Mani pulite

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L'espressione Mani pulite indica una serie di inchieste giudiziarie degli anni novanta del XX secolo in Italia, caratterizzata da una serie di indagini giudiziarie condotte a livello nazionale nei confronti di esponenti della politica, dell'economia e delle istituzioni italiane. Le indagini portarono alla luce un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti ai livelli più alti del mondo politico e finanziario italiano.

Le inchieste furono inizialmente condotte da un pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Tiziana Parenti, Ilda Boccassini e guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e dal suo vice Gerardo D'Ambrosio) e allargate a tutto il territorio nazionale, portarono a decine di arresti di noti esponenti politici, dando vita ad una grande indignazione dell'opinione pubblica che pose le basi di una rivoluzione nella scena politica italiana. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare di un passaggio ad una Seconda Repubblica.

Con tangentopoli[1] si indica il periodo storico per riferirsi a tali avvenimenti. Furono coinvolti ministri, deputati, senatori, imprenditori ed ex Presidenti del Consiglio.

Origine dell'espressione

Il primo ad usare l'espressione Mani pulite fu il politico italiano Giorgio Amendola, deputato per il Partito Comunista Italiano, in un'intervista a Manlio Cancogni pubblicata da Il Mondo, il 10 luglio 1975, in risposta alle critiche che venivano mosse all'onestà nella gestione delle amministrazioni pubbliche allo stesso PCI: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera». L'espressione Mani pulite fu ripresa e usata, poi dal giornalista e scrittore italiano Claudio Castellacci in un libro dal titolo omonimo pubblicato nel 1977. Tre anni più tardi il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un discorso ai giovani, tenuto nel 1980, disse: «Chi entra in politica, deve avere le mani pulite».

In un'accezione ristretta, l'indagine Mani pulite è quella gemmata dal «fascicolo virtuale» (n. 9520) aperto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano nel 1991 dallo stesso Di Pietro.

In un'accezione allargata, di Mani pulite si parla anche per le altre indagini per reati contro la pubblica amministrazione condotte nello stesso periodo dalla procura di Milano (es. ENI-SAI) e, più in generale ancora, in tutte le altre procure italiane che diedero corso nel medesimo periodo ad indagini contro il malaffare in politica (si parlò di «Mani pulite napoletana» per le indagini contro Francesco De Lorenzo, Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, di «Mani pulite romana» per le indagini su Giorgio Moschetti, di «Mani pulite genovese», «Mani pulite piemontese», ecc.).

1992: la scoperta di Tangentopoli

Mario Chiesa, il «mariuolo isolato»

«Tutto era cominciato un mattino d'inverno, il 17 febbraio 1992, quando, con un mandato d'arresto, una vettura dal lampeggiante azzurro si era fermata al Pio Albergo Trivulzio e prelevava il presidente, l'ingegner Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista Italiano con l'ambizione di diventare sindaco di Milano. Lo pescano mentre ha appena intascato una bustarella di sette milioni, la metà del pattuito, dal proprietario di una piccola azienda di pulizie che, come altri fornitori, deve versare il suo obolo, il 10 per cento dell'appalto che in quel caso ammontava a 140 milioni[2]

Tangentopoli cominciò il 17 febbraio 1992. Il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne dal GIP Italo Ghitti un ordine di cattura per l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese.

Chiesa era stato colto in flagrante mentre intascava una tangente dall'imprenditore monzese Luca Magni che, stanco di pagare, lo aveva denunciato chiedendo aiuto alle forze dell'ordine. Magni, d'accordo coi carabinieri e con Di Pietro, fece ingresso alle 17:30 nell'ufficio di Mario Chiesa, portando con sé 7 milioni di lire, corrispondenti alla metà di una tangente richiestagli da quest'ultimo; l'appalto ottenuto dall'azienda di Magni era infatti di 140 milioni e Chiesa aveva preteso per sé il 10%, quindi una tangente da 14 milioni. Magni aveva un microfono e una telecamera nascosti e, appena Chiesa ripose i soldi in un cassetto della scrivania, dicendosi disponibile a rateizzare la transazione, nella stanza irruppero i militari, che notificarono l'arresto. Chiesa, a quel punto, afferrò il frutto di un'altra tangente, stavolta di 37 milioni, e si rifugiò nel bagno attiguo, dove tentò invano di liberarsi del maltolto buttando le banconote nel water[3].

La notizia fece scalpore e finì sulle prime pagine dei quotidiani e venne ripresa dai telegiornali. Il segretario socialista Bettino Craxi, allora impegnato nella campagna elettorale per le elezioni politiche di primavera, con l'obiettivo di ritornare alla presidenza del Consiglio, in un'intervista rilasciata a Daniela Vergara per il TG3, negò l'esistenza della corruzione a livello nazionale, definendo Mario Chiesa un mariuolo isolato, una scheggia impazzita dell'altrimenti integro Partito Socialista, affermando:

«In questa vicenda, purtroppo, una delle vittime sono proprio io. Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un Governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti e mi trovo un mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano in cinquant'anni, nell'amministrazione del Comune di Milano, nell'amministrazione degli enti cittadini – non in cinque anni, in cinquanta – non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione[4]

L'allargamento delle indagini anticorruzione e le elezioni del 1992

Antonio Di Pietro, il magistrato più famoso di Mani pulite (2008).
Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool, indagò anche sulla loggia P2 e sui fondi neri dell'IRI.

Rinchiuso nel carcere di San Vittore, Chiesa in un primo momento non confessò. Il PM Di Pietro che, nelle indagini sull'ingegnere aveva scoperto e messo sotto sequestro due conti svizzeri, Levissima e Fiuggi, chiamò al telefono l'avvocato di Chiesa, Nerio Diodà, e gli disse:

«Avvocato, riferisca al suo cliente che l'acqua minerale è finita[3]

Così, sotto interrogatorio, Chiesa rivelò che il sistema delle tangenti era molto più esteso rispetto a quanto affermato da Craxi. Secondo le sue dichiarazioni, la tangente era diventata una sorta di «tassa», richiesta nella stragrande maggioranza degli appalti. A beneficiare del sistema erano stati politici e partiti di ogni colore, specialmente quelli al governo come appunto la DC e il PSI. Chiesa fece anche i nomi delle persone coinvolte.

Vista la delicata situazione politica, in piena campagna elettorale, Antonio Di Pietro mantenne sulle indagini il più assoluto riserbo, mentre alcune formazioni politiche come la Lega Nord iniziarono a cogliere la sempre più crescente indignazione popolare per raccogliere voti (con lo slogan «Roma ladrona!»).

Altre, come la DC, sottovalutarono il peso politico di Mani pulite e altri ancora come Bettino Craxi accusarono la Procura di Milano di muoversi secondo un «preciso disegno politico».

Le elezioni di aprile 1992 furono segnate dal crescere dell'astensione e dell'indifferenza della popolazione nei confronti di una politica chiusa e ingabbiata negli stessi schemi dai tempi del dopoguerra, incapace di rinnovarsi malgrado gli epocali cambiamenti storici di quegli anni. Il calo di consensi investì quasi tutti i maggiori partiti: la DC calò dal 34,31% al 29,66; il PSI, che nelle precedenti consultazioni aveva toccato i suoi massimi storici, scese di un punto percentuale; PRI, PLI e PSDI conservarono le loro posizioni. Il PDS e il PRC, eredi del disciolto PCI, persero quasi il 5% dei voti[5]. I veri vincitori delle elezioni furono la Lega Nord e La Rete, due formazioni di recente fondazione, sviluppatesi la prima nell'Italia Settentrionale, l'altra nel Meridione, che registrarono un vero e proprio boom, facendo della moralizzazione e del rinnovamento politico i propri cavalli di battaglia: il movimento leghista passò da 2 parlamentari (un deputato e un senatore) a 80 (55 eletti alla Camera, 25 eletti al Senato), mentre quello fondato dall'ex democristiano Leoluca Orlando ottenne buoni risultati soprattutto a Palermo e Torino[5], eleggendo 15 parlamentari su scala nazionale (12 deputati e 3 senatori)[6].

Subito dopo le elezioni, molti industriali e politici furono arrestati con l'accusa di corruzione. Le indagini iniziarono a Milano, ma si propagarono velocemente ad altre città, man mano che procedevano le confessioni. Una situazione grottesca accadde quando un politico socialista confessò immediatamente tutti i propri crimini a due carabinieri che erano arrivati a casa sua, per poi scoprire che i militari erano venuti semplicemente per notificargli una multa [senza fonte].

Fondamentale, per questa espansione esponenziale delle indagini, fu la diffusa tendenza dei leader politici a privare del proprio appoggio i politici meno importanti che venivano arrestati; questo fece sì che molti di questi si sentissero traditi e spesso accusassero altri politici, che a loro volta ne accusavano altri ancora.

Nel Parlamento che si formò, il quadripartito (DC, PSI, PSDI e PLI)[5] conservava una maggioranza ridotta al lumicino, ma in sostanza lo era anche l'opposizione tradizionale. Si era arrivati al capolavoro di non avere più il governo che c'era (la vecchia maggioranza aveva perso), e di non avere il governo di una nuova maggioranza, che non si era coagulata e non esisteva. Nessuno dei commentatori politici si rese conto della fortuna toccata al «sistema», che teneva ancora[5].

Nonostante la nascita del nuovo governo l'ondata di arresti e di avvisi di garanzia lo indebolirono fortemente. Quando, a maggio, le Camere appena riunite furono chiamate a eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, le votazioni si tennero in un clima di fortissima tensione politica (in quegli stessi giorni veniva ucciso il giudice Giovanni Falcone) e fu affossata dapprima la candidatura di Arnaldo Forlani, poi quella di Giulio Andreotti. Alla fine, fu eletto il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, candidato dei moralizzatori. Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi ai politici vicini agli inquisiti: Bettino Craxi, che aspirava a tornare alla presidenza del Consiglio, dovette rinunciare in favore di Giuliano Amato.

Ad agosto, Craxi attaccò Di Pietro sull'Avanti!, organo del suo partito: «Non è tutto oro quello che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite».

Il 2 settembre 1992 il socialista Sergio Moroni si uccise. Lasciò una lettera in cui si dichiarava colpevole, affermando che i crimini commessi non erano per il proprio tornaconto ma a beneficio del partito, e accusò il sistema di finanziamento di tutti i partiti. Bettino Craxi, segretario del PSI, molto legato a Moroni, si scagliò contro stampa e magistratura sostenendo che si fosse creato un «clima infame»[7]. La figlia, Chiara Moroni, politicamente impegnata nel centrodestra negli anni a seguire, sarebbe divenuta una delle voci più critiche nei confronti di Mani pulite. Prima di Moroni si suicidarono altri due indagati: il socialista Renato Amorese, ex segretario del partito di Lodi, e l'imprenditore Mario Majocchi, vicepresidente dell'ANCE sotto inchiesta per le tangenti dell'autostrada Milano-Serravalle. Entrambi erano a piede libero, non in carcere[6].

A settembre viene resa nota un'indagine della Procura di Brescia su un ex ufficiale dei carabinieri che avrebbe girato l'Italia per raccogliere notizie compromettenti sulla vita privata di Di Pietro. Due suoi amici avrebbero ricevuto offerte in denaro per rivelare che il magistrato avrebbe fatto uso di droga. L'indagine venne archiviata[8].

Secondo alcune dichiarazioni dello stesso Craxi, il Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, lo avrebbe incontrato e gli avrebbe riferito che era in possesso di tabulati telefonici su contatti fra Di Pietro e l'avvocato Giuseppe Lucibello su un loro misterioso viaggio in Svizzera[8].

La reazione dell'opinione pubblica

Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999.

L'opinione pubblica, dopo l'iniziale smarrimento, si schierò in massa dalla parte dei PM: la legge sul finanziamento pubblico ai partiti veniva percepita come priva di senso, visto che per anni era stata spiegata con le necessità di sostentamento della politica ed ora si scopriva che ciò non aveva fatto venir meno la corruzione.

Nacquero comitati e movimenti spontanei, furono organizzate fiaccolate di solidarietà con il pool, sui muri comparvero scritte come «W Di Pietro», «Di Pietro non mollare», «Di Pietro facci sognare» e «Di Pietro tieni duro!». Si diffusero persino slogan come «Tangente, tangente. E i diritti della gente?» o «Milano ladrona, Di Pietro non perdona!», o anche «Colombo, Di Pietro: non tornate indietro!»; vennero distribuiti saponi «Mani pulite» e orologi «Ora legale». Nei sondaggi dell'epoca, la popolarità di Di Pietro e del pool raggiunse la percentuale record dell'80%, la cosiddetta «soglia dell'eroe»[9].

1993: tentativi di resistenza

La pioggia di avvisi di garanzia

Nelle elezioni locali dell'autunno 1992 si confermò la crisi dei partiti tradizionali: la DC e il PSI persero ciascuno circa la metà dei voti. In particolare a Mantova, dove si votava per la Provincia, la Lega Nord ottenne la maggioranza relativa sfiorando il 34% dei voti, mentre la DC scendeva al 14%, il PDS dal 32 del PCI a meno del 18% (a cui andava aggiunto il 6,7% del PRC), il PSI dal 14,5 al 7,2%[5].

Le inchieste proseguirono e si estesero in tutta Italia, offrendo un panorama di corruzione diffusa dal quale nessun settore della politica nazionale o locale appariva immune. Politici e imprenditori di primissimo piano furono inquisiti e travolti da una pioggia di avvisi di garanzia. Tra questi anche Bettino Craxi, che a febbraio dovette dimettersi da segretario del PSI. Una mole ingentissima di procedimenti (72) furono intentati anche contro il tesoriere DC Severino Citaristi. Il 26 febbraio ricevette un avviso di garanzia Giorgio La Malfa, segretario del PRI (sostituito da Giorgio Bogi), il 15 marzo fu la volta del segretario liberale Renato Altissimo (sostituito da Raffaele Costa), e il 29 marzo fu indagato il socialdemocratico Carlo Vizzini (lasciò la segreteria del partito all'ex magistrato Enrico Ferri)[5].

Sulla spinta delle crescenti proteste popolari, il governo Amato s'impegnò a sollecitare le dimissioni di ogni suo componente raggiunto da un avviso di garanzia. Le inchieste toccarono inevitabilmente anche molti ministri, tanto che l'esecutivo raggiunse una percentuale di dimissioni senza precedenti.

Dopo alcune affermazioni di Umberto Bossi, circa il coinvolgimento di un personaggio di altissimo livello, gli stessi ambienti della Procura milanese divulgarono una «velina» alla stampa in cui si precisava che nessuna delle supreme cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidenti di camera e Senato, Presidente del consiglio) era nel mirino delle inchieste in corso[10].

Le indagini fecero emergere anche l'esistenza di conti personali, dove venivano dirottati i soldi delle tangenti, che venivano usati quindi non soltanto per sostenere le spese dei partiti. Ad esempio, come avrebbe sancito la sentenza della Corte d'appello di Milano del 26 ottobre 1999, Bettino Craxi utilizzò i fondi provenienti dalle mazzette oltre che per pagare «gli stipendi dei redattori dell'Avanti!», anche per una serie di impieghi inequivocabilmente personali:

«Non ha alcun fondamento la linea difensiva incentrata sul preteso addebito a Craxi di responsabilità ‘di posizione' per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti che sugli stessi venivano compiuti, e dispose prelievi sia a fine di investimento immobiliare (l'acquisto di un appartamento a New York), sia per pagare gli stipendi dei redattori dell'Avanti!, sia ancora per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tivù (la denominazione legale di GBR di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di cento milioni di lire. Lo stesso Craxi dispose poi l'acquisto di una casa e di un albergo[11] in Roma, intestati alla Pieroni[12]

A febbraio, il socialista Silvano Larini si costituì e confessò la verità sul conto protezione, che aveva come reale destinatario il Partito Socialista nelle persone di Claudio Martelli (percettore materiale) e Craxi; Martelli si dimise da Ministro della Giustizia e si sospese dal partito, pregiudicandosi ogni possibilità di succedere a Craxi, che in quelle ore era dimissionario da segretario nazionale. Martelli, accusato di bancarotta fraudolenta, si salverà grazie alla prescrizione del reato dopo aver risarcito 800 milioni di lire[6].

Nelle nuove elezioni amministrative del 6 giugno 1993 il pentapartito conobbe un pesante tracollo: la DC perse nuovamente metà dei voti e il PSI praticamente sparì (a Milano, dove per un secolo era stato protagonista della vita pubblica, non riuscì a eleggere nemmeno un consigliere comunale)[5]. La Lega Nord divenne la maggior forza politica dell'Italia Settentrionale conquistando anche la città di Milano, dove fu eletto sindaco Marco Formentini; l'opposizione di sinistra si avvicinava alla maggioranza grazie al fatto che il PDS era abbastanza abile nel fare alleanze, ma mancava ancora di unità e di comando[5].

La Falange Armata, formazione eversiva di destra sospettata di legami con i servizi segreti deviati[8], mandò il primo messaggio di morte al pool.

Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti, la mafia progettava di eliminare Di Pietro, per un favore da ricambiare verso un politico del Nord[8].

Il decreto Conso: il «colpo di spugna»

Giuliano Amato, Presidente del Consiglio tra il 1992 e il 1993.

Il 5 marzo 1993, il governo varò un decreto legge (il «decreto Conso», da Giovanni Conso, il Ministro della Giustizia che lo propose), che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti e definito per questo il «colpo di spugna». Il decreto, che recepiva un testo già discusso e approvato[13] dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, manteneva un «silenzio ipocrita»[14] sul valore retroattivo della depenalizzazione, che quindi avrebbe compreso anche gli inquisiti di Mani pulite.

L'allarme che le inchieste di Tangentopoli rischiavano di insabbiarsi fu lanciato dal pool milanese in televisione: l'opinione pubblica e i giornali gridarono allo scandalo e il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la prima volta nella storia repubblicana rifiutò di firmare un decreto-legge, ritenendolo incostituzionale[6].

Carlo Ripa di Meana, Ministro dell'Ambiente, diede le dimissioni dopo aver votato contro il decreto in Consiglio dei Ministri[6]; pochi giorni dopo il referendum del 18 aprile 1993 (promosso dal democristiano dissidente Mario Segni), gli elettori votarono in massa a favore dell'introduzione del sistema elettorale maggioritario. Fu un segnale politico molto forte della sempre più crescente sfiducia nei confronti della politica tradizionale; il governo Amato, intravedendo nel risultato del referendum un segnale di sfiducia nei suoi confronti, rassegnò le dimissioni il 21 aprile[15].

Il Parlamento non riuscì a formare un nuovo governo politico: Scalfaro decise perciò di affidare ad aprile la presidenza del Consiglio al governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, il quale costituì un governo tecnico, il primo nella storia d'Italia. Ciampi si pose due obiettivi fondamentali: una nuova legge elettorale che doveva essere scritta sotto dettatura del referendum (che fu poi approvata nell'agosto di quell'anno, introducendo un sistema per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale)[5] e il rilancio dell'economia (che stava vivendo una difficilissima stagnazione, con la lira precipitata ai minimi storici).

Carlo Azeglio Ciampi, Presidente del Consiglio tra il 1993 e il 1994.

La contestazione a Craxi

Il 29 aprile la Camera dei deputati negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, uno degli inquisiti più celebri di Tangentopoli. Quello stesso giorno Craxi si era presentato nell'aula e in un discorso ammise di aver ricevuto finanziamenti illeciti, ma si giustificò sostenendo che i partiti non potevano sorreggersi con le entrate legali e attaccò l'ipocrisia di coloro che, all'interno del Parlamento, sostenevano le tesi dei magistrati, ma in realtà anche loro avevano beneficiato del sistema delle tangenti. Mentre il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, leggeva i risultati delle votazioni, contrari all'autorizzazione, i deputati della Lega Nord e del MSI insultarono i colleghi dando loro dei «ladri» e degli «imbroglioni».

L'opinione pubblica ritenne che il salvataggio di Craxi fosse dovuto esclusivamente ai voti di parlamentari della vecchia maggioranza, in particolare dei democristiani e dei socialisti, che avevano molti rappresentanti sotto inchiesta[5]. In realtà la votazione si tenne a scrutinio segreto e i conteggi dimostrarono che lo schieramento del «no» era più ampio, al punto da sospettare che in favore di Craxi avevano votato anche alcuni parlamentari dell'opposizione (della Rete, della Lega Nord, del PRC e di parte del PDS) per poi gridare allo scandalo e ottenere elezioni anticipate, con un Parlamento eletto ancora con il sistema proporzionale[5].

La mancata autorizzazione scatenò una reazione violentissima: Occhetto fece ritirare i tre ministri del PDS (Augusto Barbera, Luigi Berlinguer e Vincenzo Visco), mentre Francesco Rutelli si dimise per protesta[6]. Il giorno dopo studenti dei licei romani manifestarono per le strade della Capitale, alcune Università furono occupate, in molte città le sedi del PSI furono assalite dai manifestanti; la stessa sezione nazionale in via del Corso fu oggetto di una sassaiola, scongiurata da alcune cariche della Polizia.

Nel pomeriggio i partiti di sinistra (PDS, Verdi, PRC e altri) indissero una manifestazione a Piazza Navona, mentre il MSI ne allestì una parallela davanti a Montecitorio: entrambe chiedevano lo scioglimento delle Camere.

Al termine delle manifestazioni, un gruppo di persone si avvicinò all'Hotel Raphael, in largo Febo nel centro di Roma, che era la residenza capitolina di Craxi[16]. Quando l'ex segretario socialista uscì dall'albergo, i manifestanti gli lanciarono oggetti di ogni tipo, soprattutto monetine; altri sventolavano banconote (gridando: «Bettino, vuoi pure queste?»), e nel frattempo venivano scanditi slogan contro il politico socialista cui auspicavano il carcere («Bettino, Bettino il carcere è vicino») o addirittura il suicidio[17].

I magistrati del pool di Milano, che avevano stilato altre autorizzazioni a procedere, annunciarono che avrebbero presentato ricorso alla Corte costituzionale contro quella che consideravano un'interferenza del Parlamento nei loro poteri[5].

Pochi mesi dopo, il 4 agosto, la Camera autorizzò a indagare su Craxi in base a quattro nuove richieste di autorizzazione a procedere[18].

Il caso degli emoderivati infetti

Lo stesso argomento in dettaglio: Caso degli emoderivati infetti.

Nel 1993 Duilio Poggiolini e altri importanti personaggi della sanità di allora vennero indagati per un giro di corruzione a vari livelli, incluse bustarelle delle case farmaceutiche Bayer e Baxter International per il commercio di flaconi di sangue intero ed emoderivati infetti con HIV ed epatiti presi da tossicodipendenti, galeotti e persone con rischiose attività sessuali. Le persone, che in conseguenza di questo sono state infettate durante le trasfusioni, si sono costituite parte lesa durante i processi.

La «stagione dei suicidi» e gli attacchi a Di Pietro

A metà marzo fu reso pubblico uno scandalo per 250 milioni di dollari, riguardante l'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI). Il flusso di accuse, arresti e confessioni non si arrestò. Nel frattempo, Di Pietro chiese una rogatoria sui conti di Craxi a Hong Kong. La Falange Armata inviò una nuova minaccia: «[a Di Pietro] gli uccideremo il figlio». A giugno venne arrestato il primo manager Fininvest, Aldo Brancher. Secondo Marco Travaglio, il 12 luglio Silvio Berlusconi inviò un fax a il Giornale, di cui era proprietario suo fratello Paolo, intimando di «sparare a zero sul pool». Ma il direttore Indro Montanelli e il condirettore Federico Orlando si rifiutarono[8].

Il 17 luglio 1993 Il Sabato, settimanale di Comunione e Liberazione, pubblicò un dossier sulla corruzione nella politica della prima Repubblica, sul fatto che la magistratura ne sarebbe stata al corrente e sulle presunte malefatte di Di Pietro, il quale sarebbe stato in combutta con diversi imprenditori, che in cambio di denaro avrebbe protetto dalle indagini. Il dossier, che indagava sulle proprietà immobiliari e patrimoniali di Di Pietro accresciute in modo esponenziale, era attinto da un manoscritto del giornalista Filippo Facci[19]; circolato in forma anonima all'inizio del 1993 dopo essere stato acquistato da un fantomatico editore irlandese[20] i suoi contenuti si sarebbero riversati nelle campagne giornalistiche contro il pool condotte negli anni successivi, come il dossier Achille e gli altri addebiti che in sede giudiziaria furono confutati, quando a partire dal 1995 varie sentenze giudicarono infondate quelle campagne scandalistiche[8].

Il GICO di Firenze concluse le indagini sull'Autoparco di Milano e sulle protezioni accordate dalla mafia: con questi addebiti nell'autunno 1993 la Procura di Firenze ordinò tre mesi di arresti tra gli ufficiali di polizia che collaboravano con il pool di Milano. Il rapporto del GICO cita, a sostegno della richiesta di arresti, anche un «collaboratore», Salvatore Maimone, autore di accuse anche a tre sostituti procuratori milanesi. Maimone poi dichiarò che le accuse ai PM gli erano state sollecitate e in ogni caso il processo agli ufficiali di polizia si concluse con le loro assoluzioni[21].

Il 20 luglio 1993, l'ex presidente dell'ENI, Gabriele Cagliari, da oltre quattro mesi di carcere preventivo, si uccise, dopo aver scritto una lettera in cui accusava i PM di Milano di tenerlo in carcere con l'intento di farlo confessare[22]; in seguito, sua moglie restituì oltre 6 miliardi di lire di fondi illegali. Tre giorni dopo si uccise con un colpo di pistola anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison. Gardini aveva saputo dal suo avvocato che stava per essere coinvolto nelle indagini di Mani pulite sulla tangente Enimont. Alcuni ipotizzarono che il suicidio di Gardini abbia avuto tra le cause scatenanti, oltre al tentativo di eludere il proprio coinvolgimento nel caso Enimont, anche l'intento di non esporsi a collegamenti con Cosa nostra che stavano emergendo dalle indagini[23]; altri ancora ipotizzarono addirittura che il suicidio fosse in realtà un omicidio premeditato negli ambienti politici e che si inscrivesse in un disegno di copertura della corruzione cui appartenne anche il presunto suicidio di Sergio Castellari[24].

Le tangenti rosse

Il sostituto procuratore Tiziana Parenti, da poco nel pool milanese[25], nella primavera del 1993 divenne il PM delle «tangenti rosse» al PCI-PDS[26] con le accuse al parlamentare Marcello Stefanini, tesoriere del PDS, per le tangenti versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti, il cosiddetto «compagno G»[27].

Il processo Cusani

Nel frattempo iniziò il processo a Sergio Cusani. Cusani era accusato di reati collegati ad una joint venture tra ENI e Montedison, chiamata Enimont, nella quale aveva fatto da agente di collegamento tra Raul Gardini e il mondo politico nazionale: la sua fedeltà alla memoria del suo vecchio patron, tragicamente defunto, fu probabilmente l'unico argine ad un'ennesima chiamata di correità dei politici, comunque inquisiti per le dichiarazioni convergenti degli altri manager del gruppo Ferruzzi (Garofalo e Sama). Ecco perché il giudizio abbreviato, chiesto a sorpresa dall'imputato e celermente concesso dalla Procura, si trasformò in un'insperata occasione di confrontare il silenzio di Cusani con le prove a suo carico, mostrando come esse fossero sufficienti ad un impianto accusatorio che avrebbe poi retto alla prova anche del successivo troncone del processo ENIMONT.

Lo stesso argomento in dettaglio: Processo ENIMONT.

Il processo fu trasmesso in diretta dalla Rai, registrando ascolti record: celebri furono gli accesi scontri verbali fra Di Pietro e l'avvocato di Cusani, Giuliano Spazzali, durante i quali il magistrato impiegava il suo colorito linguaggio popolare (il cosiddetto «dipietrese»), che ne aumentarono la popolarità e l'affetto del popolo e sarebbe diventato una delle sue caratteristiche più famose.

Cusani non era una figura di primo piano, ma nell'affare Enimont erano coinvolti molti politici di primo piano e molti di loro furono chiamati a deporre come testimoni. Tra questi, l'ex presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, che, rispondendo ad una domanda, disse semplicemente: «Non ricordo». Nelle fotocolor e nelle riprese video fatte dai giornalisti, Forlani appariva molto nervoso e sembrava non rendersi conto della goccia di saliva che si accumulava sulle sue labbra; questa immagine assurse a simbolo dell'assenza di self control di chi era per la prima volta chiamato a rendere conto delle proprie azioni. Bettino Craxi, invece, ammise che il suo partito aveva ricevuto i fondi illegali, anche se negò che ammontassero a 93 milioni di dollari. La sua difesa fu, ancora una volta, che «lo facevano tutti» ma la sua deposizione, al contrario delle precedenti, non venne interrotta dal pubblico ministero d'udienza, Antonio Di Pietro[28], il quale reagì alle critiche per questa sua inusuale condotta processuale, dichiarando alla stampa che per la prima volta vi era stata una piena confessione.

Anche la Lega Nord e il disciolto PCI, che sostenevano pubblicamente i magistrati e le loro inchieste, furono coinvolti nelle chiamate in correità: sulla base di queste, nel successivo processo ENIMONT Umberto Bossi e l'ex tesoriere Alessandro Patelli furono condannati per aver ricevuto 200 milioni di lire di finanziamenti illegali, mentre le condanne di Primo Greganti e di alcuni esponenti milanesi toccarono il partito comunista solo marginalmente. Nel processo emerse anche, che una valigia contenente denaro era pervenuta in Via delle Botteghe Oscure, nella sede nazionale del PCI, ma le indagini si erano arenate, dato che non si erano trovati elementi penalmente rilevanti nei confronti di persone fisiche. In proposito il pubblico ministero Antonio Di Pietro disse: «La responsabilità penale è personale, non posso portare in giudizio una persona che si chiami Partito di nome e Comunista di cognome». Alcuni detrattori di Di Pietro ritengono tuttavia che il PM non abbia fatto il possibile per individuare i componenti del PCI responsabili di corruzione: ipotesi che Di Pietro liquida come «un'autentica falsità»[29].

1994: La guerra tra Berlusconi e Di Pietro

Silvio Berlusconi al comizio di Forza Italia dell'8 giugno 1995.

Le Fiamme sporche

Nel frattempo, le indagini si allargarono oltre i confini della politica: il 2 settembre 1993, fu arrestato il giudice milanese Diego Curtò[30].

Il 13 marzo 1994, il Giornale – che dopo le dimissioni polemiche di Montanelli era passato in mano a Vittorio Feltri – associò il nome di Curtò e dell'imprenditore Salvatore Ligresti ai magistrati del pool, Davigo, Di Pietro e Francesco Di Maggio. Sarebbero stati tutti soci di una cooperativa edilizia. Feltri fu poi condannato per diffamazione, in quanto quella cooperativa non era mai esistita[8].

Il 15 marzo la Falange Armata minaccia di nuovo Di Pietro: «Gli metteremo il tritolo sotto la macchina».

Il 26 aprile il vicebrigadiere della Guardia di Finanza Pietro Di Giovanni raccontò al colonnello Gianluigi Miglioli che il suo capopattuglia, il maresciallo Francesco Nanocchio, gli consegnò una busta con 2 milioni e mezzo di lire provenienti dall'Edilnord; il giorno dopo Di Pietro e Davigo aprirono un «fascicolo virtuale»[6] e, nelle settimane successive, 80 uomini della Guardia di Finanza (fu per questo coniato il termine Fiamme sporche) e 300 personalità dell'industria furono accusate di corruzione. A giugno si scoprì che nell'inchiesta delle Fiamme sporche era coinvolta anche la Fininvest. Alcuni giorni dopo, un manager della FIAT ammise la corruzione con una lettera a un giornale.

Lo stesso giorno, Berlusconi denunciò al PG di Milano, Giulio Catelani, presunti abusi del pool nelle perquisizioni negli uffici di Publitalia.

Il decreto Biondi

Nel 1994, Silvio Berlusconi entrava in politica (con le sue parole, «scende in campo») e a fine marzo il suo partito vinse le elezioni. Poco dopo la vittoria, Berlusconi propose pubblicamente a Di Pietro di entrare a far parte del suo governo come Ministro dell'Interno e a Davigo come Ministro della Giustizia, ma entrambi rifiutarono[8][31][32].

Nel 2006, Berlusconi negherà di aver mai chiesto ai due magistrati di entrare nel suo governo.

Nel corso del 1993 e a seguito della sua testimonianza al processo Cusani, emersero sempre più prove contro Bettino Craxi: con la fine della legislatura e l'abolizione dell'autorizzazione a procedere, si fece sempre più vicina la prospettiva di un suo arresto. Il 15 aprile 1994, con l'inizio della nuova legislatura in cui non era stato ricandidato, cessò il mandato parlamentare elettivo e, di conseguenza, venne meno l'immunità dall'arresto[6]. Il 12 maggio 1994 gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, ma era già troppo tardi perché Craxi, come si seppe solo il 18 maggio, era già ad Hammamet, in Tunisia; il 5 maggio era stato avvistato a Parigi. Il 21 luglio 1995 Craxi fu dichiarato ufficialmente latitante[6].

Il 13 luglio 1994 il governo emanò un decreto legge (cosiddetto «decreto Biondi» – dall'allora Ministro della Giustizia Alfredo Biondi – spregiativamente soprannominato dai critici «decreto salvaladri») che favoriva gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione[8]: erano invece esclusi dal decreto i reati che riguardavano la criminalità organizzata, il terrorismo, l'eversione, il sequestro di persona e il traffico di stupefacenti[33]. Nel merito un imputato poteva essere tenuto in carcere solo se il rischio di fuga era effettivo e ogni altra misura appariva inadeguata. Veniva inoltre ampliata la possibilità del patteggiamento[33].

Il decreto fu votato lo stesso giorno in cui alle semifinali della Campionato mondiale di calcio 1994, l'Italia sconfiggeva la Bulgaria. Questa coincidenza alimentò il sospetto che si volesse sfruttare un momento in cui l'opinione pubblica era distratta dai Mondiali[34][35]. Francesco Saverio Borrelli dichiarò polemicamente: «Hanno approfittato di una partita di pallone per fare il decreto». I ministri approvarono il decreto all'unanimità (nonostante qualche scetticismo di Raffaele Costa e Altero Matteoli) e il giorno dopo fu firmato dal Capo dello Stato[33].

Qualche giorno dopo furono diffuse le prime immagini dei politici accusati di corruzione, che uscivano dal carcere per effetto del decreto Biondi. Fra le scarcerazioni più clamorose vi fu quella dell'ex Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, che venne persino contestato da un gruppo di giovani mentre raggiungeva la sua abitazione nel centro di Roma. L'uscita di De Lorenzo dal carcere provocò numerose polemiche in quanto la gente trovava particolarmente odiosi i furti ai danni del Servizio Sanitario Nazionale[36].

Silvio Berlusconi e Bettino Craxi nel 1984.

La maggior parte dei magistrati del pool Mani pulite dichiararono che avrebbero rispettato le leggi dello Stato, incluso il «decreto Biondi», ma che non potevano lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la loro coscienza, chiedendo, con un comunicato letto da Di Pietro in diretta televisiva, di venire «assegnati ad altri incarichi». Nel testo, firmato da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo, c'era scritto:

«Fino ad oggi abbiamo pensato che il nostro lavoro potesse servire a ridurre l'illegalità nella società convinti che la necessità di far osservare la legge nei confronti di tutti fosse generalmente condivisa. L'odierno decreto legge a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere e a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, perfino comprando gli uomini a cui avevamo affidato le indagini nei loro confronti. Quando la legge, per le evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia. Abbiamo pertanto informato il Procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l'assegnazione ad altro e diverso incarico nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone[33]

L'opinione pubblica insorse indignata: il cosiddetto popolo dei fax comunicò il proprio dissenso alle redazioni dei giornali e delle televisioni. I magistrati di Genova rinunciarono alle «deleghe», ossia alle loro specifiche mansioni; Alleanza Nazionale e la Lega Nord, alleati di Berlusconi, presero le distanze dal decreto, che venne frettolosamente ritirato. Si parlò in effetti di un malinteso e il Ministro dell'Interno, Roberto Maroni, sostenne che il testo non corrispondeva ai contenuti approvati durante il Consiglio dei ministri[33].

Secondo una dichiarazione dello stesso Maroni, il decreto sarebbe stato ispirato dal Ministro della Difesa Cesare Previti, avvocato di Berlusconi[37].

Il 29 luglio venne arrestato (e poi scarcerato) Paolo Berlusconi con l'accusa di corruzione[38].

La denuncia contro il pool

A settembre, il Ministro per i rapporti con il Parlamento Giuliano Ferrara annuncia la sua intenzione di denunciare il pool per attentato alla Costituzione. Verrà denunciato solo Borrelli e in seguito assolto.

Il 29 settembre, Sergio Cusani denunciò i giudici del pool per diffamazione e omissione d'atti d'ufficio. Il generale Giuseppe Cerciello, imputato nello scandalo delle Fiamme sporche, denunciò Borrelli, Colombo e Di Pietro al CSM per presunte manovre intorno al GIP Andrea Padalino. I processi dimostreranno che queste accuse erano tutte invenzioni[8].

Di Pietro proseguì le sue indagini nei confronti di Berlusconi: il 3 ottobre venne arrestato Giulio Tradati, altro manager Fininvest, il fratello Paolo fu rinviato a giudizio. Vennero scoperte nuove prove sui fondi segreti di Craxi, tra cui una super-tangente di 10 miliardi di lire di Berlusconi al leader socialista, tramite la società offshore All Iberian[8].

Il 14 ottobre il Ministro di Grazia e Giustizia Biondi fece partire la prima ispezione contro i magistrati. Per gli ispettori, le inchieste del pool erano tutte corrette. La Falange inviò nuove minacce: «Di Pietro ha i giorni contati. La sua vita è destinata a finire presto».

Il 9 novembre i magistrati trovarono, perquisendo l'abitazione dell'avvocato Fininvest Massimo Maria Berruti, la prova che Berlusconi avrebbe ordinato di inquinare le prove sulla corruzione dell'azienda; si trattava di un cartoncino intestato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la scritta «PASSI di udienza» e la data dell'8 giugno 1994[6]. Quel giorno Berruti entrò a Palazzo Chigi alle 20:45 per parlare con il presidente del Consiglio e, uscito dopo circa mezz'ora, telefonò a casa di un finanziere in pensione, l'ex maresciallo Alberto Corrado, per chiedergli di far tacere Angelo Tanca, accusato di aver ricevuto soldi dopo un controllo fiscale alla Mondadori nel 1991[6].

Il 21 novembre, su ordine di Borrelli, i carabinieri notificavano per telefono a Berlusconi l'invito a comparire e gli comunicarono due dei tre capi d'imputazione a lui attribuiti. La notizia venne rivelata in esclusiva l'indomani dal Corriere della Sera e il Cavaliere accusò i magistrati di aver violato il segreto istruttorio, passando la notizia al giornale. Si scoprirà poi che erano state fonti vicine al premier a passare la notizia al Corriere[3]. Le indagini della procura di Brescia videro i magistrati prosciolti dall'accusa di violazione del segreto (perché il segreto cade nel momento in cui l'interessato viene a conoscenza dell'invito a comparire) e le accuse di Berlusconi archiviate.

Il 23 novembre l'assicuratore Giancarlo Gorrini, si recò al Ministro di Grazia e Giustizia e denunciò Di Pietro: lo avrebbe ricattato e avrebbe preteso da lui un prestito di 100 milioni senza interessi, una Mercedes, l'affidamento alla moglie, l'avvocato Susanna Mazzoleni, di tutte le cause della sua compagnia, l'accollo tutti i debiti contratti alle corse ippiche da un certo Eleuterio Rea. Il 24, Biondi avviò un'inchiesta parallela e segreta sul magistrato[8]. Ma il capo degli ispettori, Dinacci, confidò al giudice De Biasi (incaricato di condurre l'inchiesta) che «Previti ha detto di distruggere Di Pietro e che Gorrini era stato pagato»[8].

Il 26 novembre, Di Pietro venne avvertito dallo stesso Previti che al Ministero gli stavano preparando una «polpetta avvelenata»[8]. Dopo essersi consultato con i colleghi del pool, Di Pietro decise di redigere una memoria da inviare al CSM. Poi cambiò idea e il 6 dicembre, dopo l'ultima requisitoria per il processo Enimont, si dimise dalla magistratura. Un coro di commenti furibondi, e di accuse veementi ai «poteri forti» che avevano indotto Di Pietro all'abdicazione, si levò da tutto il Paese. L'ANM disse che la democrazia era a rischio, in termini quasi analoghi si espresse Massimo D'Alema, vi furono sit-in e manifestazioni in cui la frase ricorrente era: «Ci ha lasciati soli». La folla radunata davanti al Palazzo di giustizia milanese osannava la Procura e inveiva contro il governo. Ci furono episodi d'intolleranza contro Gianni Pilo, deputato di Forza Italia, e il radicale Marco Taradash. Berlusconi affermò che l'uscita di Di Pietro dalla magistratura lasciava l'amaro in bocca, ma nessuno gli diede credito[33].

L'inchiesta sulle Fiamme sporche venne trasferita dalla Cassazione a Brescia[33]. De Biasi archiviò l'inchiesta su Di Pietro, scagionandolo completamente: «I fatti non hanno nessuna rilevanza disciplinare».

Berlusconi era in difficoltà, oltre che per le vicende giudiziarie, anche sul piano politico e governativo: il 12 novembre ci fu lo sciopero generale contro la riforma delle pensioni, contestata anche dagli alleati leghisti. Nel pomeriggio del 14 novembre Bossi s'incontrò con Rocco Buttiglione e D'Alema (parlamentari dell'opposizione) e i tre decisero di sfiduciare insieme il governo; tre giorni dopo arrivarono le mozioni di sfiducia, una del PDS, una firmata dalla Lega e dai popolari di Buttiglione (più una terza del PRC)[33].

Il 19 dicembre Berlusconi, in un messaggio video, denunciò al Paese il «sopruso» perpetrato nei confronti dei cittadini che il 27 e 28 marzo gli avevano dato la maggioranza parlamentare, e l'iniquità della crisi in atto; tre giorni dopo Bossi annunciò ufficialmente che la Lega Nord avrebbe tolto la fiducia all'esecutivo, nonostante le spaccature interne, e Berlusconi (senza aspettare la pronuncia del Parlamento) presentò a Scalfaro le dimissioni del governo che restava in carica per l'ordinaria amministrazione[33].

1995: i complotti contro Di Pietro e i magistrati

Il 13 gennaio Lamberto Dini ottenne l'incarico di formare un governo tecnico – composto esclusivamente da tecnici – ottenendo alla Camera 302 voti favorevoli (il fronte progressista e la Lega Nord), 270 astenuti (il Polo per le Libertà) e 39 voti contrari (il PRC); il voto fu bissato senza troppe variazioni in Senato[33].

A febbraio la denuncia di Cusani contro Di Pietro fu archiviata dal GIP di Brescia. Venne sventato un attentato contro Gerardo D'Ambrosio[6].

Il GICO di Firenze riaprì l'inchiesta Autoparco. Alla Procura venne consegnato un dossier di 263 pagine, con accuse precise contro i magistrati Di Maggio, Nobili, Armando Spataro e Ilda Boccassini. La Procura archiviò poi, definitivamente, l'inchiesta.

In primavera fu riportato da alcuni giornali che Di Pietro si sarebbe candidato alla Camera dei deputati nelle liste del Polo delle Libertà[senza fonte]. Di Pietro, dopo alcuni incontri con Berlusconi e Previti, negò un suo prossimo ingresso in politica, chiarendo che non avrebbe appoggiato alcun partito[39].

Il 7 aprile Di Pietro venne denunciato dall'avvocato Carlo Taormina e dal generale Cerciello per presunte pressioni su un maresciallo dei carabinieri affinché denunciasse Berlusconi e Cerciello[8]. Il maresciallo smentì tutto[8] e l'accusa venne archiviata dal GIP di Brescia.

Il 13 aprile Berlusconi, in un'intervista al programma televisivo Tempo reale, sostenne che Di Pietro gli avrebbe confidato che non condivideva affatto l'invito a comparire stilato contro di lui, ma l'ormai ex PM smentisce[6].

Nuove ispezioni contro il pool

Il 5 maggio, il Ministro della Giustizia Filippo Mancuso annunciò una nuova ispezione a Milano. I giudici avrebbero fatto pressioni sugli ispettori, già inviati da Biondi, affinché scagionassero il pool. Venne aperta un'inchiesta anche sui suicidi di Gabriele Cagliari e di Sergio Moroni. Le ispezioni scagionarono totalmente il pool e nella relazione, Mani pulite viene difesa per «l'estrema correttezza dell'azione dei magistrati»[6].

Il PG Catelani avviò un'indagine informale contro Borrelli. Un settimanale aveva pubblicato le foto del magistrato impegnato a cavalcare un cavallo con la sigla G.G., la quale corrisponderebbe a Giancarlo Gorrini. In realtà il cavallo apparteneva a Giovanni Gennari[8], figlio del noto finanziere Giuseppe Gennari, colui che nel 1992 fu protagonista della scalata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura (BNA); Borrelli denunciò Catelani al CSM.

Il 20 maggio Berlusconi e altri dirigenti Fininvest sono rinviati a giudizio con l'accusa di aver corrotto la Guardia di Finanza[6].

Le accuse di Salamone

È a giugno del 1995 che le accuse contro Di Pietro toccarono il culmine. Il PM bresciano Fabio Salamone interrogò Gorrini e Paolo Pillitteri, quindi iscrisse Di Pietro nel registro degli indagati per concussione: avrebbe premuto sugli imprenditori Gorrini e D'Adamo affinché si accollassero i debiti di Rea[33]. L'11 giugno Di Pietro venne inquisito per un'altra concussione ai danni di Gorrini (un prestito di 100 milioni, una Mercedes e un pacchetto sinistri dell'assicurazione di Gorrini a favore dello studio della moglie dell'ex PM, Susanna Mazzoleni)[33]. Il 19 sempre Salamone indagava Di Pietro per abuso d'ufficio e per pressioni sui politici milanesi per far diventare Rea il comandante dei vigili urbani milanesi.

Il quotidiano il Giornale pubblicò un nuovo scoop contro Davigo: il magistrato sarebbe stato membro di una cooperativa diretta dal generale Cerciello, accusato di corruzione. In realtà Davigo aveva lasciato la cooperativa subito dopo l'ingresso di Cerciello.

Berlusconi presentò un esposto alla Cassazione per presunte fughe di notizie ai suoi danni e per l'accanimento persecutorio del pool nei confronti delle sue aziende.

Il 20 giugno si diffuse la falsa notizia che Di Pietro sarebbe stato arrestato[8]. Poco dopo, il 30 giugno, Bettino Craxi dalla Tunisia inviava un lungo fax a tutte le redazioni dei giornali in cui riportava i tabulati telefonici che gli aveva consegnato Parisi e si dichiarava disponibile a farsi interrogare da Salamone. In una lettera a il Giornale, Craxi spiegò che «le recenti inchieste stanno dimostrando che Mani Pulite era tutta un bluff. Avevo ragione io quando sostenevo che Di Pietro era manovrato». In una successiva missiva, Craxi denunciò un viaggio di Di Pietro in Costa Rica, durante il quale egli avrebbe concordato con «alti esponenti della finanza internazionale» le indagini di Mani pulite. Si scoprirà poi (sul momento, appena divulgate le accuse, Di Pietro aveva smentito di esser mai stato in Costa Rica e in Austria)[40] che Di Pietro fu mandato colà per ragioni di sicurezza[41], in quanto un pentito aveva rivelato che la mafia voleva ucciderlo[8].

Il dossier Achille e il caso Dinacci

Nel settembre 1995 Di Pietro denunciò due agenti della sua scorta: anziché proteggerlo, riferivano ad altri i suoi spostamenti. Denunciò anche l'agente del SISMI, Roberto Napoli, che confessò di averlo spiato su ordine dei servizi segreti (il cosiddetto «dossier Achille» ordinato da un mandante sconosciuto per infangare il pool) dalla fine del 1992[8].

Nel frattempo però Di Pietro ricevette nuove accuse: avrebbe pagato un affitto a prezzi stracciati per un appartamento nel centro di Milano e per abuso d'ufficio nel piano d'informatizzazione della procura di Milano, da lui diretto alla fine degli anni ottanta. Accuse di ogni tipo (tra cui il falso ideologico e l'abuso d'ufficio) arrivarono anche contro Davigo, Borrelli, Colombo e altri magistrati milanesi. A novembre la Procura della Repubblica di Roma indagò contro Borrelli, Davigo, Colombo e il GIP Italo Ghitti, perché avrebbero ricattato il capo degli ispettori ministeriali, Ugo Dinacci, tramite un'inchiesta su suo figlio Filippo.

Il 20 dicembre 1995 fu chiesto parallelamente il rinvio a giudizio di Di Pietro per «concussione e abuso d'ufficio» (si trattava in particolare delle note frequentazioni di Di Pietro con il bancarottiere Gorrini e con il capo dei vigili urbani milanesi Eleuterio Rea); e di Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci (magistrato e ispettore ministeriale in missione a Milano) per avere ordito un complotto contro l'ex PM, costringendolo ad abbandonare la magistratura[39]. I GIP bresciani accertarono che Di Pietro non aveva commesso nessun reato; al massimo avrebbe potuto rispondere, come magistrato, di alcuni comportamenti sul piano disciplinare. Ma poiché magistrato non era più, ogni questione penale era chiusa. Allo stesso modo stabiliranno che non c'era stata alcuna congiura per far dimettere Di Pietro, dato che la sua decisione di lasciare la magistratura era precedente a ogni possibile manovra del clan berlusconiano[39].

1996: il pool viene scagionato

Fra la fine del 1996 e l'inizio del nuovo anno, Di Pietro e il pool vennero via via scagionati da tutte le accuse[8]. Già a dicembre 1995, il GIP di Brescia archiviò tutte le inchieste di Salamone. Quest'ultimo venne anzi censurato e denunciato al CSM: era il fratello di un uomo fatto condannare da Di Pietro a 18 mesi di carcere. Il 16 gennaio 1998 Salamone fu condannato definitivamente dal CSM[42].

Il 29 marzo, il GIP di Brescia assolse Di Pietro per tutti i reati a lui ascritti (in particolare per le accuse di Gorrini) con la formule: «I fatti non sussistono»[43]. La Corte d'appello confermò successivamente questa sentenza il 9 luglio 1997. La sentenza, inoltre, accusava Gorrini di aver concordato le varie accuse contro Di Pietro insieme a Paolo Berlusconi e a Sergio Cusani[44].

I sottufficiali dei carabinieri Giovanni Strazzeri e Felice Corticchia vennero condannati per calunnia nei confronti di Di Pietro. Salamone ha successivamente denunciato Di Pietro per diffamazione, ma la sua citazione fu successivamente rigettata dal tribunale civile di Roma il 13 ottobre 2003[45].

Sempre nel 1996 si tennero le nuove elezioni politiche anticipate: vinse L'Ulivo, coalizione di centrosinistra. Romano Prodi diventò Presidente del Consiglio e Di Pietro entrò nel suo governo come Ministro dei Lavori Pubblici. Si dimise pochi mesi dopo perché raggiunto da nuove accuse. Definitivamente prosciolto, nel 1997, si candidò al Senato con L'Ulivo, nel collegio del Mugello, ritenuto un collegio «blindato» del centrosinistra, rimasto vacante per le dimissioni di Pino Arlacchi[46], dove fu eletto con circa il 67% dei consensi battendo Giuliano Ferrara, avversario del Polo che deliberatamente si candidò contro Di Pietro (prese il 16,14% dei voti), e Sandro Curzi, sostenuto da PRC e Verdi che prese il 13%[47].

Avvenimenti successivi e conseguenze

L'apparente trionfo della «rivoluzione dei giudici» (che si disse aver prodotto una «Seconda Repubblica» in Italia) si dimostrò di breve durata. Fra la metà degli anni '90 e i primi anni del nuovo secolo la questione della corruzione politica calò nell'ordine delle priorità dell'azione pubblica. Simbolo drammatico di questo ritorno al passato fu, da un lato, un nuovo scandalo che coinvolse le Ferrovie dello Stato nel 1996[48] e, dall'altro lato, il suicidio dell'imprenditore brianzolo Ambrogio Mauri, regolarmente escluso dagli appalti per la fornitura di automezzi perché si rifiutava di pagare tangenti, il 21 aprile 1997[49][50].

Un'altra chiave interpretativa del calo di tensione intorno alle inchieste è stata offerta dal passaggio dalle inchieste macroscopiche contro i personaggi pubblici a quelle contro la criminalità diffusa nella società. «Finché – disse Borrelli – si trattò di colpire i grandi della politica, non ci furono grandi reazioni contrarie, anzi. Ma quando si andò oltre, apparve chiaro che la corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società: investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso. Il cittadino medio ebbe la sensazione che i “moralisti” della Procura di Milano volessero davvero passare lo straccio bagnato su tutta la facciata del Paese, sulla coscienza civile di tutti gli italiani. Parlo del cittadino medio che vive spesso di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, mancette per campare e rimediare all'inefficienza della PA. A quel punto la gente cominciò a dire: “Adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, ci avete liberato dalla piovra della vecchia classe politica che ci succhiava il sangue, ma ora lasciateci campare in pace”.»[51].

Anche Piercamillo Davigo e Marcello Maddalena (magistrato di Torino) espressero concetti analoghi: parlando con un collega, Davigo disse che «i progressisti ci distruggeranno e lo faranno con più astuzia di quelli del centrodestra: senza farsene accorgere, senza strillare, e questa volta senza nemmeno incontrare ostacoli dall'altra parte. Saranno tutti d'accordo, quando si tratterà di disarmarci»[6].
Maddalena aggiunse che sarebbe stata la sinistra ad attuare la normalizzazione, spiegando che «d'altra parte è sempre stato così: facile stare dalla parte dei magistrati quando si è all'opposizione. Ma basta che un partito si avvicini all'area di governo, e automaticamente vede i poteri di controllo indipendenti – dalla magistratura alla stampa – come una minaccia. È un processo che è già iniziato con il governo Dini»[6].

La strategia della prescrizione

Dopo il 1994 il rischio che i processi venissero cancellati a causa della prescrizione divenne molto concreto e la cosa era chiara sia ai giudici che ai politici. Durante questo periodo alcuni scrittori e commentatori politici individuarono una comune volontà di opporsi alla magistratura da parte di entrambe le coalizioni politiche. Secondo questi opinionisti – che all'epoca denunciarono un'asserita alleanza politica di fatto contro la magistratura – sia il Polo per le Libertà sia L'Ulivo (specialmente sotto la leadership di Massimo D'Alema) avrebbero ignorato le richieste del sistema giudiziario di finanziamenti per acquistare dotazioni e attrezzature[6]. Secondo gli stessi autori, inoltre, le riforme giudiziarie promosse dal centrosinistra avrebbero reso i già penosamente lenti processi italiani ancora più lenti e avrebbero reso più facile e frequente la caduta in prescrizione di numerosi reati.

Al contrario, la totalità della dottrina ha salutato positivamente l'intento del legislatore di introdurre nell'ordinamento italiano i principi del primato del contraddittorio e della parità delle armi tra accusa e difesa – entrambi tipici dei sistemi giuridici delle democrazie liberali europee – pur manifestando talvolta qualche riserva in merito alla loro implementazione in concreto[52].

Craxi e Previti

I destinatari più illustri delle inchieste condotte dalla magistratura milanese ebbero sorti diverse. Craxi accumulò diversi anni di condanne definitive e scelse la latitanza – secondo i suoi sostenitori, l'esilio volontario – ad Hammamet in Tunisia, dove risiedette dal 1994 fino alla sua morte, avvenuta il 19 gennaio 2000[53].

Al momento della morte Craxi aveva collezionato due condanne definitive (5 anni e 6 mesi per corruzione nell'inchiesta ENI-SAI, 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito della metropolitana milanese) e il 15 ottobre 1999 attraverso i suoi legali presentò ricorso presso la Corte europea dei diritti dell'uomo contro la condanna per finanziamento illecito, sostenendo che la Procura di Milano aveva abusato dei propri poteri e che la Corte d'appello (per via del presidente Renato Caccamo) aveva fissato la data del secondo processo d'appello prima di ricevere il fascicolo dal tribunale, con un'idea preconcetta sulla colpevolezza dell'imputato dovuta ad una campagna di stampa colpevolista[54]. Il 31 ottobre 2001 la Corte respinse il ricorso, sostenendo che i magistrati milanesi non hanno abusato dei propri poteri, che l'iter giudiziario ha seguito i canoni del «giusto processo» e che il presidente Caccamo non aveva nessun'idea preconcetta nei confronti di Craxi (le cui riserve «non si fondano su nessun elemento concreto»), aggiungendo che l'ex segretario socialista è stato condannato per corruzione e non per le sue idee politiche[54].

Nel 1998 invece Cesare Previti, ex avvocato del gruppo Fininvest e parlamentare nelle fila del partito fondato da Berlusconi, evitò il carcere grazie all'intervento del Parlamento, anche se Berlusconi e i suoi alleati erano all'opposizione. Il procedimento proseguì e produsse una condanna per corruzione in atti giudiziari, confermata dalla Cassazione, con la conseguenza della decadenza dalla carica di deputato nel 2007, a seguito della perdita dei requisiti di elettorato passivo[55].

Le elezioni del 2001: le vittorie di Berlusconi e l'affermazione elettorale di Di Pietro

Le elezioni politiche del 2001 segnarono una nuova vittoria di Silvio Berlusconi e della Casa delle Libertà, la coalizione che lo sosteneva, i quali ebbero la meglio sull'Ulivo e sul suo candidato Francesco Rutelli. L'esito elettorale fu considerato un segnale importante della nuova considerazione che Mani pulite aveva, a distanza di dieci anni, nell'opinione pubblica: un atteggiamento indifferente se non ostile per quella che venne considerata una stagione chiusa. Persino i politici che nel biennio 1992-94 avevano sostenuto apertamente il pool cambiarono idea: la Lega Nord denunciò un uso abusivo e prevaricatore della giustizia da parte di certa magistratura, Gianfranco Fini riconobbe i meriti dei giudici nel saper eliminare un sistema corrotto, ma sostenne che essi non avevano saputo fermarsi entro i propri confini.

Antonio Di Pietro, dopo non aver dato la fiducia nel 2000 al governo Amato II si candidò da solo con il movimento Italia dei Valori nelle elezioni politiche del 2001 e, nonostante avesse conseguito il 3,89% dei suffragi, non riuscì ad entrare in Parlamento, a causa della soglia di sbarramento della legge elettorale. L'ingresso avvenne poi, nel 2006, a seguito della vittoria elettorale di Prodi, che lo nominò di nuovo Ministro, e fu confermato nel 2008 dalla scelta di Veltroni di consentire solo all'IdV l'apparentamento con il suo Partito Democratico.

Statistiche

L'inchiesta Mani pulite, durata due anni e condotta da cinque magistrati, ha portato a 1.300 fra condanne e patteggiamenti definitivi[3].

Gli autori del libro Mani pulite. La vera storia (2002) affermano che dei 430 assolti nel merito (il 19%), non tutti sono stati riconosciuti estranei ai fatti. Alcuni imputati (gli autori citano come esempio 250 imputati per le tangenti riguardanti la Cariplo) pur avendo commesso il fatto, non sono stati ritenuti punibili: i giudici hanno ritenuto che il fatto sia stato commesso, ma li hanno assolti con la formula «il fatto non costituisce reato» in quanto non vennero considerati pubblici ufficiali. In quest'ottica gli assolti perché riconosciuti estranei ai fatti contestati scenderebbero a circa 150 (il 6%). Gli autori aggiungono inoltre che di quei 150 molti sono stati assolti grazie alle riforme giudiziarie dell'Ulivo, che tramite l'art. 513 c.p.p. (giudicato poi incostituzionale) e la riforma denominata «giusto processo», hanno invalidato le prove di vari procedimenti[56].

Vi è tuttavia da dire che nel momento in cui vi è una promessa corresponsione in denaro o altra utilità ad una persona perché questa ponga in essere un determinato atto, nell'ordinamento giuridico italiano non vi è alcun reato, a meno che quest'ultima non sia appunto un pubblico ufficiale, nel qual caso possono profilarsi i reati di corruzione o concussione. Viceversa, come risulta nella maggioranza dei processi di Mani Pulite conclusisi con l'assoluzione, la questione attiene ai rapporti tra privati cittadini che non integrano in alcun modo il fatto-reato.

È stato infine sottolineato da autorevole dottrina come l'orientamento della magistratura nel suo complesso sia stato, in quel periodo, particolarmente rigorista in ambito di reati contro la pubblica amministrazione: ciò che sarebbe stato permesso, tra l'altro, dalla peculiare indeterminatezza di fondo della fattispecie di concussione (art. 317 c.p.), ritenuta suscettibile di rilievi di incostituzionalità[57]. È stata infatti ricondotta a «concussione» anche la condotta del pubblico ufficiale che aveva ricevuto danaro da privati senza aver esercitato su di loro alcun tipo di pressione, limitandosi a beneficiare degli effetti dell'operato di chi l'aveva preceduto nella carica (cosiddetta «concussione ambientale»)[58].

Un tale rigorismo è stato difeso dall'ex procuratore Gerardo D'Ambrosio, ancora tre lustri dopo:

«Se avessimo ragionato così[59] negli anni 90 non ci sarebbe stata Mani Pulite. Tutti coloro che indagavamo dicevano che facevano le cose per migliorare la situazione, ma noi abbiamo scoperto che invece la peggioravano con appalti inutili e vuoti. Il principio di legalità va difeso sempre e comunque[60]

Il costo delle tangenti

Nel 1992 l'economista Mario Deaglio calcolò la ricaduta economica del giro di tangenti sui conti dello Stato, e quindi, in definitiva, sulle tasche dei cittadini. Infatti, la lievitazione dei costi degli appalti, finalizzata all'ottenimento dei margini fraudolenti, nonché i lavori pubblici inventati per generare il giro di tangenti, ha una ripercussione rilevante sui costi che lo Stato si accolla per la gestione della cosa pubblica, tale che, in alcuni casi, l'esborso per le opere pubbliche viene ad essere due, tre, quattro e più volte il corrispettivo per analoghe opere pubbliche realizzate in altri Paesi europei.

Deaglio ha stimato che il giro delle tangenti generasse orientativamente[6]:

  • 10.000 miliardi di lire annui di costi per i cittadini
  • un indebitamento pubblico fra 150.000 e 250.000 miliardi di lire
  • tra 15.000 e 25.000 miliardi di interessi annui sul debito

Secondo uno studio del settimanale Il Mondo, pubblicato nel 1992, la Linea M3 della metropolitana di Milano costava 192 miliardi a chilometro, contro i 45 miliardi della metropolitana di Amburgo; il passante ferroviario aveva previsioni di spesa per 100 miliardi a chilometro in dodici anni di lavoro, mentre quello di Zurigo (costruito in sette anni) costava 50 miliardi a chilometro; i lavori per l'ampliamento dello Stadio Giuseppe Meazza sono costati più di 180 miliardi e sono durati più di due anni, quelli dello stadio olimpico di Barcellona sono costati 45 miliardi e sono stati completati in 18 mesi[6].

Di fatto, il 1992 fu un anno drammatico per i conti dello Stato, con l'Italia che si trovava lontanissima dai parametri di Maastricht per entrare nell'Unione europea; il tasso d'inflazione era al 6,9% (invece che al 3), il deficit di bilancio all'11% (anziché al 3), mentre il rapporto debito/PIL era al 118% (non doveva superare il 60)[6]. Il 13 agosto 1992 l'agenzia Moody's declassò il rating italiano ad Aa2 per via dell'insicurezza degli investimenti realizzabile in Italia in quel momento[61], mentre il 16 settembre il valore della lira negli scambi con le altre monete crollò fino al punto da uscire dallo SME[6]. Per porre un argine alla bancarotta, il governo Amato fu costretto a varare, nell'autunno di quell'anno, una legge finanziaria pesantissima per l'epoca: 93.000 miliardi di tasse, con in aggiunta il prelievo forzato del 6 per mille su tutti i conti correnti bancari italiani, considerato il vero e proprio «scontrino finale» di Tangentopoli[3]. Si attuò la privatizzazione di quattro importanti aziende pubbliche – ENEL, ENI, INA e IRI – e a questo proposito l'ex presidente Consob Guido Rossi dichiarò: «Senza Mani pulite non ci sarebbe stata la svolta delle privatizzazioni e l'Italia non sarebbe uscita dal suo sistema di "capitalismo senza mercato"»[6].

Nel 1996, al momento dell'insediamento del governo Prodi, la situazione dei conti era migliorata, anche se ancora lontana dai parametri europei: il tasso d'inflazione era al 4,7%, il deficit di bilancio al 6,6%, il rapporto debito/PIL al 123%[39].

La critica storiografica

Già mentre il fenomeno era in corso, si avanzò il sospetto che fosse insufficiente a sradicare stabilmente la corruzione dai costumi politico-amministrativi dell'Italia[62]. La critica storiografica successiva si è domandata perché tale sospetto appare fondato.

La rivalutazione di Mani pulite

Mani pulite è tuttora al centro di un ampio dibattito storiografico e politico. Le inchieste sono state difese e rivalutate da molti sostenitori della politica pulita come i giornalisti Massimo Fini, Peter Gomez e Marco Travaglio, che hanno scritto libri e articoli in difesa dei magistrati. Molti hanno visto in Mani pulite una "rivoluzione pacifica della società civile", riprendendo una definizione di Indro Montanelli.

La proposta di Commissione parlamentare di inchiesta

Fin dal 1992 venne proposta l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta su Tangentopoli, per accertare gli illeciti arricchimenti conseguiti da titolari di cariche elettive e direttive, nonché per formulare idonee proposte per la devoluzione allo Stato dei patrimoni di non giustificata provenienza e per la repressione delle associazioni a delinquere di tipo politico. Nella XI Legislatura la Camera dei deputati giunse ad approvare all'unanimità, il 7 luglio 1993, un testo unificato che recepiva l'esigenza della Commissione d'inchiesta, ma il relativo disegno di legge[63] si arenò in Commissione al Senato.

Nella successiva legislatura la proposta ottenne un parere favorevole da parte della Commissione Giustizia del Senato. Ma perse di spinta propulsiva dopo che fu approvato un emendamento della maggioranza che puntava ad orientarne i lavori di ricerca storiografica: esso intendeva accertare se la conduzione delle inchieste avesse riscontrato omissioni o «zone bianche»; si trattava di un indirizzo che – non escludendo una conduzione selettiva o «mirata» di quelle inchieste – andava oggettivamente in consonanza con la richiesta, avanzata dalla Tunisia, da Bettino Craxi. La proposta – con il discusso emendamento, che ne stravolgeva il senso originario – fu votata dalla Camera, nella nuova legislatura, il 3 novembre 1998, durante la quale venne rigettata, insieme alle varie discordanti proposte avanzate dagli altri gruppi parlamentari.

L'idea di una Commissione d'inchiesta riprese velocità dopo che il gruppo di Forza Italia[64] depositò il 28 settembre 1999 una proposta di Commissione bicamerale di inchiesta sui comportamenti dei responsabili pubblici, politici e amministrativi, delle imprese pubbliche e private e sui loro reciproci rapporti (A.C. 6386); e una proposta identica di Commissione monocamerale, da istituire presso la Camera dei deputati, sempre ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione[65]. Lo stesso giorno proposte simili furono avanzate dallo SDI e dai DS.

Il 21 gennaio 2000, l'allora Presidente del Consiglio Massimo D'Alema rilanciò l'idea in un intervento alla Camera. Ma anche stavolta le divisioni e le divergenze fra i vari partiti fecero naufragare il progetto.

Lo scivolamento dello strumento dell'inchiesta nell'intento di riscrittura della storia del decennio passato divenne esplicito nella XIV legislatura. Paradossalmente, dagli eredi (anche familiari) di Bettino Craxi non giunse che una riedizione del testo licenziato dalla Camera il 26 gennaio 2000 (vedasi l'Atto Camera 1427, mentre l'Atto Camera 1867 riproduce il testo del Senato): la pacatezza della proposta deriva probabilmente dal diverso strumento prescelto per ottenere la «riabilitazione» del defunto, e cioè i due ricorsi dichiarati ammissibili dinanzi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Fu invece proprio del progetto di legge n. 2019 (d'iniziativa Cicchitto e Saponara) l'aver proposto l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'uso politico della giustizia, che oltre a «disfunzioni» accertasse «l'eventuale presenza all'interno dell'ordine giudiziario di orientamenti politico-ideologici e rapporti di interdipendenza con forze politiche parlamentari o extra parlamentari; l'eventuale influenza di motivazioni politiche sui comportamenti delle autorità giudiziarie; le conseguenti deviazioni della giustizia determinate dalla gestione politicamente mirata dell'esercizio dell'azione penale; l'effettività del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, e l'eventuale esistenza di un esercizio discrezionale e selettivo della funzione giudiziaria; gli eventuali tentativi di interferenza di magistrati, singoli o associati, con l'attività parlamentare e di Governo, in contrasto con il principio costituzionale della separazione dei poteri».

L'introduzione di questo ulteriore, e diverso oggetto dell'inchiesta determinò l'insuccesso della proposta, che non ebbe più seguito dopo la fine della XIII legislatura. Da un lato chi riteneva che la propria parte politica fosse vittima di un uso politico delle indagini, trovatosi al potere con la XIV legislatura, impegnò il Parlamento non più con proposte di commissioni d'inchiesta ma direttamente con leggi volte a prevenire il fenomeno denunciato[66]. Chi invece riteneva che si dovesse indagare se le indagini della magistratura avevano colpito più qualcuno che qualcun altro (e se ciò sia dipeso solo «dalla facilità di reperire prove in un caso o di riscontrare un maggior grado di corruzione in un altro»)[67] – e a tal fine auspicava l'istituzione di una «Commissione che [...] non dovrebbe occuparsi né di corrotti, né di corruttori, ma della corruzione»[68] – già all'epoca invitava a diffidare dall'utilizzo dell'inchiesta per riportare al suo interno la polemica contro determinate inchieste[69] e in prosieguo giunse a stigmatizzare le «antiche provenienze» (in tema di schieramenti politici sul tema giustizia) come un classico caso in cui «i morti hanno afferrato i vivi»[70].

Critiche

Il pool di Mani pulite e le loro indagini sono stati oggetto di forti critiche. Ad esempio Silvio Berlusconi ha dichiarato:

«I magistrati milanesi abusavano della carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli indagati.»

Mentre taluno sostiene che nessun esempio sarebbe mai stato trovato per dimostrare tale accusa[71], altri citano i casi di alcuni suicidi giudicati eloquenti. Il manager pubblico Gabriele Cagliari, ex presidente dell'ENI, si soffocò con una busta di plastica nel carcere di San Vittore il 20 luglio 1993: nella versione poi diffusasi nell'ambiente politico[72] sarebbe stato vittima della Procura di Milano perché, prima di compiere l'estremo gesto, avrebbe più volte chiesto ai magistrati di essere interrogato per chiarire la sua posizione. Risulta però che al momento del suicidio, per il pool di Di Pietro fosse già uomo libero, visto che ne aveva già richiesto la sua scarcerazione: Cagliari era tenuto ancora in carcere per un altro processo milanese, quello sul caso ENI-SAI (uno dei processi che portò alle condanne definitive di Craxi)[73]. Stando a quanto ricostruito successivamente a Cagliari, sentito dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, erano stati promessi gli arresti domiciliari, probabilmente anche in virtù delle sue dichiarazioni sulla tangente che Salvatore Ligresti avrebbe pagato a DC e PSI[74], ma l'arresto di Ligresti il 19 luglio, che diede una ricostruzione differente dei fatti, portò la Procura a ritenere che un'eventuale scarcerazione di Cagliari gli avrebbe consentito di inquinare eventuali prove[75][76]. Pochi giorni dopo, il 23 luglio, anche l'imprenditore Raul Gardini si tolse la vita in casa a Milano, poco prima di ricevere l'avviso di garanzia per le indagini nei suoi confronti.

I detrattori di Mani pulite sottolineano come la misura cautelare della custodia in carcere, la massima prevista dall'ordinamento, fosse stata utilizzata nei confronti di persone per lo più incensurate, socialmente, lavorativamente e familiarmente inserite, così che qualsiasi pericolo di fuga, inquinamento probatorio o reiterazione del reato non fosse ragionevolmente ipotizzabile, o tutt'al più scongiurabile, mediante semplici arresti domiciliari: tutte misure che avrebbero dovuto essere assunte per limitare l'impatto delle indagini sulla vita personale dei rei, e che non sarebbero state assunte per le predominanti esigenze di visibilità dei magistrati inquirenti[77].

Un'altra critica riguarda il presunto uso politico della giustizia per denigrare e portare allo scioglimento partiti o movimenti politici[78]. Si ritiene che dalle inchieste di Mani pulite siano stati colpiti esclusivamente esponenti politici della DC o del PSI[79], e nessun esponente politico di rilievo del PCI[80]. Giulio Maceratini[81] osserva che questa miratezza delle indagini non poteva essere una casualità ed è stata consapevolmente voluta per affondare il PSI e la DC e favorire l'elezione del PCI, che fino ad allora non era mai riuscito a governare l'Italia tramite le libere elezioni. Maceratini afferma inoltre che sembra strano che, in un ambiente così corrotto come era l'Italia di quei tempi descritta dai magistrati di Mani Pulite, il PCI non avesse tratto nessun beneficio dal sistema politico economico vigente[82] osserva che questa miratezza delle indagini non poteva essere una casualità ed è stata consapevolmente voluta per affondare il PSI e la DC e favorire l'elezione del PCI, che fino ad allora non era mai riuscito a governare l'Italia tramite le libere elezioni. Maceratini afferma inoltre che sembra strano che, in un ambiente così corrotto come era l'Italia di quei tempi descritta dai magistrati di Mani pulite, il PCI non avesse tratto nessun beneficio dal sistema politico economico vigente[83]; a queste dichiarazioni Gianfranco Fini, leader dello stesso partito di Maceratini, rispose che «qui e fuori di qui la stragrande maggioranza degli italiani ha un sentimento di gratitudine per quei magistrati che hanno smascherato il volto perverso del sistema tangentocrate. Detto questo è evidente che da parte nostra non ci deve essere alcun timore per ogni indagine che viene fatta»[81]. Peraltro alcuni eredi della tradizione comunista sono apparsi più travagliati in ordine alla questione della deriva consociativa sottostante alla Prima repubblica, che coinvolgeva anche il loro partito[84]. In merito a queste critiche è stato fatto notare dal giornalista Marco Travaglio che «i primi due politici arrestati in Mani Pulite erano dell'ex Pci: Soave e Li Calzi. Il pool di Milano inquisì quasi l'intero vertice del Pci-Pds milanese. E poi le prime elezioni dopo Tangentopoli non le vinsero le sinistre: le vinse Berlusconi»[85]. Inoltre furono indagati anche Marcello Stefanini, segretario amministrativo nazionale del PDS, successivamente prosciolto, e Primo Greganti, uomo legato al partito comunista che subì «uno dei più lunghi periodi di custodia cautelare»[86].

Altro addebito – di tipo eminentemente processuale – fu quello fondato sullo squilibrio conoscitivo tra magistratura requirente e giudicante, che rendeva necessitate molte delle decisioni di competenza di quest'ultima (specie quelle cautelari, assunte necessariamente in assenza di contraddittorio con la difesa): già nel processo a Cusani la difesa lamentava che alcune decisioni del GIP riproducevano note a margine e post-it apposti sul fascicolo con la grafia di Antonio Di Pietro[87]. Ma solo dopo molti anni – terminato il suo lavoro a Milano e quello di membro elettivo del CSM – il GIP milanese Italo Ghitti ammise[88] che le decisioni da lui assunte tra il 1992 e il 1993 erano spesso pedissequi accoglimenti delle richieste della Procura della Repubblica, non essendogli possibile o pratico revisionare tutti gli elementi di prova (che venivano ritenuti fondati spesso senza neppure aver avuto il tempo di esaminarli): a sua volta, sostenne Ghitti, lo stesso PM spesso prende per buone le attività di indagine effettuate dalla polizia giudiziaria, senza un reale riscontro.

Nel 1994, il governo Berlusconi inviò degli ispettori per indagare su eventuali scorrettezze commesse dai magistrati della Procura di Milano, tra cui quelli del pool di Mani pulite. Nella loro relazione finale, presentata il 15 maggio 1995, gli ispettori riferirono al nuovo Governo affermando che:

«Nessun rilievo può essere mosso ai magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri.»

Un altro acerrimo critico dei magistrati di Mani pulite è il critico d'arte e politico Vittorio Sgarbi: i suoi attacchi televisivi ai giudici ed al giustizialismo raggiunsero livelli tali che la Corte costituzionale, con le sentenze n. 10 e 11 del 2000, sottrasse i giudici all'area dell'insindacabilità delle opinioni espresse da un parlamentare (di cui all'articolo 68, primo comma della Costituzione)[89][90].

Nella cultura di massa

Il termine Tangentopoli negli anni successivi all'inchiesta Mani pulite venne ripreso per essere adattato ad altri tipi di scandali giudiziari (affittopoli, vallettopoli, ecc.).

Il termine, nel periodo delle inchieste, venne utilizzato anche per un gioco da tavolo, chiamato Il gioco di Tangentopoli[91], realizzato dai giornalisti campani Maurizio Landi e Mimmo Cordopatri. Nel 1993 usciva poi un videogioco, edito dalla Xenia edizioni ed ideato da Guglielmo Duccoli e Roberto Piazzolla, dal titolo Il grande gioco di Tangentopoli[92], dove si interpretava il «giudice De Petris», che combatteva a colpi di avvisi di garanzia gli onorevoli di PLI, PSDI e DC, doveva impedire la crescita della bandiera del PDS e dell'edera del PRI, evitare da essere colpito dalle inchieste ministeriali sulla magistratura e contemporaneamente evitare che versioni Pac-matizzate di Bettino Craxi, Paolo Cirino Pomicino e Pietro Longo si impossessassero del denaro degli appalti pubblici.

Filmografia

Tutti i film documentari, curati da Pino Corrias, Renato Pezzini, Roberto Capanna, Peter Freeman e Paolo Luciani, sono stati trasmessi da Rai 2 nel 1997, ogni mercoledì dal 18 giugno[93] al 9 luglio[94] alle 20:50.

  • 1992. Serie trasmessa su Sky Atlantic e su Sky Cinema 1 dal 24 marzo 2015, prodotta da Wildside in collaborazione con Sky e LA7. Narra in chiave romanzata le vicende che hanno portato a Tangentopoli attraverso i punti di vista di sei diversi personaggi, le cui storie si intrecciano tra loro e con altri noti personaggi dell'Italia dell'epoca.

Note

  1. ^ Il termine fu coniato da Piero Colaprico, cronista de la Repubblica.
  2. ^ Enzo Biagi, Era ieri, Milano, Rizzoli, 2005.
  3. ^ a b c d e Marco Travaglio, Promemoria, Bologna, Corvino Meda editore, 2009, ISBN 978-88-902950-6-5.
  4. ^ «Chiesa è un mariuolo», Corriere.it, 15 febbraio 2012.
  5. ^ a b c d e f g h i j k l Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia degli anni di fango, Milano, Rizzoli, 1993.
  6. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio, Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo, Milano, Chiarelettere, 2012.
  7. ^ Craxi e Martelli: un clima infame, Corriere della Sera, 4 settembre 1992.
  8. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u Marco Travaglio, Sintesi della storia di Tangentopoli con nomi e cognomi, in MicroMega.
  9. ^ Paola Pollo, L'ex pm ha superato la soglia dell'eroe. Otto italiani su dieci lo sostengono, in Corriere della Sera, 11 dicembre 1996 (archiviato dall'url originale).
  10. ^ Sandra Bonsanti, Schizzi di fango sull'edera del Pri, la Repubblica, 9 febbraio 1993. «A Torino, Bossi aveva affermato che nell'inchiesta Mani pulite "sarebbe coinvolto un personaggio di altissimo livello istituzionale, appartenente a un partito finora lambito dalle indagini". Sembrava l'identikit del presidente del Senato. Il ciclone si sarebbe dunque abbattuto sulla seconda carica dello Stato? Il procuratore Capo di Milano, Saverio Borrelli, è intervenuto per bloccare le indiscrezioni e per "deplorare" Bossi: "Se per alte cariche dello Stato si intendono il presidente della Repubblica, i presidenti della Camera e del Senato ed il presidente del Consiglio l'affermazione dell'onorevole Bossi è destituita di ogni fondamento".».
  11. ^ L'Hotel Ivanohe.
  12. ^ www.sabellifioretti.it.
  13. ^ Testo unificato dei disegni di legge nn. 443 e connessi approvato dalla prima Commissione del Senato, in Mondoperaio.net, 10 gennaio 2014.
  14. ^ Giampiero Buonomo, Dura lex sed negligens, Mondoperaio, n. 9/2014, p. 58.
  15. ^ Alberto Rapisarda, «Ci vuole un cambiamento di regime», La Stampa, 22 aprile 1993.
  16. ^ V. G. Orsina, L'autorizzazione a procedere Craxi, aprile 1993, intervento al Seminario di studi I palazzi e le piazze nella storia nazionale, 13 maggio 2015, Aula Giubileo dell'Università LUMSA di Roma.
  17. ^ TG3, servizio del 30 aprile 1993 fuori dall'Hotel Raphael, su youtube.com, 29 aprile 1993.
  18. ^ Gian Antonio Stella, Craxi: perché non andate fino in fondo?, Corriere della Sera, 5 agosto 1993.
  19. ^ Identificato in un articolo de il Giornale del 24 luglio 1995, Facci ha poi descritto la meccanica dei fatti in un articolo pubblicato su (http://www.macchianera.net/2009/10/11/per-fatto-personale/): a suo dire, «Il settimanale Il Sabato pubblicò un dossier che conteneva tutta una serie di notizie imbarazzanti per Antonio Di Pietro. Erano cose che perlopiù conoscevo e che nel mio libro fantasma avevo sviluppato in parte meglio e in parte peggio. Furono sbrigativamente bollate come "calunnie", come capitava a ogni minimo rilievo mosso contro Di Pietro, ma fu un altro fatto a colpirmi. Mi suonavano stranamente familiari, di quel dossier, almeno un paio di passaggi. Ebbi l'impressione che l'estensore avesse quantomeno consultato il mio libro fantasma, ma fu solo un primo campanello d'allarme. Presto un altro episodio l'avrebbe terribilmente superato».
  20. ^ Michele Brambilla, Di Pietro, i dossier e quel mistero dell'editore irlandese, La Stampa, 14 ottobre 2009.
  21. ^ Luigi Ferrarella, L'autoparco di Milano controllato dalla mafia. Assolto l'ex vicequestore, Corriere della Sera, 25 ottobre 2003.
  22. ^ Il massacro
  23. ^ Marco Travaglio, Suicidio Gardini e fondi riciclati le nuove verità dei pm antimafia, in la Repubblica, 16 ottobre 2003. URL consultato l'11 settembre 2014.
  24. ^ Mario Almerighi, Tre suicidi eccellenti. Gardini, Cagliari, Castellari, Roma, Editori Riuniti, 2009. La connessione di Castellari con lo scandalo Enimont sarebbe costituita dalla sua carica di ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali, nella qual veste Castellari aveva seguito, insieme al ministro Franco Piga, tutta la vicenda della joint venture: eppure, pochi giorni prima che scomparisse e che il suo corpo senza vita fosse trovato in una collina a Sacrofano – ucciso da un colpo di pistola sparato alla nuca – aveva inviato al suo avvocato un memoriale in cui spiegava di essere stato completamente escluso dalle trattative che avevano concluso la vicenda Enimont.
  25. ^ Tiziana Parenti è nel pool dei giudici di «Mani pulite», La Stampa, 31 marzo 1993.
  26. ^ Ugo Bertone, Una donna per battere Greganti, La Stampa, 15 maggio 1993.
  27. ^ Mani pulite, c'è un conto senza nome per Stefanini decisione imminente, la Repubblica, 28 settembre 1993.
  28. ^ Luigi Musella, "Questione morale" e costruzione pubblica di un giudizio nei processi ai politici degli anni Novanta, MEMORIA E RICERCA, 2009, Fascicolo: 32.
  29. ^ Tratto da Intervista su Tangentopoli, a cura di G. Valentini, Laterza, Roma 2001
  30. ^ Luca Fazzo, Curtò, giudice nei guai, la Repubblica, 3 settembre 1993.
  31. ^ Stefano Marroni, Berlusconi vuole di Pietro ministro, la Repubblica, 29 aprile 1994.
  32. ^ Di Pietro rifiuta il Viminale, Corriere della Sera, 8 maggio 1994.
  33. ^ a b c d e f g h i j k l Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia di Berlusconi, Milano, Rizzoli, 1995.
  34. ^ Éric Jozsef, Main basse sur l'Italie : La résistible ascension de Silvio Berlusconi, Éditions Grasset, p. 91.
  35. ^ Carmelo Lopapa, Dal decreto, la Repubblica, 12 novembre 2009.
  36. ^ Fulvio Bufi, "Un arrogante, ecco perché è il più odiato", in Corriere della Sera, 10 marzo 1997 (archiviato dall'url originale).
  37. ^ Luigi Corvi e Francesco Battistini, Di Pietro: mai chiesto aiuto a Previti, in Corriere della Sera, 17 giugno 1995 (archiviato dall'url originale).
  38. ^ Gianluca Di Feo, Berlusconi jr confessa e va a casa, Corriere della Sera, 30 luglio 1994.
  39. ^ a b c d Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia dell'Ulivo, Milano, Rizzoli, 1997.
  40. ^ Maurizio Caprara, Di Pietro, superuomo sempre in viaggio, in Corriere della Sera, 7 luglio 1994 (archiviato dall'url originale).
  41. ^ Attestate anche dalla Relazione DEL COMITATO PARLAMENTARE PER I SERVIZI DI INFORMAZIONE E SICUREZZA E PER IL SEGRETO DI STATO SULL'ACQUISIZIONE ILLEGITTIMA DI INFORMAZIONI RISERVATE E CONTROLLO PARLAMENTARE depositata alle Camere il 5 marzo 1996 come Doc. XXXIV, n. 4, ove si legge: «Nell'estate del 1992, mentre procedono le inchieste dopo che sono emersi indizi circa il rischio di un attentato contro Di Pietro, egli parte per una vacanza in Costa Rica. Ragioni di sicurezza inducono il Vicequestore vicario di Bergamo a procurargli per il viaggio un passaporto di copertura, intestato ad altro nome. L'operazione riservatissima è a conoscenza del prefetto Parisi, capo della polizia. Un appunto anonimo, ritrovato tra le carte di Craxi, ma compreso anche nel dossier posto a base della ispezione del 1994, riferisce dettagliatamente il fatto, aggiungendo che in Costa Rica il magistrato sarebbe stato ospite della consorte del dottor Lamberto Dini. Questo particolare, per sé insignificante e smentito dal dottor Di Pietro, serve evidentemente ad insinuare l'esistenza di suoi collegamenti con ambienti finanziari. Del resto, notizie su viaggi o rapporti con ambienti non italiani del magistrato ricorrono spesso nei dossier: dai viaggi negli Stati Uniti, di cui Craxi conserva memoria, all'informazione raccolta dal SISDE (compresa tra quelle che saranno citate più avanti, della cosiddetta fonte "Achille"), su presunti contatti con ambienti internazionali, in grado di determinare manovre contro la lira.».
  42. ^ Sentenza Salamone.pdf.
  43. ^ Antonio Di Pietro - La mia storia attraverso le sentenze.
  44. ^ [1].
  45. ^ [2].
  46. ^ Pietro Criscuoli, Elezione di Di Pietro, Il Tirreno, 17 luglio 1997.
  47. ^ Elezioni suppletive tenute nel corso della Legislatura
  48. ^ There is a Culture – but of the Wrong Kind by David Lane. The Financial Times (London, England), Tuesday, October 08, 1996; pg. IV; Edition 33,108.
  49. ^ Viviana Magni, "L'onestà non paga, mi uccido", su archiviostorico.corriere.it, Corriere della Sera, 23 aprile 1997. URL consultato il 26 ottobre 2010 (archiviato dall'url originale).
  50. ^ Marco Travaglio, Ambrogio Mauri una vittima vera, su espresso.repubblica.it, L'Espresso, 29 gennaio 2010. URL consultato il 26 ottobre 2010.
  51. ^ Marco Travaglio, Mi raccomando, il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016.
  52. ^ Per tutti: G.F. Ricci, Principi di diritto processuale generale, Torino, Giappichelli, 2001 (ISBN 88-348-1263-8); F. Izzo (a cura di), Compendio di diritto processuale penale, Napoli, EsseLibri, 2004 (ISBN 88-244-8764-5).
  53. ^ Francesco Grignetti, Arresto cardiaco, Craxi muore in Tunisia, La Stampa, 20 gennaio 2000.
  54. ^ a b La Corte europea su Craxi Non ci fu persecuzione, in la Repubblica, 1º novembre 2001. URL consultato l'11 luglio 2016.
  55. ^ Lorenzo Salvia, La Camera dice sì alle dimissioni di Previti, Corriere della Sera, 1º agosto 2007.
  56. ^ Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Roma, Editori Riuniti, 2002.
  57. ^ V. ad es. L. Stortoni, Delitti contro la pubblica amministrazione, in S. Canestrari et. al., Diritto penale: lineamenti di parte speciale, 3 ed., Monduzzi, Bologna, 2003, pp. 127-128 (ISBN 88-323-3171-3).
  58. ^ Cass., sez. VI, 29 aprile 1998, C.E.D. 211708.
  59. ^ Cioè come sostenuto dall'ex procuratore capo Borrelli, il quale aveva sostenuto all'entrata della Scala che «per rendere efficiente la pubblica amministrazione a volte bisogna anche forzare i limiti della legalità», in riferimento alle indagini che si stavano svolgendo sul sindaco Letizia Moratti circa le procedure illecite di nomina dei manager del Comune di Milano.
  60. ^ Maurizio Giannattasio, Moratti indagata, la difesa di Borrelli: a volte si deve forzare, Corriere della Sera, 8 dicembre 2007.
  61. ^ Moody's: dopo 6 anni Italia verso zona promozione, Il Sole 24 ORE, 28 febbraio 2002.
  62. ^ Il giudice dello scandalo petroli: non ripetiamo certi errori, Corriere della Sera, 1º marzo 1993. Così si espresse il giudice Mario Almerighi: «Se l'uscita da Tangentopoli deve coincidere con un cambiamento, allora non può che avvenire attraverso la punizione di chi ha violato la legge e la costruzione di un nuovo sistema basato sulla legalità. [...] È necessaria la confessione completa da parte dei colpevoli, la restituzione dei soldi, magari la sospensione della pena, ma con interdizione dai pubblici uffici e dalla vita politica; e quindi dalla vita dei partiti. [...] Penso però che ben difficilmente questa strada verrà imboccata. Se, invece, la strada d'uscita che si vuole perseguire è simile a quella di vent'anni fa, noi assisteremo per i prossimi venti, o forse quarant'anni, al consolidamento di una democrazia fondata sull'illegalità».
  63. ^ Divenuto Atto Senato n. 1369.
  64. ^ Primi firmatari sempre i deputati Giuseppe Pisanu e Franco Frattini.
  65. ^ Doc. XXII, n. 61.
  66. ^ Giuseppe D'Avanzo, Per Silvio Berlusconi 18 salvacondotti in 15 anni, la Repubblica, 23 novembre 2009.
  67. ^ Senato della Repubblica, legislatura 13a – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 787 del 2 marzo 2000, intervento del senatore Felice Carlo Besostri, che allegava ai resoconti anche una ricca bibliografia sul fenomeno della corruzione politica, che comprendeva circa 150 testi.
  68. ^ Senato della Repubblica, legislatura 13a – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 787 del 2 marzo 2000, intervento del senatore Felice Carlo Besostri, secondo cui «battaglie contro i corrotti storicamente sono state condotte per una sostituzione dei soggetti corruttibili [...], i quali hanno fatto della lotta alla corruzione il motivo per cui sono stati eletti, ma quando hanno rimpiazzato chi li aveva preceduti non intervenendo sui meccanismi sono diventati corrotti a loro volta, e molto spesso in misura maggiore».
  69. ^ Senato della Repubblica, legislatura 13a – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 787 del 2 marzo 2000, intervento del senatore Felice Carlo Besostri: «È opportuno perciò diffidare. [...] La Commissione potrebbe essere utile se vuole indagare su tale fenomeno in parte dal punto di vista storico, in parte per analizzarne i meccanismi, sicuramente con qualche incursione all'estero che sarebbe opportuna e necessaria. Invece, se il problema diventa esclusivamente quello della lettera c) dell'articolo 1, allora ad essere sbagliato è il punto di partenza, cari colleghi. Ciò vuol dire che in realtà di questo fenomeno non ci interessa eccessivamente».
  70. ^ Felice Carlo Besostri, Un disastro annunciato, aprileonline.info, 16 aprile 2008.
  71. ^ a b Peter Gomez, Marco Travaglio, Le mille balle blu, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 54-55, ISBN 88-17-00943-1.
  72. ^ «Ho immediatamente pensato a Gabriele Cagliari. Era luglio, 1993, caldo come quello di oggi. E lui si uccise. Si uccise perché un pubblico ministero gli mentì promettendogli la libertà e poi negandogliela»: sono i pensieri di Del Turco rivelati al deputato del PdL Renato Farina, giornalista di Libero, che li ha riferiti sul suo giornale il 17 luglio 2008 dopo essere rientrato dal carcere di Sulmona.
  73. ^ Craxi, tutti i processi e le condanne, in la Repubblica, 19 gennaio 2000.
  74. ^ Luca Fazzo, Anche Cagliari comincia a parlare..., in la Repubblica, 17 luglio 1993, p. 7.
  75. ^ Oriana Liso, La cella è un'angoscia così Cagliari si arrese, in la Repubblica, 27 marzo 2007, p. 17.
  76. ^ Raul Gardini e Gabriele Cagliari, Rifondazione-cinecitta.org.
  77. ^ Senato della Repubblica, legislatura 13a – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 787 del 2 marzo 2000, intervento del senatore Pastore: «Credo che chi accede al ruolo della magistratura sia un uomo come tutti gli altri: quindi, credo che esistano anche tra i magistrati "toghe pigre", che hanno poca voglia di lavorare, oppure "toghe distratte", magari da arbitrati esterni, quindi da attività extragiudiziarie, oppure distratte, com'è capitato, da impegni sportivi, da incontri di tennis e così via, ragion per cui vengono rinviate le udienze a misura delle proprie necessità personali. Vi sono poi anche "toghe impreparate", diciamolo: come esistono professionisti impreparati od operatori giuridici impreparati, ci possono essere toghe impreparate; come ci possono essere, ci sono state – e probabilmente ci saranno sempre, perché la natura dell'uomo è quella che è – "toghe sporche". Poi ci sono – non dobbiamo tacere la verità storica – le "toghe rosse" [...] Vi è poi un'altra categoria di toghe, e concludo: le "toghe rampanti", o meglio da arrampicatore, cioè le toghe di coloro che vedono la giustizia solo come un trampolino di lancio per la loro carriera in magistratura o fuori dalla magistratura, coloro che utilizzano la giustizia-spettacolo per propri fini di pubblicità, per apparire sui media; ma soprattutto in questo Senato abbiamo la toga rampante più nota nel Paese, che ha usato come rampini e piccozze, per potersi arrampicare in quest'Aula, su questi scranni, la carcerazione preventiva e le manette.».
  78. ^ Pietro Salvatori, Dica Novantatré, per Feltri l'Italia si ammalò di Tangentopoli, Huffington Post, 19 febbraio 2016. Ha citato in proposito Edmund Burke: «Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell'uomo. Nella palude Serbonia di questa vile oligarchia tutti saranno assorbiti, soffocati e perduti per sempre».
  79. ^ Senato della Repubblica, legislatura 13a – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 787 del 2 marzo 2000, intervento del senatore Gubert: «Il sospetto che, per qualche ragione, il lavoro inquisitorio della magistratura si sia diretto più in direzione del vecchio pentapartito di centro-sinistra anziché, in modo equanime ed imparziale, anche in direzione del principale partito di opposizione non solo è molto diffuso tra gli italiani, ma trova solidi indizi. Il sistema di lottizzazione dei pubblici appalti da anni includeva una quota da riservare alle "cooperative rosse", i cui legami organici con il PCI erano noti. Il fatto che la lottizzazione avesse solo il fine di distribuire equamente le opportunità di lavoro sono in pochi a crederlo; che nelle regioni e negli enti locali amministrati dal PCI vi fossero processi di decisione nell'assegnazione di commesse, di incarichi, di appalti, nella destinazione urbanistica di aree, nella concessione di licenze e di autorizzazioni che avevano quale condizione necessaria la fedeltà politica da testimoniare con contributi al partito o assunzioni di clientela, sono molti in quella realtà a poterlo testimoniare; che il PCI, a seguito delle indagini della magistratura sui finanziamenti illeciti, abbia dovuto ridimensionare apparato burocratico e sedi, è agevolmente rilevabile, al pari di quanto hanno dovuto fare la DC ed altri partiti. La gente questo lo sa, lo ha visto; la gente sa che sull'indipendenza di giudizio dei magistrati che condividono pubblicamente obiettivi politici di partiti è difficile fare affidamento, tanto più che la via italiana al potere da parte del PCI teorizzava la conquista non violenta del potere attraverso l'egemonia culturale nelle università, nelle attività culturali e nelle arti, attraverso un uso mirato dei poteri della magistratura.»
  80. ^ Senato della Repubblica, legislatura 13a – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 787 del 2 marzo 2000, intervento del senatore Pastore: «È incontestabile che il sistema giudiziario sia profondamente inquinato non dalle scelte politiche ma dalle scelte di partito. A questo riguardo vorrei citare un brano tratto da un testo che forse avrebbe dovuto suscitare più rumore di quello che ha suscitato. In questo testo, che risale al 1998 ed è stato scritto a due mani da Bonini e Misiani [...] per le Edizioni Tropea, Misiani, parlando di Magistratura democratica – l'associazione dei magistrati diciamo, avanzati, progressisti – scrive testualmente: "Il PCI" – cioè il Partito comunista italiano, naturalmente negli anni presi in considerazione, cioè gli anni Settanta-Ottanta – "è infatti il soggetto politico di riferimento "naturale" dell'ala maggioritaria di Md. Salvatore Senese, Elena Paciotti, Edmondo Bruti Liberati, Nuccio Veneziano, Giancarlo Caselli, Vittorio Borraccetti, condividono non solo una sintonia politica con Botteghe Oscure, ma anche l'idea di un percorso "gradualista" che, sfuggendo a "tentazioni avventuriste", abbia quale obiettivo la riforma di un sistema capitalista. Gli si oppone l'ala movimentista", nella quale "si distinguono per le loro prese di posizione Francesco Misiani, Luigi Saraceni, Franco Marrone, Gabriele Cerminara, Filippo Paone, Silvio Perrone, Francesco Greco, Mario Barone, Corradino Castriota. C'è poi una pattuglia di centro: da Michele Coiro, a Gianfranco Viglietta, a Giovanni Palombarini, a Romano Canosa". Ora, di fronte a queste verità storiche evidentemente ci si pone il dubbio se certe azioni giudiziarie siano state condotte nell'interesse di un partito; credo sia un dubbio che abbiamo il diritto ed il dovere di sollevare di fronte alla nostra coscienza e di fronte alla coscienza degli italiani.».
  81. ^ a b Francesco Verderami, MSI, rissa sul pool di Mani Pulite MSI, rissa sul pool di Mani Pulite, in Corriere della Sera, 24 ottobre 1994, p. 3.
  82. ^ Gian Antonio Stella, MSI, rissa sul pool di Mani Pulite, in Corriere della Sera, 24 ottobre 1994, p. 3.
  83. ^ Gian Antonio Stella, Maceratini: Mani pulite non è la Trinità, in Corriere della Sera, 25 ottobre 1994, p. 2.
  84. ^ Goffredo Bettini, Dai tempi di Craxi ci manca una grande politica, Il Riformista, 13 aprile 2010. «La crisi della prima Repubblica, al contrario di quello che abbiamo pensato, ha messo in crisi, infatti, un sistema di rapporti tra politica e società di cui anche noi facevamo pienamente parte. L'idea di essere, dentro Tangentopoli, i buoni, ci ha esonerato dall'intraprendere un cammino di rinnovamento delle classi dirigenti, culturale e perfino di sguardo sulle cose. Assillati (almeno questa è stata la storia di molti di noi) dalla redenzione rispetto ai crimini del comunismo, ci siamo preoccupati più dei nostri peccati nel mondo, rispetto alle storture nostrane: un consociativismo di fatto pervasivo e soffocante che sottendeva anche le più aspre contrapposizioni parlamentari e politiche. Probabilmente, quando Craxi in Parlamento fece verso la sinistra una chiamata di correo, dovevamo rispondere con maggiore schiettezza politica: che noi eravamo generalmente esenti da arricchimenti personali, da cupole spartitorie di tangenti, da eccessi e ostentazioni (ed è cosa di non poco conto); ma che, tuttavia, ci rendevamo conto che il problema aperto non era essenzialmente giudiziario e chiamava in causa un intero regime, ormai stanco e decaduto, coda di un compromesso, anche sociale, inclusivo della sinistra».
  85. ^ Mani pulite 15 anni dopo, le bugie di chi ha combattuto l'inchiesta
  86. ^ Tangentopoli: storia di Mani Pulite di Gherardo Colombo
  87. ^ Gianluca Di Feo, Di Pietro a Ghitti: metti dentro Maddaloni, in Corriere della Sera, 16 giugno 1997, p. 15 (archiviato dall'url originale).
  88. ^ In un'intervista del 17 febbraio 2002 (a Tv7, il settimanale di approfondimento del TG1).
  89. ^ Sentenza n. 10 del 2000 della Corte costituzionale.
  90. ^ Sentenza n. 11 del 2000 della Corte costituzionale.
  91. ^ Tangentopoli diventa gioco, Corriere della Sera, 28 giugno 1992.
  92. ^ E Tangentopoli è un videogame, la Repubblica, 16 luglio 1993.
  93. ^ pag.8 de "L'Unità 2" del 18/6/1997 [3].
  94. ^ pag.8 de "L'Unità 2" del 9/7/1997 [4].

Bibliografia

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