Maxiprocesso di Palermo: differenze tra le versioni

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== La fase istruttoria ==
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=== Introduzione: il codice in vigore ===
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Conclusa tale attività, il giudice istruttore, in base al materiale probatorio raccolto, tramite una ordinanza-sentenza poteva disporre il [[proscioglimento]] oppure il [[rinvio a giudizio]] di ogni indagato. In questo secondo caso, veniva celebrato un processo, dove a rappresentare l'accusa non andava però il giudice istruttore, ma il pubblico ministero. Il processo aveva dunque in gran parte il compito di saggiare la correttezza delle conclusioni cui era giunto il giudice istruttore.<ref name=istrutt>Ayala 2008, pagg. 18-19.</ref>
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Versione delle 12:45, 9 feb 2017

«Questo è un processo come tutti gli altri, per quanto smisurato. Ciò che vi chiedo non è la condanna della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la condanna dei mafiosi che sono raggiunti da certi elementi di responsabilità.»

Il Palazzo di Giustizia di Palermo

Maxiprocesso di Palermo è il soprannome che venne dato, a livello giornalistico,[Nota al testo 1] ad un processo penale celebrato a Palermo per crimini di mafia (ma il nome esatto dell'organizzazione criminale è Cosa Nostra), tra cui omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, associazione mafiosa e altri.

Durò dal 10 febbraio 1986 (giorno di inizio del processo di primo grado) al 30 gennaio 1992 (giorno della sentenza finale, il terzo grado di giudizio, della Corte di Cassazione). Tuttavia spesso per maxiprocesso si intende il solo processo di primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987.

Il maxiprocesso deve il proprio soprannome alle sue enormi proporzioni: in primo grado gli imputati erano 475 (poi scesi a 460 nel corso del processo), con circa 200 avvocati difensori.[1][2] Il processo di primo grado si concluse con pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Dopo un articolato iter processuale tali condanne furono poi quasi tutte confermate dalla Cassazione.[3] A quanto è dato sapere, si tratta del più grande processo penale mai celebrato al mondo.[4]

Contesto storico

La situazione a Palermo

Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda guerra di mafia.

All'inizio degli anni ottanta a Palermo imperversava la seconda guerra di mafia: la fazione dei Corleonesi e quella guidata da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (cui faceva parte anche Tommaso Buscetta, scappato in Brasile) si contendevano il dominio sul territorio, al punto che tra il 1981 e il 1983 vennero commessi circa 600 omicidi e la seconda fazione risultò perdente.

Anche numerosi uomini delle istituzioni italiane, che avevano tentato di combattere la mafia attraverso nuove leggi, indagini ed azioni di Polizia, caddero sotto i colpi della mafia; tra questi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario provinciale democristiano Michele Reina, il commissario Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il candidato a giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova, il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale siciliano del PCI Pio La Torre e molti altri ancora.[2]

La nascita del pool antimafia

Il giudice Giovanni Falcone
Lo stesso argomento in dettaglio: Pool (magistratura italiana).

Per far fronte ad una simile situazione, il primo a pensare che presso l'ufficio istruzione del tribunale di Palermo potesse essere istituita una squadra di giudici istruttori, che avrebbero lavorato in gruppo, fu il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Quando poi nel 1983 Cosa Nostra uccise anche Chinnici, il giudice chiamato a sostituirlo, Antonino Caponnetto, decise di mantenere ed ampliare l'organizzazione dell'ufficio voluta dal predecessore. Caponnetto si informò presso la Procura di Torino riguardo a come si fosse organizzata durante gli anni del terrorismo e decise infine di istituire presso l'ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso nel palermitano, e di conseguenza la possibilità di combatterlo più efficacemente.

Caponnetto scelse, tra i giudici istruttori che meglio conosceva e dei quali riteneva di potersi fidare, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi avrebbero svolto tutte le indagini su Cosa Nostra, coadiuvati dal sostituto procuratore Giuseppe Ayala e tre colleghi, il cui compito era inoltre quello di portare a processo come pubblici ministeri i risultati delle indagini del pool e ottenere le condanne.[5][6][7][8]

La fase istruttoria

Introduzione: il codice in vigore

Il processo si svolse secondo il rito previsto dal codice di procedura penale italiano del 1930.[Nota al testo 2] In sintesi, esso prevedeva che le indagini e la raccolta delle prove nei confronti degli indagati venissero effettuate in gran parte dal giudice istruttore. Altre indagini (di solito di minore importanza) erano svolte dal pubblico ministero.

Conclusa tale attività, il giudice istruttore, in base al materiale probatorio raccolto, tramite una ordinanza-sentenza poteva disporre il proscioglimento oppure il rinvio a giudizio di ogni indagato. In questo secondo caso, veniva celebrato un processo, dove a rappresentare l'accusa non andava però il giudice istruttore, ma il pubblico ministero. Il processo aveva dunque in gran parte il compito di saggiare la correttezza delle conclusioni cui era giunto il giudice istruttore.[9]

Tommaso Buscetta viene portato in aula al maxiprocesso

L'arresto di Tommaso Buscetta

Nell'ottobre del 1983 in Brasile venne arrestato il mafioso Tommaso Buscetta, che era latitante da circa tre anni dopo essersi sottratto al regime di semilibertà in Italia.[10] Il giudice Falcone volò in Brasile per interrogarlo, e lì ebbe l'impressione che Buscetta potesse essere disposto a collaborare. Così avvenne: quando il 15 luglio 1984 Buscetta fu estradato in Italia, cominciò a raccontare a Falcone le sue vaste conoscenze su Cosa Nostra.[11]

Il pentimento

Molto si è scritto sulla decisione di Buscetta di "pentirsi", ossia di rinnegare la sua appartenenza a Cosa Nostra e raccontare agli inquirenti le sue conoscenze sulla mafia. In ogni caso, non si trattò di un pentimento in senso morale o spirituale: Buscetta non rinnegò mai il suo passato di mafioso. Affermò piuttosto che erano stati i nuovi capi di Cosa Nostra, i Corleonesi, a sovvertire con la violenza i vecchi ideali della "Onorata società" e che, quindi, i veri traditori erano loro. Su questo punto, però, va precisato che vari studiosi di Cosa Nostra, tra cui lo stesso Falcone, ritengono che questo tempo in cui la mafia rispettava codici etici (ed era in questo senso apprezzabile) non sia mai esistito.[12][13] Si può aggiungere almeno un'altra riflessione: Buscetta faceva parte di una fazione perdente di Cosa Nostra; non potendo uccidere lui, i Corleonesi gli avevano ucciso ben nove parenti (tra cui due figli che non erano nemmeno affiliati a Cosa Nostra, grave violazione delle regole non scritte della mafia). Di conseguenza, una volta arrestato, rivelare le proprie conoscenze era l'unico modo rimasto a Buscetta per prendersi una rivincita sui suoi nemici. La decisione di parlare peraltro non fu priva di conflitti interiori, tanto che poco prima di essere estradato in Italia Buscetta tentò anche il suicidio.[2][5][14][15][16][17]

Le rivelazioni

Le rivelazioni di Tommaso Buscetta si possono fondamentalmente suddividere in due categorie:

  • L'organizzazione interna ed il funzionamento di Cosa Nostra
  • I mandanti e gli esecutori materiali di numerosi delitti di mafia

A quei tempi si sapeva poco o nulla dell'organizzazione e delle regole di Cosa Nostra, poiché quasi nessuno prima di Buscetta ne aveva mai svelato i segreti (e quei pochissimi che l'avevano fatto non erano stati creduti), per cui tali rivelazioni avevano un valore incalcolabile e consentivano per la prima volta agli inquirenti di penetrare in quel mondo ancora ignoto. Per mantenere la massima segretezza (necessaria per poter poi colpire la mafia di sorpresa) Buscetta parlava esclusivamente con Falcone, il quale verbalizzava di proprio pugno, a penna, le informazioni. Ci vollero circa due mesi perché Buscetta esaurisse le cose da raccontare.[2][15][20]

Solo su un argomento Buscetta affermò di non voler dire nulla: quello dei rapporti tra mafia e politica. A questo proposito, Buscetta spiegò che secondo lui i tempi non erano ancora maturi: le sue rivelazioni avrebbero scatenato polemiche e non sarebbero state considerate attendibili, e questo giudizio avrebbe sicuramente coinvolto anche tutto il resto delle sue dichiarazioni.[Nota al testo 3]

Il blitz di San Michele

Man mano che Buscetta faceva le proprie rivelazioni, si cercavano i necessari riscontri, anche esaminando i risultati di indagini bancarie e rapporti di Polizia stilati negli anni precedenti. Verso la fine di settembre 1984 si decise infine di passare all'azione, ossia eseguire gli ordini di custodia cautelare derivanti dalle dichiarazioni di Buscetta. Il blitz era previsto attorno alla metà di ottobre, ma verso la fine di settembre, conversando con un giornalista del settimanale L'Espresso, Falcone ebbe la sensazione (poi rivelatasi infondata) che questi fosse venuto a conoscenza dell'operazione in preparazione. Per evitare che un eventuale scoop giornalistico rovinasse la riuscita dell'operazione, si decise di passare all'azione prima che uscisse il successivo numero del settimanale. Il lavoro di circa 15 giorni venne quindi concentrato in una sola nottata.[2][21][22]

Nella notte tra il 28 ed il 29 settembre 1984 al tribunale di Palermo si lavorò febbrilmente per spiccare 366 ordini di custodia cautelare da eseguire la mattina dopo. Il giudice Di Lello, che, ignaro di tutto, dormiva a casa propria, venne svegliato verso le tre del mattino e dovette correre in tribunale per firmare centinaia di documenti. L'operazione di Polizia, eseguita nel giorno di San Michele, colse tutti di sorpresa, sia la mafia sia le istituzioni italiane, e consentì la cattura di oltre i due terzi dei ricercati.[2][21][22][23]

Nell'ottobre 1984 il giudice Falcone iniziò a raccogliere anche le dichiarazioni del mafioso Salvatore Contorno, che era sfuggito ad un agguato per le strade di Brancaccio e che aveva visto assassinare, per ritorsione, 35 tra parenti e amici: le dichiarazioni di Contorno costituivano un'ulteriore conferma a quelle di Buscetta e nel giro di pochi giorni produssero altri 127 mandati di cattura e 56 arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna.[24]

Le reazioni al blitz e gli organi di informazione

Il blitz di San Michele fece molto scalpore, in Italia e all'estero. Dagli Stati Uniti arrivarono commenti entusiastici, mentre in Italia ai complimenti di una parte del mondo politico e giornalistico si contrappose il silenzio o la critica di un'altra parte. Alcuni erano convinti che quella fosse "giustizia spettacolo", che non avrebbe portato ad alcun risultato concreto, mentre altri non vedevano di buon occhio una lotta così intensa alla mafia e la consideravano non tanto un'opportunità, quanto un pericolo. Non mancò nemmeno una marcata ostilità di alcuni componenti della magistratura palermitana, che manifestarono dubbi e critiche sul maxiprocesso in preparazione e sui suoi promotori.[28][29]

Furono in particolare due i quotidiani che si fecero portavoce di coloro che avversavano l'inchiesta, il Giornale di Indro Montanelli e Il Giornale di Sicilia di Antonio Ardizzone, pubblicando articoli fortemente critici o irridenti sull'intera inchiesta e sui giudici che la conducevano. Tale atteggiamento restò evidente per tutto il processo di primo grado, ma dovette per forza di cose affievolirsi quando la conclusione del processo portò a pesanti condanne.[30][31][32]

Il rinvio a giudizio

Concluse le indagini preliminari, l'8 novembre 1985 il giudice Caponnetto poté emanare l'ordinanza-sentenza riguardante il maxiprocesso, intitolata "Abbate Giovanni + 706".[5] Era lunga circa 8.000 pagine e valutava la posizione di 707 indagati; di essi, 476 furono rinviati a giudizio (numero poi sceso a 475 perché il mafioso Nino Salvo, già gravemente malato, venne a mancare), gli altri 231 vennero prosciolti.[33] Il primo capitolo dell'ordinanza era riservato ai venticinque collaboratori di giustizia sui quali si basava l'accusa: tra di essi spiccavano, oltre a Buscetta e Contorno, i trafficanti turchi Sami Salek e Wakkas Salah, i rapinatori Stefano Calzetta, Vincenzo Sinagra, Salvatore Di Marco e le dichiarazioni postume di Giuseppe Di Cristina e Leonardo Vitale (un collaboratore ante litteram che nel 1973 per primo aveva deciso di dissociarsi da Cosa Nostra, ma che non era stato creduto, anche a causa di alcune sue bizzarrie come l'autolesionismo per penitenza).[18][34][35]

L'aula bunker

Fu subito chiaro che nessuna aula di tribunale a Palermo, e forse nel mondo, avrebbe potuto contenere un simile processo, così venne costruita in pochi mesi, a fianco del carcere dell'Ucciardone, una grande aula subito soprannominata aula bunker, di forma ottagonale e dimensioni adatte a contenere svariate centinaia di persone. L'aula aveva sistemi di protezione tali da poter resistere anche ad attacchi di tipo missilistico, e fu dotata di un sistema computerizzato di archiviazione degli atti, senza il quale un processo di tali proporzioni non sarebbe stato possibile.[36]

I pubblici ministeri e la Corte d'assise

A rappresentare l'accusa al maxiprocesso vennero nominati due pubblici ministeri: Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, che si sarebbero alternati in aula. Per quanto riguarda invece la composizione della Corte d'assise che avrebbe giudicato (un presidente, un secondo giudice togato denominato giudice a latere e sei giudici popolari), si pose subito un inatteso problema: nessun presidente di Corte d'assise sembrava infatti disposto a presiedere il maxiprocesso. Ben dieci di essi riuscirono in qualche modo a defilarsi; due di essi avevano in effetti gravi problemi di salute, ma per gli altri otto probabilmente prevalsero considerazioni di altro tipo. Alla fine l'incarico venne accettato da Alfonso Giordano, un magistrato che era stato nominato presidente di Corte d'assise da pochi mesi, ed era quindi "appena arrivato". Giordano in realtà per la maggior parte della propria carriera si era occupato di diritto civile, e la sua ambizione, in effetti, era di presiedere processi civili e non penali; aveva però maturato anche una decina d'anni di esperienza nel penale,[37] così, data anche l'assenza di altri giudici, pur considerando l'impresa ai limiti delle possibilità umane, decise di accettare.[33][38]

Come giudice a latere venne nominato Pietro Grasso, e si procedette senza soverchie difficoltà anche alla nomina dei sei giudici popolari. Data l'eventualità che qualcuno dei membri della Corte potesse trovarsi in condizione di non poter proseguire il processo (eventualità tutt'altro che remota trattandosi di un processo di mafia),[Nota al testo 4] furono nominati due ulteriori giudici togati (Dell'Acqua e Prestipino) che potessero eventualmente sostituire i giudici Giordano e Grasso, nonché altri venti giudici popolari in eventuale sostituzione dei sei della Corte.[2][39]

Il processo di primo grado

Svolgimento

Il 10 febbraio 1986, in un'aula bunker colmata di circa 300 imputati, 200 avvocati difensori e 600 giornalisti da tutto il mondo, si aprì il processo. Tra gli imputati presenti vi erano Luciano Liggio, Pippo Calò, Michele Greco, Leoluca Bagarella, Salvatore Montalto e moltissimi altri; tra i contumaci figuravano Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Le accuse ascritte agli imputati includevano, tra gli altri, 120 omicidi, traffico di droga, rapine, estorsione, e, ovviamente, il delitto di "associazione mafiosa" in vigore da pochi anni.[36]

Dal momento che i termini di custodia cautelare per un centinaio di imputati scadevano l'8 novembre 1987 (poi prorogati di poche settimane), era necessario che il processo di primo grado si concludesse entro quella data. Per questo motivo il presidente Giordano, nonostante le proteste di alcuni avvocati difensori e giudici popolari, dispose che il processo si sarebbe celebrato tutti i giorni, ad eccezione soltanto delle domeniche e di alcuni sabati.[42]

Il dibattimento si svolse in maniera tutto sommato ordinata e regolare, soprattutto grazie all'atteggiamento di grande pazienza e disponibilità del presidente Giordano. Uno dei momenti più intensi del processo fu il confronto diretto tra l'accusatore Buscetta e l'imputato Pippo Calò. In tale confronto la figura di Buscetta prevalse chiaramente, tanto che i numerosi imputati che chiedevano un confronto diretto col loro accusatore rinunciarono, lasciando che Buscetta ripartisse per gli Stati Uniti. Gli altri collaboratori (cosiddetti "minori") che testimoniarono in aula dovettero subire insulti di ogni genere da parte degli imputati presenti ma non si fecero condizionare e confermarono le loro accuse[43]. Gli ultimi 7-8 mesi furono dedicati alle requisitorie dei pubblici ministeri e alle arringhe difensive degli avvocati, prima che il processo di primo grado si avviasse all'epilogo.[44][45]

Faldone riguardante Michele Greco al maxiprocesso

La camera di consiglio e la sentenza

L'11 novembre 1987, dopo 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe difensive, gli otto membri della Corte d'assise si ritirarono in camera di consiglio, accompagnati da un inatteso applauso da parte degli imputati (il cui numero, nel corso del processo, era leggermente diminuito fino a 460). Tale Corte era composta dai due giudici togati Alfonso Giordano e Pietro Grasso, ed i sei giudici popolari Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Luigi Mancuso, Lidia Mangione, Renato Mazzeo e Francesca Vitale. Fu la più lunga camera di consiglio che la storia giudiziaria ricordi: 35 giorni, durante i quali la Corte visse totalmente isolata dal mondo, lavorando a tempo pieno sul maxiprocesso.[2][46][47][48][49]

Infine, il 16 dicembre 1987 il presidente Giordano lesse il dispositivo della sentenza che concludeva il maxiprocesso di primo grado: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. La sentenza venne unanimemente considerata un duro colpo a Cosa Nostra e ricevette commenti favorevoli da tutto il mondo. Anche chi non era contento di una così penetrante lotta alla mafia, si guardò bene dal protestare.[48][49][50]

Negli ambienti mafiosi e ad esso contigui, tuttavia, prevalse un certo ottimismo: se pure in primo grado c'erano state dure condanne, nei successivi gradi di giudizio (in appello e soprattutto in Cassazione), esse sarebbero state senz'altro in gran parte diminuite o annullate, riducendo il tutto a ben poca cosa.[51]

Il processo d'appello

L'omicidio Saetta

Contrariamente a quanto era avvenuto per il processo di primo grado, in appello si trovò subito un sia pur ristretto numero di magistrati disposti a presiedere il maxiprocesso. Uno di questi era Antonino Saetta, un magistrato che si era messo in luce negli ultimi anni per il coraggio e l'assoluto rigore morale.[Nota al testo 5] Il 25 settembre 1988 Cosa Nostra uccise il giudice Saetta a colpi di pistola, ed uno dei motivi era proprio quello di impedirgli di presiedere il maxiprocesso.[5]

Svolgimento e sentenza

L'incarico di presidente venne infine accettato dal giudice Vincenzo Palmegiano, sicché, espletati tutti gli adempimenti, il processo d'appello poté aprirsi il 22 febbraio 1989. Ebbe durata appena inferiore al primo grado, ed il 12 novembre 1990 la Corte d'assise d'appello poté ritirarsi in camera di consiglio. La sentenza, pronunciata dal presidente Palmegiano il 10 dicembre 1990 si rivelò deludente per gli inquirenti e per la maggior parte dei mezzi di comunicazione, tanto che non mancarono le polemiche. Le condanne venivano infatti ridotte in maniera cospicua: gli ergastoli passarono da 19 a 12, le pene detentive vennero ridotte di oltre un terzo, scendendo a 1576 anni di reclusione, e vennero pronunciate 86 nuove assoluzioni.

Buona parte di tali riduzioni di pena derivavano dalla convinzione della giuria che il principio della verticalità delle cosche fosse in effetti assai meno inderogabile di quanto non si fosse ritenuto in primo grado e che, quindi, fosse possibile commettere omicidi anche senza l'assenso dei vertici di Cosa Nostra.[5][52][53][54]

La sentenza della Corte di Cassazione

L'ultimo passaggio da superare era quello del vaglio, da parte della Corte di Cassazione, sulla regolarità del processo. Per gli imputati il giudizio di Cassazione era in effetti l'ultima possibilità per una ulteriore riduzione o annullamento delle condanne, mentre per l'accusa essa rappresentava la possibilità di ricorrere contro le assoluzioni pronunciate in secondo grado. Il rischio, assai temuto da Giovanni Falcone, era che il maxiprocesso venisse affidato alla prima sezione della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, giudice cui venivano di solito attribuiti i processi di mafia e che, per la gran quantità di condanne annullate, quasi sempre per piccoli vizi di forma (a fronte invece delle assoluzioni quasi sempre confermate), era stato soprannominato "ammazzasentenze".[Nota al testo 6]

Di fronte alle sentenze della Corte presieduta da Carnevale, da molti ritenute a dir poco discutibili, Giovanni Falcone aveva promosso una sorta di "monitoraggio" delle sentenze della Cassazione.[Nota al testo 7] Il risultato fu che, per evitare polemiche, il primo presidente della Cassazione decise che i processi di mafia sarebbero stati attribuiti a tutti i presidenti di sezione, a rotazione.[56] Di conseguenza, nonostante secondo alcuni Carnevale avesse operato a lungo, nell'ombra, per ottenere il maxiprocesso,[5] esso fu attribuito alla Corte presieduta dal giudice Arnaldo Valente.[57]

La sentenza, emessa il 30 gennaio 1992, fu molto severa: le condanne furono tutte confermate, mentre la gran parte delle assoluzioni pronunciate nel giudizio d'appello venne annullata e per gli imputati venne disposto un nuovo giudizio. Uno dei motivi principali fu che la Corte, in accordo con i giudici di primo grado, considerò il principio della verticalità delle cosche assai più cogente di quanto non avessero creduto i giudici di secondo grado. Il processo di rinvio venne celebrato tra il 1993 e il 1995 davanti alla Corte presieduta da Rosario Gino: tutti gli imputati vennero condannati all'ergastolo.[58] Il risultato finale del maxiprocesso fu dunque che la quasi totalità delle pesanti condanne pronunciate in primo grado venne confermata e divenne definitiva: un colpo molto duro per Cosa Nostra.[59]

Avvenimenti collegati

La fine del pool antimafia

Il pool antimafia organizzato da Antonino Caponnetto non ebbe vita lunga. Alla fine del 1987, una volta concluso il primo grado del maxiprocesso, Caponnetto, ritenendo sostanzialmente concluso il suo compito, decise di tornare nella sua Firenze, lasciando quindi il posto di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo. Falcone avanzò la propria candidatura a sostituirlo, e molti ritenevano che tale successione fosse nell'ordine delle cose. Tuttavia un anziano magistrato, Antonino Meli, che inizialmente intendeva candidarsi come presidente del tribunale di Palermo, venne convinto da alcuni colleghi a ritirare tale candidatura e correre invece per la poltrona (assai meno prestigiosa) di presidente dell'ufficio istruzione. Meli era un magistrato di lunga esperienza, che tuttavia non si era mai occupato di mafia, se non in una sola, singola occasione. Aveva però un'anzianità di servizio assai superiore a quella di Falcone, ed il criterio dell'anzianità era quello di solito seguito dal Consiglio superiore della magistratura per l'assegnazione dei posti.[60][61]

Albero commemorativo di Giovanni Falcone, davanti alla sua abitazione di Via Notarbartolo a Palermo

Falcone aveva all'interno del CSM numerosi ammiratori ma anche un gran numero di detrattori, sicché la maggioranza dei consiglieri votò per Meli: la sua maggiore anzianità di servizio era stata preferita all'esperienza nella lotta alla mafia di Falcone. Il nuovo consigliere istruttore decise di cancellare il metodo fino ad allora seguito nell'ufficio, smettendo quindi di considerare Cosa Nostra come un unico fenomeno e trattando quindi i crimini di mafia come una semplice serie di delitti scollegati tra loro. Questo portò, in breve tempo, alla fine dell'esperienza del pool, poiché buona parte dei suoi componenti preferì dimettersi e dedicarsi ad altri incarichi.[60][61][62]

Gli attentati del 1992 e del 1993

Lo stesso argomento in dettaglio: Bombe del 1992-1993.

Concluso il maxiprocesso, Cosa Nostra sentì impellente la necessità di contrattaccare: tra il 1992 ed il 1993 vennero organizzati e portati a compimento una serie di attentati, le cui vittime più note furono i giudici istruttori del maxiprocesso Falcone e Borsellino, nonché l'eurodeputato Salvo Lima (quest'ultimo, legato ad esponenti mafiosi, per non essere riuscito a far modificare in Cassazione la sentenza del maxiprocesso).[56][63]

Note

Note al testo

  1. ^ Tale soprannome fu accolto anche dalla mafia, se è vero che così era definito nel papello del 1992 il processo la cui revisione si sarebbe chiesta allo Stato in cambio della fine della stagione stragista di Cosa Nostra.
  2. ^ Il Codice di procedura penale del 1930 fu sostituito nel 1989 dall'attuale Codice, ma continuò ad essere applicato fino alla conclusione del processo.
  3. ^ Solo circa dieci anni dopo Buscetta parlerà dei rapporti tra mafia e politica, chiamando in causa tra gli altri il politico Giulio Andreotti. Da tali dichiarazioni scaturirà un processo che si concluderà, per il politico, con la prescizione per alcune delle accuse e l'assoluzione per altre.
  4. ^ In effetti, durante il processo il giudice a latere Grasso ed il pubblico ministero Ayala furono oggetto di intimidazioni mafiose.
  5. ^ Un esempio era stata la condanna inflitta a Cosa Nostra per l'omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile.
  6. ^ In seguito, anche Carnevale sarà accusato di collusione con la mafia, processato ed infine prosciolto dopo un lungo ed articolato iter processuale che vide alternarsi condanne ed assoluzioni. Il proscioglimento definitivo di Carnevale venne pronunciato poiché la Cassazione a Sezioni Unite stabilì l'inutilizzabilità delle dichiarazioni dei giudici che componevano i collegi di cui faceva parte Carnevale, per violazione del segreto della camera di consiglio.
  7. ^ La correttezza di questo monitoraggio, condotto nella nuova veste di direttore degli affari penali del Ministero della giustizia, è stata riconosciuta con queste parole, pronunciate venticinque anni dopo: “Quando Giovanni Falcone ritenne necessario ‘seguire' le sorti del maxiprocesso anche nei successivi gradi di giudizio, non gli passò neppure per l'anticamera del cervello di farsi comandare alla Procura generale, ma accettò l'incarico ministeriale offertogli da Claudio Martelli” (Csm. Buemi: offrire un sistema di nomine all'altezza delle richieste dei cittadini).

Note bibliografiche

  1. ^ Giordano, pag. 53.
  2. ^ a b c d e f g h i Documentario sul maxiprocesso di Palermo
  3. ^ Giordano, pag. 291
  4. ^ Giordano, pag. 68.
  5. ^ a b c d e f La mafia – 150 anni di storia e storie (Compact Disc), la Repubblica, 1998.
  6. ^ Maria Falcone, pagg. 16 e 91.
  7. ^ Ayala 2008, pagg. 18-19 e 80-81.
  8. ^ Bolzoni e Santolini, pag. 126.
  9. ^ Ayala 2008, pagg. 18-19.
  10. ^ E LEGGIO SPACCO' IN DUE COSA NOSTRA - Repubblica.it
  11. ^ Bolzoni e Santolini, pagg. 128-129.
  12. ^ Falcone Padovani, pagg. 60, 104.
  13. ^ Lupo, pagg. 17-22.
  14. ^ Maria Falcone, pagg. 91-93.
  15. ^ a b Ayala 2008, pagg. 112-113.
  16. ^ Lodato, pagg. 18-19, 75.
  17. ^ Lupo, pag. 253.
  18. ^ a b Procedimento penale contro Greco Michele ed altri - Procura della Repubblica di Palermo (PDF).
  19. ^ Giordano, pag. 30.
  20. ^ Lodato, pag. 120
  21. ^ a b Ayala e Cavallaro, pagg. 84-85
  22. ^ a b Ayala 2008, pagg. 114-115
  23. ^ Bolzoni e Santolini, pag. 130.
  24. ^ UN ALTRO PENTITO PARLA, 56 ARRESTI - Repubblica.it
  25. ^ Maria Falcone, pagg. 104-106.
  26. ^ Ayala e Cavallaro, pagg. 70-74.
  27. ^ Bolzoni e Santolini, pagg. 182-184.
  28. ^ Ayala 2008, pagg. 115-116, 137.
  29. ^ Bolzoni e Santolini, pag. 125.
  30. ^ Maria Falcone, pagg. 102-104.
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  32. ^ Bolzoni e Santolini, pagg. 115-116.
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Bibliografia

Articoli giornalistici

Televisione

  • In occasione del venticinquesimo anniversario della sentenza, Rai Storia ha mandato in onda, il 16 e 23 dicembre 2012, il documentario "Maxi + 25 - Anatomia di un processo", di Alessandro Chiappetta e Graziano Conversano.

Voci correlate

Collegamenti esterni