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Vittorio Alfieri: differenze tra le versioni

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=== Autobiografia ===
=== Autobiografia ===
Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia (la ''[[Vita scritta da esso]]'' ) dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio [[1790]] e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio ed il 14 maggio [[1803]] (anno della sua morte).<ref name="Ricciardi1977">{{cita libro |autore=Vittorio Alfieri |titolo=Opere / Vittorio Alfieri; introduzione e scelta di Mario Fubini; testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto |opera=La letteratura italiana (50) |volume=1 |anno=1977 |editore=Ricciardi |città=Milano, Napoli |sbn=IT\ICCU\SBL\0160379}}</ref> "La vita" è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo M. Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della "Vita", che ancora inedita, [[madame de Staël]] leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti.<ref name="Ricciardi1977" /> Non a caso l'opera all'inizio del [[XIX secolo]] venne tradotta in [[lingua francese|francese]] ([[1809]]), [[lingua inglese|inglese]] ([[1810]]) [[lingua tedesca|tedesco]] ([[1812]]), e parzialmente in [[lingua svedese|svedese]] ([[1820]]). In quest'opera analizza la sua vita come per analizzare la vita dell'uomo in generale, si prende come esempio. A differenza di altre autobiografie (come ad esempio le ''Mémoires'' di [[Carlo Goldoni|Goldoni]]) Alfieri risulta ''molto autocritico''. In maniera cruda e razionale, egli non si risparmia neppure quando deve accusare il suo modo di fare, il suo carattere eccentrico e soprattutto il suo passato; tuttavia, Alfieri non ha né rimorsi né rimpianti per quest'ultimo.<ref name="Ricciardi1977" />
Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia (la ''[[Vita scritta da esso]]'' ) dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio [[1790]] e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio ed il 14 maggio [[1803]] (anno della sua morte).<ref name="Ricciardi1977">{{cita libro |autore=Vittorio Alfieri |titolo=Opere / Vittorio Alfieri; introduzione e scelta di Mario Fubini; testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto |collana=La letteratura italiana (50) |volume=1 |anno=1977 |editore=Ricciardi |città=Milano, Napoli |sbn=IT\ICCU\SBL\0160379}}</ref> "La vita" è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo M. Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della "Vita", che ancora inedita, [[madame de Staël]] leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti.<ref name="Ricciardi1977" /> Non a caso l'opera all'inizio del [[XIX secolo]] venne tradotta in [[lingua francese|francese]] ([[1809]]), [[lingua inglese|inglese]] ([[1810]]) [[lingua tedesca|tedesco]] ([[1812]]), e parzialmente in [[lingua svedese|svedese]] ([[1820]]). In quest'opera analizza la sua vita come per analizzare la vita dell'uomo in generale, si prende come esempio. A differenza di altre autobiografie (come ad esempio le ''Mémoires'' di [[Carlo Goldoni|Goldoni]]) Alfieri risulta ''molto autocritico''. In maniera cruda e razionale, egli non si risparmia neppure quando deve accusare il suo modo di fare, il suo carattere eccentrico e soprattutto il suo passato; tuttavia, Alfieri non ha né rimorsi né rimpianti per quest'ultimo.<ref name="Ricciardi1977" />
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«Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli»

Vittorio Alfieri
Vittorio Alfieri, ritratto di François-Xavier Fabre (1797)
Conte di Cortemilia
Stemma
Stemma
In carica1750 –
1803[1]
Investitura1769
PredecessoreAntonio Amedeo Alfieri
SuccessoreLuigi Leonardo Colli[2]
Nome completoVittorio Amedeo Alfieri
TrattamentoSua Eccellenza
NascitaAsti, 16 gennaio 1749
MorteFirenze, 8 ottobre 1803
SepolturaBasilica di Santa Croce, Firenze
DinastiaAlfieri
PadreAntonio Amedeo Alfieri
MadreMonica Maillard de Tournon
Firma

Il conte Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749Firenze, 8 ottobre 1803) è stato un drammaturgo, poeta, scrittore e attore teatrale italiano.

«Nella città di Asti, in Piemonte, il dì 17 gennaio[3] dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti».[4] Così Alfieri presenta se stesso nella Vita scritta da esso, autobiografia stesa, per la maggior parte, intorno al 1790, ma completata solo nel 1803.[5] Alfieri ebbe un'attività letteraria breve ma prolifica e intensa; il suo carattere tormentato, oltre a delineare la sua vita in senso avventuroso, fece di lui un precursore delle inquietudini romantiche.[6]

Come la gran parte dei piemontesi dell'epoca, Vittorio Alfieri ebbe come madrelingua il piemontese. Giacché di nobili origini, apprese dignitosamente il francese e l'italiano, cioè il toscano classico[7]. Quest'ultimo, tuttavia, risentiva, inizialmente, degli influssi delle altre due lingue che conosceva, di cui lui stesso si rendeva conto e che lo portarono, al fine di spiemontesizzarsi e sfrancesizzarsi[8], o disfrancesarsi[9], ad immergersi nella lettura dei classici in lingua italiana, a compilare piccoli vocabolari d'uso in cui alle parole e alle espressioni francesi o piemontesi corrispondevano "voci e modi toscani"[10] e a compiere una serie di viaggi letterari a Firenze. Dopo una giovinezza inquieta ed errabonda, si dedicò con impegno alla lettura e allo studio di Plutarco, Dante, Petrarca, Machiavelli[11] e degli illuministi come Voltaire e Montesquieu: da questi autori ricavò una visione personale razionalista e classicista, convintamente anti-tirannica e in favore di una libertà ideale, al quale unì l'esaltazione del genio individuale tipicamente romantica.

Si entusiasmò per la Rivoluzione francese, durante il suo soggiorno parigino, nel 1789, ma ben presto, a causa del degenerare della rivoluzione dopo il 1792, il suo atteggiamento favorevole si trasformò in una forte avversione per la Francia. Tornò in Italia, dove continuò a scrivere, opponendosi idealmente al regime di Napoleone, e dove morì, a Firenze, nel 1803, venendo sepolto tra i grandi italiani nella Basilica di Santa Croce. Già dagli ultimi anni della sua vita Alfieri divenne un simbolo per gli intellettuali del Risorgimento, a partire da Ugo Foscolo.[12]

Biografia

Ritratto di Monica Maillard in età matura

Infanzia e educazione

«Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi…»

Ritratto di Giulia Alfieri

Vittorio Alfieri nacque dal conte di Cortemilia Antonio Amedeo Alfieri, membro della nobile famiglia omonima, e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon (già vedova del marchese Alessandro Cacherano Crivelli).[13] La madre aveva avuto già due figli dalle prime nozze: Angela Maria Eleonora e Vittorio Antonio che morirà giovanissimo nel 1758.[6]

Il padre morì di polmonite nel primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposò in terze nozze nel 1750 con il cavaliere Carlo Giacinto Alfieri di Magliano, un parente del defunto marito.[14] Visse fino all'età di nove anni e mezzo ad Asti a Palazzo Alfieri (la residenza paterna), affidato ad un precettore, senza alcuna compagnia.

La sorella Giulia fu mandata presso il monastero astigiano di Sant'Anastasio.[14] Dal terzo marito la madre avrà Anna Maria Giuseppina Barbara, Giuseppina Francesca, Pietro Lodovico Antonio, Giuseppe Francesco Agostino e Francesco Maria Giovanni.[6]

Come scrive egli stesso nell'autobiografia, era un bambino molto sensibile, a tratti vivace, solitario, insofferente alle regole, descritto dai biografi moderni come tendente alla nevrosi[15], una condizione che si protrarrà per tutta la vita, causandogli spesso anche disturbi psicosomatici.[16]

«Fra gli otto e nov'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche da salute, che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, uscii dal mio salotto che in un terreno dava nel cortile, dov'era intorno intorno molt'erba. Mi misi a strapparne colle mani quanta ne poteva, ed a metterne in bocca, masticarne, e ingoiarne quanta poteva, benché il sapore me ne riuscisse ostico assai, ed amaro. Aveva sentito dire non so da chi che la cicuta era un'erba che avvelenava, e faceva morire; non aveva fatto nessun pensiero di morire, e quasi non sapea quel che fosse; pure, seguendo un istinto naturale misto con non so quale idea di dolore, mi spinsi avidamente a mangiar di quell'erba, credendo che in quella vi dovea anch'esser cicuta.[17]»

Nel 1758, per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, governatore di Cuneo e nel 1762 viceré di Sardegna, fu iscritto all'Accademia Reale di Torino.[18] Viene ospitato dapprima dallo stesso zio Pellegrino; ma è troppo vivace, per cui viene fatto entrare il primo agosto, invece di ottobre, nell'Accademia; questo lo fece sentire abbandonato fra estranei, in un luogo in cui "nessuna massima di morale e nessun ammaestramento di vita" veniva dato, perché "gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica". I primi nove anni sono soprannominati dallo stesso Alfieri come "nove anni di vegetazione", privi di vere conseguenze, ma pure pieni di fatti e sentimenti significativi e rivelatori già di un carattere preciso e volitivo.[6]

Alfieri all'Accademia compì i suoi studi di grammatica, retorica, filosofia, legge. Venne a contatto con molti studenti stranieri, i loro racconti e le loro esperienze lo stimolarono facendogli sviluppare la passione per i viaggi.[19] Egli definì questi anni come "otto anni di ineducazione; asino, fra asini e sotto un asino", in cui si sentiva "ingabbiato".[6] Viene afflitto anche da una malattia dei capelli, che lo costringe a tagliarli e a portare la parrucca per breve tempo.[6] Nel 1762, grazie allo zio Benedetto Alfieri, assiste per la prima volta ad uno spettacolo teatrale rappresentato al Teatro Carignano di Torino.[6]

Dopo la morte dello zio, nel 1766 lasciò l'Accademia non terminando il ciclo di studi che lo avrebbero portato all'avvocatura e si arruolò nell'Esercito, diventando "portinsegna" (cioè "alfiere", tradizione di famiglia da cui derivava appunto il cognome, secondo una leggenda) nel reggimento provinciale di Asti. Rimase nell'esercito fino al 1774 e si congedò col grado di luogotenente.[14] In questo periodo scoprirà anche un'altra delle sue passioni, l'amore per i cavalli, che lo accompagnerà sempre.[14]

I viaggi

Vienna nel XVIII secolo, Bernardo Bellotto, (1760), Kunsthistorisches Museum, Vienna

«A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mio [un giovane che l'accompagnava, assieme al domestico Elia, ndr] mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse il sangue, venne e me lo cavò.»

Tra il 1766 e il 1772, Alfieri cominciò un lungo vagabondare in vari stati dell'Europa. Visitò l'Italia da Milano a Napoli sostando a Firenze e a Roma, nel 1767 giunse a Parigi dove conobbe, tra gli altri, Luigi XV che gli parve un monarca tronfio e sprezzante. Deluso anche dalla città, a gennaio del 1768 giunse a Londra e, dopo un lungo giro nelle province inglesi, andò nei Paesi Bassi.[20] A L'Aia visse il suo primo vero amore con la moglie del barone Imhof, Cristina. Costretto a separarsene per evitare uno scandalo, tentò il suicidio, fallito per il pronto intervento di Francesco Elia, il suo fidato servo, che lo seguiva in tutti i suoi viaggi.[14]

Rientrò a Torino, dove alloggiò in casa di sua sorella Giulia, che nel frattempo aveva sposato il conte Giacinto Canalis di Cumiana. Vi rimase fino al compimento del ventesimo anno di età, quando, entrando in possesso della sua cospicua eredità, decise di lasciare nuovamente l'Italia.[14] Fallisce intanto un tentativo del cognato di combinargli un matrimonio con una ragazza nobile e ricca, la quale, pur affascinata dal giovane "dai capelli e dalla testa al vento", alla fine farà cadere la sua scelta su un altro giovane dall'indole più tranquilla.[6]

Tra il 1769 e il 1772, in compagnia del fidato Elia, compì il secondo viaggio in Europa: partendo da Vienna, passò per Berlino, incontrando con fastidio e rabbia Federico II, toccò la Svezia e la Finlandia, giungendo in Russia, dove non volle neppure essere presentato a Caterina II, avendo sviluppato una profonda avversione al dispotismo.[20] Raggiunse Londra e, nell'inverno del 1771, conobbe Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier, conosciuta nella precedente visita, con la quale instaurò una relazione amorosa.

Il visconte, scoperta la tresca, sfidò a duello l'Alfieri. Lo scandalo che seguì e il processo per adulterio pregiudicarono una possibile carriera diplomatica dell'Alfieri, che in seguito a questi fatti fu costretto a lasciare la donna e la terra d'Albione.[14] Riprese così il suo girovagare, prima nei Paesi Bassi, poi in Francia, Spagna e infine Portogallo, dove a Lisbona incontrò l'abate Tommaso Valperga di Caluso, che lo spronò a proseguire la sua carriera letteraria. Nel 1772 cominciò il viaggio di ritorno.[14]

Ritorno a Torino

Torino, Bernardo Bellotto (1745), Torino, Galleria Sabauda
Busto dedicato a Vittorio Alfieri a Torino, in Piazza Carignano

Il ventiquattrenne Alfieri rientrò nella capitale sabauda dopo molto tempo di travagliato amore nel 1773 e si dedicò allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo, secondo le sue stesse parole, «anni di viaggi e dissolutezze»; a Torino prese una casa in piazza San Carlo, la ammobiliò sontuosamente, ritrovò i suoi vecchi compagni di Accademia militare e di gioventù.[14] Con loro istituì una piccola società che si riuniva settimanalmente in casa sua per «banchettare e ragionare su ogni cosa», la "Societé des Sansguignon", in questo periodo scrisse «cose miste di filosofia e d'impertinenza», per la maggior parte in lingua francese, tra cui l'Esquisse de Jugement Universél, ispirato agli scritti di Voltaire.[14]

Ebbe anche una relazione con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Turinetti marchese di Priero. Tra il 1774 e il 1775, mentre assisteva la sua amica malata, portò a compimento la tragedia Antonio e Cleopatra, rappresentata a giugno di quello stesso anno a Palazzo Carignano, con successo.[14]

Nel 1775 troncò definitivamente la liaison amorosa con la marchesa Falletti, e studiò e perfezionò la sua grammatica italiana riscrivendo le tragedie Filippo e Polinice, che in una prima stesura erano state scritte in francese.[14] Per imporsi l'abbandono dell'amante si taglia il codino che tutti i nobili e i borghesi usavano portare, perché, vergognandosi di mostrarsi "tosato", non sarebbe uscito di casa, se non dopo molto tempo, evitando di andare a trovare la donna, dalla quale lo dividevano solo poche decine di metri.[6]

Nell'aprile dell'anno seguente si recò a Pisa e Firenze per il primo dei suoi "viaggi letterari", dove iniziò la stesura dell'Antigone e del Don Garzia. Tornò in Toscana nel 1777, in particolare a Siena, dove conobbe quello che sarebbe diventato uno dei suoi più grandi amici, il mercante Francesco Gori Gandellini. Questi influenzò notevolmente le scelte letterarie dell'Alfieri, convincendolo ad accostarsi alle opere di Niccolò Machiavelli. Da queste nuove ispirazioni nacquero La congiura de' Pazzi, il trattato Della Tirannide, l'Agamennone, l'Oreste e la Virginia (che in seguito susciterà l'ammirazione del Monti).[14] Per dedicarsi solo ed esclusivamente alla letteratura per lungo tempo, arrivò a farsi legare alla sedia da Elia, in un famosissimo episodio.[21]

La contessa d'Albany

«Un dolce foco negli occhi nerissimi accoppiato (che raro addiviene) a candidissima pelle e biondi capelli davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito o conquisto.»

Alfieri e la contessa d'Albany, F. X. Fabre, 1796, Torino, Museo Civico di arte antica

Nell'ottobre del 1777, mentre terminava la stesura di Virginia, Alfieri conobbe la donna che lo tenne a sé legato per tutto il resto della vita: Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d'Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente giacobita al trono di Gran Bretagna. Nello stesso periodo si dedicò alle opere di Virgilio e terminò il trattato Del Principe e delle lettere e il poema in ottave L'Etruria vendicata.[22] La sua ennesima relazione con una donna sposata rischiava di finire come le altre se non fosse che lo Stuart non si limitò a far scoppiare uno scandalo o sfidare il poeta a duello. Il 30 novembre, l'alcolizzato Carlo Edoardo aggredisce fisicamente la moglie, tentando di ucciderla.[6] Con l'avallo del governo granducale, la contessa d'Albany riuscì ad abbandonare il marito, divenuto ormai violento e alcolista, rifugiandosi a Roma presso il convento delle Orsoline, con l'aiuto di suo cognato, Enrico Benedetto Stuart, cardinale e duca di York.[23]

Dopo qualche tempo Alfieri, che nel frattempo aveva donato, con il famoso atto definito da lui come "disvassallarsi" dalla monarchia assoluta dei Savoia, tutti i beni e le proprietà feudali alla sorella Giulia riservandosi un vitalizio e una parte del capitale[24], oltre che rinunciato alla cittadinanza del Regno (divenendo apolide), raggiunse a Roma la contessa e si recò poi a Napoli, dove terminò la stesura dell'Ottavia ed ebbe modo di iscriversi alla loggia massonica della "Vittoria".[22]

Roma, Veduta di Santa Maria Maggiore, di Giovanni Paolo Pannini (1744)

Tornò a Roma stabilendosi a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, con la contessa d'Albany, che nel frattempo ottenne una dispensa papale, sempre grazie al cognato, che le permise di lasciare il monastero di clausura. Nei due anni successivi di soggiorno romano lo scrittore portò a compimento le tragedie Merope e Saul.[22]

Nel 1783, Alfieri fu accolto all'Accademia dell'Arcadia col nome di Filacrio Eratrastico. Nello stesso anno terminò anche l'Abele. Tra il 1783 e il 1785 pubblicò in tre volumi la prima edizione delle sue tragedie stampate dai tipografi senesi Pazzini e Carli.[14] Ma questo periodo idilliaco fu bruscamente interrotto dal cardinale di York, il quale, scoprendo la relazione dello scrittore con la cognata, gli intimò di abbandonare Roma.[14]

Alfieri, con il pretesto di far conoscere le proprie tragedie ai maggiori letterati italiani, intraprese una serie di viaggi. Conobbe Ippolito Pindemonte a Venezia, Melchiorre Cesarotti a Padova, Pietro Verri e Giuseppe Parini a Milano. Ma le tragedie raccolsero per la maggior parte giudizi negativi. Solamente il poeta Ranieri de' Calzabigi si complimentò con lo scrittore che con le sue opere aveva posto il teatro italiano sullo stesso piano di quello transalpino.[14]

Nell'aprile del 1784, la contessa d'Albany, per intercessione di Gustavo III di Svezia, ottenne la separazione legale dal marito e il permesso di lasciare Roma e si ricongiunse all'Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar, in segreto, per salvare le apparenze e la pensione della contessa, pagata dalla corona francese ai parenti degli Stuart in esilio.[6] A Colmar, Alfieri scrisse l'Agide, la Sofonisba e la Mirra.[14] Quest'ultima è ritenuta, assieme al Saul, il capolavoro assoluto di Alfieri, opera anticipatrice, come i miti greci a cui si rifà, di tematiche della psicoanalisi.

Costretti ad abbandonare l'Alsazia alla fine dell'anno, per l'obbligo della contessa di risiedere negli Stati papali, Alfieri si sistemò a Pisa e la Stolberg a Bologna.[23] La già insostenibile situazione fu aggravata dalla improvvisa morte dell'amico Gori. Sono di quel periodo alcune rime tra cui il Panegirico di Plinio e Traiano e le Note, sorte in polemica risposta verso le critiche negative alle sue tragedie.[14]

Nel 1785 portò a termine le tragedie Bruto primo e Bruto secondo. Nel dicembre del 1786, l'Alfieri e la Stolberg (che sarebbe divenuta vedova due anni dopo) si trasferirono a Parigi acquistando due case separate[14]; in questo periodo furono ripubblicate le sue tragedie per opera dei famosi stampatori Didot. Nel salotto della Stolberg, Alfieri conobbe molti letterati, in particolare fece la conoscenza di André Chénier (futura vittima della Rivoluzione), che ne rimase talmente colpito da dedicargli alcuni suoi scritti, e il console Filippo Mazzei, diplomatico toscano naturalizzato statunitense (collaboratore dell'allora ambasciatore Thomas Jefferson), con cui strinse un'amicizia che durò negli anni successivi.[25] Nel febbraio del 1788, con la morte di Carlo Edoardo Stuart, Alfieri e la contessa poterono finalmente vivere liberamente la loro relazione.[6]

La rivoluzione francese e Napoleone

La presa della Bastiglia (Charles Thévenin, 1793). Musée Carnavalet, Parigi

«Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi.»

Nel 1789, Alfieri e la sua compagna furono testimoni oculari dei moti rivoluzionari di Parigi. Gli avvenimenti in un primo tempo fecero comporre al poeta l'ode A Parigi sbastigliato, che poi però rinnegò: l'entusiasmo si trasformò in odio verso la rivoluzione, esplicitato nelle rime del Misogallo.[6] Tra il 1791 e il 1792 visitò di nuovo l'Inghilterra, dove rivide Penelope Pitt, ma senza parlarle.[26] Nel 1792 l'arresto di Luigi XVI e le stragi del 10 agosto convinsero la coppia a lasciare definitivamente la città per tornare, passando attraverso Belgio, Germania e Svizzera, in Toscana. Nel frattempo era stato emanato un ordine d'arresto per la contessa, in quanto nobile e straniera, ma non per Alfieri; anticipando la partenza da Parigi Alfieri e la compagna si salvarono dai gendarmi, venuti per eseguire il mandato, che saccheggiarono la loro abitazione.[6]

Tra il 1792 e il 1796 Alfieri, a Firenze, si immerse totalmente nello studio dei classici greci traducendo Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane. Proprio da queste ispirazioni nel 1798 nacque l'ultima tragedia alfieriana: l'Alceste seconda. Si appassiona anche a recitare le proprie tragedie personalmente, preferendo per sé il ruolo di Saul.[27] Tra il 1799 e il 1801 le vittorie francesi sul suolo d'Italia costrinsero l'Alfieri a fuggire da Firenze per rifugiarsi in una villa presso Montughi. Il suo misogallismo - nonostante, però, dichiarasse di odiare i francesi, continuò ad avere buoni rapporti con singole persone transalpine, come il pittore François-Xavier Fabre, esule a Firenze, intimo amico della coppia Alfieri-Stolberg e loro ritrattista - gli impedì persino di accettare la nomina a membro dell'Accademia delle Scienze di Torino nel 1801, dopo che il Piemonte era entrato anch'esso in orbita napoleonica.[6]

Un suo nipote acquisito, il generale Luigi Leonardo Colli[28], aderì all'esercito francese e l'Alfieri lo rimproverò in una lettera. Il poeta non si oppose apertamente e politicamente al dominio francese in Toscana[29], ma si ritirò completamente dalla vita pubblica affidando alle rime, principalmente al Misogallo, il suo sdegno.[6] Durante questo periodo, nonostante facesse vita estremamente appartata, divenne il punto di riferimento di molti patrioti e letterati italiani, e le sue tragedie riscossero un enorme successo. Il giovane poeta Ugo Foscolo lo prese a modello da seguire[30].

Incontro di Alfieri e Carlo Emanuele IV di Savoia (1799)

Ad Alfieri Foscolo dedicò il Tieste, inviandolo al drammaturgo astigiano con la dedica[31]. Non si incontrarono mai, a quanto afferma Foscolo nell'epistolario e nell'Ortis[32]; pare però che Alfieri, anche se non rispose alla lettera del giovane, avesse elogiato con alcuni conoscenti lo stile della tragedia, prevedendo il grande avvenire letterario dell'allora giovane ufficiale napoleonico (nonostante l'iniziale disparità di vedute su Napoleone e sulla Rivoluzione, anche Foscolo poi converrà con Alfieri in un giudizio negativo del generale francese, chiamandolo "tiranno"[33]) e futuro primo vero poeta-vate dell'Italia risorgimentale. In particolare, Alfieri avrebbe affermato che quel giovane l'avrebbe superato in quanto a gloria letteraria.[34]

Firenze, Basilica di Santa Croce: il monumento funebre scolpito da Canova, raffigurante l'Italia turrita afflitta per la morte del poeta, le maschere teatrali e il medaglione con il ritratto. L'epitaffio alla base recita: «Victorio. Alferio. Astensi / Aloisia. e. Principibus. Stolbergis / Albaniae. comitissa / M. P. C. An. MDCCCX» ("A Vittorio Alfieri, astigiano. Luisa Principessa Stolberg, contessa d'Albany, pose qui il monumento l'anno 1810")

Il generale francese Alexandre Miollis, entrato a Firenze, cercò di incontrarlo ma Alfieri rifiutò, con la seguente missiva: «Se il signor Generale Miollis comandante a Firenze ordina a Vittorio Alfieri di farsi vedere da lui, purché il suddetto ne sappia il giorno e l'ora, egli si renderà immediatamente all'intimazione. Se poi è un semplice privato desiderio del Generale Miollis di vedere il sunnominato individuo, Vittorio Alfieri lo prega istantemente di volerlo dispensare, perchè, stante la di lui indole solitaria e selvatica, egli non riceve mai nè tratta con chi che sia».[35] Intanto, con una lettera di circostanza, la Stolberg riesce a riavere da Napoleone la rendita. A causa del decreto consolare del 29 giugno 1802, a tutti i piemontesi residenti all'estero viene ingiunto di rientrare in patria entro il 23 settembre e di giurare fedeltà alla nuova Costituzione francese; Alfieri, non più cittadino piemontese da tempo, spedì alla sorella certificati medici attestanti la sua impossibilità a viaggiare. Giulia giura così in nome del fratello. In settembre Alfieri viene colpito da un nuovo attacco di gotta, nonché da erisipela, a cui seguirà una grave malattia di stomaco.[36]

Tra il 1801 e il 1802, Alfieri compose sei commedie: L'uno, I pochi e I troppi, tre testi sulla visione satirica dei governi dell'epoca; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, sulla soluzione ai mali politici (quasi un testamento politico, in cui l'Alfieri, "il conte repubblicano", pare accettare una monarchia parlamentare in stile inglese), La finestrina, ispirata ad Aristofane e Il divorzio, in cui condanna i matrimoni nobiliari d'interesse, il cicisbeismo e tutti i cattivi costumi dell'Italia dei suoi tempi. Tra le originali iniziative di Alfieri nell'ultimo periodo, il progetto di una collana letteraria denominata "l'ordine di Omero", del quale si autonomina simbolicamente "cavaliere". Nella raccolta include ventitré poeti antichi e moderni, tra cui Molière, Racine e Voltaire, ultima testimonianza del rapporto letterario di amore-odio con la cultura francese, in particolare con il principale filosofo dei "lumi", prima ammirato e preso a modello da imitare e superare (nel Bruto primo, nel Bruto secondo e in Della tirannide), poi bersagliato nella satira L'antireligioneria, ed infine parzialmente da lui riabilitato.[37]

Dopo un breve periodo di altalenanti problemi di salute e attacchi di gotta, in cui diminuisce il cibo per i problemi gastrici ma continua a lavorare alacramente[36], il 3 ottobre 1803 si ammala.[36] Vittorio Alfieri si spense a Firenze l'8 ottobre 1803 all'età di 54 anni, probabilmente a causa di una malattia cardiovascolare, di un tumore allo stomaco o di un attacco di uremia[38]: Alfieri ebbe un malore, riuscendo solo a far chiamare la contessa d'Albany, a cui aveva lasciato i suoi beni per testamento, e poco dopo, seduto sul letto, si accasciò e non riprese più conoscenza.[39] Venne sepolto nella basilica di Santa Croce, e alle esequie assistette anche il celebre scrittore francese François-René de Chateaubriand. A sua memoria rimane lo splendido monumento funebre realizzato da Antonio Canova ed ultimato nel 1810.[40]

Opere

Frontespizio delle Opere, edizione 1809 (Template:Cita BEIC)

Le tragedie

Terminata l'Accademia militare a Torino, e dopo un lungo giovanile vagabondare in vari stati dell'Europa, nel 1775 (l'anno della conversione) rientra nella capitale piemontese e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo - secondo le sue stesse parole - anni di viaggi e dissolutezze; completa così la sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che registra un grande successo; seguiranno poi Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra. La fama delle sue tragedie è legata alla centralità del rapporto libertà-potere e all'affermazione dell'individuo sulla tirannia. Una profonda e sofferta riflessione sulla vita umana arricchisce la tematica quando il poeta si sofferma sui sentimenti più intimi e sulla società che lo circonda.

Egisto sollecita Clitennestra esitante prima di uccidere Agamennone, nel dipinto Morte di Agamennone di Pierre-Narcisse Guérin 1818, Louvre, Parigi

Le sue tragedie furono in gran parte rappresentate quando il poeta era ancora in vita ed ebbero un notevole successo nel periodo giacobino. Le tragedie più rappresentate nel triennio giacobino italiano (1796-99) furono la Virginia ed i due Bruti. A Milano al Teatro Patriottico nel 1796, il 22 settembre dello stesso anno, Napoleone presenziò ad una replica della Virginia.[41] Il Bruto primo fu replicato anche alla Scala ed a Venezia, mentre a Bologna vennero rappresentate tra il 1796 e il 1798 ben quattro tragedie (Bruto II, Saul, Virginia, Antigone). Le reazioni negli spettatori erano spesso molto singolari; ne parla anche il Leopardi nel suo Zibaldone (1823), il quale citando la rappresentazione a Bologna dell'Agamennone racconta che:

«Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro tanto odio verso Egisto, che quando Clitenestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse.»

Anche Stendhal scriveva da Napoli:

«27 febbraio 1817. Esco or ora dal Saul al Teatro Nuovo. Si direbbe che questa tragedia tocchi le corde segrete del sentimento nazionale italiano. Il pubblico va in visibilio […]»

Negli intervalli degli spettacoli i patrioti ballavano la "Carmagnola" in platea. Negli anni successivi, molti attori ottocenteschi si specializzarono nelle opere alfieriane: da Antonio Morrocchesi al teatro Carignano di Torino, a Paolo Belli Blanes a Firenze o a Milano. Le tragedie sono ventidue, compresa la Cleopatra (o Antonio e Cleopatra) poi in seguito da lui ripudiata. L'Alfieri le scrive in endecasillabi sciolti, seguendo il concetto di unità aristotelica. La stesura del testo prevedeva tre fasi: ideare (trovare il soggetto, inventare trame e battute, caratterizzare i personaggi), stendere (fissare il testo in prosa, nelle varie scene e atti), verseggiare (trasporre tutto in endecasillabi sciolti).[27] Eccone l'elenco completo:

I littori riportano a Lucio Giunio Bruto i corpi dei suoi figli, 1789 Jacques-Louis David, Parigi, Louvre

Tragedie greche:

Marco Giunio Bruto e i congiurati pugnalano Cesare, nel dipinto di Vincenzo Camuccini, La morte di Giulio Cesare

Tragedie definite della libertà:

Tragedie pubblicate postume:

Tramelogedia

Alfieri volle coniugare il melodramma, molto in auge in quel periodo, con i temi più ostici della tragedia. Nacque così l'Abele (1786), un'opera che egli stesso definì tramelogedia.

Le prose politiche

L'odio per la tirannia e l'amore viscerale per la libertà vennero sviluppati in due trattati:

  • Della tirannide (1777-1790), di tema interamente politico, scritto durante il suo soggiorno a Siena, dove conobbe il suo più grande amico, il mercante Francesco Gori Gandellini. L'Alfieri fa una disamina del dispotismo, considerandolo la rappresentazione più mostruosa di tutti i tipi di governo. La tirannide è basata, per Alfieri, sul sovrano, sull'esercito e sulla Chiesa, che costituiscono le basi di questo Stato.[42]

«Tirannide indistintamente appellare si deve ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto eluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono o tristo, uno, o molti; ad ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammetta, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.»

"Washington attraversa il Delaware" di Emanuel Leutze (1851)
  • Del principe e delle lettere (1778-1786), di tema politico-letterario, dove l'Alfieri giunge alla conclusione che il binomio "monarchia e lettere" sia dannoso per lo sviluppo di queste ultime. Il poeta prende in esame anche le opere di Virgilio, Orazio, Ariosto e Racine, nate con il benestare di principi o monarchi munifici, considerandole il frutto di uomini "mediocri", contrapponendoli a Dante. Il poeta inoltre esprime la sua adesione all'interpretazione obliqua di Machiavelli, come "ammonitore" repubblicano dal potere dei tiranni.

Ad essi seguirono altre prose politiche minori:

  • Panegirico di Plinio a Trajano (1787), personale rivisitazione dell'omonimo panegirico di Plinio il Giovane (Panegirico a Traiano).
  • La Virtù sconosciuta (1789), il poeta, in un dialogo immaginario con l'amico defunto Gori Gandellini, lo paragona a fulgido esempio di virtù cittadina ed indipendenza morale.
  • Elogio di Niccolò Machiavelli (1794), discorso pronunciato nell'Accademia Fiorentina, in cui Alfieri ribadisce la sua tesi repubblicana sul machiavellismo come "dissimulazione".

Le odi politiche

  • L'Etruria vendicata, poema in quattro canti e in ottave progettato nel maggio 1778, inizialmente con il titolo Il Tirannicidio, narra l'uccisione di Alessandro de' Medici ad opera di Lorenzino che l'Alfieri celebra come un eroe di libertà.
  • L'America libera, un componimento di cinque odi, in cui Alfieri esalta la generosità disinteressata di La Fayette, che aiutò i ribelli e celebra l'eroismo di Washington, che Alfieri paragona a quello degli antichi eroi.
  • Parigi sbastigliato, ode composta da Alfieri dopo la distruzione della Bastiglia. Rinnegata dopo la fuga dalla Francia.

L'odio antirivoluzionario: il Misogallo

«Io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco.»

Incisione per l'edizione del 1799 del Misogallo, rappresentatante il "rame allegorico", il quadro immaginario descritto dal poeta nell'introduzione

Il Misogallo (dal greco miseìn, che significa "odiare" e "gallo" che sta ad indicare i francesi) è un'opera che aggrega generi diversi: prose (sia discorsive sia in forma di dialogo tra personaggi), sonetti, epigrammi ed un'ode. Questi componimenti si riferiscono al periodo compreso tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio 1798. È una feroce critica di Alfieri sulla Francia e sulla Rivoluzione, ma egli rivolge l'invettiva anche verso il quadro politico e sociale europeo, verso i molti tiranni antichi e recenti, che dominarono e continuavano a dominare l'Europa. Per l'Alfieri, «i francesi non possono essere liberi, ma potranno esserlo gli italiani», mitizzando così un'ipotetica Italia futura, «virtuosa, magnanima, libera ed una».[43] Alfieri è quindi un controrivoluzionario e un aristocratico (anche se la "nobiltà" non è per lui "di nascita", prova ne sia il disprezzo per la sua stessa classe sociale, ma quella dell'animo forte, dotato del "forte sentire") anche se non si può certo definire un reazionario, essendo un uomo che esaltava sempre e solo il valore della libertà individuale, che ritenne potesse essere preservata dalla nuova Italia che sarebbe nata.[44]

Alfieri e le ideologie rivoluzionarie

«Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è Patria. L'arte mia son le Muse: la predominante passione, l'odio della tirannide; l'unico scopo d'ogni mio pensiero, parola, e scritto, il combatterla sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto ella si manifesti o si asconda.»

Alfieri fu contrario alla pubblicazione che fu fatta in Francia dei suoi trattati giovanili in cui esprimeva le sue idee anti-tiranniche in maniera decisa, lasciando trasparire anche un certo anticlericalismo, come il trattato Della tirannide; tuttavia, anche dopo la pubblicazione del Misogallo, non ci fu in lui un rinnegamento di queste posizioni, quanto la scelta del male minore, ovvero il sostegno verso chiunque si opponesse al governo rivoluzionario, che lo faceva inorridire per lo spargimento di sangue del regime del Terrore - sia contro nobili e antirivoluzionari, che contro rivoluzionari non giacobini (i girondini) - e per aver portato la guerra in Italia; secondo Mario Rapisardi[46] egli, che non era anti-riformista (purché il rinnovamento venisse dall'alto, dal legislatore, e non dalla pressione e dalla violenza popolare), aveva paura di essere confuso con i "demagoghi francesi", che incitavano la "plebe".

Così si espresse nel trattato sopracitato a proposito della religione cattolica, che egli giudica un mezzo di controllo sul popolo meno istruito (anche se, in fondo, dannoso anche per l'attitudine "da schiavo" che induce in esso), poco valido per un letterato o un filosofo[14]: «Il Papa, la Inquisizione, il Purgatorio, la Confessione, il Matrimonio indissolubile per Sacramento e il Celibato dei preti, sono queste le sei anella della sacra catena» e «un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del papa e della Inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo».[47] La sua accusa alla Rivoluzione è quindi anti-tirannica da una parte e culturale dall'altra, non ritenendo che un culto astratto - come il cosiddetto culto della Ragione o quello dell'Essere supremo - fosse adatto a contenere, con insegnamenti morali, il popolo ignorante dell'epoca.[48]

Inoltre, pur detestando parte dell'alto clero e della nobiltà, non approvava l'odio indiscriminato e gli assassini legalizzati di cittadini francesi colpevoli solo di essere di famiglia nobile o membri del basso e medio clero.[6] In una lettera all'abate di Caluso del 1802, Alfieri ribadisce privatamente le sue tesi giovanili (che quasi rinnegava invece pubblicamente, nel Misogallo e nelle Satire)[49]: «Il motore di codesti libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione, l'amore del vero o di quello che io credeva tale. Lo scopo fu la gloria di dire il vero, di dirlo con forza e novità, di dirlo credendo giovare.(...) Il raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto, e quanto più v'ho pensato dopo, tanto più sempre mi è sembrato verace e fondato; e interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso, ovvero tacerei.(...) In due parole, io approvo solennemente tutto quanto quasi è in quei libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti e i libri medesimi, perché non c'era bisogno che ci fossero, e il danno può essere maggiore assai dell'utile».[50]

Il concetto di libertà, "ribelle" ma non "rivoluzionaria", di Alfieri venne paragonato da Piero Gobetti a quello di Max Stirner, il filosofo tedesco autore del libro L'Unico e la sua proprietà (nato poco più tre anni dopo la morte dell'astigiano), anch'egli "uomo in rivolta" ma anti-rivoluzionario; Alfieri ha, per Gobetti, una «disperata necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti, le tirannie religiose e politiche», non tollerando minimamente quello che può mettere un freno alla sua libertà individuale.[51][52] L'unione a questi sentimenti di un certo patriottismo, nella fase finale della vita, è indice della complessità dell'uomo e dell'intellettuale, che non volle essere un filosofo coerente, ma un letterato.[52]

Le satire

Testa della statua di Alfieri in palazzo Ottolenghi

Pensate fin dal 1777 e riprese più volte nell'arco della sua vita, sono componimenti sui "mali" che afflissero l'epoca del poeta. Sono diciassette:

  • Prologo: Il cavalier servente veterano, ridicolizzazione dei cicisbei.
  • I re, sulla monarchia assoluta.
  • I grandi, in cui sono presi di mira i grandi di corte.
  • La plebe, invettiva contro la plebe volubile, feroce e sanguinaria.
  • La sesquiplebe, che tratta della ricca borghesia cittadina.
  • Le leggi, con una critica sul poco rispetto delle leggi in Italia.
  • L'educazione, sull'istruzione.
  • L'antireligioneria, ispirata alle idee di Machiavelli, sulla religione come instrumentum regni (ovvero mezzo politico), è una caustica e durissima condanna di Voltaire e dei suoi epigoni, che nell'aver empiamente dileggiato e superficializzato il cristianesimo e la religione in generale, hanno di fatto gettate le basi per i disastri della rivoluzione francese. Secondo Alfieri è molto pericoloso distruggere un sistema di pensiero religioso, senza prima averlo sostituito con uno nuovo e altrettanto capace di essere compreso dal popolo, verso cui l'autore non nutre alcuna fiducia, e funzionare da garante di ordine.[53] In realtà, cosa che Alfieri sembra qua ignorare, è lo stesso Voltaire, bersagliato dalla satira, che ritiene che la religione possa, quando non è dannosa, fare da strumento di ordine per il popolo.[54] L'accusa principale è la sostituzione di una falsità con un'altra falsità: «Donde un error si svelle, altro sen pianti (...) senza edificar, distrugger pria».
  • I pedanti, contro la critica letteraria.
  • Il duello, sulla meschinità dei duelli, ispirata a episodi giovanili.
  • I viaggi, sull'inutilità dei viaggi, in cui l'Alfieri prende implicitamente di mira anche sé stesso, viaggiatore instancabile.
  • La filantropineria, contro i teorici della rivoluzione francese, in particolare contro Rousseau.
  • Il commercio, sulla bassezza morale dell'attività mercantile. Alfieri non considera un male il lavoro dei mercanti in sé[55], ma attacca i difetti e le meschinità di molti di essi.
  • I debiti, sul malgoverno delle nazioni.
  • La milizia, una critica agli stati militaristi come la Prussia di Federico II.
  • Le imposture, sulle società segrete, in particolare i suoi ex confratelli della Massoneria, e sulle "fasulle" filosofie nate nel XVIII secolo, in particolare quella illuministica, adulatrice della rivoluzione francese.
  • Le donne, in cui l'Alfieri considera il "gentil sesso" sostanzialmente migliore degli uomini, ma imitatore dei loro difetti.

Le commedie

Frontespizio della "Vita" del 1848

Alfieri scrisse sei commedie:

Le prime quattro costituiscono una specie di tetralogia politica, La finestrina è un'opera a carattere etico universale, Il divorzio tratta dei costumi italiani contemporanei. Furono scritte nell'ultima parte della vita dell'Alfieri, intorno al 1800, anche se l'idea di produrre commedie fu concepita alcuni anni prima. Lo stesso Alfieri racconta nella Vita di essersi ispirato a Terenzio per creare un proprio stile di autore comico:

«Pigliai anche a tradurre il Terenzio da capo; aggiuntovi lo scopo di tentare su quel purissimo modello di crearmi un verso comico, per poi scrivere (come da gran tempo disegnava) delle commedie di mio; e comparire anche in quelle con uno stile originale e ben mio, come mi pareva di aver fatto nelle tragedie.»

I giudizi sulle commedie dell'Alfieri sono in genere assai negativi. Uno studio su queste composizioni è quello di Francesco Novati,[56] il quale, pur considerandole «un importante documento, una pagina notevolissima della storia della letteratura», principalmente perché le ritiene «un tentativo originale, nuovo, ardito», le definisce nel complesso «opere imperfette, in parte rifatte, emendate, limate» e ne elenca numerosi difetti: la lingua in cui sono scritte «è un faticoso miscuglio di vocaboli e modi famigliari, popolari talvolta, anzi prettamente fiorentini, e di forme auliche, lontanissime dall'uso comune», e il dialogo che ne consegue «manca di vivacità, scioltezza e spontaneità»; il verso «è riuscito duro, stentato, fiacco, cadente, senza suono, senza carattere»; in generale sono «ideate e condotte secondo teoriche sull'indole e sullo scopo del teatro comico che non si possono approvare».

Lo stesso Novati riporta altri giudizi ancora più severi, come quello di Vincenzo Monti, che giudicava «insopportabili» tutte le opere postume di Alfieri, o di Ugo Foscolo, che disse le commedie «modelli di stravaganza». In un altro studio sulle commedie di Alfieri[57], Ignazio Ciampi sostiene che l'autore «dimostra non aver troppo ben pensato sullo scopo e sulla utilità della commedia quando insegna un po' troppo assolutamente che in questa non si debbono dipingere i costumi del tempo in cui si scrive, ma l'uomo in generale», individuando tuttavia in queste opere alcuni «pregi d'invenzione e di esecuzione».

Autobiografia

Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia (la Vita scritta da esso ) dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio 1790 e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio ed il 14 maggio 1803 (anno della sua morte).[58] "La vita" è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo M. Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della "Vita", che ancora inedita, madame de Staël leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti.[58] Non a caso l'opera all'inizio del XIX secolo venne tradotta in francese (1809), inglese (1810) tedesco (1812), e parzialmente in svedese (1820). In quest'opera analizza la sua vita come per analizzare la vita dell'uomo in generale, si prende come esempio. A differenza di altre autobiografie (come ad esempio le Mémoires di Goldoni) Alfieri risulta molto autocritico. In maniera cruda e razionale, egli non si risparmia neppure quando deve accusare il suo modo di fare, il suo carattere eccentrico e soprattutto il suo passato; tuttavia, Alfieri non ha né rimorsi né rimpianti per quest'ultimo.[58]

Vittorio Alfieri

Rime

Alfieri scrisse le Rime tra il 1776 ed il 1799. Stampò le prime (quelle scritte fino al 1789) a Kehl, tra il 1788 e il 1790. Preparò a Firenze nel 1799 la stampa della seconda parte, che costituì l'undicesimo volume delle Opere Postume, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1804 per l'editore Piatti.[59] Le Rime di Vittorio Alfieri sono circa 400 e hanno un carattere fortemente autobiografico: difatti costituiscono una sorta di diario in poesia e nascono da impressioni su luoghi e vicende concrete o come sfogo legato a particolari occasioni amorose, e questa qualità si evince anche dal fatto che ogni poesia di norma reca l'indicazione di una data o di un luogo.

Si tratta soprattutto di sonetti, forma poetica assai cara all'autore, poiché gli permettevano di esprimere i suoi sentimenti e le sue idee con una grande concentrazione concettuale.[60] Le Rime si ispirano soprattutto alla poesia di Francesco Petrarca sia nelle situazioni sentimentali sia nel ricorrere di parole, formule e frasi, spesso tratte dal Canzoniere. Ma Alfieri, diversamente dal petrarchismo settecentesco degli arcadi, trae da Petrarca l'immagine di un io diviso tra forze opposte, portando il dissidio interiore ad una tensione violenta ed esasperata. Alfieri poi si ispira al linguaggio musicale e melodico dell'autore del Canzoniere, ma solo esteriormente: infatti il suo è un linguaggio aspro, antimusicale, caratterizzato da un ritmo spezzato da pause, inversioni ardite, violente inarcature degli enjambements, scontri di consonanti e formule concise e lapidarie.

Un linguaggio simile a quello delle tragedie dunque, che deve rendere lo stato d'animo inquieto e lacerato del poeta: infatti la poesia per Alfieri deve puntare all'intensificazione espressiva delle proprie angosce e sofferenze.[60] Grande importanza ha in Alfieri il tema amoroso: si tratta di un amore lontano e irraggiungibile, causa di sofferenza e infelicità. Ma il motivo amoroso assume un significato più vasto: costituisce infatti un mezzo per esprimere il proprio animo tormentato, in eterno conflitto con la realtà esterna. Alla tematica sentimentale si intreccia quindi il motivo politico, anch'esso vicino al clima delle tragedie: compare la critica contro un'epoca vile e meschina, il disprezzo dell'uomo che si sente superiore contro una mediocrità che egli avverte come vittoriosa e dominante nel mondo, l'amore per la libertà, la nostalgia verso un passato idealizzato, popolato da grandi eroi disposti a sfidare il proprio tempo pur di perseguire i propri ideali.[61]

Alfieri poi delinea un ritratto idealizzato di sé: difatti si presenta come letterato-eroe e negli atteggiamenti titanici e fieri dei protagonisti delle sue tragedie. È l'ideale di un uomo in cui domina più il sentimento (il "Forte sentire") che la ragione.[62] Compare poi nelle Rime la tematica pessimistica che costituisce il limite della tensione eroica di Alfieri. Sempre presenti sono in lui "Ira" e "Malinconia", da una parte il generoso sdegno di un'anima superiore verso una realtà vile, dall'altra un senso di disillusione e di vuoto, di noia, di vanità. La morte diventa dunque un tema ricorrente e viene vista dal poeta come l'unica possibilità di liberazione e anche come l'ultima prova davanti alla quale bisogna confermare la saldezza magnanima dell'io. Questo pessimismo porta quindi all'amore per i paesaggi aspri, selvaggi, tempestosi e orridi, ma anche deserti e silenziosi: l'io del poeta vuole infatti intorno una natura simile a sé, una proiezione del proprio animo e questo è un motivo già tipicamente romantico.[27]

Traduzioni

Alfieri dedicò molto tempo allo studio dei classici latini e greci. Questo portò ad alcune traduzioni pubblicate postume:

Lettere

La raccolta più completa delle sue lettere è quella pubblicata nel 1890 dal Mazzatinti, intitolata Lettere edite e inedite di Vittorio Alfieri, considerata da molti studiosi di non particolare importanza letteraria.

Il pensiero letterario: Alfieri tra l'Illuminismo e il Romanticismo

Vittorio Alfieri dipinto da François-Xavier Fabre, Firenze 1793. Dietro questo quadro, Alfieri ricopiò un "sonetto autoritratto" del 1786:
Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:
per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

«Ma non mi piacque il vil mio secol mai: e dal pesante regal giogo oppresso, / sol nei deserti tacciono i miei guai»

Le influenze letterarie di Alfieri provengono dagli scritti di Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, oltre che dai classici come Cicerone e Plutarco, che l'astigiano conobbe nei suoi molteplici viaggi in Europa, durante il processo di "spiemontizzazione". Se successivamente prese le distanze da Voltaire e Rousseau (che non aveva voluto conoscere personalmente nemmeno in gioventù, ritenendolo un "ginevrino bisbetico"), a causa dell'ispirazione dei rivoluzionari francesi dai due pensatori, l'influenza di Montesquieu e il principio di divisione dei poteri rimasero forti in lui.[63] Lo studio ed il perfezionamento della lingua italiana avvennero con la lettura dei classici italiani e latini (Dante e Petrarca per la poesia, Virgilio per il verso tragico).[27]

Il suo interesse per lo studio dell'uomo, per la concezione meccanicistica del mondo, la lontananza dalla religione – vista, influenzato da Machiavelli, solo come un mezzo di stabilità politica per la plebe; inoltre, simile a Plutarco[64], Alfieri è teoricamente "uomo di fede romantica", seppur molto particolare, contrario all'ateismo esplicito da una parte, e avversario della superstizione dall'altra, in pratica quasi agnostico in materia[65] – in fin dei conti la sua aspirazione per l'assoluta libertà e l'avversione verso il dispotismo, collegano Alfieri alla dottrina illuminista.[66] I temi letterari illuministici, volti a chiarificare le coscienze e ad apportare il progresso sociale e civile, sono affrontati dal poeta non in modo distaccato, ma con l'emotività e le inquietudini del pensiero romantico.[27]

Alfieri è considerato dalla critica letteraria come l'anello di congiunzione di queste due correnti ideologiche, ma l'astigiano, al contrario dei più importanti scrittori illuministi dell'epoca, quale Parini, Verri, Beccaria, Voltaire, che sono disposti a collaborare con i monarchi "illuminati" (Federico di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa d'Austria) e ad esporre le proprie idee nei salotti europei, rimane indipendente e reputa umiliante questo genere di compromesso, proprio come disprezza i letterati opportunisti come Vincenzo Monti.[27] D'altronde Alfieri fu un precursore del pensiero romantico anche nel suo stile di vita, sempre alla ricerca dell'autonomia ideologica (non a caso lasciò tutti i suoi beni alla sorella Giulia per poter abbandonare la sudditanza dai Savoia) e nel non accettare la netta distinzione settecentesca fra vita e letteratura, nel nome di valori etico-morali superiori.[27]

Libertà ideale, titanismo e catarsi

Frontespizio delle Tragedie, edizione 1866 (Template:Cita BEIC)

«Seggio è di sangue, e d'empietade, il trono»

Fin da giovane Vittorio Alfieri dimostrò un energico accanimento contro la tirannide e tutto ciò che può impedire la libertà ideale. In realtà risulta che questo antagonismo fosse diretto contro qualsiasi forma di potere che gli appariva iniqua e oppressiva. Anche il concetto di libertà che egli esalta non possiede precise connotazioni politiche o sociali, ma resta un concetto astratto.[67]

La libertà alfieriana, infatti, è espressione di un individualismo eroico e desiderio di una realizzazione totale di sé. Infatti Alfieri sembra presentarci, invece che due concetti politici (tirannide e libertà), due rappresentazioni mitiche: il bisogno di affermazione dell'io, desideroso di spezzare ogni limite, rappresentato dall'"eroe alfieriano", e le "forze oscure" che ne ostacolano l'agire. Questa ricerca di forti passioni, quest'ansia di infinita grandezza, di illimitato è il tipico titanismo alfieriano, che caratterizza, in modo più o meno marcato, tutte le sue opere. Tuttavia, è proprio nel tirannicidio, e spesso nella successiva morte, che molti dei suoi eroi trovano la pace.[27]

Ciò che viene tanto osteggiato da Alfieri è molto probabilmente la percezione di un limite che rende impossibile la grandezza, tanto da procurargli costante irrequietezza, angosce e incubi che lo costringono a cercare nei suoi innumerevoli viaggi ciò che può trovare soltanto all'interno di sé stesso.[68] Il sogno titanico è accompagnato da un costante pessimismo che ha le radici nella consapevolezza dell'effettiva impotenza umana. Inoltre la volontà di infinita affermazione dell'io porta con sé un senso di trasgressione che gli causerà un senso di colpa di fondo, che verrà proiettato appunto nelle sue opere per trovare un rimedio al proprio malessere; fenomeno, questo, che viene chiamato catarsi, concetto della tragedia teorizzata da Aristotele e dai greci.[69]

L'eredità spirituale

«Il seme che hai piantato, o Alfieri, fruttò ed ora l'Italia combatte e sarà grande»

«[…] uom non è sorto, / O sventurato ingegno, / Pari all’italo nome, altro ch’un solo, / Solo di sua codarda etate indegno / Allobrogo feroce, a cui dal polo / Maschia virtù, non già da questa mia / Stanca ed arida terra, / Venne nel petto; onde privato, inerme, / (Memorando ardimento) in su la scena / Mosse guerra a’ tiranni»

Ritratto di Santorre di Santarosa

Alfieri ha fortemente ispirato la letteratura ed il pensiero italiano del XIX secolo: dopo la sua morte, e persino negli ultimi anni di vita ritirata del poeta, a partire dai primi giovani intellettuali e patrioti di epoca napoleonica, sorse un vero e proprio culto della persona di Alfieri, che divenne una figura quasi leggendaria.[70] Foscolo è il principale letterato moralmente erede dell'Alfieri, con la sua insofferenza ad ogni imposizione tirannica[30]; egli trasse il suo stile giovanile proprio da lui, e lo ha cantato nei Sepolcri e ha ispirato alcune sue opere, come le Ultime lettere di Jacopo Ortis, all'atmosfera delle tragedie alfieriane[71], mentre la figura del Parini, rappresentata nel romanzo, più che al poeta lombardo trae in parte ispirazione, soprattutto per il carattere fiero e combattivo, direttamente dal drammaturgo piemontese[72].

Dedicò all'Alfieri anche alcuni versi del sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita e la tragedia Tieste, che fu inviata, con la dedica[31], alla residenza fiorentina del poeta astigiano. Foscolo preferì non visitare personalmente l'Alfieri, rispettando la sua estrema riservatezza degli ultimi anni, a quanto afferma nell'epistolario e nell'Ortis[32]; pare però che quest'ultimo, anche se non rispose alla lettera del Foscolo, avesse elogiato con alcuni conoscenti lo stile della tragedia, prevedendo il grande avvenire letterario dell'allora giovane ufficiale napoleonico (nonostante l'iniziale disparità di vedute su Napoleone, anche Foscolo poi converrà con Alfieri in un giudizio negativo del generale francese, chiamandolo "tiranno") e futuro primo vero poeta-vate dell'Italia risorgimentale.[34]

«E a questi marmi / venne spesso Vittorio ad ispirarsi. / Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo / desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura, / qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza. / Con questi grandi abita eterno: e l'ossa / fremono amor di patria.»

Leopardi lo ha immaginato suo maestro nella canzone Ad Angelo Mai, e lo ricorda anche nel sonetto giovanile Letta la vita dell'Alfieri scritta da esso e nelle Operette morali (Il Parini ovvero della gloria), Manzoni si è ispirato ai suoi saldi principi, Gioberti che scrisse che l'astigiano aveva creato di sana pianta la tragedia italiana difendendola contro la servitù letteraria e civile dei suoi tempi[73] e così Oriani, Mazzini e Carducci. Giosuè Carducci affermò che l'Alfieri, insieme all'Alighieri e a Machiavelli è il

«Nume indigete d'Italia[74]»

Influenza politica del pensiero alfieriano

I primi patrioti del Risorgimento italiano, sia liberali, sia moderati (monarchici che si rifacevano al suo atteggiamento controrivoluzionario) sia di altre fedi politiche, da Santorre di Santarosa a Cesare Balbo, si riconobbero nei suoi ideali e la casa natale di Asti fu meta di moltissimi uomini che combatterono per l'unità d'Italia. In particolare Santorre scrisse che:

(FR)

«Alfieri allumera dans votre coeur les héroiques vertus et elevera votre pensée; ses expression rudes, mais plein de force et d'energie sont toutes marquées au coin du génie de Melpomene»

(IT)

«Alfieri illumina nel vostro cuore le virtù eroiche ed eleva il vostro pensiero; le sue parole dure, ma piene di forza e di energia sono tutte recanti il timbro del genio di Melpomene»

Vittorio Alfieri, ritratto di William Girometti (1985)

Luigi Provana del Sabbione, storico e senatore del Regno di Sardegna, dichiarò che anche lui come molti patrioti aveva baciato la tomba di Vittorio Alfieri in Santa Croce ed aveva fissato gli occhi sulla finestra del poeta che si affacciava sull'Arno.[73] Fu visto anche come una sorta di figura decadentista del "dandy" ante litteram, come un personaggio di artista aristocratico e libero.[75] Anche dopo il Risorgimento l'ammirazione di molti intellettuali verso la personalità dell'astigiano continuò: il pensiero politico di Alfieri, quale emerge dalle tragedie e dai trattati, fu visto di volta in volta come un precursore dell'idea anarchica[76], dell'individualismo[77], del nazionalismo fascista[78][79], del pensiero libertario[80], di forme di liberalismo.[81][82]

Nel primo novecento ispirò alcune opere e, in parte, il pensiero del giornalista liberale e antifascista Piero Gobetti, anche lui piemontese[83], come nell'articolo Elogio della ghigliottina, in cui Gobetti si rifà ad alcune idee espresse nel trattato alfieriano Della tirannide: se tirannide deve essere (il bersaglio di Gobetti è il fascismo), è meglio, paradossalmente, che non sia affatto una dittatura morbida, ma che sia oppressiva, in modo che il popolo capisca cos'è davvero un regime e si ribelli apertamente ad esso.[84] Gobetti descrive il pensiero politico di Alfieri come «liberalismo immanentistico».[85]

Nell'epoca contemporanea, le tragedie alfieriane non vengono sovente rappresentate, al di fuori della città di Asti, a causa della difficile fruizione di esse per un pubblico poco preparato in materia (la più rappresentata è comunque il Saul, ritenuta la migliore[86]), mentre è tuttora molto citato e preso come esempio, anche per la realtà moderna, il trattato Della tirannide, specialmente la definizione data dal drammaturgo piemontese di questo tipo di governo.[87] Si è registrato inoltre, in rassegne dedicate al teatro settecentesco, un recente interesse per le commedie, sdegnate dalla critica alla loro comparsa; in particolare, Il divorzio è stato rappresentato spesso accanto alle grandi opere del periodo, come le tragedie di Voltaire, le commedie di Diderot e quelle di Goldoni.[88]

Alfieri e la massoneria

Nella Vita, riferendo dell'anno 1775, l'Alfieri narra che durante un banchetto di liberi muratori declamò alcune rimerie:

«Egli ti additi il murator primiero,
Del grande Ordine infin l'origo estrema
E se poi ti svelasse un tanto arcano,
Avresti tu sì nobili concetti
E ad inalzare il vol bastante mano?
Ah, scusatela si, fratei diletti;
Non ragiona l'insana, oppur delira
Quando canta di voi con versi inetti.»

Assemblea massonica.
Vienna 1791

Egli chiede scusa ai fratelli se la sua musa inesperta osa cantare i segreti della loggia. Poi il capitolo in terzine prosegue menzionando il Venerabile, il primo Vigilante, l'Oratore, il Segretario.[89] Negli elenchi della massoneria piemontese il nome dell'Alfieri non è mai comparso. I suoi primi biografi supposero che egli fosse stato iniziato nei Paesi Bassi o in Inghilterra, nel corso di uno dei suoi viaggi giovanili. "È certa invece la sua appartenenza alla loggia della "Vittoria" di Napoli, fondata nel 1774 (o 1775) all'obbedienza della Gran Loggia Nazionale "Lo Zelo" di Napoli da Massoni aristocratici vicini alla regina Maria Carolina d'Asburgo-Lorena (1752-1814)"[90].

È assodato che moltissimi suoi amici furono massoni e dall'elenco, posseduto dal centro alfieriano di Asti, che menziona i personaggi ai quali il Poeta inviò la prima edizione delle sue tragedie (1783), compaiono i fratelli von Kaunitz, di Torino, Giovanni Pindemonte e Gerolamo Zulian a Venezia, Annibale Beccaria (fratello di Cesare), Luigi Visconte Arese e Gioacchino Pallavicini di Milano, Carlo Gastone Rezzonico a Parma, Saveur Grimaldi a Genova, Ludovico Savioli a Bologna, Kiliano Caraccioli Maestro venerabile a Napoli, Giuseppe Guasco a Roma.[91]

L'Alfieri compare alcuni anni dopo, al numero 63 dell'elenco nel Tableu des Membres de la Respectable Loge de la Victoire à l'Orient de Naples in data 27 agosto 1782, con il nome di "Comte Alfieri, Gentilhomme de Turin". La sua affiliazione alla loggia di Napoli fu sicuramente favorita dai frequenti soggiorni in quella città e soprattutto dall'importanza che Napoli accrebbe nei confronti della massoneria, dal momento che i Savoia,di lì a poco chiusero ogni attività massonica in Piemonte (1783), costringendo il conte Asinari di Bernezzo, capo della massoneria italiana di rito scozzese, a cedere la carica proprio al principe Diego Naselli di Napoli.[14]

Durante il periodo dell'affiliazione, Alfieri si cela per la sua corrispondenza ai confratelli sotto lo pseudonimo di conte Rifiela.[14] Con il sopraggiungere in Europa dei venti rivoluzionari che sfoceranno poi nella rivoluzione francese, l'Alfieri prese le distanze dalla massoneria, forse perché essa accentuò l'impegno giacobino, antimonarchico, anticlericale, o forse anche per quel suo aspetto caratteriale indipendente fino all'ossessione, divenendo così un "massone in sonno".[14] Nella satira di Le imposture (1797) si scaglierà contro i suoi vecchi confratelli apostrofandoli come "fratocci" che imbambolavano gli adepti per farne creature proprie, ingenuo piedistallo per i furbi.[92]

La piemontesità

Statua di Vittorio Alfieri opera di G. Dini, 1862. Asti, Piazza Alfieri

Secondo Pietro Cazzani, direttore del Centro studi Alfieriani tra il 1939 ed il 1957, la differenza di fondo tra Alfieri e Dante (oltre a quelle ben più evidenti): «è la "toscanità" del fiorentino, i cui umori si trasformano in aggressive ironiche fantasie, contrapposta al "piemontesismo" dell'astigiano, la cui seria moralità prende toni cupi con impensabili estri».[93] Per Umberto Calosso[94] il poeta non dimenticò mai le sue origini, con quel «misto di ferocia e generosità, che non si potrà mai capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue piemontese».

Alfieri scrisse poi due sonetti in lingua piemontese (gli unici della sua produzione) datati aprile e giugno 1783.[95]
Ecco il testo del primo:

(PMS)

«Son dur, lo seu, son dur, ma i parlo a gent
ch'ha l'ànima tant mola e dëslavà
ch'a l'é pa da stupì se 'd costa nià
i-j piaso apen-a apen-a a l'un për sent.

Tuti s'amparo 'l Metastasio a ment
e a n'han j'orije, 'l cheur e j'euj fodrà:
j'eròj a-j veulo vëdde, ma castrà,
ël tràgich a lo veulo, ma imponent.

Pure im dogn nen për vint fin ch'as decida
s'as dev troné sul palch o solfegé,
strassé 'l cheur o gatié marlàit l'orìa.

Già ch'ant cost mond l'un l'àutr bzògna ch'as rida,
l'è un mè dubiet ch'i veui ben ben rumié:
s'l'é mi ch'son 'd fer o j'italian 'd potìa.»

(IT)

«Sono duro, lo so, sono duro, ma parlo a gente
che ha l'anima tanto fiacca e sporca
che non c'è da stupirsi se a questa cricca
io piaccio appena all'uno per cento.

Tutti si imparano a memoria il Metastasio
e ne hanno piene le orecchie, il cuore e gli occhi:
gli eroi li vogliono vedere sì, ma castrati,
il tragico lo vogliono ma imponente.

Eppure io non mi do per vinto finché non si decida
se sul palco si deve tuonare o solfeggiare,
agitare i cuori o accarezzarsi un poco l'orecchia.

Giàcche in questo mondo bisogna che si rida l'uno dell'altro,
io ho un piccolo dubbio che voglio ben bene rimasticare:
se sono io che sono di ferro o gli italiani di fango.»

Alfieri e la musica

Umberto Calosso accosta l'opera di Alfieri «illuminista in fervido movimento» a quella di Beethoven; per il critico i motivi profondi dell'Alfieri risuonano «nei precipizi abissali della sinfonia di Beethoven».[76]

Lo stemma nobiliare della famiglia Alfieri. "Tort ne dure" (fr.) = il torto non dura; "Hostili tincta cruore" (lat.) = bagnato dal sangue nemico

Anche per il Cazzani, in molte tragedie alfieriane, ci troviamo davanti alla stessa solitudine cosmica del maestro di Bonn.[96] Nella sua autobiografia il poeta racconta di come la musica suscitava nel suo animo grande commozione. L'Alfieri più volte raccontò come quasi tutte le tragedie siano state ideate o durante l'ascolto di musica o poche ore dopo averla ascoltata.[97]

Alcuni manoscritti contengono anche le indicazioni delle musiche da eseguirsi durante le rappresentazioni teatrali (per esempio il Bruto secondo). Il Cazzani ipotizza anche che tra i musicisti prediletti dell'Alfieri ci sia il piemontese Giovanni Battista Viotti, che fu presente a Torino, Parigi e Londra negli stessi anni dei soggiorni alfieriani.[98]

Alfieri e l'arte

Emissione del 1999

Il poeta che più di una volta confessò di essere sensibile alle bellezze naturali, davanti alle opere artistiche manifestava una certa «ottusità d'intelletto». A Firenze, per la prima volta nel 1766, dichiarò che le visite alla Galleria e a Palazzo Pitti, si svolgevano forzatamente, con molta nausea, senza nessun senso del bello.

Di Bologna scrisse: «... dei suoi quadri non ne seppi nulla».[99]

Quando visse a Roma nascevano i primi fermenti del movimento archeologico che precedette il Neoclassicismo, non fece nessuna menzione degli artisti che ne presero parte, ed anche il salotto della contessa d'Albany, a Parigi frequentato dagli artisti più noti dell'epoca (tra cui Jacques-Louis David) non era per lui di alcun interesse, e del Louvre gli interessò «solo la facciata».[99]

Questo spiega perché, fatta eccezione dei ritratti di François-Xavier Fabre, nessuna tela di un certo valore adornò le pareti degli appartamenti abitati da Alfieri nel corso della vita.

L'Alfieri e la contessa d'Albany, nell'agosto 1792, dovettero abbandonare precipitosamente Parigi per l'insurrezione repubblicana. Dall'inventario degli oggetti d'arte della casa di Parigi (Maison de Thélusson, rue de Provence nº18), stilato dal governo rivoluzionario dopo la confisca degli immobili e contenuto negli Archives nationales di Parigi si è potuto risalire ai quadri presenti negli appartamenti.[100]

Anche in questo caso l'elenco è deludente: si tratta più che altro di riproduzioni incise per lo più dei Carracci, della Cappella Sistina, della Scuola di Atene, della galleria di Palazzo Farnese, con qualche incisione riproducente opere di Elisabeth Vigée-Le Brun, di Angelika Kauffman, di Anton Raphael Mengs.[14]

Alfieri nei francobolli italiani

Emissione per le colonie del 1932
Emissione del 2003

Tre francobolli commemorativi sono stati emessi dalle poste italiane per ricordare la figura del trageda astigiano[101]:

  • Il primo, da 25 centesimi, disegnato da F. Chiappelli ed emesso il 14 marzo 1932 per la società Dante Alighieri per la corrispondenza nazionale, ed una seconda tiratura per le emissioni generali delle colonie italiane in versione sovrastampata (tiratura 60.000 esemplari).
  • Il secondo emesso il 4 giugno 1949 (tiratura 2.812.000 esemplari), opera del disegnatore E. Pizzi, in occasione del bicentenario della nascita.
  • Il terzo l'8 ottobre 2003, con tiratura di 3.500.000 esemplari, è stato emesso in occasioni delle commemorazioni per il bicentenario della sua morte. Il ritratto opera della bozzettista Rita Fantini è liberamente ispirato ad un dipinto di François Xavier Fabre, attualmente esposto presso Palazzo Alfieri di Asti, mentre sullo sfondo si vede la facciata interna del palazzo, sede sia del Centro nazionale di studi alfieriani che del Museo alfieriano.

Alfieri nelle monete italiane

  • Nel 1999, la Zecca dello Stato, in occasione del 250º anniversario della nascita del poeta, ha emesso una moneta in argento 835/1000, del peso di 14,60 g, diametro 31,40 mm, con l'effigie di Vittorio Alfieri ed al verso il celebre motto "volli sempre volli fortissimamente volli" (tiratura 51.800 pezzi).[102]

Note

  1. ^ Nel 1778 rinunciò ai beni e titoli di famiglia in favore della sorella
  2. ^ Conte di Solbrito, marchese di Felizzano; nipote acquisito
  3. ^ Benché Alfieri indichi questa data, nacque il 16 gennaio, e l'atto di battesimo certifica che il sacramento gli fu amministrato il 16; A. Di Benedetto, Vittorio Alfieri, in Storia della letteratura italiana (diretta da E. Malato), Roma, Salerno Editrice, 1998, vol. VI, p. 939.
  4. ^ V. Alfieri, Vita, capitolo I (Nascita e parenti), pagina 9 dell'edizione stampata in Roma dall'Istituto poligrafico dello Stato nel 1956
  5. ^ Giuseppe Bonghi, Biografia di Vittorio Alfieri
  6. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q Bonghi, art. cit.
  7. ^ II paragrafo in Alfieri, Vittorio, Enciclopedia dell'Italiano, Treccani 2010
  8. ^ Beccaria, Gian Luigi (1976), I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, «Sigma» 9, 1/2, pp. 107-151.
  9. ^ Vita scritta da esso, Epoca Quarta
  10. ^ Voci e modi toscani, raccolti da Vittorio Alfieri, corrispondenze, edita nel 1827
  11. ^ Pur condividendone un certo pragmatismo e la poca fiducia nel popolo, Alfieri è perlopiù un sostenitore dell'interpretazione repubblicana od obliqua del Principe di Machiavelli: «Dal solo suo libro Del Principe si potrebbero qua e là ricavare alcune massime immorali e tiranniche, e queste dall'autore son messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarne... all'incontro, il Machiavelli nelle Storie, e nei Discorsi sopra Tito Livio, ad ogni sua parola e pensiero, respira libertà, giustizia, acume, verità, ed altezza d'animo somma, onde chiunque ben legge, e molto sente, e nell'autore s'immedesima, non può riuscire se non un fuocoso entusiasta di libertà, e un illuminatissimo amatore d'ogni politica virtù» (Del principe e delle lettere, II, 9)
  12. ^ Treccani: Vittorio Alfieri
  13. ^ V. Alfieri, Vita, Epoca I
  14. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x ibidem
  15. ^ Sambugar, Salà, Letteratura modulare, vol 1, introduzione alla Vita scritta da esso di V. Alfieri
  16. ^ Giuseppe Antonini, Leonardo Cognetti De Martiis, Vittorio Alfieri: studi psicopatologici
  17. ^ Vita, Epoca I, Primi sintomi di carattere appassionato
  18. ^ V. Alfieri, Vita, Epoca II
  19. ^ Alfieri, Vita, Epoca II
  20. ^ a b V. Alfieri, Vita, epoca III
  21. ^ Lucio D'Ambra, Vittorio Alfieri. Il trageda legato alla sedia, 1938
  22. ^ a b c V. Alfieri, Vita, Epoca quarta, capitolo V e seguenti
  23. ^ a b Vita, epoca IV
  24. ^ Nell'atto di donazione del 1778, nel quale Vittorio cedette alla sorella Giulia tutte le proprietà in cambio di un vitalizio, accanto ai campi, prati, orti, vigne, boschi, gerbidi e ai coltivi che egli possedeva in Asti, Vigliano d'Asti, Costigliole d'Asti, Montegrosso d'Asti, Cavallermaggiore, Ruffia, ci sono anche dei mulini in quella zona della città che ora è denominata via dei mulini. Inoltre, Alfieri cedette anche il palazzo natio (Palazzo Alfieri), che venne messo in affitto: alla contessa Giulia rendeva 910 lire piemontesi all'anno, e il palazzo di Piazza San Secondo in Asti comprendente cinque botteghe sotto i portici e quattro in legno fuori dai medesimi, il quale rendeva 1000 lire piemontesi annue.
  25. ^ Circolo Mazzei: la storia di Filippo Mazzei
  26. ^ Bonghi, art. cit.; il poeta l'avrebbe vista sulla spiaggia a Dover, località in cui si imbracava per tornare in Francia, e pare che la donna si trovasse « in condizioni morali poco edificanti ». Alfieri, allora, le scrisse, scusandosi qualora fosse stato responsabile del suo cambiamento, ma la Pitt rispose di essere pienamente felice e libera; M. Porena, Vittorio Alfieri e la tragedia, Milano 1904, p. 36
  27. ^ a b c d e f g h Sambugar, Salà, op. cit.
  28. ^ aveva sposato la figlia di Giulia Alfieri
  29. ^ Con il trattato di Aranjuez (1801) Napoleone esautorò l'Asburgo Ferdinando III dal suo Granducato di Toscana, che si tramutò in uno stato satellite della Francia imperiale: il Regno d'Etruria sotto i Borboni, precedentemente duchi di Parma.
  30. ^ a b Articolo sull'influenza di Alfieri su Foscolo
  31. ^ a b «Al Tragico dell'Italia oso offrire la prima tragedia di un giovane nato in Grecia ed educato fra' Dalmati. Forse l'avrei presentata più degna d'Alfieri, se la rapacità de' tipografi non l'avesse carpita e stampata, aggiungendole a' propri difetti le negligenze della lor arte. Ad ogni modo accoglietela: voi avete de' diritti su tutti coloro che scrivono agl'Italiani, benché l'Italia "vecchia, oziosa e lenta" non può né vuol forse ascoltare. Né forse ve la offrirei, se non sperassi in me stesso di emendare il mio ardire con opere più sode, più ragionate, più alte; più, insomma, italiane. Addio.» (Ugo Foscolo, Epistolario, I, pp. 42-3; 22 aprile 1797)
  32. ^ a b "L'unico mortale ch'io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri; ma odo dire ch'ei non accoglie persone nuove: ne io presumo di fargli rompere questo suo proponimento che deriva forse da' tempi, da' suoi studj, e più ancora dalle sue passioni e dall'esperienza del mondo. E fosse anche una debolezza, le debolezze di si fatti mortali vanno rispettate; e chi n'e senza, scagli la prima pietra".
  33. ^ Ortis, Lettera del 17 marzo 1798, scritta in realtà nel 1816
  34. ^ a b Giuseppe Pecchio, Vita di Ugo Foscolo scritta da Giuseppe Pecchio, pag. 32
  35. ^ Funerali per Corilla a spregio di Vittorio Alfieri
  36. ^ a b c Dal volume: V. ALFIERI, Mirra, a cura di Angelo Fabrizi, nella collana “Studi e documenti” promossa dalla Fondazione Centro di Studi Alfieriani, Modena, Mucchi, 1996
  37. ^ Guido Santato, Alfieri e Voltaire: dall'imitazione alla contestazione; riportato in Guido Santato, Letteratura italiana e cultura europea tra illuminismo e romanticismo ("Dénouement des lumières et invention romantique: actes du Colloque de Genève", a cura di G. Santato), disponibile su google books, pagg. 297-298
  38. ^ Aris D'Anelli, cardiologo astigiano, nel libro La malinconia del signor Conte. Vittorio Alfieri, malato non immaginario, edito da Daniela Piazza, avanza tre ipotesi, basate su alcuni sintomi descritti dal poeta nell'autobiografia, come causa della morte: la più probabile è un infarto del miocardio o un collasso cardiaco, dovuto all'ipertensione, un problema cronico dell'autore o a disturbi cardiaci; altre sono un'insufficienza renale - la stessa gotta o podagra, di cui soffriva ne può essere un sintomo, degenerato in uremia - o un tumore dell'apparato digerente
  39. ^ Antonini, Cognetti, op. cit.
  40. ^ Il giallo dei funerali di Vittorio Alfieri
  41. ^ Il Risorgimento nell'Astigiano nel Monferrato e nelle Lange, (a cura di Silvano Montaldo), Carla Forno, Il mito risorgimentale di Alfieri, Asti Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, 2010, pg. 186
  42. ^ Vittorio Alfieri, Trattati politici
  43. ^ V. Alfieri, Misogallo, parte I
  44. ^ Mario Rapisardi, L'ideale politico di Vittorio Alfieri
  45. ^ V. Alfieri, Misogallo, parte I, documento I, pag. 17-18, edizione Classici a cura di G. Bonghi
  46. ^ M. Rapisardi, La religione di Vittorio Alfieri
  47. ^ V. Alfieri, Della tirannide, pag. 76 e seguenti
  48. ^ Satira L'antireligioneria, in cui critica Voltaire; in questo modo però si allinea anche posizioni pragmatiche espresse anche proprio dallo stesso contestatissimo Voltaire, nel Trattato sulla tolleranza: "La legge vigila sui crimini conosciuti, la religione su quelli segreti" (capitolo "Se sia utile mantenere il popolo nella superstizione), auspicando l'eliminazione dei dogmi, non della religione per il popolo; e posizioni simili saranno anche del democratico Giuseppe Mazzini o di Ugo Foscolo, secondo cui, come scrive amareggiato nello Jacopo Ortis, il "volgo" richiede spesso "pane, prete e patibolo".
  49. ^ M. Rapisardi, ibidem
  50. ^ Lettera all'abate di Caluso del gennaio 1802
  51. ^ Alfieri, così liberale da essere anarchico
  52. ^ a b Piero Gobetti, L'uomo Alfieri
  53. ^ Mario Rapisardi, La religione di Vittorio Alfieri
  54. ^ Voltaire, Trattato sulla tolleranza, cap XX, "Se sia utile mantenere il popolo nella superstizione"
  55. ^ suo grande amico era il mercante Gori Gandellini
  56. ^ Francesco Novati, L'Alfieri poeta comico, in Studi critici e letterari, Ermanno Loescher, Torino, 1889
  57. ^ Ignazio Ciampi, Vittorio Alfieri autore comico, in La commedia italiana: studi storici, estetici e biografici, Roma, Galeati, 1880
  58. ^ a b c Vittorio Alfieri, Opere / Vittorio Alfieri; introduzione e scelta di Mario Fubini; testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, collana La letteratura italiana (50), vol. 1, Milano, Napoli, Ricciardi, 1977, SBN IT\ICCU\SBL\0160379.
  59. ^ le Opere Postume uscirono con la falsa indicazione della pubblicazione a Londra
  60. ^ a b Alfieri e Petrarca
  61. ^ Alfieri e le rime: riassumendo
  62. ^ Vittorio Alfieri, Il forte sentire e la tragedia
  63. ^ L'odio di Vittorio Alfieri verso i Francesi
  64. ^ Plutarco, Della superstizione
  65. ^ Vito M. Iacono, I geni del cristianesimo e il miscredente Alfieri, in "Revue des études italiennes", pag. 298; consultabile su Google books
  66. ^ Sambugar, Salà, op. cit
  67. ^ L'illuminismo e Vittorio Alfieri
  68. ^ Caratteri della tragedia alfieriana
  69. ^ ibidem
  70. ^ Sambugar, Salà - Letteratura italiana, percorso tematico Vittorio Alfieri
  71. ^ Mario Pazzaglia, Antologia della letteratura italiana, in cui, tra l'altro, il critico letterario definisce l'Ortis "tragedia alfieriana in prosa".
  72. ^ Il mito di Parini nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis
  73. ^ a b Domenico Fava catalogo della Mostra storica Astese AlfierianaAsti, Casa Alfieri, 10 aprile-29 maggio 1949, Bologna 1949
  74. ^ Opere di Vittorio Alfieri ristampate nel primo centenario della sua morte, Paravia, 1903, vol. 1, p. X della Prefazione.
  75. ^ Arnaldo Di Benedetto, Il dandy e il sublime: nuovi studi su Vittorio Alfieri
  76. ^ a b Umberto Calosso, L'anarchia di Vittorio Alfieri: discorso critico sulla tragedia alfieriana, 2ª ed., Bari, Laterza, 1949, SBN IT\ICCU\CUB\0147966.
  77. ^ Vittorio Alfieri presentazione
  78. ^ Giovanni Gentile, L'eredità di Vittorio Alfieri
  79. ^ C. A. Avenati, La rivoluzione da Vittorio Alfieri a Benito Mussolini, Torino, Biblioteca della Società Storica Subalpina, 1934.
  80. ^ Alfieri: libertario o codino?
  81. ^ anche estremo come il cosiddetto libertarianismo; vedi Roberta Montemorra Marvin, Downing A. Thomas - Operatic Migrations: Transforming Works and Crossing Boundaries, 2006
  82. ^ "L'Alfieri, anche se si tenne lontano da ogni forma di religione rivelata, pur riconoscendo in qualche momento le suggestioni e le risonanze emotive del culto cattolico, in tutta la sua vita e in tutta la sua opera fu sorretto da un'alta idealità, ossia da costante amore «del vero e del retto», da un senso elevato dell'eroico e da quella religione della libertà che fu il fondamento del liberalismo e del romanticismo europeo". (Bruno Maier)
  83. ^ ad esempio in La filosofia politica di Vittorio Alfieri e L'uomo Alfieri Gobetti esprime la propria vicinanza spirituale al poeta tragico
  84. ^ Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina, da La Rivoluzione Liberale, articoli
  85. ^ «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri
  86. ^ Sambugar, Salà, op.cit.
  87. ^ Video dell'attore Paolo Rossi che recita uno spezzone del trattato in un programma televisivo
  88. ^ Il divorzio di Alfieri al Teatro stabile di Genova
  89. ^ V. Alfieri, Vita, Epoca quarta, capitolo I
  90. ^ Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori. Brevi biografie di Massoni famosi, Roma-Milano, Erasmo Edizioni-Mimesis, 2005, p. 9.
  91. ^ R. Marchetti. Vittorio Alfieri, fratel massone in «Il Platano», anno VII, Asti, 1982.
  92. ^ Vittorio Alfieri, Satire, Le imposture
  93. ^ Cazzani, op. cit.
  94. ^ Umberto Calosso, L'anarchia di Vittorio Alfieri: discorso critico sulla tragedia alfieriana, 1ª ed., Bari, Laterza, 1924, SBN IT\ICCU\RAV\0210881.
  95. ^ Vittorio Alfieri, su comune.asti.it, Comune di Asti. URL consultato il 29 dicembre 2009.
  96. ^ Pietro Cazzani, Le tragedie di Alfieri
  97. ^ Alfieri e la musica
  98. ^ Cazzani, op. cit
  99. ^ a b R. Marchetti Alfieri e l'arte in Il Platano, anno I, numero 2, Asti, 1976.
  100. ^ R. Marchetti Alfieri e l'arte in «Il Platano», anno I, numero 2, Asti, 1976.
  101. ^ Catalogo francobolli italiani
  102. ^ Moneta commemorativa di Vittorio Alfieri

Bibliografia

  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 1, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 2, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 3, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 4, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 5, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 6, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 7, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 8, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 9, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1809.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 10, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1810.
  • Le opere di Vittorio Alfieri, vol. 11, Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1810.
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