non era stata condotta un'inchiesta adeguata, dato che, come ammesso dagli stessi imputati, l'esecuzione della rappresaglia aveva avuto inizio prima che le indagini fossero completate. Per essere considerata legittima, la rappresaglia avrebbe dovuto possedere tre requisiti: doveva essere «proporzionata», «ragionevole» ed eseguita «nel rispetto dei principi fondamentali di guerra come il rispetto della vita dei non combattenti e degli interessi dei neutrali». L'accusa contestò la sussistenza dei primi due requisiti, valutando la rappresaglia sproporzionata e irragionevole, mentre non considerò il terzo in quanto non era stato coinvolto nessun interesse neutrale e «il crimine per cui [era stata adottata] la rappresaglia era stato commesso da non combattenti». Riscontrando la mancanza dei requisiti di legittimità della rappresaglia, la corte emise nei confronti di entrambi gli imputati una sentenza di condanna a morte tramite fucilazione (pena successivamente commutata in ergastolo)[258].
- Il 17 febbraio 1947 iniziò a Venezia il processo al feldmaresciallo Albert Kesselring. Per il massacro delle Fosse Ardeatine fu avanzato il primo dei due capi d'imputazione: «coinvolgimento nell'uccisione, per rappresaglia, di circa 335 cittadini italiani», mentre il secondo era: «aver incitato e ordinato [...] alle forze [...] sotto il suo comando di uccidere civili italiani per rappresaglia, cosa per cui numerosi civili italiani sono stati uccisi». L'accusa non ritenne dimostrato al di là di ogni dubbio, in base al diritto internazionale all'epoca vigente, che fosse assolutamente vietato che «una persona innocente, presa espressamente allo scopo di rappresaglia, [potesse] essere condannata a morte»; tuttavia, secondo l'accusa, la rappresaglia fu sproporzionata e irragionevole. Anche Kesselring fu condannato a morte (pena successivamente commutata in ergastolo).[259].
- All'interno della sentenza di condanna del 20 luglio 1948, emessa contro Herbert Kappler e altri coimputati per la strage delle Fosse Ardeatine, il Tribunale Territoriale Militare di Roma negava la qualifica di legittima azione di guerra dell'attentato di Via Rasella, in quanto non commesso da "legittimi belligeranti"[18]. I partigiani autori dell'attentato non avrebbero infatti rispettato tutti i requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907 per il riconoscimento della qualifica di legittimi belligeranti anche ai civili organizzati in corpi di volontari, ossia essere comandati da una persona responsabile per i propri subordinati, indossare un segno di riconoscimento fisso riconoscibile a distanza, portare le armi apertamente e condurre le operazioni secondo le leggi ed i costumi di guerra[260].
- La mancanza di tali requisiti veniva confermata il 25 ottobre 1952 anche dal Tribunale Supremo Militare, all'interno della sentenza di rigetto del ricorso presentato da Kappler contro la condanna[261].
- Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con sentenza n.26 del 19 dicembre 1953, ribadendo la sentenza del 1952 del Tribunale Supremo Militare di Roma, dichiararono inammissibile il ricorso di Kappler avverso alla sentenza, perché lo stesso Kappler fece arrivare comunicazione di rinuncia al ricorso[262].
- Nel 1949, alcuni familiari di vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine intentarono una causa civile per danni contro Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Carla Capponi, e contro Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer[263]. Il Tribunale, con sentenza in data 26 maggio-9 giugno 1950, respinse la richiesta di risarcimento e riconobbe che l'attentato «fu un legittimo atto di guerra», per cui «né gli esecutori né gli organizzatori possono rispondere civilmente dell'eccidio disposto a titolo di rappresaglia dal comando germanico»[264]. «L'atto di guerra, da chiunque attuato nell'interesse della propria Nazione, non è di per sé, e per il singolo, da considerarsi illecito, salvo che tale non sia espressamente qualificato da una norma di legge interna». La mancanza di comandanti e di uniformi militari manifesti è resa inevitabile dalle condizioni di clandestinità giustificate dal tipo di combattimento; dunque via Rasella è un atto di guerra a danno di un nemico che occupa in stato guerra il territorio, ed è da escludersi «che la morte o il ferimento dei cittadini che si trovavano casualmente in quel luogo siano stati voluti, e che sia stato voluto il successivo eccidio delle Cave Ardeatine»[265].
- Con sentenza in data 5 maggio 1954, la Corte d'Appello civile di Roma confermò la sentenza di primo grado. L'attentato «ebbe carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l'occupazione della città ed essendosi risolto in prevalente se non esclusivo danno delle forze armate germaniche. I competenti organi dello Stato non hanno ravvisato alcun carattere illecito nell'attentato di via Rasella, ma anzi hanno ritenuto gli autori degni del pubblico riconoscimento, che trae seco la concessione di decorazioni al valore; lo Stato ha completamente identificato le formazioni volontarie come propri organi, ha accettato gli atti di guerra da esse compiuti, ha assunto a suo carico e nei limiti consentiti dalle leggi le loro conseguenze. Non vi sono quindi rei da una parte, ma combattenti; non semplici vittime di una azione dannosa dall'altra, ma martiri caduti per la Patria»[266].
- Con sentenza emanata in data 11 maggio 1957 e pubblicata il successivo 2 agosto, la Corte di Cassazione ribadì il carattere di legittima azione di guerra dell'attentato, disattendendo la tesi dei ricorrenti secondo i quali non avrebbe potuto trattarsi di atto di guerra in quanto all'epoca Roma era città aperta. Secondo il resoconto di Zara Algardi, la Corte ritenne provato «che la formula della "città aperta" era stata fittizia: i nazisti transitavano infatti per le vie della città con le loro colonne motorizzate e gli angloamericani la bombardarono più volte dal cielo. La dichiarazione che Roma era città aperta (...) non fu mai accettata dagli angloamericani. Né Roma fu mai rispettata come città aperta da parte della Germania, che disconosceva il legittimo governo italiano»[267]. La Corte affermò che ogni «attacco contro i tedeschi rispondeva agli incitamenti impartiti dal governo legittimo... e costituiva quindi un atto di guerra riferibile allo stesso governo»[268].
- Il Tribunale Supremo Militare di Roma con sentenza in data 25 ottobre 1960 respinse il ricorso presentato da Kappler affinché le 15 uccisioni in più delle Fosse Ardeatine fossero considerate reato almeno in parte "politico", al fine di poter rientrare nei termini dell'amnistia[269].
- Nel 1997, il giudice romano Maurizio Pacioni si appellò di nuovo alla definizione di atto illegittimo di guerra e aprì un altro procedimento contro Balsamo, Bentivegna e Capponi, per ritenerli responsabili del reato di strage per la morte di Piero Zuccheretti e Antonio Chiaretti. Con l'ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma disponeva l'archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell'attacco. Il giudice escludeva la qualificazione dell'atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l'estinzione del reato a seguito dell'amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi "per motivi di guerra".[270]
- Decidendo con sentenza n.1560/99[271] sul ricorso presentato da Bentivegna, Balsamo e Capponi, la prima sezione penale della Corte di Cassazione annullava la precedente ordinanza, affermando per la prima volta in sede penale la natura di legittimo atto di guerra dell'attacco di Via Rasella. La legittimità dell'azione, per la Suprema Corte, deve essere «valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l'obiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di "azione di guerra"». Tra i vari elementi a supporto della legittimità dell'azione, la Corte ha citato la sentenza emessa il 25 ottobre 1952 dal Tribunale Supremo Militare nell'ambito del processo Kappler, in una versione viziata da un refuso: dalla frase «commesso da persone che non hanno la qualità di legittimi belligeranti» era omessa la parola «non», cosicché il suo significato risultava stravolto. A causa di ciò, la Corte ha erroneamente assunto che la sentenza del 1952 avesse «rovesciato» la qualificazione dell'attentato come atto illegittimo operata dalla prima sentenza Kappler del 1948. Secondo il filosofo del diritto Vincenzo Zeno-Zencovich la vicenda, emblematica della fragilità delle ricostruzioni giudiziarie in materia storica, dimostra che «nessuna sentenza di assoluzione potrà sopire il dibattito sulla opportunità o sulla temerarietà dell'attentato del 23 marzo 1944»[272].
- Il 7 agosto 2007 la Cassazione ha confermato la condanna al risarcimento inflitta dalla Corte d'appello di Milano al quotidiano Il Giornale per diffamazione ai danni di Rosario Bentivegna[273][274]. La Corte, partendo dalla qualificazione dell'attacco come legittimo atto di guerra rivolto a colpire esclusivamente i militari occupanti, ha ritenuto che alcune affermazioni contenute in articoli pubblicati dal quotidiano milanese nel 1996, per i Supremi Giudici tendenti a parificare le responsabilità degli esecutori dell'attacco di Via Rasella e dei comandi nazisti nella causazione della strage delle Fosse Ardeatine, erano gravemente lesive dell'onorabilità personale e politica del Bentivegna. Le affermazioni del Giornale furono:
- che il Battaglione "Bozen" fosse costituito interamente da cittadini italiani, mentre per la Cassazione facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica.
- che i componenti del "Bozen" fossero «vecchi militari disarmati», mentre per la Cassazione essi erano «soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e "Maschinenpistolen"».
- che le vittime civili fossero sette, mentre per la Cassazione nessuno mette più in discussione che furono due.
- che dopo l'attacco erano stati affissi manifesti in cui si intimava ai responsabili dell'attacco di consegnarsi per evitare una rappresaglia: per la Corte l'asserzione trova puntuale smentita nel fatto che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine era iniziata circa 21 ore dopo l'attacco, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si tenesse nascosta la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta.
- Il 22 luglio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Elena Bentivegna (figlia di Carla Capponi e Rosario Bentivegna) contro il quotidiano Il Tempo che aveva pubblicato un articolo dove gli autori dell'attacco di via Rasella venivano definiti "massacratori di civili". La sentenza ha stabilito che l'epiteto utilizzato è lesivo della dignità dei partigiani e per questo diffamatorio, in quanto quello di via Rasella fu "legittimo atto di guerra contro il nemico occupante".[275]
L'attentato di via Rasella nell'arte e nella cultura
Cinema e televisione
- I fatti del marzo 1944 condizionarono la realizzazione del famoso film Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, la cui produzione iniziò pochi mesi dopo la liberazione di Roma. A causa della loro forte carica divisiva, l'attentato di via Rasella e l'eccidio delle Fosse Ardeatine non furono ricostruiti e nemmeno menzionati nella pellicola, nonostante fossero gli episodi più significativi dell'occupazione tedesca della città[276].
- Nei film di Roberto Rossellini Era notte a Roma (1960) e Anno uno (1974) si fa una «semplice e acritica ricostruzione verbale dell'attentato», la quale secondo Stefano Roncoroni riflette il giudizio negativo del regista sull'episodio[277].
- L'attentato e l'eccidio delle Fosse Ardeatine sono ricostruiti nel film del 1962 Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella), diretto da Filippo Walter Ratti.
- Rappresaglia, film del 1973 sull'eccidio diretto da George Pan Cosmatos e prodotto da Carlo Ponti, con sceneggiatura di Robert Katz, presenta una ricostruzione dell'attentato di via Rasella contenente vari errori storici, alcuni dei quali tendenti ad enfatizzarne l'importanza militare: il Polizeiregiment "Bozen" è raffigurato come un'unità di Waffen-SS, indossando i soldati delle uniformi grigie con le tipiche mostrine recanti le Sigrunen, anziché le appropriate divise color verde vivace dell'Ordnungspolizei; si mostra inoltre un riuscito assalto con bombe a mano contro una Kübelwagen munita di mitragliatrice, la cui presenza a via Rasella è esclusa da studi più recenti[278]; dopo l'attacco il comandante di battaglione del "Bozen" comunica a Kappler che non ci sono state vittime civili. Tuttavia, in controtendenza rispetto al libro Morte a Roma di Katz su cui è basata la sceneggiatura, diversi personaggi si riferiscono alla rappresaglia come sostanzialmente legittima, mentre i rappresentanti politici dei partigiani, riunitisi dopo l'attentato, pur avendo intuito le intenzioni dei tedeschi, decidono ugualmente che i responsabili non si consegneranno[279]. Tali aspetti non impedirono comunque a l'Unità di reclamizzare entusiasticamente l'opera come «un film per tutti che devono vedere tutti», pubblicando i commenti positivi dei protagonisti di via Rasella[280].
- Il regista Luigi Magni ha dichiarato che l'idea per il suo film del 1977 In nome del Papa Re, incentrato su un altro attentato compiuto a Roma, quello del 1867 alla caserma Serristori (che uccise una ventina di zuavi pontifici e almeno due civili), derivò dal dibattito degli anni settanta sul confronto tra via Rasella e il terrorismo degli anni di piombo. Il film di Magni intendeva distinguere tra «bombe patriottiche» e «bombe terroristiche», collocando tra le prime quelle della caserma Serristori e di via Rasella[281].
- In La buona battaglia - Don Pietro Pappagallo, miniserie televisiva Rai del 2006, l'attentato è rappresentato in una breve scena: una partigiana allontana un gruppo di bambini intenti a giocare con un pallone, dopodiché un partigiano vestito da netturbino accende la miccia del carretto esplosivo con una pipa e corre via, mentre in sottofondo si odono i passi e il canto della (non mostrata) colonna tedesca in arrivo, poi interrotti dall'esplosione. Pierangelo Maurizio ha criticato come insufficiente la ricostruzione, biasimando soprattutto il mancato riferimento a Piero Zuccheretti[282].
Letteratura, musica, teatro e arti figurative
- Nel 1944 Toti Scialoja raffigurò la salita di via Rasella in alcuni disegni, in cui si notano un carrettino oppure un uomo che si allontana, chiari riferimenti all'attentato[283].
- Gabriella Ferri, cantautrice di musica popolare, ha dedicato ai fatti del 23 e 24 marzo 1944 la canzone Via Rasella, in dialetto romano, con musica composta da Ennio Morricone[284].
- Nel 1974 lo scrittore Carlo Bernari portò in scena il dramma Roma 335, il cui libretto fu pubblicato nel 1987 con il titolo Via Rasella non passa per via Fani[285], con evidente riferimento al dibattito, svoltosi tra i tardi anni settanta e i primi anni ottanta, sull'assimilabilità dell'azione dei GAP al terrorismo delle Brigate Rosse. Enrico Bernard, studioso del teatro e figlio di Carlo Bernari, scrive che Roma 335 anticipa il tema dell'opportunità dell'attentato partigiano con l'inserimento tra i GAP, durante «le fasi dell'organizzazione dell'attentato e delle riunioni in cui venne decisa e pianificata l'azione contro i tedeschi a qualsiasi costo», del «personaggio del "compagno indeciso" che mette in guardia dai pericoli dell'attentato poco utile militarmente e potenzialmente molto pericoloso per la popolazione». Secondo Bernard, muovendo dal concetto per cui «l'attività terroristica "contro il popolo" o "senza il popolo" è deleteria per qualsiasi movimento rivoluzionario o di "resistenza" e non può non creare dubbi e remore», e spostando idealmente avanti nel tempo la vicenda di via Rasella, Carlo Bernari intuisce «i dilemmi che verso la metà degli Anni Settanta spaccano il movimento delle Brigate Rosse in un'ala militare sempre più oltranzista ed emarginata dalla stessa ultrasinistra creando i primi fenomeni di "pentitismo"»[286].
- Estesi riferimenti all'attentato e alla rappresaglia compaiono nel romanzo giallo di Ben Pastor Kaputt Mundi, pubblicato nel 2002.
- La morte di Piero Zuccheretti ha ispirato un'opera del pittore statunitense Cy Twombly[287].
Note
Note esplicative e di approfondimento
- ^ La via, ubicata nel pieno centro storico di Roma, congiunge via delle Quattro Fontane (adiacente a Palazzo Barberini) con via del Traforo. Prende il nome «dalla proprietà che ivi esisteva della famiglia Roselli». Cfr. Dipartimento Cultura - Servizio Commissione Consultiva di Toponomastica, Via Rasella, su comune.roma.it, Comune di Roma. URL consultato il 14 luglio 2013.
- ^ Il centro dirigente di Roma, ritenendo il segretario Palmiro Togliatti non in grado di guidare il partito da Mosca, rivendicava il ruolo di centro dirigente nazionale ed era schierato con gli altri partiti di sinistra nell'escludere ogni collaborazione con la monarchia e il governo Badoglio. Il centro di Milano respingeva invece ogni ipotesi di discussione dell'autorità di Togliatti (il quale avrebbe iniziato il suo lungo viaggio verso l'Italia nel febbraio 1944) ed era propenso a un avvicinamento politico al governo. Avrebbe infine prevalso quest'ultima linea, allorché nell'aprile 1944 Togliatti attuò la svolta di Salerno.
- ^ Commentando tale documento, Klinkhammer 2007, p. 212, afferma che «i comunisti erano costernati per la passività e l'attendismo della popolazione romana». Un'ulteriore conferma dell'estraneità dei romani alla lotta e dello sconforto che ciò creava tra i comunisti si rinviene nel diario del gappista Franco Calamandrei, in cui si legge di un «senso di sovrumana fatica all'idea di poter mettere in moto il popolo. Una secolare inerzia che stenta a riscuotersi. Come una gigantesca ruota arrugginita». Cfr. Calamandrei 1984, p. 131 (febbraio).
- ^ Insieme ai nove fucilati Kappler fece figurare anche un decimo, morto invece a via Tasso per le torture, cosicché fu annunciata la fucilazione di cinque «comunisti» e cinque «badogliani». Cfr. Cronologia della Resistenza romana, gennaio 1944; Klinkhammer 1997, p. 10.
- ^ Il comunicato del Comando tedesco di Roma, pubblicato su Il Messaggero del 9 marzo 1944 sotto il titolo Dieci condanne a morte per atti di violenza, recita: «Per atti di violenza sono state condannate a morte le seguenti persone: – [segue l'elenco delle vittime] – L'esecuzione della condanna è stata eseguita mediante fucilazione». Copia del comunicato riprodotta in Bentivegna 2004, tavole fotografiche fuori testo.
- ^ Amendola scrive che il patto di unità d'azione tra i due partiti era allora «del tutto inoperante». Tra le varie condotte che i socialisti rimproveravano ai comunisti, Amendola elenca: «quando incontriamo tra i socialisti resistenze all'azione non sappiamo transigere e temporeggiare e procediamo per conto nostro». Secondo il dirigente comunista le rimostranze dei socialisti «non sono valide e non rispondono a realtà». Cfr. Lettera di Amendola al centro dirigente del PCI di Milano, Roma, 2 marzo 1944, in Longo 1973, pp. 349-50.
- ^ In Amendola 1964, p. 564, e Amendola 1973, p. 290, si legge che il Teatro Adriano non avrebbe dovuto essere il punto di arrivo del corteo, bensì di partenza verso la sede della federazione fascista in via Veneto, cosicché (secondo il più dettagliato testo del 1973): «Da piazza Cavour al Corso il terreno era riservato alla squadra socialista, dal Corso a piazza Barberini ai GAP». Al contrario, Calamandrei 1984, pp. 155-6 (22 marzo), e Capponi 2009, pp. 226-7, in coerenza con gli annunci della stampa affermano che le celebrazioni si sarebbero dovute svolgere all'Adriano, dove si programmò che sarebbero stati proprio i GAP a colpire, con un ordigno esplosivo uguale a quello poi usato a via Rasella, che – trasportato in una carrozzina per bambini da Carla Capponi – sarebbe stato fatto esplodere tra i fascisti uscenti dalla manifestazione.
- ^ Sebbene Amendola 1973, p. 290, affermi che l'attentato contro il "Bozen" era solo un'«azione di riserva» decisa nell'impossibilità di colpire il corteo fascista il 23 marzo, dal diario di Calamandrei emerge che in realtà l'attacco al "Bozen" fu pianificato in via completamente autonoma e che fu eseguito nell'anniversario dei Fasci del tutto casualmente, dopo essere stato rinviato più volte. Cfr. Calamandrei 1984, pp. 152-5. Lo stesso risulta dall'intervista a Mario Fiorentini citata in Katz 1968, p. 40, secondo la quale tre gappisti si erano appostati a via Rasella per colpire il "Bozen" già in «un pomeriggio della seconda settimana di marzo», ma avevano dovuto rinunciare all'attacco a causa della mancata apparizione della colonna in quel giorno e nei successivi.
- ^ Nella relazione sulle attività del Fronte militare clandestino redatta dal generale Mario Girotti, datata 21 febbraio 1945, si evidenzia la contrarietà del Fronte agli attentati nel centro urbano e si biasima quello di via Rasella: «il centro militare decise di adottare e fare adottare nell'interno della città un contegno tendente a risparmiare Roma, i suoi abitanti ed i suoi monumenti da rappresaglie tedesche in grande stile. [...] L'inconsulta reazione provocata da elementi irresponsabili che, per poche perdite inflitte ai tedeschi in via Rasella, causò l'eccidio delle Fosse ardeatine, sta a comprovare la ragionevolezza della decisione presa dal centro militare». Cfr. Consuntivo attività Reparto Fronte Clandestino, in Giorgio Rochat, Una relazione ufficiale sui militari nella resistenza romana (PDF), in Il movimento di liberazione in Italia, 1969, n. 96, pp. 88-95: 89.
- ^ Vi sono incongruenze tra le dichiarazioni rese negli anni dai gappisti in merito ai partecipanti all'azione. Calamandrei 1984, p. 157 (23 marzo), scrive: «Mi avvio per via Rasella, vedo che Fernando [Vitagliano] e Pasquale [Balsamo] e Silvio [Serra] e Antonio hanno preso il loro posto di copertura, che Raul [Falcioni], Francesco [Curreli], Aldo sono pronti in cima alle scalette di via del Boccaccio pronti a lanciare [...] le loro Brixia». Antonio e Aldo non sono identificabili sulla base delle memorie degli altri protagonisti, che non menzionano, tra i partecipanti all'attentato, gappisti con questi nomi o pseudonimi. Secondo lo scrittore Giorgio Rossi, Antonio sarebbe il partigiano Antonio Rezza, caduto nell'aprile 1945 nella battaglia di Alfonsine insieme a Silvio Serra. Cfr. Giorgio Rossi, Alla ricerca di Antonio, Torino, Einaudi, 1993. Ulteriori incongruenze si riscontrano in merito alla partecipazione di Guglielmo Blasi e Alfio Marchini.
- ^ Dollmann 1949, pp. 253-4, e l'allora console tedesco a Roma Eitel Friedrich Moellhausen (cfr. Katz 1968, p. 184) scrivono di essersi adoperati affinché Kesselring si opponesse alla deportazione di massa.
- ^ Emmanuele Rocco (1922-1983), militante comunista, giornalista Rai per anni conduttore del TG2.
- ^ Bentivegna 2004, p. 455, nota 2 al capitolo XV, afferma di avere poi saputo da Emmanuele Rocco, prigioniero a Regina Coeli al momento dell'attentato del 26 dicembre, che «l'esplosione fu salutata con gioia dai partigiani prigionieri. Essi erano consapevoli che, in seguito a essa, avrebbero potuto cadere sotto la rappresaglia nemica, ma accettarono con serenità ogni evenienza, che del resto avevano già preso in considerazione quando avevano deciso di partecipare alla guerra partigiana».
- ^ Pseudonimo di Jolanda Carletti (1902-1983), moglie del generale Roberto Olmi, all'epoca comandante della 209ª Divisione ausiliaria dell'Esercito Cobelligerante Italiano.
- ^ Talora si afferma che Salvo D'Acquisto «si presentò» o «si consegnò» spontaneamente ai tedeschi; Portelli rileva che in realtà D'Acquisto era già prigioniero dei tedeschi, e stava per essere fucilato assieme ad altri ostaggi, quando decise di autoaccusarsi per scagionare questi ultimi. Cfr. Portelli 2012, p. 321.
- ^ Tale tendenza è documentata nel diario del liberale Umberto Zanotti Bianco, il quale si adoperò per raccogliere fondi per l'assistenza delle famiglie. Circa un suo colloquio avvenuto il 15 maggio con il generale Roberto Bencivenga, rappresentante del governo Badoglio a Roma, Zanotti Bianco riporta: «Gli chiedo in che modo stanno distribuendo i soccorsi alle famiglie dei fucilati. Ho sentito che lo fanno attraverso i partiti, ciò che porta ad una attribuzione dei morti ai singoli partiti talora contro la verità». Cfr. Zanotti Bianco 2011, p. 227. Più avanti, il 30 maggio (p. 237), Zanotti Bianco annota che, durante una riunione del comitato assistenziale, i rappresentanti dei partiti mostrarono un atteggiamento di appropriazione verso i caduti, e commenta: «questo spirito di fazione è ributtante».
- ^ Amendola 1973, p. 269, menziona un incontro con un ufficiale americano: ricevutone un brusco ordine di passare all'azione, il dirigente del PCI replicò «freddamente che il CLN avrebbe preso le sue decisioni in piena autonomia, sulla base di una propria valutazione della situazione». L'ufficiale americano è identificato in Tompkins da Forcella 1999, p. 182.
Note bibliografiche
- ^ Bentivegna 2004, p. 199.
- ^ a b La bomba impiegata a via Rasella è citata come esempio ante litteram di ordigno esplosivo improvvisato, in inglese Improvised Explosive Device (IED), in Lorenzo Striuli, IED: la "nuova" minaccia?, in Rivista italiana difesa, n. 10, ottobre 2006, pp. 54-66: 54.
- ^ Benzoni 1999, pp. 9 e 113.
- ^ La storica Anna Rossi-Doria lo definisce «il caso italiano di memoria divisa più rilevante sia per la durata nel tempo che per la molteplicità dei significati». Cfr. Anna Rossi-Doria, Una storia di memorie divise e di impossibili lutti, in Passato e presente, 2000, 49, pp. 133-140: 136.
- ^ Cipriani 2009, p. 485.
- ^ Resta e Zeno-Zencovich 2013, pp. 861 e ss.
- ^ Il «riconoscimento dei Partigiani come legittimi belligeranti non poteva e non può essere posto in alcun dubbio nell’ambito dell’ordinamento italiano [...]; e ciò anche in quanto, come ricorda la [...] sentenza delle Sezioni Unite 3053/1957, sin dal momento della dichiarazione di guerra contro la Germania (13 ottobre 1943), il legittimo governo italiano aveva incitato tutti gli italiani a ribellarsi ed a contrastare con ogni mezzo l’occupazione tedesca»: Tucci 2012, p. 328.
- ^ «Il Tribunale civile di Roma, con sentenza del 9 giugno 1950 [...] ricono[bbe] la piena legittimità dell’attentato di via Rasella, riscontrando il carattere statuale dell’attività partigiana nel diritto interno vigente all’epoca dei fatti, nonché in quello successivo»: Tropea 2016, p. 187.
- ^ a b Intervista a Rosario Bentivegna a cura di Mila Contini, Intervista all'attentatore di via Rasella, in Oggi, II, n. 52, 24 dicembre 1946, p. 15.
- ^ a b La deposizione dell'on. Amendola, in La Nuova Stampa, 19 giugno 1948, p. 1.
- ^ a b Rapporto della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009 (PDF), luglio 2012, pp. 29-30 e 110-2.
- ^ Candeloro 2002, p. 205 n.
- ^ Comunicato dell'Agenzia Stefani citato in Avagliano 2014, p. 148.
- ^ Candeloro 2002, p. 263.
- ^ Avagliano 2014, p. 152.
- ^ a b Staron 2007, p. 36.
- ^ Editto di Albert Kesselring, riprodotto in Capponi 2009, tavole fotografiche fuori testo. Il testo, con lievi inesattezze, è riportato anche in Fracassi 2013, p. 110, il quale osserva che tale editto, fissando «le nuove regole per la vita a Roma», tradisce «esplicitamente l'accordo sulla "Città aperta" raggiunto appena un giorno prima con gli ex alleati italiani».
- ^ a b c d e Sentenza del Tribunale territoriale militare di Roma n. 631 del 20 luglio 1948, su difesa.it.
- ^ Avagliano 2014, p. 23.
- ^ Fracassi 2013, pp. 355-6.
- ^ Battaglia 1964, p. 198, scrive che alle forze di sinistra era «devoluta in pratica dal CLN l'intera attività militare».
- ^ De Felice 1997, p. 150.
- ^ a b Ranzato 2000, p. 418.
- ^ Silvio Antonini, La storia di Bandiera Rossa nella Resistenza romana (PDF), in Patria Indipendente, 6 dicembre 2009, pp. 29-31.
- ^ a b Le direzioni di Roma del PCI, PSUP e Pd'A alle rispettive direzioni del nord, Roma, 11 dicembre 1943, in Longo 1973, p. 242.
- ^ Lettera di "Giulio" (Agostino Novella) al centro dirigente del PCI di Milano, Roma, ottobre 1943, in Longo 1973, p. 87.
- ^ Sintesi dell'intervento di Amendola alla riunione del CLN del 19 gennaio 1944, in Longo 1973, p. 328:
«Ora c'è tutta una manovra reazionaria per paralizzare l'azione del comitato e minarne la compattezza. Le forze reazionarie non vogliono lo sviluppo della lotta popolare per l'indipendenza e la libertà. [...] I generali [...] rispuntano fuori non già per combattere contro i tedeschi, ma per prepararsi a mantenere l'ordine. E questi reazionari in combutta cercano, servendo gli interessi del nemico [...], di intrufolarsi nel movimento del CLN per disgregarlo, minarne la compattezza, favorire manovre scissionistiche, e fare prevalere una linea di attesismo capitolardo.»
- ^ Lettera di "Vineis" (Pietro Secchia) al centro del PCI di Roma, Milano, 19 novembre 1943, in Longo 1973, p. 126.
- ^ Lettera di "Vineis" (Pietro Secchia) al centro del PCI di Roma, Milano, 20 novembre 1943, in Longo 1973, pp. 136-7.
- ^ Lettera di Giorgio Amendola al centro del PCI di Milano, Roma, 13 dicembre 1943, in Longo 1973, p. 237.
- ^ Ranzato 2000, pp. 416-7.
- ^ Gentile 2015, p. 82, nota 140 relativa a p. 71.
- ^ Staron 2007, p. 40.
- ^ Amendola 1973, p. 243. In seguito (p. 272), Amendola scrive che anche a gennaio, nell'imminenza dello sbarco di Anzio, «venne assunto il consueto atteggiamento prudenziale da parte dei rappresentanti della DC, Spataro e Chiri», diversamente in quest'occasione dai liberali.
- ^ Lettera di Giorgio Amendola al centro del PCI di Milano, Roma, 20 gennaio 1944, in Longo 1973, p. 320.
- ^ Lettera di Giorgio Amendola al centro del PCI di Milano, Roma, 2 febbraio 1944, in Longo 1973, p. 335.
- ^ Staron 2007, p. 37.
- ^ Comunicato alleato, 22 gennaio 1944, citato in Fracassi 2013, p. 298.
- ^ Lettera di Giorgio Amendola al centro del PCI di Milano, Roma, 2 febbraio 1944, in Longo 1973, pp. 336-7 (corsivo nel testo).
- ^ a b Ranzato 2000, p. 419.
- ^ Scheda sull'Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia.
- ^ Trabucco 1945, p. 150.
- ^ Scheda sull'Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia.
- ^ Portelli 2012, p. 184.
- ^ Scheda sull'Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia.
- ^ a b Intervista a Rosario Bentivegna in De Simone 1994, p. 238:
«Rappresaglie vere e proprie fino a via Rasella non ne fecero, tranne una volta che a piazza dei Mirti un compagno dei Gap di Centocelle aveva ammazzato un tedesco e Kappler fece fucilare dieci compagni fra cui Giorgio Labò, dicendo nel comunicato che era una rappresaglia per il soldato ucciso a piazza dei Mirti.»
- ^ Benzoni 1999, p. 78.
- ^ Amendola 1973, p. 289-90.
- ^ Capponi 2009, pp. 209-10.
- ^ Amendola 1964, p. 566. In questo scritto l'attacco di via Tomacelli è erroneamente datato al 12 febbraio.
- ^ a b Amendola 1973, p. 290.
- ^ Katz 1968, p. 42.
- ^ Klinkhammer 1997, p. 12.
- ^ Katz 2009, p. 241.
- ^ a b Amendola 1964, p. 565.
- ^ Amendola 1973, pp. 290-1.
- ^ Testimonianza di Giorgio Amendola in Gianni Bisiach, Pertini racconta. Gli anni 1915-1945, Milano, Mondadori, 1983, pp. 130-1. Il testo è la trascrizione di un filmato tratto dalla rubrica televisiva di Gianni Bisiach Testimoni oculari, puntata 4 di 6 «La battaglia di Roma», trasmessa per la prima volta nel 1978 sulla Rete 2. Le interviste ivi contenute sono poi state inserite nel documentario «La battaglia di Roma» della serie Grandi battaglie, sempre a cura di Gianni Bisiach, andato in onda nel 1994 su Rai Uno.
- ^ Katz 1968, pp. 23-6 e 38-40.
- ^ a b Amendola 1964, p. 563.
- ^ Benzoni 1999, p. 23.
- ^ Katz 2009, p. 245.
- ^ Carlo Salinari, L'attacco ai tedeschi nel cuore della città (PDF), in l'Unità, 23 marzo 1974. URL consultato il 18 novembre 2018 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
- ^ Katz 1968, pp. 47-8.
- ^ Lepre 1996, pp. 22-26. «I romani non si erano mai sentiti tanto sicuri come si sentirono il 22 marzo» (p. 26).
- ^ Zanotti Bianco 2011, p. 175 (23 marzo): «Al corso d'Italia non c'erano più i carri armati; si ha veramente l'impressione che i tedeschi si stiano ritirando».
- ^ Calamandrei 1984, pp. 152-5.
- ^ Bentivegna e De Simone 1996, pp. 20-1.
- ^ Avagliano 2014, p. 275.
- ^ Calamandrei 1984, p. 156 (23 marzo). Circa la reazione di Salinari alla notizia dell'avvistamento del "Bozen", Calamandrei scrive: «Spartaco, come gliel'ho annunziato, quasi mi ha abbracciato».
- ^ Katz 1968, pp. 43-6.
- ^ Katz 1968, p. 50.
- ^ Intervista a Lucia Ottobrini in De Simone 1994, p. 255.
- ^ Per una galleria di immagini, si veda: Quegli squarci nei muri di via Rasella, ansa.it, 29 aprile 2015.
- ^ Vincenzo Vasile, Via Rasella, calce bianca sulla Resistenza (XML), in l'Unità, 23 giugno 2004. URL consultato il 18 agosto 2014 (archiviato dall'url originale il 19 agosto 2014).
- ^ (EN) Pier Paolo Battistelli, Piero Crociani, World War II Partisan Warfare in Italy, Osprey Publishing, 2015, pp. 32-3.
- ^ Pasquale Balsamo, Tutta Roma onorerà domani la memoria dei suoi 335 martiri (PDF), in l'Unità, 23 marzo 1954. URL consultato il 18 novembre 2018 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
- ^ Portelli 2012, pp. 194-5.
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- ^ (EN) The Scots College Rome, 1940-1946, su The Pontifical Scots College. URL consultato il 5 settembre 2015 (archiviato dall'url originale il 5 settembre 2015).
- ^ Mureddu 1977, p. 140.
- ^ Trabucco 1945, p. 195 (29 marzo).
- ^ Testimonianza dell'amministratore immobiliare Luigi Catemario, discendente della famiglia Tittoni, in Portelli 2012, p. 97: «ci sono le mostre delle porte che sono spaccate in due, che per la deflagrazione sono rimaste così; per anni le decorazioni della parete erano scheggiate dai vetri ch'erano scoppiati; da una stanza all'altra si sentono i passi perché ha avuto delle lesioni».
- ^ Katz 1968, pp. 85-6.
- ^ a b Adattamento ed elaborazione dall'intervista originale a Carla Capponi, su larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
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- ^ Baratter 2005, p. 192.
- ^ Steinacher 2002, p. 293 n. Il testo riporta trentadue caduti e cinquantaquattro feriti, essendo stato redatto prima della morte del trentatreesimo soldato.
- ^ Portelli 2012, p. 417 n. L'autore aggiunge: «Questa versione viene abitualmente rilanciata nelle polemiche della stampa di destra ancora oggi».
- ^ Colonna di carnefici tedeschi attaccata in via Rasella (PDF), in l'Unità, 30 marzo 1944, edizione romana, n. 8, p. 1.
- ^ Su Antonio Chiaretti si veda l'intervista a suo nipote, l'arcivescovo Giuseppe Chiaretti: L'arcivescovo emerito di Perugia, Chiaretti ha due parenti martiri della libertà, su umbrialeft.it. URL consultato il 29 giugno 2015.
- ^ Secondo Fracassi 2013, p. 519, l'atto di morte di Chiaretti stabilisce in modo definitivo che la causa del decesso fu l'esplosione della bomba.
- ^ Paolo Simoncelli, Ma a via Rasella la resistenza divenne «rossa», in Avvenire, 10 agosto 2007.
- ^ a b Portelli 2012, p. 195.
- ^ Maurizio 1996, pp. 17-8.
- ^ a b Portelli 2012, p. 196.
- ^ Bentivegna 2004, p. 210. Il milite è erroneamente chiamato Erminio Rossetti.
- ^ Portelli 2012, p. 442, nota 91.
- ^ Mureddu 1977, p. 141.
- ^ a b Katz 1968, pp. 88-93.
- ^ a b Vito Antonio Leuzzi, Fosse Ardeatine, pugliese racconta: «Così mi salvai», in Gazzetta del Mezzogiorno, 23 aprile 2010.
- ^ Pierangelo Maurizio, Le prime foto delle vittime per caso di via Rasella, in Libero, 24 marzo 2014.
- ^ Dollmann 1949, p. 241.
- ^ Katz 2009, p. 260.
- ^ Dollmann 1949, pp. 241-2.
- ^ Maurizio 1996, p. 27. Secondo le testimonianze ivi citate, gli arrestati nei locali della PAI furono trattati bene, mentre quelli concentrati al Viminale furono ammassati in una stanza in condizioni igieniche disumane e malmenati crudelmente
- ^ Portelli 2012, p. 201.
- ^ Katz 1968, p. 93. Il nome di Domizlaff è erroneamente riportato come Durante.
- ^ ADSS, doc. 115, Notes de la Secrétairerie d'Etat, Récit de l'attentat de la Via Rasella. Contremesures encore incertaines, 24 marzo 1944, pp. 189-190.
- ^ Intercettazione di "Giulia dalla delegazione della Bulgaria", 31 marzo 1944, in Lepre 1996, p. 77.
- ^ Bocca 1996, p. 330.
- ^ Foa 2013, capitolo 5.
- ^ Foa 2013, capitolo 7.
- ^ Dollmann 1949, p. 251.
- ^ Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953, p. 256:
«il riferimento ai "comunisti badogliani" si colora d'un atroce sarcasmo e può spiegarsi come segue: i nazisti non ignorano certamente che fra "comunisti" e "badogliani" perdura a Roma uno stato di continuo attrito, che i secondi già pensano a reprimere "le forze sovversive" al momento dell'insurrezione: proprio perciò li citano insieme, per deridere anche in quel momento, all'unità della Resistenza, come a un'utopia, per recare il supremo oltraggio alle due schiere di martiri anche nel momento in cui cadono fianco a fianco.»
Nella seconda edizione dell'opera il passaggio corrispondente è ridotto, non si fa menzione di attriti tra le due componenti e di propositi repressivi dei militari verso le sinistre, mentre l'unità della Resistenza è data per «raggiunta». Cfr. Battaglia 1964, p. 227.
- ^ Katz 1968, p. 177.
- ^ a b Adattamento ed elaborazione dell'intervista originale a Rosario Bentivegna, su larchivio.com. URL consultato il 18 febbraio 2017.
- ^ Portelli 2012, p. 209.
- ^ Portelli 2012, pp. 209-10.
- ^ Portelli 2012, pp. 211 e 421.
- ^ Portelli 2012, p. 9 (il testo del comunicato) e p. 421 (per l'orario di uscita dei giornali).
- ^ Citato in: Bocca 1996, pp. 293-4.
- ^ Katz 2009, pp. 274 e ss.
- ^ ADSS, pp. 11-2.
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- ^ Immagine in Bentivegna 2004.
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- ^ Comunicato tedesco, in "Il Messaggero", 17 aprile 1944, citato in Fracassi 2013, pp. 427-8.
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- ^ a b Pavone 1991, p. 483.
- ^ Pavone 1991, pp. 477-8.
- ^ Voce Rappresaglia in Dizionario di Storia Treccani on line.
- ^ La lotta del PCI contro l'"attendismo" è trattata estesamente in De Felice 1997, pp. 183-204. L'autore scrive che i comunisti non lasciavano alcuno spazio alle tendenze «a evitare il terrorismo e la violenza spicciola, a commisurare l'azione armata al costo da essa richiesto e in particolare all'esigenza di non esporre oltre un certo limite la popolazione alle rappresaglie nemiche» (pp. 197-8).
- ^ Pavone 1991, p. 479. Pavone usa l'espressione "strumento di garanzia" citandola da uno scritto di Max Weber.
- ^ Peli 2014, p. 30.
- ^ Longo 1973, pp. 255-6.
- ^ Battaglia 1964, p. 199.
- ^ Agire subito (PDF), in l'Unità (edizione romana), 26 ottobre 1943, p. 2.
- ^ Portelli 2012, pp. 157-8.
- ^ Forcella 1999, pp. 171-2. L'autore sottolinea come Colorni fosse una figura «non certo sospettabile di "attendismo"».
- ^ Citato in: Avagliano 2014, pp. 31-2.
- ^ Citato in: Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014, pp. 13-14.
- ^ Deposizione di Quirino Armellini al processo Kappler, 3 luglio 1948, in Impossibile liberare i prigionieri, in La Nuova Stampa, 4 luglio 1948, p. 3.
- ^ Sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 19 luglio 1957, n. 3053. La Corte argomenta che giuridicamente tale circostanza non dimostra «che il Governo legittimo si fosse impegnato verso la Germania ad impedire ogni atto di ostilità contro i tedeschi».
- ^ Longo 1973, p. 294.
- ^ Longo 1973, pp. 295-6.
- ^ Bandiera Rossa, 8 gennaio 1944, cit. in Benzoni 1999, p. 62:
«Che cosa abbiamo guadagnato con l'azione? Centinaia di compagni, i migliori... si trovano oggi nelle mani dei nostri carnefici. Ma due tedeschi morti valgono forse 100 uomini maturati nella lotta...?»
- ^ Longo 1973, p. 389.
- ^ Depone Giorgio Amendola, capo dei garibaldini romani (PDF), in l'Unità, 19 giugno 1948. URL consultato il 17 febbraio 2019 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
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- ^ Bentivegna 2004, pp. 41-2.
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- ^ Intervista a Rosario Bentivegna a cura di Giancarlo Bosetti, «Così ho vissuto dopo via Rasella» (PDF), in l'Unità, 24 gennaio 1993, p. 4. URL consultato il 18 novembre 2018 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
- ^ Intervista a Rosario Bentivegna a cura di Marcella Ciarnelli, Così misi la bomba, in l'Unità2, 23 marzo 1994, p. 3.
- ^ Dino Messina, Mazzantini e Bentivegna: noi, nemici, con tante cose in comune, in Corriere della Sera, 16 maggio 1996.
- ^ Portelli 2012, pp. 223-4.
- ^ a b Capponi 2009, pp. 239-40.
- ^ Palumbo 1992, p. 147 (2 novembre 1943): «durante le giornate di settembre, laddove vi fu resistenza, i tedeschi usano la rappresaglia indiscriminata, rapporto uno a dieci, verso chi pone in pericolo la loro sicurezza, considerandosi razza eletta. E, nella quasi totalità dei casi, gli uccisi sono gli innocenti. Ma non interessa: è il terrore per il terrore, solo mezzo, per un popolo rimasto bruto, di incutere rispetto (e di continuare a fare il suo comodo)». Commentando la notizia della rappresaglia per l'attentato di via Rasella, il 25 marzo (p. 211) Palumbo scrive di una «spaventosa, criminale rappresaglia – col consueto sistema del 'dieci per uno' applicato fin dal settembre –, data per già avvenuta».
- ^ Trabucco 1945, pp. 115-6 (4 dicembre), riproduce il commento dell'Osservatore Romano che, deprecata la «morte proditoria della vittima» anche perché «degli innocenti del fatto sono esposti a vendicarla», condanna la pratica della rappresaglia dieci per uno, definendola «una sanzione che su degli innocenti del delitto ne decupla lo sconto. Per una vittima, dieci. Sia pur colpevoli d'altro crimine, ma immuni da questo; sicché la stessa terribile vendetta risulta inefficace».
- ^ Longo 1973, p. 296.
- ^ Due parole ad un soldato tedesco (PDF), in il partigiano, n. 2, 9 febbraio 1944, p. 2. L'articolo si rivolge idealmente a un soldato tedesco: «anche in Italia la cosa più abbietta e più vile, la fucilazione degli ostaggi, tu la stai effettuando su larga scala»; dunque lo ammonisce: «contro la tua misura di dieci ostaggi per ogni tedesco cento saranno i tedeschi uccisi per ogni ostaggio. Fai il conto».
- ^ Lepre 1996, p. 59. La donna è indicata come "marchesa F. di C." e il prigioniero è Marcello Bucchi, ucciso nel massacro.
- ^ Andrae 1997, p. 121.
- ^ Gentile 2015, pp. 70-1.
- ^ Staron 2007, p. 373. Cfr. anche p. 8.
- ^ Katz 1968, pp. 236-7.
- ^ Lepre 1996, p. 29: «Se i gappisti avessero esaminato le possibili conseguenze dell'attentato, avrebbero dovuto prevedere una dura rappresaglia».
- ^ Battaglia 1964, p. 224.
- ^ Katz 1968, p. 237: «qualsiasi azione partigiana, fra le cento compiute a Roma, avrebbe potuto avere per conseguenza l'eccidio delle Ardeatine».
- ^ Portelli 2012, pp. 150-1.
- ^ Peli 2014, pp. 259-60.
- ^ Andrae 1997, p. 120.
- ^ Bocca 1996, pp. 165-6:
«i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla, subito.»
- ^ Pezzino 2007, p. 170.
- ^ Bennett 1999, pp. 137-9.
- ^ Leo Solari, Intervento alla presentazione del saggio di Alberto ed Elisa Benzoni, Radio Radicale, 30 aprile 1999, a 49 min 07 s. URL consultato il 12 gennaio 2018.«[...] Non era neppure immaginabile che un'azione come quella di via Rasella non trovasse una risposta terribile. Assurdo. È incredibile che si siano susseguite versioni con le quali si pretende di non aver pensato che potesse esserci una rappresaglia. La guerra durava da cinque anni, si sapeva quali erano le feroci regole che valevano nei territori dove era in atto la guerriglia. Le avevamo applicate noi italiani, noi stessi, in Jugoslavia, non di rado con estrema durezza perché il rapporto di uno a dieci è stato applicato sistematicamente in territori occupati da noi. Per non parlare poi delle selvagge rappresaglie da noi compiute in Libia e in Etiopia. Non ci si poteva attendere che i tedeschi si dimostrassero più moderati di noi. Penso che non abbia senso negare l'esistenza di una consapevolezza dell'inevitabilità di una reazione all'attentato. Si vorrebbe attribuire ai promotori e agli autori dell'attentato un eccezionale grado di sprovvedutezza, che certamente non era concepibile in uomini come loro, alcuni dei quali ben informati sulle regole seguite dagli eserciti di occupazione nella lotta contro i partigiani. E non ha senso negare questa consapevolezza anche perché la logica [...] della lotta partigiana implica la previsione della rappresaglia. Senza l'accettazione di quella prospettiva l'azione dei partigiani non può esistere»
- ^ Benzoni 1999, pp. 78-87.
- ^ Staron 2007, pp. 39-43.
- ^ Zanotti Bianco 2011, p. 178. Fabio Grassi Orsini, autore di un saggio introduttivo al diario di Zanotti Bianco, commenta (p. XXXI) che se quest'ultimo «in quella occasione non sollevò obiezioni si può dire che questo giudizio, che condivideva, rifletteva anche l'opinione di quelle migliaia di antifascisti nascosti e seriamente a rischio di finire a via Tasso».
- ^ Jo' Di Benigno, Occasioni mancate. Roma in un diario segreto 1943-1944, Roma, Edizioni S.E.I., 1945, pp. 234-5.
- ^ Indro Montanelli, Boia e attentatori, una storia doppia, in Corriere della Sera, 25 novembre 1995.
- ^ Alessandro Fulloni, Via Rasella, Baudo litiga con l'Anpi, in Corriere della Sera, 10 luglio 2013.
- ^ Katz 2009, p. 382, parla di «legioni» di persone che hanno affermato di ricordare il comunicato tedesco.
- ^ Bentivegna e De Simone 1996, pp. 49-50.
- ^ a b Luca Baiada, Fosse Ardeatine, guerra psicologica dal 1944, in Il Ponte, nº 4, aprile 2014.
- ^ Portelli 2012, pp. 218-9.
- ^ Citato in Portelli 2012, p. 219. Nel testo Portelli scrive che la risposta de Il Tempo all'articolo di Italia Nuova si ebbe «il giorno dopo», ma in nota, a p. 423, l'articolo di Italia Nuova è datato 30 luglio, e quello de Il Tempo 1º agosto 1944.
- ^ Testimonianza di Albert Kesselring, riportata in: Portelli 2012, p. 211.
- ^ Alla data del 23 marzo Trabucco 1945, p. 191, riporta: «La radio finora non ha fatto cenno alla cosa, né qualcosa dicono i giornali».
- ^ Piscitelli 1965, p. 304.
- ^ Lepre 1996, pp. 55-78.
- ^ Portelli 2012, p. 218.
- ^ Paolo Simoncelli, Via Rasella, partigiani avvisati? «Ecco la prova», in Avvenire, 17 marzo 2009.
- ^ Paolo Simoncelli, Il manifesto «scomparso», in Avvenire, 18 marzo 2009.
- ^ Bentivegna 2004, pp. 60-1 e 312-3.
- ^ Caronia 1979, pp. 217-8.
- ^ Bentivegna 2011, pp. 401-2.
- ^ Il processo Kappler (PDF) [collegamento interrotto], in l'Unità, 13 giugno 1948.
- ^ Amendola 1964, pp. 564-5.
- ^ Amendola 1973, pp. 294-5.
- ^ Bentivegna 2004, pp. 204-5.
- ^ Testimonianze di Bentivegna citate in Portelli 2012, p. 225.
- ^ Portelli 2012, p. 225.
- ^ Portelli 2012, p. 177.
- ^ Elenco delle vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, su anfim-nazionale.it.
- ^ Benzoni 1999, pp. 90-1. Secondo gli autori «i quadri del PCI in prigione sono pochissimi» (p. 91).
- ^ Benzoni 1999, p. 92. In nota gli autori scrivono: «Tra i massacrati delle Ardeatine i militanti noti del PCI si contano sulle dita di una sola mano».
- ^ Benzoni 1999, p. 93.
- ^ Benzoni 1999, p. 99.
- ^ Bentivegna 2004, p. 99, parla di «grande familiarità con i Leto, i quali oltre tutto frequentavano assiduamente la mia famiglia».
- ^ Bentivegna 2004, pp. 221-2.
- ^ Benzoni 1999, pp. 94-5.
- ^ Sul punto, vedi anche la dichiarazione di Trombadori in Annibale Paloscia, Resistenza: la scelta della Polizia (PDF), in Polizia Moderna, nº 2-3, 1986, p. 63.
- ^ Bentivegna 2004, p. 211, scrive che dopo il tradimento «solo la forza della Resistenza, che si esercitava anche all'interno della polizia fascista, riuscì a salvarli».
- ^ Benzoni 1999, pp. 96-9.
- ^ Emilio Lussu, Sul Partito d'azione e gli altri, Milano, Mursia, 1968, p. 76, citato in: Benzoni 1999, pp. 97-8.
- ^ Longo 1973, p. 390.
- ^ Carla Capponi, Pasquale Balsamo, Rosario Bentivegna, «Alle Ardeatine morirono anche i comunisti», in La Stampa, 21 aprile 1999. L'articolo è una risposta alla recensione di Paolo Mieli, Via Rasella. Un agguato infinito, in La Stampa, 4 aprile 1999.
- ^ Portelli 2012, pp. 180-1. Portelli cita in proposito la testimonianza della partigiana Maria Teresa Regard, la quale menziona ordini ricevuti via radio; un ordine pervenuto a Montezemolo dai comandi alleati, riportato in Piscitelli 1965, p. 259; un messaggio di Montezemolo in Amendola 1973, p. 269; una testimonianza di Peter Tompkins secondo il quale «l'indicazione era di preparare l'insurrezione».
- ^ «L'azione di via Rasella? Gli alleati erano d'accordo» (PDF), in l'Unità due, 19 luglio 1997. URL consultato il 18 novembre 2018 (archiviato dall'url originale il 2 marzo 2016).
- ^ Portelli 2012, pp. 184-5.
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- ^ Benzoni 1999, p. 81.
- ^ Processo al generale von Mackensen e al generale Maelzer, Rapporto sui processi ai Criminali di Guerra. La Commissione delle Nazioni Unite sui Crimini di Guerra Volume VIII, Londra, HMSO, 1948 (originale in inglese, pp. 1-7), da difesa.it. N.B. Nella pagina il processo è erroneamente datato al 1945.
- ^ Processo al feldmaresciallo Albert Kesselring, Rapporto sui processi ai Criminali di Guerra. La Commissione delle Nazioni Unite sui Crimini di Guerra Volume VIII, Londra, HMSO, 1949 (originale in inglese, pp. 9-14), da difesa.it.
- ^ Convenzione dell'Aia del 18 ottobre 1907, IV, "Leggi e costumi di guerra terrestre", annesso "Regolamenti relativi alle leggi ed ai costumi della guerra terrestre", sezione I, capitolo I, articolo 1. Cfr. testo in inglese o in francese.
- ^ Sentenza del Tribunale Supremo Militare di Roma n.1714, del 25 ottobre 1952, p.67. Cfr. il testo della sentenza, cit (pagina 67).
- ^ Sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione n.26 del 19 dicembre 1953.
- ^ Carlo Galante Garrone, Via Rasella davanti ai giudici, in AA.VV., Priebke e il massacro delle Ardeatine, supplemento a "L'Unità", agosto 1996.
- ^ Tribunale civile di Roma, sentenza del 26 maggio-9 giugno 1950, citata in Algardi 1973, p. 104.
- ^ Tribunale civile di Roma, sentenza del 26 maggio-9 giugno 1950.
- ^ Corte d'Appello civile di Roma, prima sezione, sentenza 5 maggio 1954, citata in Algardi 1973, p. 104.
- ^ Algardi 1973, p. 105.
- ^ Corte di Cassazione di Roma, Sezioni Unite, sentenza 11 maggio 1957, citata in Algardi 1973, p. 105. L'omissione segnalata dai puntini di sospensione è così nel testo di Algardi.
- ^ Sentenza del Tribunale Supremo Militare di Roma in data 25 ottobre 1960.
- ^ Tribunale penale di Roma, ordinanza di archiviazione, 16.4.1998.
- ^ Cfr. la sentenza della Corte Suprema di Cassazione n.1560 del 23 febbraio 1999 nel sito web del Ministero della Difesa.
- ^ Vincenzo Zeno-Zencovich, Il refuso che cambia la storia, in Domenica (inserto de Il Sole 24 Ore), 25 marzo 2012.
- ^ "Repubblica" online del 7 agosto 2007, "Cassazione: 'Via Rasella fu atto di guerra' - Il Giornale condannato per diffamazione"
- ^ la sentenza della Cassazione, 6 agosto 2007
- ^ I partigiani di via Rasella non furono 'massacratori' - Adnkronos Cronaca
- ^ Roncoroni 2006, pp. 26 e 432-4.
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Altri progetti
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Collegamenti esterni
- Morte a Roma - La strage delle Fosse Ardeatine, La Storia siamo noi, ampio documentario storico sui fatti del marzo 1944.
- Scheda Via Rasella, Roma, 23 marzo 1944, in: Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia.
- Alessandro Barbero, Le reti clandestine. Una rete di partigiani: i GAP di Roma e l'attentato di via Rasella, Festival della Mente, Sarzana 2017.