Giorgio Labò

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Giorgio Labò "Lamberto"

Giorgio Labò "Lamberto" (Modena, 29 maggio 1919Roma, 7 marzo 1944) è stato un partigiano italiano, studente di architettura, decorato della Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Genova, via Roma 1: la pietra d'inciampo a memoria di Giorgio Labò.

Nacque a Modena dall'architetto Mario Labò e da Enrica Morpurgo, ebrea. Questa origine mista che lo accomunava al suo compagno Mario Fiorentini contribuirà non poco a saldare la loro amicizia[1]. Visse a Genova dove il padre nacque e lavorò come architetto[2]. Si iscrisse alla Facoltà di Architettura presso il Politecnico di Milano ma dovette interrompere gli studi allo scoppio della Seconda guerra mondiale, per arruolarsi nel Genio minatori dove arrivò al grado di sergente.

Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 entrò a far parte della resistenza con il nome di battaglia di Lamberto, nei partigiani della zona di Poggio Mirteto. A novembre dello stesso anno[3] entrò a far parte dei Gruppi di Azione Patriottica di Roma dove mise a frutto le conoscenze acquisite nel campo degli esplosivi. Partecipò a numerosi sabotaggi e con mezzi di fortuna allestì e gestì insieme a Gianfranco Mattei una santabarbara clandestina in Via Giulia 25 bis, in casa di Gino Mangiavacchi, a Roma, dove per quattro mesi riuscirono a produrre ordigni esplosivi via via sempre più sofisticati[2][3][4].

Il 1º febbraio 1944, tradito da Giovanni Amidei, venne catturato dalle SS tedesche, arrestato e tradotto nelle carceri di Via Tasso, per 18 giorni venne tenuto strettamente legato mani e piedi nella cella numero 31[2][3][5]. Nonostante la tortura, che gli portò gli arti alla gangrena, negli interrogatori che subì non rivelò mai nulla.

Il compagno di lotta e di prigionia Antonello Trombadori scriverà:

«Il martirio della legatura mani e piedi durò diciotto giorni. Le mani strette dietro la schiena; una sull'altra; deve giacere bocconi per evitare che il peso del suo corpo ricada in modo insopportabile sulle mani tumefatte e gonfie per il nodo strettissimo della corda. Le mani sono diventate livide ed enormi per il gonfiore; il difetto di circolazione ha provocato anche sul suo volto gonfiori e rose di sangue. Attorno ai polsi un solco putrido... infezione, cancrena...»

Il 7 marzo 1944, impossibilitato a scrivere, dettò una lettera al cappellano in cui comunicò la sua morte al professor Giulio Carlo Argan[4], fu poi condotto a Forte Bravetta dove, trascinato a braccia per la sua condizione fisica, venne fucilato da un plotone della Polizia dell'Africa Italiana, senza aver subito alcun processo, insieme ad Antonio Bussi, Concetto Fioravanti, Vincenzo Gentile, Paul Lauffer, Francesco Lipartiti, Antonio Nardi, Mario Negelli, Augusto Pasini, Guido Rattoppatore[2][3].

Gli fu conferita la Medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Successivamente viene ricordato anche con una pietra d'inciampo posta il 7 marzo 2013 a Genova, all'altezza del civico 1 di via Roma.

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria - nastrino per uniforme ordinaria
«Formatosi ad una pura fede antifascista, sergente del genio minatori, combatté strenuamente l’8 settembre 1943 contro il tedesco invasore. Accorreva quindi nelle file partigiane, compiendo innumerevoli ed audaci azioni di sabotaggio. Distruggeva, fra l’altro, un treno e un ponte ferroviario. Entrato nell’organizzazione militare del partito comunista italiano, diveniva a Roma l’animatore instancabile dei gloriosi G.A.P. centrali. Tecnico espertissimo del sabotaggio, costituiva nel cuore stesso della città un laboratorio per la costruzione dei mezzi più efficienti d’offesa con i quali riforniva i suoi reparti d’assalto. Caduto nelle mani delle SS. tedesche, resisteva con incrollabile fermezza alle torture più atroci per più di un mese. Legato mani e piedi ininterrottamente da strettissimi vincoli che fecero in breve tempo incancrenire i suoi polsi, con le ossa fracassate ed il volto disfatto dalle percosse, ad ogni intimazione dei carnefici rispondeva: « Non lo so e non lo dico. Viva l’Italia! ». Condannato senza processo alla pena capitale, cadeva serenamente sotto il piombo tedesco. Palidoro, settembre 1943 - Poggio Mirteto, ottobre 1943 - Roma, novembre 1943-marzo 1944.[6]»

Riconoscimenti e dediche[modifica | modifica wikitesto]

  • Il Politecnico di Milano gli ha conferito la laurea ad honorem.
  • La città di Genova, in cui il padre Mario Labò lavorò come architetto, gli ha dedicato una piazza.[5]
  • Il 16 settembre 1983 a Genova è stata costituita la Fondazione Mario e Giorgio Labò per lo studio e la ricerca degli aspetti urbanistici, architettonici, tecnici e storico sociali della Liguria.[2][7]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Mario Fiorentini, Via Giulia: Giorgio Labò e Gianfranco Mattei, in Massimo Sestili (a cura di), Sette mesi di guerriglia urbana. La resistenza dei GAP a Roma, Roma, Odradek, 2015, ISBN 978-88-96487-36-5.
  2. ^ a b c d e f dal sito dell'ANPI
  3. ^ a b c d dal sito dell'INSMLI Archiviato il 21 settembre 2013 in Internet Archive.
  4. ^ a b Pietro Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), 16ª ed., Torino, Einaudi, 2003 [1952], p. 161, ISBN 978-88-06-17886-4.
  5. ^ a b c dal sito "Labò"
  6. ^ dal sito della Presidenza della Repubblica
  7. ^ dal sito della Fondazione Mario e Giorgio Labò, su fondazionelabo.it. URL consultato il 13 luglio 2019 (archiviato dall'url originale il 27 agosto 2013).

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

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