Caduta del fascismo
Con caduta del fascismo (indicata anche come 25 luglio 1943 o semplicemente 25 luglio) ci si riferisce a una serie di avvenimenti che si susseguirono in Italia dalla primavera del 1943, culminando nella riunione del Gran consiglio del fascismo del 24-25 luglio al termine della quale venne decisa la deposizione di Benito Mussolini.
Gli eventi furono il risultato di manovre politiche parallele avviate dal gerarca Dino Grandi e dal re Vittorio Emanuele III, il cui esito finale fu la caduta del governo fascista dopo quasi ventuno anni, l'arresto di Mussolini e la conseguente nomina da parte del re di un nuovo capo del governo, il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio.
La riunione del massimo organo collegiale del fascismo iniziò alle 18:15 del 24 luglio. La votazione sull'ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che prevedeva la sfiducia a Mussolini, avvenne alle 2:30 del 25 luglio: 19 votarono a favore, 7 furono contrari, 1 si astenne. Gli ordini del giorno erano a firma di (1) Grandi; (2) Farinacci; (3) Scorza; dopo che il primo fu accolto, Mussolini dispose di non mettere ai voti gli altri due. Anche se non esiste il verbale ufficiale dell'assemblea, il testo completo e l'originale dell'ordine del giorno Grandi furono pubblicati nel 1965 dalla rivista «Epoca», grazie al ritrovamento dei documenti conservati da Nicola De Cesare, segretario personale di Mussolini.
Contesto storico[modifica | modifica wikitesto]
La disfatta italiana in Nordafrica e le prime crisi politiche[modifica | modifica wikitesto]
Per l'Italia la situazione militare all'inizio del 1943 appariva del tutto negativa: il collasso del fronte africano il 4 novembre 1942 e l'invasione alleata del Nordafrica esposero a sua volta l'Italia all'invasione da parte delle Forze Alleate. La disfatta dell'ottava armata italiana durante la campagna di Russia, gli intensi bombardamenti alleati delle città italiane e la crescente mancanza di generi di prima necessità e materie prime, demoralizzarono la popolazione: era chiaro che la maggioranza del popolo voleva la fine della guerra e la denuncia dell'alleanza con la Germania. Per mantenere l'ultima roccaforte dell'Asse in Africa, la Tunisia, l'Italia abbisognava dei massicci aiuti tedeschi. Oltretutto, Mussolini era ancora persuaso che le sorti della guerra si sarebbero risolte nel fronte del Mediterraneo e voleva convincere Hitler a cercare una pace separata con la Russia di Stalin e a muovere a sud l'esercito tedesco. All'incontro tra i due tenutosi a Klessheim, il 29 aprile 1943, espose le sue idee al Führer, che le rigettò. La richiesta pressante di rinforzi per difendere la Tunisia fu rifiutata dalla Wehrmacht, che non confidava più nella volontà di resistenza dell'Italia. All'aggravamento della situazione militare si aggiungeva un altro principale fattore di incertezza, ovvero la salute di Mussolini: depresso e malato, dopo mesi di forti dolori addominali, gli furono diagnosticati la gastrite e la duodenite di origine nervosa, escludendo, con qualche esitazione, la possibilità di un cancro. A causa dei suoi malesseri, Mussolini fu spesso costretto a restare a casa, privando l'Italia di un'effettiva guida.
In questa situazione, gruppi appartenenti a quattro differenti circoli - la corte reale, i partiti antifascisti, i fascisti, lo stato maggiore delle forze armate - iniziarono la ricerca di una via d'uscita. In un memorandum datato 24 aprile 1943 ai membri del governo inglese del ministro degli Esteri, Anthony Eden, era scritto che «la serie di sconfitte dell'Asse in Russia e in Africa settentrionale e la difficile condizione del suo corpo di spedizione in Tunisia spingevano gli Italiani ad auspicare una rapida vittoria degli Alleati per poter uscire dalla guerra»[1]; vi si leggeva anche che Vittorio Emanuele III era «un uomo invecchiato, privo di iniziativa, terrorizzato dall'idea che la fine del fascismo avrebbe aperto un periodo di anarchia incontrollabile», che il suo erede Umberto era incapace di passare all'azione (nonostante le pressioni della consorte, Maria José, che costituiva «l'elemento più energico della coppia reale») e che Casa Savoia avrebbe appoggiato un rovesciamento del regime solo in un secondo momento, quando si fosse verificata una sollevazione dell'esercito provocata da Badoglio e dal vecchio maresciallo Caviglia, o una congiura di Palazzo orchestrata da «fascisti opportunisti», come Dino Grandi, da industriali e finanzieri, come il conte Giuseppe Volpi di Misurata, che miravano, comunque, a far sopravvivere un «fascismo senza Mussolini» per salvaguardare i loro personali interessi. Insomma, questi gruppi, indipendentemente uno dall'altro, iniziarono i propri intrighi per stabilire contatti con le autorità Alleate, ma nessuno di loro comprendeva che la guerra era diventata anche ideologica dopo la Dichiarazione di Casablanca, che stabiliva che gli Alleati avrebbero accettato solo una resa incondizionata dai nemici. Per giunta, gli anglo-americani si aspettavano di intavolare trattative con personalità come il Re, non con la principessa Maria José, o altri gruppi, visti con indifferenza. I partiti antifascisti, soppressi da venti anni, erano ancora in uno stato embrionale e - a parte il Partito Comunista e il repubblicano Partito d'Azione - tutti aspettavano un segnale da Vittorio Emanuele.
Invano: il carattere del Re, scettico e realista allo stesso tempo, le sue paure, gli scrupoli costituzionali, il sentimento che i giorni della monarchia fossero comunque contati, quale che fosse l'esito della guerra, contribuirono alla sua inazione. Il Re disprezzava pure la vecchia classe politica pre-fascista, che chiamava "revenants" (fantasmi), e non si fidava di quelli che credevano che gli Alleati non si sarebbero vendicati con l'Italia per la sua guerra di aggressione. Ultimo ma non meno importante, Vittorio Emanuele conservava ancora la sua fiducia in Mussolini, fidando che una volta di più il Duce avrebbe salvato la situazione. Di conseguenza, egli si isolò mantenendosi imperscrutabile da quelli che intendevano conoscerne le intenzioni future. Tra questi c'era il nuovo Capo di Stato Maggiore, il generale Vittorio Ambrosio, un piemontese devoto al Re e ostile ai tedeschi. Ambrosio era persuaso che la guerra fosse perduta, ma non avrebbe mai contemplato di prendere un'iniziativa personale per cambiare la situazione senza prima consultarsi con Vittorio Emanuele. Su un altro versante, Ambrosio, coadiuvato dal suo braccio destro, Giuseppe Castellano, e da Giacomo Carboni (entrambi avrebbero poi giocato un ruolo chiave nei successivi avvenimenti che avrebbero portato all'armistizio dell'8 settembre 1943), lentamente procedettero a occupare diverse posizioni strategiche nelle forze armate nominando ufficiali fedeli al Re. Inoltre, Ambrosio cercò di riportare in Italia quante più truppe possibile tra quelle impegnate all'estero, ma fu difficile il farlo senza suscitare il sospetto dei tedeschi.
Il 6 febbraio 1943, Mussolini operò il più profondo rimpasto di Governo dei suoi ventun anni di potere fascista. Quasi tutti i ministri furono sostituiti: le teste più importanti a cadere furono quelle di Galeazzo Ciano, il genero del Duce; Dino Grandi; Giuseppe Bottai; Guido Buffarini Guidi; Alessandro Pavolini. I due più importanti obiettivi dell'operazione, placare la rabbia della popolazione e quella di segmenti del partito fascista, non furono raggiunti, dato che la situazione era troppo compromessa. Tra i nominati, c'era il nuovo sottosegretario agli Esteri (Mussolini aveva tenuto la carica di Ministro per sé), Giuseppe Bastianini, ben cosciente della gravità della situazione. Egli basava la sua linea su due fronti: da una parte cercando, come Mussolini, di tentare una pace separata tra la Germania e l'URSS; dall'altra, di creare un blocco di nazioni balcaniche - Ungheria, Romania, Bulgaria, alleate minori dell'Asse - guidate dall'Italia, che avrebbe dovuto agire come contrappeso all'eccessivo potere del Reich di Hitler in Europa.
In aprile, Mussolini prese altre due importanti decisioni: il 14 aprile sostituì il capo della Polizia, Carmine Senise, un uomo del Re, con Lorenzo Chierici; cinque giorni dopo, cambiò il giovane segretario del Partito Fascista, Aldo Vidussoni, con Carlo Scorza. Senise fu accusato di incompetenza per come aveva affrontato i massicci scioperi di marzo nell'Italia Settentrionale, mentre la nomina di Scorza era tesa a galvanizzare il Partito.
La campagna di Tunisia e le conseguenze[modifica | modifica wikitesto]
La caduta di Tunisi, il 13 maggio 1943, cambiò radicalmente la situazione strategica. Ora l'Italia era esposta direttamente all'invasione anglo-americana, e per la Germania divenne imperativo controllare il Paese, diventato un bastione esterno del Reich. Per realizzare i loro piani, i tedeschi dovevano disarmare con la violenza le forze armate italiane, dopo l'atteso armistizio con le forze Alleate. A tale scopo, pianificarono l'Operazione Alarico e quella denominata Konstantin: la prima dedicata all'occupazione dell'Italia stessa; la seconda, al possesso delle aree dei Balcani occupate dall'esercito italiano. In preparazione, i tedeschi volevano dislocare più forze di terra in Italia, ma Ambrosio e Mussolini, che volevano preservare l'indipendenza italiana, chiesero solo più aeroplani. L'11 giugno gli Alleati catturarono Pantelleria, il primo territorio d'Italia a essere perso. La piccola isola era stata trasformata in presidio, ma - a differenza di Malta - dopo una settimana di intensi bombardamenti, fu ridotta a cratere fumante, e cadde senza quasi opporre resistenza. Divenne del tutto evidente che la prossima mossa degli Alleati sarebbe stata quella di invadere una delle tre isole più grandi di fronte alla Penisola: la Sicilia, la Sardegna o la Corsica.
A metà maggio il Re iniziò a considerare il problema di come uscire dalla guerra: era il pensiero espressogli dal duca Pietro d'Acquarone, Ministro della Real Casa, molto preoccupato per il futuro stesso. L'opinione pubblica italiana, che aveva atteso per mesi un segno da parte del Re, iniziava a volgersi contro la monarchia. Alla fine di maggio due alte personalità dell'epoca liberale, Ivanoe Bonomi e Marcello Soleri, furono ricevuti da d'Acquarone e dall'aiutante di campo del Re, il generale Puntoni. Entrambi premettero sui consiglieri reali consigliando di far arrestare Mussolini e di nominare un Governo militare. Il 2 e l'8 giugno furono entrambi ricevuti dal Re, ma rimasero frustrati per la sua inazione. Il 30 giugno Bonomi incontrò il principe Umberto e propose i nomi di 3 generali - Ambrosio, il maresciallo Pietro Badoglio, il maresciallo Enrico Caviglia - come candidati a succedere a Mussolini. Il 4 luglio Badoglio fu ricevuto da Umberto, che gli fece capire che la Corona non si opponeva più a un cambio di regime. Il giorno seguente, Ambrosio propose al Re di nominare Badoglio o Caviglia alla testa del Governo che avrebbe sostituito Mussolini. A favore della candidatura di Caviglia deponevano il suo coraggio, la sua onestà e le posizioni antifasciste, ma il maresciallo era ritenuto troppo anziano per affrontare i nuovi eventi. Badoglio, che aveva rassegnato le proprie dimissioni da Capo di Stato Maggiore dopo la disfatta greca nel 1941, era divenuto un acerrimo nemico di Mussolini. Oltre a ciò era amico del duca d'Acquarone, che era stato il suo aiutante di campo. Entrambi, come Caviglia, erano massoni[2]. Una collaborazione tra i due marescialli era tuttavia impensabile, dato che Caviglia odiava Badoglio, che una volta definì un «cane da cortile che va dove c'è il boccone più grande».
Il 4 giugno il Re concesse un'udienza a Dino Grandi[3], che era ancora il presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, pur essendo stato rimosso dal Governo.
Grandi era uno dei gerarchi del Regime fascista, stretto collaboratore di Mussolini da più di 20 anni. Considerato più un conservatore di destra che un fascista, vedeva il fascismo come un fenomeno effimero, confinato nella durata della vita di Mussolini. Esperto diplomatico, era stato ministro degli Esteri e ambasciatore nel Regno Unito: fermo nemico della Germania, con una larga cerchia di amicizie nell'establishment britannico (era amico personale di Winston Churchill), era stato spesso considerato il successore naturale di Mussolini. Sebbene personalmente devoto al Duce, del cui carattere e dei difetti era ben conscio, era tuttavia convinto che ad alcuni suoi ordini si dovesse disobbedire. Il 25 marzo 1943 il Re aveva conferito a Grandi il collare dell'Annunziata, permettendogli così di essere chiamato "cugino del Re" e conferendogli facoltà di libero accesso alla Casa Reale.
Durante il loro ultimo incontro, avvenuto prima del 25 luglio, Grandi comunicò al Re il proprio ambizioso piano per eliminare Mussolini e difendere l'Italia dai Tedeschi. Paragonò Vittorio Emanuele III al suo antenato del XVIII secolo Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, che aveva rotto l'alleanza coi francesi passando a quella con gli Imperiali, salvando così la dinastia. Ora Grandi, come un novello Pietro Micca, si proponeva nel medesimo ruolo di salvatore, dando il fuoco alle polveri. Il Re rispose che si considerava un monarca costituzionale: si sarebbe mosso solo dopo un voto del Parlamento o del Gran consiglio del fascismo per deporre Mussolini[3]. In ogni caso, avrebbe avversato qualsiasi mossa improvvisa che, ai suoi occhi, sarebbe stata considerata come un tradimento. Alla fine dell'udienza, Vittorio Emanuele chiese a Grandi di accelerare la sua azione attivando il Parlamento e il Gran consiglio e concluse con le parole: «Si fidi del suo Re». A Grandi apparve chiara la consapevolezza del Re sulla situazione in atto, anche se permaneva ancora nel sovrano una perniciosa tendenza a procrastinare gli eventi. Grandi tornò quindi nella sua Bologna, attendendo che la situazione evolvesse.
Contemporaneamente, il 19 giugno 1943, si tenne l'ultima riunione di Gabinetto del governo fascista. In quell'occasione, il ministro delle Comunicazioni, senatore Vittorio Cini, uno dei più potenti industriali italiani, attaccò frontalmente Mussolini, dicendogli che era ormai tempo di cercare una via d'uscita alla guerra. Dopo la riunione, Cini si dimise. Era uno dei tanti segni che il carisma del Duce era evaporato anche nel suo entourage. Quotidianamente persone devote a Mussolini, agenti dell'OVRA e i tedeschi gli andavano rivelando che diversi intrighi erano in corso per estrometterlo, ma lui non reagì, replicando a ciascuno di loro che leggevano troppi romanzi criminali o che erano affetti da manie di persecuzione.
Il 24 giugno Mussolini diede l'ultimo importante discorso come primo ministro. Passò alla storia come il "discorso del bagnasciuga", nel quale promise che la sola parte d'Italia che gli anglo-americani sarebbero stati capaci di occupare (ma solo orizzontalmente, cioè come cadaveri) era la battigia, che però definì col termine nautico "bagnasciuga". Per molti italiani, questa confusa, incoerente e pasticciata allocuzione era la prova finale che ormai qualcosa s'era rotto nella proverbiale fermezza di Mussolini[4].
Lo sbarco in Sicilia accelera la crisi del governo Mussolini[modifica | modifica wikitesto]
La notte del 10 luglio 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia: sebbene ampiamente attesi, dopo un'iniziale resistenza le forze italiane furono travolte e in diversi casi, come ad Augusta - la piazza più fortificata dell'isola - esse si arresero senza nemmeno combattere. Nei primi giorni sembrava che gli italiani potessero difendere l'isola, ma ben presto divenne chiaro che la Sicilia sarebbe stata persa. Il 16 luglio Giuseppe Bastianini andò a Palazzo Venezia, sede del Governo, per mostrare a Mussolini un telegramma da mandare a Hitler, dove egli rimproverava i tedeschi per non aver mandato rinforzi. Ricevuta l'approvazione del Duce, il sottosegretario chiese l'autorizzazione a stabilire contatti con gli Alleati. Mussolini fu d'accordo, a condizione di non esser personalmente coinvolto. L'emissario segreto era il banchiere del Vaticano Giovanni Fummi, che avrebbe raggiunto Londra via Madrid o Lisbona. La sera stessa Bastianini oltrepassò il Tevere, incontrando il cardinale Luigi Maglione, Segretario di Stato Vaticano, che ricevette un documento che illustrava la posizione italiana circa una possibile uscita unilaterale dalla guerra mondiale.
Dall'interno del fascismo, dopo la caduta di Tunisi e la resa di Pantelleria, fu chiaro a molti che la guerra era ormai perduta. L'invasione Alleata in Sicilia e l'assoluta mancanza di resistenza scioccarono i fascisti, che si domandavano perché Mussolini non facesse nulla. Molti di loro guardavano al Re, e altri si volgevano a Mussolini. Il grande problema era trovare un'istituzione adatta per l'azione politica. Quattro erano i consessi: il Partito, la Camera dei fasci e delle corporazioni, il Senato e il Gran consiglio. Solo gli ultimi due sembravano adatti: il Senato del Regno, perché c'erano ancora membri antifascisti o nominati prima della dittatura; il Gran consiglio, per la presenza di diversi membri ora contrari a Mussolini. Il 22 luglio, una mozione di 61 senatori che chiedeva di convocare il Senato fu bloccata da Mussolini: il primo firmatario, senatore Grazioli, insistette invano con il presidente Giacomo Suardo ancora il 23 luglio, quando apparve chiaro che il Duce aveva preferito come terreno di scontro il Gran consiglio[5].
In quei giorni, il solo gerarca che aveva un chiaro piano per uscire dall'impasse fu Dino Grandi: bisognava deporre Mussolini, poi lasciare al Re il compito di formare un Governo senza fascisti e contemporaneamente attaccare l'esercito tedesco in Italia. Solo così si sarebbe potuto sperare di mitigare le dure condizioni decise dagli Alleati alla Conferenza di Casablanca per i Paesi nemici. Roberto Farinacci e Carlo Scorza, il nuovo segretario del Partito, partivano da premesse opposte rispetto a Grandi. Mentre Grandi propendeva per ricondurre i poteri di guerra al re, Farinacci e Scorza optavano per la soluzione totalitaria al fianco della Germania. Ma Farinacci era isolato, e nessuno dei gerarchi "moderati" disponeva di sufficiente forza politica per condurre l'operazione in porto. Scorza riteneva, come Farinacci, che la soluzione stava nell'"imbalsamazione" politica di Mussolini e nella guerra totale ma, mentre Farinacci agiva in stretta collaborazione coi tedeschi, Scorza credeva che il potere potesse essere assunto direttamente dal Partito fascista, nonostante fosse stato screditato negli anni precedenti. Il 13 e il 16 luglio diversi fascisti guidati da Farinacci si riunirono nella sede principale del Partito in Piazza Colonna, e decisero di andare da Mussolini a Palazzo Venezia per chiedergli di convocare la riunione del Gran consiglio. Alla fine dell'incontro Mussolini, sorprendentemente, acconsentì a riunire la suprema assemblea del fascismo, che non era più stata convocata dal 1939.
Il 15 luglio il Re incontrò Badoglio, che nel frattempo andava dicendo agli amici che avrebbe organizzato un colpo di Stato con o senza il sovrano - e lo informò che lo avrebbe nominato nuovo capo del Governo. Vittorio Emanuele III gli spiegò che era totalmente contrario a un governo politico, e che in questa fase non avrebbe cercato un armistizio.
L'incontro di Feltre tra Hitler e Mussolini[modifica | modifica wikitesto]

Il crollo dell'esercito in Sicilia in pochi giorni e l'incapacità di resistere resero chiaro che l'invasione del territorio italiano sarebbe stata inevitabile senza un massiccio aiuto tedesco. Mussolini scrisse a Hitler per chiedergli un incontro dove poter discutere dell'allarmante situazione bellica italiana, ma la lettera non fu mai recapitata; il Führer, che riceveva quotidianamente dettagliate informazioni e dossier dal suo ambasciatore in Vaticano e agente di Himmler, Eugen Dollmann, ed era preoccupato sia dell'apatia del Duce sia della cogente catastrofe militare in Italia, chiese egli stesso di incontrarlo il prima possibile.
Una settimana prima della riunione del Gran consiglio, e due giorni prima dell'incontro di Feltre - ma tenutosi in realtà a San Fermo, frazione di Belluno - Heinrich Himmler ricevette un'informativa che anticipava le manovre in corso per deporre il Duce e sostituirlo con Pietro Badoglio[7].
L'incontro fra i due dittatori si svolse il 19 luglio nella villa del senatore Achille Gaggia, ove Mussolini, Bastianini e Ambrosio si incontrarono con Hitler e i generali dell'OKW per discutere la situazione e le possibili contromisure. La delegazione tedesca era piena di generali, ma erano assenti Goering e von Ribbentrop, segno che i tedeschi erano concentrati sugli aspetti militari della situazione in corso. Ambrosio si preparò per l'incontro meticolosamente e il giorno prima parlò chiaramente al Duce dicendogli che il suo dovere consisteva nell'uscire dal conflitto nei prossimi 15 giorni. I tedeschi, dal canto loro, avevano perduto fiducia negli italiani e volevano solamente occupare militarmente il prima possibile l'Italia settentrionale e centrale, lasciando l'Esercito italiano solo a difendere il Paese dagli Alleati. Per di più, essi proposero che il Comando Supremo dell'Asse nella Penisola fosse preso da un generale tedesco, possibilmente Erwin Rommel. Le prime due ore dell'incontro furono occupate dal consueto monologo di Hitler, che incolpava gli italiani per la loro fiacca performance militare e chiedendo di applicare misure draconiane: Mussolini fu perfino incapace di profferire parola. La riunione fu improvvisamente interrotta quando un consigliere italiano entrò nella sala e raccontò a Mussolini che in quel momento gli Alleati stavano per la prima volta pesantemente bombardando la capitale, Roma.
Durante la pausa per il pranzo, Ambrosio e Bastianini pressarono il Duce affinché dicesse al Führer che una soluzione politica alla guerra era necessaria, ma Mussolini replicò che per mesi era stato tormentato dai dubbi circa l'abbandono dell'alleanza con la Germania o la continuazione della guerra. Dopo il pranzo Mussolini interruppe l'incontro, che sarebbe dovuto durare tre giorni, perché non riusciva più a trovare le forze - fisiche e psichiche - per proseguire i colloqui. Le delegazioni tornarono a Belluno via treno e, dopo aver salutato Hitler, Mussolini tornò a Roma nel pomeriggio guidando il suo aereo personale: dall'aria egli poté vedere i quartieri orientali di Roma che ancora bruciavano.
Il piano di Grandi e quello di Vittorio Emanuele III[modifica | modifica wikitesto]
L'OdG era diviso in 3 parti: cominciava con un lungo messaggio retorico, che si appellava alla Nazione e alle Forze Armate, elogiandole per la loro resistenza agli invasori. La seconda parte chiedeva la restaurazione delle istituzioni e delle leggi pre-fasciste. La fine del documento era un appello al Re: egli avrebbe assunto i supremi poteri civili e di guerra, secondo l'articolo 5 dello Statuto Albertino, ossia la Costituzione del Regno.
La parte originaria dell'ordine del giorno sui poteri del Gran consiglio, poi rimossa, dimostrava che il massimo collegio del fascismo aveva il potere legale di deporre Mussolini. Secondo i costituzionalisti, le leggi fascistissime del 1925 avevano torto la Costituzione, ma non l'avevano obliata.
A causa di queste leggi, il Duce comandava sul Paese per conto del Re, che rimaneva sempre la fonte del potere esecutivo. Tenuto conto di ciò, se il Gran consiglio, trait d'union tra il Fascismo e lo Stato, passava una mozione di sfiducia al dittatore, il Re era legittimamente titolato a rimuoverlo e a nominare un successore per un nuovo Governo.
Lo stesso giorno, Grandi decise di passare all'azione. Con le strade e le ferrovie danneggiate dai bombardamenti, lasciò Bologna portando con sé la prima bozza del suo Ordine del Giorno, da presentare al Gran consiglio. Raggiunse Roma solo il giorno dopo, e il mattino del 21 incontrò Scorza, che gli disse che Mussolini aveva deciso di convocare la seduta. Iniziava quel «gioco grosso» che Grandi vanamente andava cercando di realizzare fino ad allora.
Dopo il fallimento dell'incontro di Feltre e il primo bombardamento di Roma, la crisi ebbe un'accelerazione. Il giorno dopo, 20 luglio, Mussolini incontrò Ambrosio due volte: durante la seconda visita, di sera, il Duce gli disse che aveva deciso di scrivere a Hitler confessando la necessità dell'Italia di abbandonare l'alleanza con la Germania. Ancora furente per l'opportunità persa di fare ciò a Feltre, Ambrosio, indignato, gli offrì le proprie dimissioni, cosa che Mussolini rigettò. Per Ambrosio, Mussolini era diventato inutile dopo Feltre: decise di attuare il piano per rovesciare il governo e il comando delle forze armate.
Al contempo, Grandi e Luigi Federzoni, leader nazionalista e suo stretto alleato, fecero dei sondaggi per scoprire quanti tra i 27 membri del Gran Consiglio avrebbero votato il suo documento. Stimarono che quattro erano a favore, sette contrari e sedici indecisi. Il problema di Grandi era che non poteva rivelare agli altri le concrete conseguenze dell'approvazione del suo OdG: la rimozione di Mussolini, la fine del Partito Fascista, e la guerra alla Germania. Solo un paio di gerarchi possedevano l'intelligenza politica per comprenderne la portata: gli altri ancora speravano che il loro Duce, che aveva deciso per loro negli ultimi ventun anni, avrebbe prodotto un miracolo.
Di conseguenza, Grandi scrisse il proprio OdG in termini vaghi, lasciando a ognuno la sua libera interpretazione.
Per Grandi l'approvazione del suo OdG era il grimaldello che il Re attendeva per agire. Il 21 luglio Mussolini ordinò a Scorza di convocare la seduta del Gran Consiglio per la sera di sabato 24:[8] Scorza mandò gli inviti il giorno dopo. Una postilla prescriveva l'abbigliamento richiesto: «Divisa fascista, sahariana nera, pantaloni corti grigioverdi: VINCERE». Nel tardo pomeriggio di quel giorno Grandi andò da Scorza e gli spiegò il suo OdG: sorprendentemente, il segretario di Partito disse che l'avrebbe sostenuto. Scorza chiese a Grandi una copia del documento, ma il mattino successivo il presidente della Camera dei fasci incontrò Mussolini e glielo mostrò di propria iniziativa. Il Duce disse che il suo OdG era inammissibile e codardo. Successivamente, Scorza preparò un suo OdG, che sembrava simile a quello di Grandi, nel quale chiedeva la concentrazione del potere al Partito Fascista.
Il mattino del 22 luglio ebbe luogo il più importante incontro: quello tra il Re e Mussolini, che voleva riportargli l'esito dell'incontro di Feltre. Il contenuto della conversazione rimane sconosciuto, ma secondo Badoglio, è possibile che il Duce abbia placato le paure del Re, promettendogli di disimpegnare l'Italia dalla guerra a partire dal 15 settembre. I ben due mesi di dilazione andavano spiegati con il fatto che i sondaggi con gli Alleati, intrapresi dal Bastianini, avrebbero ingranato lentamente; dall'altro lato, Mussolini avrebbe avuto bisogno di più tempo per giustificare sé stesso e l'Italia davanti al mondo per il suo tradimento. Apparentemente, il Re concordava con lui: ciò spiegherebbe perché Mussolini non sembrò affatto preoccupato dell'esito della seduta del Gran Consiglio. Infatti, senza l'aiuto del Re, il colpo di Stato militare era destinato a fallire. In ogni caso, al termine dell'udienza i due uomini uscirono confermati nelle loro opposte conclusioni: mentre Mussolini era convinto che il Re stesse ancora dalla sua parte, Vittorio Emanuele era deluso che il Duce non si fosse dimesso. Il Re fu costretto a scegliere seriamente il putsch come opzione: sapeva dei tentativi di Bastianini con gli Alleati, mentre Farinacci, fascista della linea dura, andava organizzando un putsch per deporre lui e Mussolini con lo scopo di portare l'Italia sotto il diretto controllo tedesco. La decisione finale fu presa dopo aver saputo che il Gran Consiglio avrebbe approvato la mozione Grandi.
Alle 17:30 dello stesso giorno, Grandi andò a Palazzo Venezia; la ragione ufficiale era la presentazione a Mussolini di un nuovo libro. La durata programmata era di soli 15 minuti, ma l'incontro si protrasse fino alle 18:45; lì attendeva di essere ricevuto il feldmaresciallo Albert Kesselring. Benché nel 1944, nelle sue Memorie, Mussolini negò che si fosse parlato dell'OdG Grandi, ciò rimane inattendibile: è più credibile che Grandi, che amava il Duce, gli avesse dato un'ultima possibilità di evitare l'umiliazione e di rassegnare le dimissioni, dimodoché il Gran Consiglio sarebbe stato superfluo. Mussolini ascoltava mentre Grandi gli spiegava la necessità di dimettersi per evitare la catastrofe, ma egli replicò che le sue conclusioni erano errate, avendo la Germania avviato la produzione di armi segrete che avrebbero ribaltato il corso del conflitto. Poi, Mussolini incontrò Kesselring e Chierici, il Capo della Polizia: a quest'ultimo confidò che sarebbe stato facile far fare retromarcia a Grandi, Bottai e Ciano, essendo impazienti di essere rassicurati da lui. Il mattino del 23 luglio Mussolini accettò le dimissioni di Cini: questo era un segnale diretto ai suoi oppositori.
Contemporaneamente, a casa di Federzoni, Grandi, Federzoni stesso, De Marsico, uno dei più insigni giuristi d'Italia, Bottai e Ciano modificarono l'OdG rimuovendo l'introduzione interpretativa che spiegava le funzioni del Gran Consiglio. Dai diari di Giuseppe Bottai si ricava anche che fu in questa fase che venne introdotta la parte più incisiva del testo, ovvero l'invocazione dell'articolo 5 dello Statuto Albertino[9].
In quell'occasione, Ciano si informò dell'OdG Grandi da Bottai: Grandi rimaneva riluttante ad associarlo, conoscendo la ben nota superficialità e incostanza del genero di Mussolini; ma Ciano insistette, non sapendo che la sua decisione l'avrebbe portato sei mesi dopo a essere ucciso a Verona. Dopo ciò, Grandi incontrò nella sua sede al Parlamento Farinacci, mostrandogli il suo OdG: l'ospite gli disse che approvava la prima parte del documento, ma non concordava su tutto il resto. Per il fanatico Farinacci, i poteri di guerra dovevano essere trasferiti direttamente ai tedeschi, e l'Italia avrebbe dovuto iniziare a combattere duramente la guerra, disfacendosi di Mussolini e dei generali. Alla fine anch'egli, come Scorza, chiese a Grandi una copia del suo OdG, e pure lui lo utilizzò per redigere un proprio OdG. Nel tempo rimasto prima della fatale riunione, Grandi contattò gli altri partecipanti chiedendo loro di unirsi nella sua azione.
Eventi del 24-25 luglio 1943[modifica | modifica wikitesto]
La notte del Gran Consiglio[modifica | modifica wikitesto]
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Per approfondire, leggi il testo Ordine del giorno Grandi. |
Il Gran Consiglio del Fascismo
riunendosi in queste ore di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni arma che, fianco a fianco con la gente di Sicilia in cui più risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovando le nobili tradizioni di strenuo valore e d'indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate, esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra
il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano;
la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli italiani in questa ora grave e decisiva per i destini della Nazione;
che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali;
il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.[10]
Alle 17:00 del 24 luglio 1943 i 28 membri del Gran consiglio del fascismo si incontrarono attorno a un massiccio tavolo a forma di U nella "Stanza del pappagallo" di Palazzo Venezia. I consiglieri erano tutti in uniforme fascista con sahariana nera. Il posto di Mussolini era un'alta sedia, e il suo tavolo era decorato con un drappo rosso coi fasci. Per la prima volta nella storia del Gran Consiglio, né le guardie del corpo di Mussolini - i Moschettieri del Duce - né un distaccamento dei battaglioni "M" erano presenti nel massiccio palazzo rinascimentale. Il segretario del Partito Nazionale Fascista Carlo Scorza effettuò l'appello. Grandi richiese a Scorza la presenza di uno stenografo, ma Mussolini si oppose; ufficialmente[11] nessun verbale fu redatto[12].
Di sicuro, Mussolini iniziò a parlare per primo, riassunse la situazione bellica e poi trasse le sue conclusioni:
«Ora il problema si pone. Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza?... Dichiaro nettamente che l'Inghilterra non fa la guerra al fascismo, ma all'Italia. L'Inghilterra vuole un secolo innanzi a sé, per assicurarsi i suoi cinque pasti. Vuole occupare l'Italia, tenerla occupata. E poi noi siamo legati ai patti. Pacta sunt servanda.»
Poi Grandi illustrò il suo ordine del giorno con il quale chiedeva in sostanza il ripristino "di tutte le funzioni statali" e invitava il Duce a restituire il comando delle forze armate al re. Presero la parola alcuni gerarchi, ma non per affrontare gli argomenti degli O.d.G., bensì per fare chiarimenti o precisazioni. Si attendeva un intervento incisivo del capo del governo. Mussolini, invece, affermò impassibile di non avere nessuna intenzione di rinunciare al comando militare. Si avviò il dibattito che si protrasse fino alle undici di sera. Grandi diede un saggio delle sue grandi capacità oratorie: dissimulando abilmente lo scopo reale del suo O.d.G., si produsse in un elogio sia di Mussolini sia del re.
Anche lo stesso Ciano prese parola per difendere l'O.d.G. contestando le parole di Mussolini:
«Pacta sunt servanda? Si, certamente: però, quando vi sia un minimo di lealtà anche dall'altra parte. E invece, noi italiani abbiam sempre osservato i patti, i tedeschi mai. Insomma, la nostra lealtà non fu mai contraccambiata. Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori ma dei traditi.»
A questo punto anche Roberto Farinacci presentò un analogo Ordine del giorno. Successivamente Carlo Scorza diede lettura di due missive indirizzate a Mussolini in cui il segretario del partito chiedeva al Duce di lasciare la direzione dei tre dicasteri militari (Guerra, Marina e Aeronautica). I presenti rimasero molto colpiti, sia dal contenuto, sia dal fatto stesso che Mussolini avesse autorizzato Scorza a leggerle in quella sede. Quando si era arrivati ben oltre le undici di sera, la seduta venne sospesa momentaneamente e Grandi ne approfittò per raccogliere firme a favore del proprio O.d.G. Alla ripresa anche Bottai si espresse a favore dell'O.d.G. Grandi. Quindi prese la parola Scorza, che invece invitò i consiglieri a non votarlo e presentò un proprio O.d.G. a favore di Mussolini.
Alcuni presenti valutarono nell'O.d.G. Grandi solamente il fatto che Mussolini veniva "sgravato dalle responsabilità militari" e, al contempo, la monarchia veniva chiamata all'azione, "traendola dall'imboscamento" (come avrebbe detto a posteriori Tullio Cianetti): non si rendevano conto di quali enormi conseguenze sull'assetto del regime avrebbe avuto un loro eventuale voto favorevole. Alla fine del dibattito, i consiglieri si aspettavano un cenno di Mussolini.
Di solito egli riassumeva la discussione e i presenti si limitavano a prendere atto di quello che aveva detto. In quest'occasione, invece, il Capo del governo non espresse alcun parere e, adottando un atteggiamento passivo, decise di passare subito alla votazione degli O.d.G. Inoltre, anziché cominciare da quello di Scorza, fece iniziare da quello di Grandi. Questa decisione di "disimpegno" fu fondamentale e impresse una svolta decisiva all'esito della riunione.
La votazione[modifica | modifica wikitesto]

I 28 componenti del Gran Consiglio furono chiamati a votare per appello nominale.
La votazione sull'ordine del giorno Grandi si concluse con:
- 19 voti a favore: Emilio De Bono (quadrumviro), Cesare Maria De Vecchi (quadrumviro), Dino Grandi (presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni), Alfredo De Marsico (ministro di grazia e giustizia), Giacomo Acerbo (ministro delle finanze), Carlo Pareschi (ministro dell'agricoltura e delle foreste), Tullio Cianetti (ministro delle corporazioni),[13] Giuseppe Bastianini (sottosegretario agli esteri),[14] Umberto Albini (sottosegretario agli interni),[14] Luigi Federzoni (presidente dell'Accademia d'Italia), Giovanni Balella (presidente della Confederazione industriali), Luciano Gottardi (presidente della Confederazione lavoratori industria), Annio Bignardi (presidente della Confederazione lavoratori agricoltura), Alberto de' Stefani, Edmondo Rossoni, Giuseppe Bottai, Giovanni Marinelli, Dino Alfieri, Galeazzo Ciano;
- 8 voti contrari: Carlo Scorza (segretario del PNF), Carlo Alberto Biggini (ministro dell'educazione nazionale), Gaetano Polverelli (ministro della cultura popolare), Antonino Tringali Casanuova (presidente del Tribunale speciale), Ettore Frattari (presidente della Confederazione agricoltori), Enzo Galbiati (capo di stato maggiore della MVSN), Roberto Farinacci, Guido Buffarini Guidi;
- 1 astenuto: Giacomo Suardo (presidente del Senato del Regno).
Dopo l'approvazione dell'O.d.G. Grandi, Mussolini ritenne inutile porre in votazione le altre mozioni e tolse la seduta. Alle 2:40 del 25 luglio i presenti lasciarono la sala.
L'arresto di Mussolini[modifica | modifica wikitesto]

L'indomani, domenica 25 luglio, Mussolini si recò a Villa Savoia, residenza reale all'interno del grande parco che oggi è Villa Ada (all'epoca residenza privata del sovrano), per un colloquio con il re, che aveva fatto sapere che lo avrebbe ricevuto alle 17; vi si recò accompagnato dal segretario De Cesare, con sotto braccio una cartella che conteneva l'ordine del giorno Grandi, varie carte e la legge di istituzione del Gran Consiglio, secondo cui l'organismo aveva solo carattere consultivo.[15]
Il colloquio durò venti minuti: il re comunicò a Mussolini la sua sostituzione da capo del governo con il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio; poi lo fece arrestare all'uscita della villa, con la motivazione di aver portato il popolo italiano nella seconda guerra mondiale, di essersi alleato con la Germania nazista e di essere responsabile della disfatta nell'invasione della Russia.
Il capitano dei carabinieri Paolo Vigneri fu incaricato di eseguire l'arresto. Venne convocato telefonicamente con il collega capitano Raffaele Aversa intorno alle ore 14:00 del 25 luglio dal tenente colonnello Giovanni Frignani, il quale espose loro le modalità di esecuzione dell'ordine di arresto spiccato nei confronti del Duce. Vigneri ricevette termini drastici per la consegna a ogni costo del catturando e si avvalse, per portare a termine la missione, oltre che di Aversa, di tre sottufficiali dei Carabinieri (Bertuzzi, Gianfriglia e Zenon), i quali in caso di necessità erano autorizzati a usare le armi.
I cinque carabinieri si recarono presso la villa e rimasero in attesa, fuori dall'edificio. Verso le 17:20 Mussolini, accompagnato da De Cesare, uscì dalla villa e fu affrontato da Vigneri, che in nome del re gli chiese di seguirlo per «sottrarlo ad eventuali violenze della folla». Ricevuto un diniego, Vigneri prese per un braccio Mussolini ed eseguì l'arresto caricandolo su un'ambulanza militare, mezzo che era già sul luogo e che era stato scelto per non destare sospetti sul pianificato arresto dell'ex capo del governo e del fascismo, oltre che per proteggerlo da una reazione popolare che avrebbe potuto porre in pericolo la sua vita. Mussolini fu quindi condotto prima nella Caserma Podgora di Trastevere e dopo alcune ore tradotto nella caserma della Scuola allievi carabinieri a Prati, in via Legnano.[16]
La regina Elena ha raccontato in un'intervista del marzo 1950, pubblicata ne La storia illustrata del luglio 1983, i venti minuti in cui si consumò l'incontro tra Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, nonché la destituzione e l'arresto di quest'ultimo:
«Eravamo in giardino. A me non aveva ancora detto nulla. Quando un emozionato Acquarone ci raggiunse, e disse a mio marito: «Il generale dei carabinieri desidera, prima dell'arresto di Mussolini, l'autorizzazione di Vostra Maestà» - Io restai di sasso. Mi venne poi da tremare quando sentii mio marito rispondere: «Va bene. Qualcuno deve prendersi la responsabilità. Me l'assumo io». Poi salì la scalinata con il generale. Attraversavo l'atrio quando Mussolini arrivò. Andò incontro a mio marito. E mio marito gli disse «Caro Duce, l'Italia va in tocchi…». Non lo aveva mai chiamato così, ma sempre "eccellenza". Io nel frattempo salii al piano superiore, mentre la mia dama di compagnia, la Jaccarino, attardandosi nella saletta era rimasta giù e ormai non poteva più muoversi. Più tardi mi riferì tutto. Mi narrò che mio marito aveva perso le staffe e si era messo a urlare contro Mussolini, infine gli comunicò che lo destituiva e che a suo posto metteva Pietro Badoglio. Quando poi la Jaccarino mi raggiunse, dalla finestra di una sala, vedemmo mio marito tranquillo e sereno, che accompagnava sulla scalinata della villa Mussolini. Il colloquio era durato meno di venti minuti. Mussolini appariva invecchiato di vent'anni. Mio marito gli strinse la mano. L'altro mosse qualche passo nel giardino, ma fu fermato da un ufficiale dei carabinieri seguito da soldati armati. Il dramma si era compiuto. Mi sentivo ribollire. Per poco non sbattei contro mio marito, che rientrava. «È fatta» disse piano, lui. «Se dovevate farlo arrestare» gli gridai a piena voce, indignata «...questo doveva avvenire fuori casa nostra. Quel che avete fatto non è un gesto da sovrano…». Lui ripeté «Ormai è fatta» e cercò di prendermi sotto braccio, ma io mi allontanai di scatto da lui: «Non posso accettare un fatto del genere» dissi «mio padre non lo avrebbe mai fatto» poi andai a rinchiudermi nella mia camera.»
Questa, invece, la versione di Benito Mussolini, pubblicata postuma sul Meridiano d'Italia il 6 aprile 1947:
«Del re ero sicuro: non avevo motivo di dubitare di lui. Il colloquio, a Villa Savoia, durò circa venti minuti. Si iniziò con una mia succinta relazione sulla situazione politico-militare e sull'incontro a Feltre. Vittorio Emanuele, dimostrando vivo interessamento a quanto gli andavo esponendo, domandò precisazioni e fece qualche obiezione. Gli parlai, poi, della situazione in Sicilia, della minaccia diretta contro l'Italia meridionale, della seduta del Gran Consiglio, facendogli presente la necessità di agire energicamente per stroncare l'offensiva dei nemici esterni ed interni. Fu allora che il re, infiorando come sua consuetudine le frasi con qualche parola piemontese, mi disse che era inutile far progetti per l'avvenire, perché la guerra era ormai da considerarsi irrimediabilmente perduta, che "il popolo non la sentiva, che l'Esercito non voleva battersi". «Specialmente gli alpini non vogliono più battersi per voi - disse acre, levandosi in piedi. «Si batteranno per voi, Maestà!» - ribattei. Fu in quel momento che mi accorsi di trovarmi di fronte un uomo col quale ogni ragione era impossibile. «Tutto è inutile ormai» - soggiunse il re - «l'avvenire della Nazione è ora affidato alla Corona. Le mie decisioni sono già state prese. Nuovo Capo del Governo è il Maresciallo Badoglio e virtualmente è già entrato in funzione. Sarà bene che vi mettiate a sua disposizione». Era nel suo pieno diritto licenziare il suo Primo Ministro, ma ciò nonostante ero e rimanevo il capo del Fascismo. Questo gli dissi e mi avviai per uscire. Il re mi trattenne: «Cercate di starvene tranquillo - soggiunse. - Sul vostro nome sarà meglio che non si faccia dello scalpore». «Se ne è già fatto abbastanza» - risposi. Discendendo la scalinata di Villa Savoia, fui sorpreso di non trovare la mia macchina ad attendermi. Con il pretesto che l'udienza si sarebbe protratta a lungo e che occorreva lasciare libero il piazzale, essa era stata avviata in un viale adiacente. Mi arrestai a metà dello scalone e chiesi al maggiordomo di Casa reale di far avanzare la mia vettura. Nello stesso istante sopraggiungeva una autoambulanza della Croce Rossa. Un colonnello dei Carabinieri, staccandosi da un plotone formato da ufficiali e da militi, mi si avvicinò: «Eccellenza - mi disse - vi prego di salire nell'autoambulanza». Sorpreso, protestai. Il colonnello rispose che quello era l'ordine. «Devo proteggere la vostra vita, eccellenza - soggiunse, manifestamente astenendosi di usare il termine duce. - Quindi intendo eseguire l'ordine ricevuto». Compresi di essere caduto in una trappola. Ma non c'era nulla da fare. Bisognava inchinarsi davanti alla forza. Salii dunque sull'autoambulanza: lercia, ve lo assicuro. Non vi nascondo che in quel momento malignamente pensai che i traditori intendessero in tal modo offendermi, adeguando secondo loro il contenente al contenuto. Con me salirono il colonnello, due carabinieri in borghese e due in divisa. Tutti armati di fucile mitragliatore. L'autoambulanza partì a strappo e attraversò i quartieri di Roma a tale andatura, che ad un certo momento pregai l'ufficiale di dar l'ordine di moderare la corsa. «Qui finiremo con l'investire qualche disgraziato e con lo sfasciarci contro un muro - dissi. Ci arrestammo nel cortile della caserma Podgora, dei Carabinieri, in via Quintino Sella. Fui fatto scendere e sostare per circa un'ora, strettamente sorvegliato, nella stanza attigua al corpo di guardia. Alla mia richiesta di spiegazioni, l'ufficiale che mi aveva accompagnato rispose: - E' stato necessario prendere delle misure per proteggervi dal furore popolare. Bisognerà far perdere le vostre tracce.»
Per tutta la giornata del 25 luglio venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto; solo alle 22:45 fu data la notizia della sostituzione del capo del governo. La radio interruppe le trasmissioni per diffondere il seguente comunicato:[17]
«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo, Primo ministro, Segretario di Stato, sua Eccellenza il Cavaliere, Maresciallo d'Italia, Pietro Badoglio.»
Al comunicato il popolo di Roma si riversò nelle piazze e per le strade invocando libertà e pace. Seguì la lettura di due proclami da parte del re e di Badoglio: quest'ultimo, per non destare sospetti nei confronti dei tedeschi, finiva con queste parole:[18]
«[…] La guerra continua. L'Italia duramente colpita nelle sue Provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni […]»
Mussolini avrebbe voluto andare agli arresti domiciliari nella sua residenza estiva alla Rocca delle Caminate vicino a Forlì; invece il 27 luglio fu portato al carcere dell'isola di Ponza.
Conseguenze[modifica | modifica wikitesto]

Badoglio è nominato nuovo Capo del Governo[modifica | modifica wikitesto]
L'indomani (lunedì 26 luglio) la notizia aprì le prime pagine dei quotidiani: tutti la pubblicarono con caratteri cubitali. Nessuno, però, sapeva che cosa ne era stato di Mussolini. L'intera giornata del 26 trascorse senza avvenimenti di rilievo. Solo la mattina del 27, martedì, la stampa diede notizia che il Gran Consiglio, nella notte tra il 24 e il 25, aveva votato l'ordine del giorno di Dino Grandi con la conseguente assunzione dei poteri da parte del re[19].
Badoglio instaurò un governo tipicamente militare. Dietro suo ordine, il 26 luglio il capo di stato maggiore, gen. Mario Roatta, diramava una circolare telegrafica alle forze dell'ordine e ai distaccamenti militari la quale disponeva che chiunque, anche isolatamente, avesse compiuto atti di violenza o ribellione contro le forze armate e di polizia, o avesse proferito insulti contro le stesse e le istituzioni, sarebbe stato passato immediatamente per le armi. La circolare ordinava inoltre che ogni militare impiegato in servizio di ordine pubblico che avesse compiuto il minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell'ordine, o avesse disobbedito agli ordini, o avesse anche minimamente vilipeso i superiori o le istituzioni, sarebbe stato immediatamente fucilato. Gli assembramenti di più di tre persone andavano parimenti dispersi, facendo ricorso alle armi e senza intimazioni preventive o preavvisi di alcun genere.
I tumulti e l'armistizio di Cassibile[modifica | modifica wikitesto]
Il 28 luglio, a Reggio Emilia, i soldati spararono sugli operai delle Officine Reggiane, facendo nove morti. Nello stesso giorno a Bari si contarono nove morti e 40 feriti.
In totale, nei soli cinque giorni seguenti al 25 luglio, i morti in seguito a interventi di polizia ed esercito furono 83, i feriti 308, gli arrestati 1 500[20]. Nei giorni seguenti il nuovo esecutivo iniziò a prendere contatti con gli alleati per trattare la resa. Poche settimane dopo, il 3 settembre, il governo Badoglio firmò con gli Alleati l'armistizio di Cassibile, che venne reso noto l'8 settembre dallo stesso Badoglio.
Dalla nascita della R.S.I. alla morte del Duce[modifica | modifica wikitesto]
Hitler, appena saputo dell'arresto di Mussolini, aveva incaricato Otto Skorzeny, ex agente del servizio segreto e in quel periodo comandante SS di un corpo speciale di commando, di fare una ricerca per sapere dove fosse nascosto. Skorzeny venne a sapere, per mezzo di un carabiniere, che Mussolini si trovava all'isola di Ponza, ma, mentre si accingeva a elaborare un piano per liberarlo, fu trasferito all'isola della Maddalena. Anche questa volta Skorzeny lo venne a sapere da un carabiniere e preparò un nuovo piano, ma, poco prima che potesse attuarlo, Mussolini fu nuovamente trasferito, stavolta nell'albergo di Campo Imperatore sul Gran Sasso (L'Aquila) e fu lì che venne liberato da un commando trasportato in aliante. Mussolini pensava di fuggire in auto per poi andare alla Rocca delle Caminate; invece arrivò a prelevarlo un piccolo aereo biposto che, assieme a Skorzeny, lo portò all'aeroporto di Campo di Mare. Il velivolo ripartì subito diretto a Vienna, dove Mussolini si ricongiunse alla sua famiglia. Poi incontrò Hitler alla Tana del Lupo a Rastenburg, dove i due si misero d'accordo per far rinascere il fascismo nell'Italia occupata dai tedeschi. Il 23 settembre si costituì così la Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò, la cittadina sul lago di Garda dove avevano sede gran parte dei ministeri.
In novembre i fascisti della Repubblichina (così chiamata in spregio dai suoi detrattori, poiché includeva solo una porzione del territorio nazionale) si riunirono in assemblea a Verona ed emanarono un documento programmatico cui diedero il nome di «Manifesto di Verona». L'assemblea si trasformò in Alta corte di giustizia per la violenza con cui i convenuti reclamavano l'immediata fucilazione di Galeazzo Ciano. Nel processo di Verona, tenutosi dall'8 al 10 gennaio 1944, i membri del Gran Consiglio che avevano votato a favore dell'Ordine del giorno Grandi furono condannati a morte come traditori. Cianetti, grazie alla sua ritrattazione, scampò alla pena capitale e venne condannato a 30 anni di reclusione. Tuttavia i fascisti repubblichini riuscirono ad arrestare solo cinque dei condannati a morte (Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi), che furono giustiziati tramite fucilazione l'11 gennaio 1944. L'esercito della RSI combatté al fianco dei tedeschi contro l'esercito di Badoglio, i partigiani e le forze armate alleate, fino alla sua sconfitta.
Sostanzialmente uno stato fantoccio della Germania nazista, la Repubblica Sociale Italiana cadde nel 1945, appena due anni dopo la sua formazione, in tre momenti distinti concentrati sul finire d'aprile.
Il 25 aprile, mentre il CLN proclamava l’insurrezione generale nel Nord Italia, militari e civili vennero sciolti dal giuramento, quale ultimo atto di governo di Mussolini; questi, intanto, insieme ai suoi fedelissimi tentò di fuggire verso nord, ma mentre la colonna tedesca a cui si era aggregato stava transitando lungo la sponda occidentale del lago di Como, venne riconosciuto da un plotone di partigiani, che lo fecero prigioniero il 27 aprile. L’ex capo del fascismo venne giustiziato il giorno dopo a Giulino di Mezzegra insieme all’amante Claretta Petacci, mentre nelle stesse ore gran parte del governo della RSI venne giustiziato a Dongo. I cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti vennero poi trasferiti a Milano, dove vennero appesi a testa in giù in un distributore di benzina di Piazzale Loreto.
La guerra in Italia ebbe termine con la resa di Caserta, entrata in vigore il 2 maggio. Fu una resa incondizionata, congiunta a quella dei Comandi tedeschi operanti sul territorio italiano, che impose alle Forze Armate repubblicane la consegna delle armi, oltre il passaggio in prigionia a discrezione dei vincitori della Campagna d'Italia (anche se alcuni reparti in Venezia Giulia e in Piemonte si arresero solo ai primi di maggio del 1945).
Il presunto verbale manoscritto della seduta[modifica | modifica wikitesto]
Nel 2013 è stato rinvenuto dal documentarista storico Fabio Toncelli, nel corso delle riprese per il suo documentario Mussolini 25 luglio 1943: la caduta (trasmesso dalla Rai), un presunto verbale manoscritto della seduta, in cui a margine è riportato che sarebbe stato trascritto in un "registro segreto della Corte dei Conti il 4 agosto" successivo, ma non è dato di capire se e chi lo abbia materialmente redatto. In esso si descrive un "clima incandescente, con aspri scontri verbali": addirittura si riporta di un gerarca che avrebbe estratto la pistola. Di questa descrizione della seduta aveva già ricevuto notizia lo storico Renzo De Felice, che l'aveva riportata in una nota del suo volume Mussolini: l'alleato, senza però riuscire a trovare ulteriori documenti a conferma.
Però lo stesso Toncelli, che ha mostrato per la prima volta davanti alle telecamere il documento, a un esame più attento, ha messo in evidenza un dettaglio errato: la data di redazione risulta essere quella del 25 luglio 1943 - XXII, cioè "XXII anno dell'era fascista". Questa, però, decorre dal 28 ottobre di ogni anno, anniversario della marcia su Roma del 1922; ne consegue che il 25 luglio 1943 era ancora parte del XXI anno dell'era fascista, non del XXII. Tale errore rende dubbia l'autenticità del documento, che è tuttora oggetto di valutazione da parte degli storici.[21]
Note[modifica | modifica wikitesto]
- ^ Internal Situation in Italy. Memorandum by the Secretary of State for Foreign Affairs, NAK, CAB/66/36/26
- ^ Queste supposte appartenenze alla massoneria non possono essere provate.
- ^ a b Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, vol. I, tomo II, Einaudi, 1990, p. 1236.
- ^ Gianfranco Bianchi, «25 luglio: crollo di un regime», Mursia, Milano, 1963, p.417
- ^ Il crollo del regime fascista e una vertenza cavalleresca, MemoriaWeb - Trimestrale dell'Archivio storico del Senato della Repubblica - n. 23 (Nuova Serie), settembre 2018, p. 28: Grazioli invoca la convocazione di palazzo Madama non fosse altro per parità di trattamento col Gran consiglio del fascismo, non potendo ammettersi che sia utile in questo momento sentire il parere del Gran consiglio e ritenere inutile ogni collaborazione dal Senato.
- ^ Mimmo Franzinelli, Guerra di spie, Mondadori, 2004 - ed. collana "Oscar", ISBN 88-04-55973-X, pag. 293
- ^ Mimmo Franzinelli, Guerra di Spie, Mondadori, 2004, collana "Oscar", Mondadori ISBN 88-04-55973-X, pag. 293
- ^ Mussolini disse: «Ebbene, convocherò il Gran Consiglio. Si dirà in campo nemico che si è radunato per discutere la capitolazione. Ma l'adunerò».
- ^ Emilio Gentile, 25 Luglio 1943, Bari-Roma, Laterza, 2018.
- ^ Paolo Nello, 1993. Un fedele disubbidiente : Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio , Il Mulino, 1993.
- ^ Le citazioni che seguono provengono da un resoconto che venne scritto il mattino seguente a casa di Federzoni dallo stesso Federzoni insieme a Bottai, Bastianini e Bignardi, i quali si basarono sulle note prese durante la seduta. Cfr. Dino Grandi, Il 25 Luglio 40 anni dopo, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 249.
- ^ Così sostiene Dino Grandi, Il 25 Luglio 40 anni dopo, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 249.
- ^ Il giorno dopo scrisse a Mussolini ritrattando il suo voto.
- ^ a b Entrambi i ministeri erano in quel momento retti da Mussolini, come i tre dicasteri militari.
- ^ Benito Mussolini, Storia di un anno, Milano 1944.
- ^ Dal 25 aprile 1983 via Carlo Alberto Dalla Chiesa.
- ^ Bianchi (1963), p. 704.
- ^ Bianchi (1963), p. 705.
- ^ Uno dei primi provvedimenti del re fu la soppressione del Partito Nazionale Fascista e di conseguenza del Gran Consiglio stesso, con i due RDL 2 agosto 1943, nº 704 e 706.
- ^ Gianni Palitta, Cronologia Universale, Ed. Gulliver, 1996, p. 731.
- ^ RAI, La Grande Storia, puntata del 19 luglio 2013 - "Il Fascismo: le rovine e la caduta", di Fabio Toncelli, prodotto dalla SD Cinematografica.
Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]
- Paolo Monelli, Roma 1943, Roma, Migliaresi Editore, I ed. 1945. - II ed. riveduta e accresciuta 1945; III ed. riveduta 1946; IV-V ed. riveduta, 1946; Milano, Mondadori, 1948; Collana Il mondo nuovo n.66, Longanesi, Milano, 1963; introduzione di Luigi Barzini, Collana Oscar n.971, Milano, Mondadori, I ed. 1979; prefazione di Lucio Villari, Collana Einaudi Tascabili. Saggi n.159, Einaudi, Torino, 1993; nuova prefazione di Lucio Villari, Collana ET Saggi, Einaudi, Torino, 2012, ISBN 978-88-06-21150-9.
- Eugen Dollmann, Roma nazista, traduzione di I. Zingarelli, Milano, Longanesi, 1949-1951. - prefazione di Silvio Bertoldi, Collana SuperBur Saggi, Milano, BUR, 2002.
- Eugen Dollmann, La calda estate del 1943, Collana Il salotto di Clio, Firenze, Le Lettere, 2012, ISBN 978-88-6087-369-9.
- Frederick William Deakin, Storia della repubblica di Salò (The Brutal Friendship), Biblioteca di cultura storica n.76, Torino, Einaudi, 1963-1968, p. 826. . 2 voll., Collana Gli struzzi n.10, Einaudi, Torino, 1970; riedito col titolo originale, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo, Collana Einaudi Tascabili n.26, Einaudi, Torino, 1990, ISBN 978-88-06-11786-3.
- Gianfranco Bianchi, 25 Luglio: crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963.
- Giorgio Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista 1940-1943, Bari, Laterza, 1969.
- Dino Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo De Felice, introd. di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1983, ISBN 978-88-150-0331-7. - Premessa di Giuseppe Parlato, Collana Storia/Memoria, Il Mulino, 2003, ISBN 978-88-150-9392-9.
- Silvio Bertoldi, Colpo di Stato. 25 luglio 1943: il ribaltone del fascismo, Milano, Rizzoli, 1996, p. 299.
- Giaime Pintor, L'ora del riscatto. 25 luglio 1943, Collana Etcetera, Roma, Castelvecchi, 2013, ISBN 978-88-7615-962-6.
- Alfredo De Marsico, 25 luglio 1943. Memorie per la storia, presentaz. di G. Bianchi, a cura di M. A. Stecchi de Bellis, Bari, 1983.
- Giuseppe Bottai, Vent'anni e un giorno (24 luglio 1943), Milano, 1949.
- V. Cersosimo, Dall'istruttoria alla fucilazione. Storia del processo di Verona, Milano, 1949.
- Enzo Galbiati, Il 25 luglio e la MVSN, Milano, 1950
- Benito Mussolini, Storia di un anno (Il tempo del bastone e della carota), in Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, XXXIV, Firenze, 1962.
- R. Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Milano, 1964.
- Luigi Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, 1967
- G. F. Vené, Il processo di Verona, Milano, 1967
- Giacomo Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell'epoca fascista, Bologna, 1968
- Carlo Scorza, La notte del Gran Consiglio, Milano, 1968
- Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G. B. Guerri, Milano, 1982
- Carlo Scorza, Mussolini tradito. Dall'archivio segretissimo e inedito dell'ultimo segretario del PNF dal 14 aprile alla notte del 25 luglio 1943, Roma, 1982
- Tullio Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Milano 1983, ad Indicem; Dino Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo De Felice, Bologna, 1983
Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]
- Armistizio di Cassibile
- Benito Mussolini
- Caduta della Repubblica Sociale Italiana
- Dino Grandi
- Gran consiglio del fascismo
- Pietro Badoglio
- Governo Badoglio
- Periodo costituzionale transitorio
- Proclama Badoglio dell'8 settembre 1943
- Storia del fascismo italiano
Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]
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Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]
- Relazione del generale dei Carabinieri Filippo Caruso sull'arresto di Mussolini, su carabinieri.it.
- Video in cui si mostrano le carte redatte da Federzoni durante la seduta del Gran consiglio, su ilgiornaleditalia.org. URL consultato il 24 luglio 2016 (archiviato dall'url originale il 26 luglio 2016).