Formazione stellare: differenze tra le versioni

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Una nube interstellare rimane in uno stato di [[equilibrio dinamico]] finché l'energia cinetica del gas, che genera una pressione verso l'esterno, è equilibrata dall'[[energia potenziale]] della [[forza di gravità|gravità]] interna che tenderebbe a farla collassare. Dal punto di vista matematico questa condizione si esprime tramite il [[teorema del viriale]], che stabilisce che, per mantenere l'equilibrio, l'energia potenziale gravitazionale deve essere uguale al doppio dell'energia termica interna.<ref>{{cita libro | autore= K. Sun | anno=2006 | titolo=Physics and chemistry of the interstellar medium | editore=University Science Books | id= ISBN 1891389467 | pagine=435&ndash;437}}</ref> La rottura di questo equilibrio a favore della massa determina il manifestarsi di instabilità che innescano il [[collasso gravitazionale]] della nube.<ref>{{cita libro | autore= E. Battaner | titolo=Astrophysical Fluid Dynamics | editore=Cambridge University Press | anno=1996 | id= ISBN 0521437474 | pagine=166&ndash;167 }}</ref> La massa limite oltre la quale la nube andrà incontro al collasso è detta [[Instabilità di Jeans#La massa di Jeans|massa di Jeans]], che è direttamente proporzionale alla temperatura ed inversamente proporzionale alla densità della nube:<ref name="stelle mass"/> quanto più bassa è la temperatura e quanto più alta la densità, tanto minore è la massa necessaria perché possa avvenire tale processo.<ref name="starform">{{cita web |url=http://www.cosmored.it/astrofisica/appunti_formazione.html |titolo=Formazione stellare |accesso=18-06-2010}}</ref> Per una densità di 100&nbsp;000 particelle al cm<sup>3</sup> il limite di Jeans è pari a una massa solare a una temperatura di 10 K.<ref name="stelle mass"/>
Una nube interstellare rimane in uno stato di [[equilibrio dinamico]] finché l'energia cinetica del gas, che genera una pressione verso l'esterno, è equilibrata dall'[[energia potenziale]] della [[forza di gravità|gravità]] interna che tenderebbe a farla collassare. Dal punto di vista matematico questa condizione si esprime tramite il [[teorema del viriale]], che stabilisce che, per mantenere l'equilibrio, l'energia potenziale gravitazionale deve essere uguale al doppio dell'energia termica interna.<ref>{{cita libro | autore= K. Sun | anno=2006 | titolo=Physics and chemistry of the interstellar medium | editore=University Science Books | id= ISBN 1891389467 | pagine=435&ndash;437}}</ref> La rottura di questo equilibrio a favore della massa determina il manifestarsi di instabilità che innescano il [[collasso gravitazionale]] della nube.<ref>{{cita libro | autore= E. Battaner | titolo=Astrophysical Fluid Dynamics | editore=Cambridge University Press | anno=1996 | id= ISBN 0521437474 | pagine=166&ndash;167 }}</ref> La massa limite oltre la quale la nube andrà incontro al collasso è detta [[Instabilità di Jeans#La massa di Jeans|massa di Jeans]], che è direttamente proporzionale alla temperatura ed inversamente proporzionale alla densità della nube:<ref name="stelle mass"/> quanto più bassa è la temperatura e quanto più alta la densità, tanto minore è la massa necessaria perché possa avvenire tale processo.<ref name="starform">{{cita web |url=http://www.cosmored.it/astrofisica/appunti_formazione.html |titolo=Formazione stellare |accesso=18-06-2010}}</ref> Per una densità di 100&nbsp;000 particelle al cm<sup>3</sup> il limite di Jeans è pari a una massa solare a una temperatura di 10 K.<ref name="stelle mass"/>


Il processo di condensazione di grandi masse a partire da locali addensamenti di materia all'interno della nube, dunque, può procedere solo se questi possiedono già una massa sufficientemente grande. Infatti, via via che le regioni più dense, avviate al collasso, inglobano materia, localmente si raggiungono masse di Jeans meno elevate, che portano quindi a una suddivisione della nube in porzioni gerarchicamente sempre più piccole, finché i frammenti non raggiungono una massa stellare. Questi frammenti, detti ''nuclei densi'', hanno dimensioni comprese tra 6000 e 60&nbsp;000 [[unità astronomica|UA]], densità dell'ordine di 10<sup>5</sup>–10<sup>6</sup> particelle per cm<sup>3</sup><ref>{{cita pubblicazione| url=http://adsabs.harvard.edu/abs/1994MNRAS.268..276W| accesso=8-08-2010|titolo=A Submillimetre Continuum Survey of Pre Protostellar Cores| autore= D. Ward-Thompson, P. F. Scott, R. E. Hills, P. Andre| rivista=[[Monthly Notices of the Royal Astronomical Society]] | volume= 268| numero= 1| data= maggio 1994| pagine= 276}}</ref> e contengono una quantità di materia variabile; l'intervallo di masse è assai ampio, ma le masse più piccole sono le più comuni. Questa distribuzione di masse coincide con la distribuzione delle masse stellari, tenendo tuttavia in conto che la massa della nube ammonta a circa il triplo della somma delle masse della stelle che da esse avranno origine; questo indica che appena un terzo della massa della nube darà effettivamente origine ad astri, mentre il resto si disperderà nel mezzo interstellare.<ref name="scienze star form"/>
Il processo di condensazione di grandi masse a partire da locali addensamenti di materia all'interno della nube, dunque, può procedere solo se questi possiedono già una massa sufficientemente grande. Infatti, via via che le regioni più dense, avviate al collasso, inglobano materia, localmente si raggiungono masse di Jeans meno elevate, che portano quindi a una suddivisione della nube in porzioni gerarchicamente sempre più piccole, finché i frammenti non raggiungono una massa stellare. Il processo di frammentazione è agevolato anche dal [[regime turbolento|moto turbolento]] delle particelle e dai [[campo magnetico|campi magnetici]] che si vengono a creare.<ref name="frag">{{cita conferenza | autore= R. Capuzzo-Dolcetta, C. Chiosi, A. di Fazio | data= 5-11 giugno 1989 | titolo= Physical processes in fragmentation and star formation| conferenza= Proceedings of the Workshop| organizzazione= CNR, Universita di Roma I, Osservatorio Astronomico di Roma, Osservatorio Astrofisico di Arcetri | altri= | edizione= | editore= Kluwer Academic Publishers | città= Roma| pagine= 488| url= http://adsabs.harvard.edu/abs/1990ASSL..162.....C| formato= | accesso= 15-08-2010| doi= | id= }}</ref> I frammenti, detti ''nuclei densi'', hanno dimensioni comprese tra 6000 e 60&nbsp;000 [[unità astronomica|UA]], densità dell'ordine di 10<sup>5</sup>–10<sup>6</sup> particelle per cm<sup>3</sup><ref>{{cita pubblicazione| url=http://adsabs.harvard.edu/abs/1994MNRAS.268..276W| accesso=8-08-2010|titolo=A Submillimetre Continuum Survey of Pre Protostellar Cores| autore= D. Ward-Thompson, P. F. Scott, R. E. Hills, P. Andre| rivista=[[Monthly Notices of the Royal Astronomical Society]] | volume= 268| numero= 1| data= maggio 1994| pagine= 276}}</ref> e contengono una quantità di materia variabile; l'intervallo di masse è assai ampio, ma le masse più piccole sono le più comuni. Questa distribuzione di masse coincide con la distribuzione delle masse stellari, tenendo tuttavia in conto che la massa della nube ammonta a circa il triplo della somma delle masse della stelle che da esse avranno origine; questo indica che appena un terzo della massa della nube darà effettivamente origine ad astri, mentre il resto si disperderà nel mezzo interstellare.<ref name="scienze star form"/>


=== La protostella ===
=== La protostella ===

Versione delle 11:22, 15 ago 2010

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Le colonne di polvere note come Pilastri della Creazione (visti nel visibile dal telescopio Hubble - HST -) nella Nebulosa Aquila, dove sono attivi diversi processi di formazione stellare.

La locuzione formazione stellare identifica il processo e la disciplina che studia le modalità mediante le quali ha origine una stella. Quale branca dell'astronomia, la formazione stellare studia anche le caratteristiche del mezzo interstellare e delle nubi interstellari, in quanto precursori, così come gli oggetti stellari giovani e il fenomeno della formazione planetaria in quanto immediati prodotti.

Nonostante le idee che ne stanno alla base risalissero già all'epoca della rivoluzione scientifica, lo studio della formazione stellare nella sua forma attuale ha inizio solamente agli inizi del XX secolo, grazie ai numerosi progressi che l'astrofisica teorica compì all'epoca.[1] L'avvento dell'osservazione a più lunghezze d'onda, soprattutto nell'infrarosso, diede i contributi più sostanziali per comprendere i meccanismi che stanno alla base della genesi di una nuova stella.[2]

Il modello che attualmente gode di maggior credito presso la comunità scientifica, detto modello standard,[3] prevede che una stella nasca a partire dal collasso gravitazionale delle porzioni più dense (nuclei) di una nube molecolare e dal successivo accrescimento dell'embrione stellare, originatosi dal collasso, a partire dai materiali presenti della nube.[4] Tale processo ha una durata che può variare tra alcune centinaia di migliaia e alcuni milioni di anni, a seconda del tasso di accrescimento e della massa che la stella nascitura riesce ad accumulare;[4] si ritiene che una stella simile al Sole impieghi all'incirca un centinaio di milioni di anni per formarsi completamente,[5] mentre per le stelle più massicce il tempo è notevolmente inferiore, nell'ordine dei 100 000 anni.[4] Il modello spiega bene le modalità che conducono alla nascita delle singole stelle di massa piccola e media (tra 0,08 e 10 volte la massa solare) e trova riscontro anche sulla funzione di massa iniziale; risulta più lacunoso invece per quanto riguarda la formazione di sistemi e ammassi stellari e delle stelle massicce. Per tale ragione sono stati sviluppati dei modelli complementari che includono gli effetti delle interazioni tra gli embrioni stellari e l'ambiente in cui si formano ed eventuali altri embrioni nelle vicinanze, importanti ai fini delle stesse dinamiche interne dei sistemi e soprattutto della massa che le stelle nasciture riusciranno a raggiungere.[3]

Le fasi successive della vita della stella, a partire dalla sequenza principale, sono di competenza dell'evoluzione stellare.

Cenni storici

Lo studio della formazione stellare, nella sua forma moderna, è databile al XIX secolo, anche se le idee che ne stanno alla base affondano le loro radici nel periodo rinascimentale, quando, poste le basi per la rivoluzione scientifica, fu messa in discussione la visione geocentrica del cosmo a vantaggio di quella eliocentrica; grazie al contributo di grandi personalità come Copernico e Keplero e, più tardi, Galileo, lo studio dell'universo divenne materia di studio non più teologica ma scientifica.

Le teorie sulla formazione delle stelle vedono il loro primo abbozzo nelle ipotesi formulate per spiegare la nascita del sistema solare.

Pierre-Simon Laplace, che postulò l'ipotesi della nebulosa per spiegare la formazione del sistema solare.

Cartesio nel 1644 propose una teoria "scientifica" basata sull'ipotesi della presenza di vortici primordiali di materia in contrazione caratterizzati da masse e dimensioni differenti; da uno dei più grandi ebbe origine il Sole, mentre i pianeti si formarono dai vortici più piccoli che a causa della rotazione globale si misero in orbita intorno al Sole:[6] si trattava dell'abbozzo di quella che sarà la cosiddetta ipotesi della nebulosa, formulata nel 1734 da Emanuel Swedenborg[7] e successivamente ripresa da Kant (1755) e perfezionata da Laplace (1796), il cui principio sta tutt'oggi, seppur con successive migliorie, alla base del modello standard della formazione stellare.[8] Tale teoria suggerisce che il Sole e i pianeti che lo orbitano abbiano tratto origine tutti da una stessa nebulosa primordiale, la nebulosa solare. La formazione del sistema avrebbe avuto inizio dalla contrazione della nebulosa, che avrebbe determinato un aumento della velocità di rotazione, facendo sì che la nebulosa assumesse un aspetto discoidale con un maggiore addensamento di materia in corrispondenza del suo centro, da cui sarebbe nato il proto-Sole. Il resto della materia circumsolare si sarebbe dapprima condensato in anelli, da cui avrebbero avuto origine i pianeti.[8]

Sebbene abbia goduto di gran credito nel XIX secolo, la teoria di Kant-Laplace non riusciva a spiegare alcune particolarità note, prima fra tutte la distribuzione del momento angolare tra Sole e pianeti: i pianeti infatti detengono il 99% del momento angolare, fenomeno inspiegabile tramite il semplice modello della nebulosa.[8] Per questa ragione tale modello è stato largamente accantonato all'inizio del XX secolo. La caduta del modello di Laplace ha stimolato gli astronomi a ricercare delle valide alternative; si trattava però spesso di modelli teorici che non trovavano alcun riscontro osservativo.[8]

Un contributo importante alla comprensione di cosa desse inizio alla formazione di una stella fu dato dall'astrofisico britannico James Jeans, che agli inizi del XX secolo sviluppò lo scheletro di quello che in seguito sarà definito modello standard della formazione stellare.[1] Jeans ipotizzò che all'interno di una vasta nube di gas interstellare la gravità fosse perfettamente bilanciata dalla pressione generata dal calore interno della nube, ma scoprì che si trattava di un equilibrio assai instabile, tant'è che facilmente questo equilibrio poteva rompersi a favore della gravità, facendo collassare la nube e dando inizio alla formazione di una stella.[9]

Verso la metà del XX secolo tuttavia si ebbe una ripresa delle idee di fondo del modello laplaciano, confermate anche dai dati osservativi e sperimentali. Negli anni quaranta furono individuate nelle nebulose oscure delle costellazioni del Toro e dell'Auriga delle stelle con caratteristiche particolari: erano di un tipo spettrale caratteristico delle stelle più fredde e meno massicce, manifestavano nei loro spettri righe di emissione, avevano una notevole variabilità[10] e possedevano dei rapporti ben visibili con delle formazioni nebulari.[11] Sebbene la loro natura non fosse stata ancora pienamente compresa, la scoperta condusse ad un incremento delle campagne osservative. Il fatto che si trattasse di oggetti estremamente giovani fu suggerito dall'astronomo sovietico Viktor Ambarcumjan verso la fine degli anni quaranta, ma fu necessario attendere fino agli anni sessanta prima che la teoria fosse accettata e confermata dai dati empirici.

Globuli di Bok in NGC 281 ripresi dal telescopio spaziale Hubble.

L'astronomo Bart Bok ipotizzò negli anni quaranta che la nascita delle stelle in atto nella nostra epoca avvenisse, celata alla nostra vista, all'interno di dense nubi oscure di gas e polveri. Questi agglomerati prendono il nome, in suo onore, di globuli di Bok.[12] La conferma dell'ipotesi di Bok giunse solo nel 1990, quando i telescopi infrarossi penetrarono la coltre di polvere dei globuli di Bok rivelando al loro interno degli oggetti stellari giovani.[13][14][15]

Ed è stato proprio l'avvento dell'osservazione infrarossa, negli anni sessanta, a incentivare lo studio della formazione stellare: Mendoza, nel 1966,[2][16] scoprì che alcune stelle del tipo T Tauri possedevano un importante eccesso di emissione infrarossa, difficilmente imputabile solamente all'estinzione (l'assorbimento della luce da parte della materia posta davanti alla sorgente luminosa che si manifesta con un arrossamento della stessa) del mezzo interstellare; tale fenomeno fu interpretato ipotizzando la presenza di strutture di polveri dense attorno a tali astri in grado di assorbire la radiazione delle stelle centrali e di riemetterla sotto forma di radiazione infrarossa. Tale ipotesi fu confermata tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila grazie all'osservazione tramite strumentazioni innovative, come il ben noto telescopio spaziale Hubble, il telescopio spaziale Spitzer[17] e il Very Large Telescope con le sue ottiche adattive, di densi dischi di materia attorno a stelle in fase di formazione o appena formate; l'interferometria ottica ha inoltre permesso di individuarne numerosi esempi e di visualizzare altre strutture legate a stelle in fasi precoci della loro esistenza, quali getti e flussi molecolari.[18]

Dove nascono le stelle

Lo stesso argomento in dettaglio: Nube interstellare e Nube molecolare.

Una comune galassia del tipo spiraliforme, come la Via Lattea, contiene stelle e residui stellari interspersi in un diffuso mezzo interstellare, formato da gas e polveri, disposto lungo i bracci della spirale, ove il moto di rotazione della galassia ha convogliato buona parte della materia che lo costituisce.[19] All'interno di una galassia ellittica la quantità di materia del mezzo interstellare è ben più esigua;[20] conseguentemente, vien meno la possibilità che si formino strutture nebulari diffuse, come invece accade nelle galassie a spirale, a meno che essa non interagisca con altre galassie acquisendone materiale.[21]

Il mezzo interstellare è inizialmente rarefatto, con una densità compresa tra 0,1 e 1 particella per cm3, e normalmente composto per circa il 70% della sua massa da idrogeno, mentre la restante percentuale è in prevalenza elio con tracce di elementi più pesanti, detti genericamente metalli. La dispersione di energia, che si traduce in un'emissione di radiazione nell'infrarosso lontano (meccanismo questo assai efficiente) e dunque in un raffreddamento della nube,[3] fa sì che la materia del mezzo si addensi in nubi distinte, dette genericamente nubi interstellari, che si suddividono, a seconda dello stato di ionizzazione dell'idrogeno, in diverse classi.[22]

Un dettaglio della Galassia Vortice (in un'immagine ripresa dal telescopio Hubble) che mostra la disposizione lungo i bracci di spirale delle regioni HII (regioni luminose in rosato) cui sono inframezzate le nubi oscure (interruzioni scure che delineano la spirale).

Le nubi costituite in prevalenza da idrogeno neutro monoatomico sono dette regioni H I (acca primo). Man mano che il raffreddamento prosegue, le nubi divengono sempre più dense. Quando la densità raggiunge le 1000 particelle al cm3, la nube diviene opaca alla radiazione ultravioletta galattica; tali condizioni permettono agli atomi di idrogeno di combinarsi in molecole biatomiche (H2), tramite meccanismi che vedono coinvolte le polveri in qualità di catalizzatori:[3] si ha così una nube molecolare,[23] al cui interno possono trovarsi anche complesse molecole organiche.[24] Se la quantità di polveri all'interno della nube è tale da bloccare la radiazione luminosa visibile proveniente dalle regioni retrostanti, essa appare come una nebulosa oscura;[25] Tra le nubi oscure si annoverano i globuli di Bok, "piccoli" aggregati di idrogeno molecolare e polveri che si possono formare indipendentemente o in associazione al collasso di nubi molecolari più vaste.[13][26] I globuli di Bok si presentano spesso come delle sagome scure contrastanti con il chiarore diffuso dello sfondo costituito da una nebulosa a emissione o dalle stelle di fondo.[12] Si pensa che un tipico globulo di Bok contenga circa 10 masse solari di materia in una regione di circa un anno luce di diametro, e che essi diano luogo alla formazione di sistemi stellari doppi o multipli.[13][14][15] Oltre la metà dei globuli di Bok noti contengono al loro interno almeno un oggetto stellare giovane.[27] Le nubi molecolari e oscure costituiscono il luogo d'elezione per la nascita di nuove stelle.[23]

I maggiori esemplari di queste strutture, le nubi molecolari giganti, possiedono densità tipiche dell'ordine delle 100 particelle al cm3, diametri di oltre 100 anni luce, masse superiori a 6 milioni di masse solari (M)[28] ed una temperatura media, all'interno, di 10 K. Si stima che circa la metà della massa complessiva del mezzo interstellare della nostra Galassia sia contenuta in queste formazioni,[29] suddivisa tra circa 6000 nubi molecolari ciascuna con più di 100 000 masse solari di materia al proprio interno.[30] Alcune nubi invece sono caratterizzate da densità tali (~10 000 atomi al cm3) da essere opache anche all'infrarosso, che normalmente è in grado di penetrare le regioni ricche di polveri. Tali nubi, dette nubi oscure all'infrarosso,[3] contengono importanti quantità di materia (da 100 a 100 000 M) e costituiscono l'anello di congiunzione evolutivo tra la nube e i nuclei densi che si formano per il collasso e la frammentazione della nube.[3]

L'eventuale presenza di giovani stelle massicce, che con la loro intensa emissione ultravioletta ionizzano l'idrogeno ad H+, trasforma la nube in una regione H II (acca secondo).[31] Numerose sono le regioni H II degne di nota: tra esse, la Nebulosa della Carena, la Nebulosa Aquila e la famosa Nebulosa di Orione, facente parte di un esteso complesso molecolare, che rappresenta la regione più prossima al sistema solare (1300 a.l.) al cui interno si stia verificando la formazione di stelle massicce.[32]

Tra le regioni di formazione stellare in generale le più vicine in assoluto al sistema solare sono il complesso della nube di ρ Ophiuchi (400–450 a.l.)[33] e la Nube del Toro-Auriga (460–470 a.l.),[34] al cui interno stanno invece avvenendo processi di formazione che riguardano stelle di massa piccola e media, come pure nella ben nota e studiata Nube di Perseo, tuttavia ben più distante delle altre due (980 a.l.).[35]

Si ipotizza che le nubi da cui nascono le stelle facciano parte del ciclo del mezzo interstellare, secondo cui i gas e le polveri passano dalle nubi alle stelle e, al termine della loro esistenza, tornino a far parte delle nubi, costituendo la materia prima per una successiva generazione di stelle.[3]

Scale temporali

Durante il processo di formazione stellare sono prese in considerazione due diverse scale temporali, che si contrappongono. La prima è il tempo di Kelvin-Helmholtz (scala temporale termica, ), che corrisponde al tempo necessario perché l'energia potenziale gravitazionale sia convertita in energia termica e la fusione nucleare possa avere inizio. Esso è inversamente proporzionale alla massa, dal momento che, quanto più essa è maggiore, tanto più rapidi sono il collasso e il riscaldamento.[4] Rapportando i valori di massa (M), raggio (R) e luminosità (L) con i medesimi parametri riferiti al Sole (massa solare M, raggio solare R, luminosità solare L), il suo valore è stimabile in:

Per una stella di massa solare equivale a circa 20 milioni di anni, ma per un astro di 50 masse solari si riduce ad un centinaio di migliaia di anni.[4]

La seconda scala temporale è rappresentata dal tempo di accrescimento, ovvero il tempo necessario perché, a un dato tasso di accrescimento, si accumuli una certa massa; esso è direttamente proporzionale alla massa stessa: è intuitivo, infatti, che sia necessario più tempo per raccogliere quantità di materia maggiori. Il tempo di accrescimento è inoltre inversamente proporzionale alla temperatura del gas, dal momento che l'energia cinetica, e di conseguenza la pressione, aumentano all'incrementare della temperatura, rallentando dunque l'accumulo di materia.[4]

Modello standard della formazione stellare

Il collasso della nube

Dettaglio della nebulosa della Carena che mostra colonne di idrogeno e polveri che subiscono un processo di fotoevaporazione a causa della radiazione ultravioletta delle giovani stelle calde nate nelle loro vicinanze. Vedi dettaglio

Una nube interstellare rimane in uno stato di equilibrio dinamico finché l'energia cinetica del gas, che genera una pressione verso l'esterno, è equilibrata dall'energia potenziale della gravità interna che tenderebbe a farla collassare. Dal punto di vista matematico questa condizione si esprime tramite il teorema del viriale, che stabilisce che, per mantenere l'equilibrio, l'energia potenziale gravitazionale deve essere uguale al doppio dell'energia termica interna.[36] La rottura di questo equilibrio a favore della massa determina il manifestarsi di instabilità che innescano il collasso gravitazionale della nube.[37] La massa limite oltre la quale la nube andrà incontro al collasso è detta massa di Jeans, che è direttamente proporzionale alla temperatura ed inversamente proporzionale alla densità della nube:[4] quanto più bassa è la temperatura e quanto più alta la densità, tanto minore è la massa necessaria perché possa avvenire tale processo.[38] Per una densità di 100 000 particelle al cm3 il limite di Jeans è pari a una massa solare a una temperatura di 10 K.[4]

Il processo di condensazione di grandi masse a partire da locali addensamenti di materia all'interno della nube, dunque, può procedere solo se questi possiedono già una massa sufficientemente grande. Infatti, via via che le regioni più dense, avviate al collasso, inglobano materia, localmente si raggiungono masse di Jeans meno elevate, che portano quindi a una suddivisione della nube in porzioni gerarchicamente sempre più piccole, finché i frammenti non raggiungono una massa stellare. Il processo di frammentazione è agevolato anche dal moto turbolento delle particelle e dai campi magnetici che si vengono a creare.[39] I frammenti, detti nuclei densi, hanno dimensioni comprese tra 6000 e 60 000 UA, densità dell'ordine di 105–106 particelle per cm3[40] e contengono una quantità di materia variabile; l'intervallo di masse è assai ampio, ma le masse più piccole sono le più comuni. Questa distribuzione di masse coincide con la distribuzione delle masse stellari, tenendo tuttavia in conto che la massa della nube ammonta a circa il triplo della somma delle masse della stelle che da esse avranno origine; questo indica che appena un terzo della massa della nube darà effettivamente origine ad astri, mentre il resto si disperderà nel mezzo interstellare.[3]

La protostella

Lo stesso argomento in dettaglio: Protostella.
Schema che mostra come il gas collassante, che andrà a formare la protostella, disperda l'energia gravitazionale accumulata (vettori centripeti in nero) mediante l'irraggiamento (frecce ondulate in rosso).

I frammenti della nube, inizialmente in equilibrio, continuano a contrarsi lentamente per alcuni milioni di anni a temperatura costante fintantoché l'energia gravitazionale viene dissipata mediante l'irraggiamento di onde radio millimetriche.[4] Il manifestarsi di fenomeni di instabilità provocano un improvviso collasso del frammento, che porta ad un aumento della densità al centro fino a ~3 × 1010 molecole al cm3 e ad un'opacizzazione della nube alla sua stessa radiazione, che provoca un aumento della temperatura (da 10 a 60-100 K) ed un rallentamento del collasso.[4] Il riscaldamento dà luogo a un aumento della frequenza delle onde elettromagnetiche emesse: la nube ora irradia nell'infrarosso lontano, cui essa è trasparente; in questo modo la polvere media un secondo collasso della nube.[41] Si viene a creare a questo punto una configurazione in cui un nucleo centrale idrostatico attrae gravitazionalmente la materia diffusa nelle regioni esterne:[38] è il così detto First Hydrostatic Core (Primo Nucleo Idrostatico), che continua ad aumentare la sua temperatura in funzione del teorema del viriale e delle onde d'urto causate dal materiale in caduta libera.[42] Dopo questa fase di accrescimento dall'inviluppo, il nucleo inizia una fase di contrazione quasi statica.

Quando la temperatura del nucleo raggiunge circa i 2000 K, l'energia termica dissocia le molecole di H2 in atomi di idrogeno,[42] che subito dopo si ionizzano assieme agli atomi di elio. Questi processi assorbono l'energia liberata dalla contrazione, permettendole di proseguire per periodi di tempo comparabili col periodo del collasso a velocità di caduta libera.[43] Non appena la densità del materiale in caduta raggiunge il valore di 10−8g cm-3, la materia diviene sufficientemente trasparente da permettere alla luce di sfuggire. La combinazione di moti convettivi interni e dell'emissione di radiazioni permette all'embrione stellare di contrarre il proprio raggio.[42] Questa fase continua finché la temperatura dei gas è sufficiente a mantenere una pressione abbastanza elevata da evitare un ulteriore collasso; si raggiunge così un momentaneo equilibrio idrostatico. Quando l'oggetto così formato cessa questa prima fase di accrescimento prende il nome di protostella; l'embrione stellare permane in questa fase per alcune decine di migliaia di anni.[23]

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Rappresentazione artistica della protostella L1014; ben visibili sono il disco di accrescimento e i getti che si dipartono dai poli della protostella.

In seguito al collasso la protostella deve aumentare la propria massa accumulando gas; ha così inizio una seconda fase di accrescimento che va avanti ad un ritmo di circa 10−6–10−5 M all'anno.[4] L'accrescimento del materiale verso la protostella prosegue grazie alla mediazione di un disco di accrescimento, allineato con l'equatore della protostella, che si forma nel momento in cui il moto di rotazione della materia in caduta (inizialmente uguale a quello della nube) viene amplificato a causa della conservazione del momento angolare; tale formazione ha anche il compito di dissipare l'eccesso di momento angolare, che altrimenti causerebbe la distruzione della protostella.[4] In questa fase si formano inoltre dei flussi molecolari, frutto forse dell'interazione del disco con le linee di forza del campo magnetico stellare, che si dipartono dai poli della protostella, anch'essi probabilmente con la funzione di disperdere l'eccesso di momento angolare.[4] L'urto di questi getti con il gas dell'inviluppo circostante può generare delle particolari nebulose a emissione note come oggetti di Herbig-Haro.[44]

L'aggiunta di massa determina un incremento della pressione nelle regioni centrali della protostella, che si riflette in un aumento della temperatura; quando questa raggiunge un valore di almeno un milione di kelvin, ha inizio la fusione del deuterio, un isotopo dell'idrogeno; la pressione di radiazione che ne risulta rallenta (ma non arresta) il collasso, mentre prosegue la caduta di materiale dalle regioni interne del disco di accrescimento sulla superficie della protostella.[4] La velocità di accrescimento non è costante: infatti la futura stella raggiunge in tempi rapidi quella che sarà la metà della sua massa definitiva, mentre impiega oltre dieci volte più tempo per accumulare la restante massa.[3]

La fase di accrescimento è la parte cruciale del processo di formazione di una stella, dal momento che la quantità di materia che l'astro nascente riesce ad accumulare condizionerà irreversibilmente il suo destino successivo: infatti, se la protostella accumula una massa compresa tra 0,08[45] e 8–10 M evolve successivamente in una stella pre-sequenza principale; se invece la massa è nettamente superiore, la protostella raggiunge immediatamente la sequenza principale. La massa determina inoltre la durata della vita di una stella: le stelle meno massicce vivono molto più a lungo delle stelle più pesanti: si va dal bilione di anni delle stelle di classe M V[46] fino ai pochi milioni di anni delle massicce stelle di classe O.[47]
Se l'oggetto non riesce ad accumulare una massa di almeno 0,08 M la temperatura del nucleo permette la fusione del deuterio, ma si rivela insufficiente all'innesco delle reazioni di fusione dell'idrogeno pròzio; questa "stella mancata", dopo una fase di stabilizzazione, diviene quella che gli astronomi definiscono nana bruna.[48]

La fase di pre-sequenza principale

Lo stesso argomento in dettaglio: Stella pre-sequenza principale.
T Tauri, prototipo dell'omonima classe di stelle pre-sequenza principale.

Il debole vento emesso dalla protostella all'ignizione della fusione del deuterio determina la dispersione di gran parte del dell'involucro che la circonda; la protostella passa alla fase di stella pre-sequenza principale (stella PMS), la cui fonte di energia è ancora il collasso gravitazionale, e non la fusione dell'idrogeno come nelle stelle di sequenza principale. Si riconoscono due principali classi di stelle PMS: le variabili Orione, che hanno una massa compresa tra 0,08 e 2 M, e le stelle Ae/Be di Herbig, con una massa compresa tra 2 e 8 M. Non si conoscono stelle PMS più massicce di 8 M, dal momento che quando entrano in gioco delle masse molto elevate l'embrione stellare raggiunge in maniera estremamente rapida le condizioni necessarie all'innesco della fusione dell'idrogeno e passa direttamente alla sequenza principale.[4]

Le variabili Orione si suddividono a loro volta in stelle T Tauri, stelle EX Lupi (EXors) e stelle FU Orionis (FUors). Si tratta di astri simili al Sole per massa e temperatura, ma alcune volte più grandi in termini di diametro e, per questa ragione, più luminosi.[49] Sono caratterizzate da alte velocità di rotazione, tipiche delle stelle giovani,[50][51] e possiedono un'intensa attività magnetica,[52] oltre che getti bipolari.[53] Le FUor e le EXor rappresentano delle categorie particolari di T Tauri,[54] caratterizzate da cambiamenti repentini e cospicui della propria luminosità e del tipo spettrale;[54] le due classi differiscono tra loro per tipo spettrale: le FUor sono, in stato di quiescenza, di classe F o G; le EXor di classe K o M.[54]

Le stelle Ae/Be di Herbig, appartenenti alle classi A e B, sono caratterizzate da spettri in cui dominano le linee di emissione dell'idrogeno (serie di Balmer) e del calcio del disco residuo dal processo di accrescimento.[55]

La traccia di Hayashi di una stella simile al sole.
1. Collasso della protostella: interno totalmente convettivo.
2. Crescita della temperatura effettiva: innesco delle prime reazioni nucleari, primo abbozzo del nucleo radiativo (ingresso nella traccia di Henyey).
3. Innesco della fusione dell'idrogeno: nucleo totalmente radiativo (ingresso nella ZAMS).

La stella PMS segue un caratteristico tragitto sul diagramma H-R, noto come traccia di Hayashi, durante il quale continua a contrarsi.[56] La contrazione prosegue fino al raggiungimento del limite di Hayashi, dopodiché prosegue a temperatura costante in un tempo di Kelvin-Helmholtz superiore al tempo di accrescimento;[4] in seguito le stelle con meno di 0,5 masse solari raggiungono la sequenza principale. Stelle più massicce, al termine della traccia di Hayashi, subiscono invece un lento collasso in una condizione prossima all'equilibrio idrostatico, seguendo a questo punto un percorso nel diagramma H-R detto traccia di Henyey.[57]

Avvio della fusione dell'idrogeno e ZAMS

Lo stesso argomento in dettaglio: Sequenza principale.

La fase di collasso ha termine quando finalmente, nel nucleo della stella, si raggiungono i valori di temperatura e pressione necessari per l'innesco della fusione del pròzio, l'isotopo più comune dell'idrogeno (11H); quando la fusione dell'idrogeno diviene il processo di produzione energetica predominante e l'eccesso di energia potenziale accumulata con la contrazione viene dispersa,[58] la stella raggiunge la sequenza principale standard del diagramma H-R e l'intenso vento stellare generato a seguito dell'innesco delle reazioni nucleari spazza via i materiali residui, rivelando alla vista la presenza della stella neoformata. Gli astronomi si riferiscono a questo stadio con l'acronimo ZAMS, che sta per Zero-Age Main Sequence, sequenza principale di età zero.[59] La curva della ZAMS può essere calcolata mediante simulazioni computerizzate delle proprietà che le stelle avevano al momento del loro ingresso in questa fase.[60]

Le successive trasformazioni della stella sono studiate dall'evoluzione stellare.

Limiti del modello

La regione di formazione stellare W5 vista nell'infrarosso. Al suo interno le stelle massicce (i punti azzurri) hanno scavato con i loro venti una cavità, lungo il cui margine sono state individuate diverse protostelle, aventi la medesima età.[3]

Il modello standard della formazione stellare è una teoria coerente e confermata dai dati osservativi; tuttavia, presenta alcune limitazioni. Innanzi tutto, non spiega che cosa inneschi il collasso della nube. Inoltre considera le stelle in formazione solo come entità singole, non prendendo in considerazione le interazioni che si instaurano tra i singoli astri in formazione all'interno di un gruppo compatto o la formazione dei sistemi multipli, fenomeno che anzi si verifica nella maggior parte dei casi. Infine, non spiega come si formino le stelle estremamente massicce: la teoria standard è infatti funzionale per spiegare la formazione di stelle fino a 10 M; masse superiori implicano il coinvolgimento di forze che limiterebbero ulteriormente il collasso, arrestando la crescita della stella a questo valore di massa.[3]

Che cosa innesca il collasso della nube

Immagine del telescopio Hubble che mostra le due galassie interagenti Arp 147; l'anello blu indica delle regioni di intensissima formazione stellare (starburst), innescata dal passaggio attraverso di essa della galassia sulla sinistra. La macchia rossastra nella parte inferiore dell'anello indica quel che resta dell'originario nucleo galattico.

Pur esplicando in modo chiaro le modalità attraverso cui avviene, il modello standard non spiega che cosa dia inizio al collasso. Non sempre la formazione di una stella inizia in maniera del tutto spontanea, a causa delle turbolenze interne del gas, oppure per via della diminuzione della pressione interna del gas a causa del raffreddamento o della dissipazione dei campi magnetici.[3] Anzi, più spesso, come dimostra la maggioranza dei dati osservativi, è necessario l'intervento di qualche fattore che dall'esterno perturbi la nube, causando le instabilità locali e promuovendo dunque il collasso. Numerosi sono gli esempi di stelle, per lo più appartenenti ad ampie associazioni stellari, le cui caratteristiche mostrano che si sono formate quasi contemporaneamente: dal momento che un simultaneo collasso di nuclei densi indipendenti sarebbe un'incredibile coincidenza, è più ragionevole pensare che questo sia la conseguenza di una forza applicata dall'esterno che abbia agito sulla nube causando l'innesco del collasso e la formazione di un folto gruppo di stelle.[3] Tuttavia non sono rari gli esempi di collassi spontanei: alcuni esempi di questo sono stati individuati tramite l'osservazione infrarossa in diversi nuclei densi isolati, relativamente quiescenti, posti in nubi vicine tra loro; alcuni di essi possiedono tracce di lenti moti centripeti interni e anche delle sorgenti infrarosse, come il globulo di Bok Barnard 355,[61] segno che potrebbero essere avviati alla formazione di nuove stelle.[3]

Diversi possono essere gli eventi esterni in grado di promuovere il collasso di una nube: le onde d'urto generate dallo scontro di due nubi molecolari o dall'esplosione nelle vicinanze di una supernova;[62] le forze di marea che si instaurano a seguito dell'interazione tra due galassie, che innescano una violenta attività di formazione stellare definita starburst [63] (all'origine, secondo alcuni astronomi, degli ammassi globulari[64]); gli energici super-flare di un'altra vicina stella in uno stadio più avanzato di formazione[65] oppure la pressione del vento di una stella massiccia vicina o la sua intensa emissione ultravioletta, che può regolare i processi di formazione stellare all'interno delle regioni H II (schema sottostante).[4][23]

Lo schema mostra come la radiazione ultravioletta emessa da una stella massiccia possa avere un ruolo nell'innesco delle reazioni di formazione stellare all'interno di una nube molecolare/regione H II.
Lo schema mostra come la radiazione ultravioletta emessa da una stella massiccia possa avere un ruolo nell'innesco delle reazioni di formazione stellare all'interno di una nube molecolare/regione H II.

Si ipotizza inoltre che la presenza di un buco nero supermassiccio al centro di una galassia possa avere un ruolo regolatore nei confronti del tasso di formazione stellare nel nucleo galattico:[66] infatti, un buco nero che sta accrescendo materia ad alti regimi può diventare attivo ed emettere un forte getto relativistico collimato, in grado di limitare la successiva formazione di stelle. Tuttavia, l'emissione radio attorno ai getti, così come l'eventuale bassa intensità del getto stesso, può avere un effetto esattamente opposto, innescando la formazione di stelle qualora si trovi a collidere con una nube che gli transita vicino.[67] A rendere più complesso questo quadro concorrono inoltre gli effetti della turbolenza, dei flussi microscopici, della rotazione, dei campi magnetici e della geometria della nube. Sia la rotazione che i campi magnetici possono ostacolare il collasso della nube,[68][69] mentre la turbolenza favorisce la frammentazione, e su piccole scale promuove il collasso.[70]

Interazioni

Immagine infrarossa ripresa dal telescopio Spitzer della Nebulosa Cono e di Monoceros OB1. La distribuzione delle sorgenti infrarosse – una ogni ~ 0,3 anni luce – è in accordo con la teoria dei nuclei turbolenti. Le immagini ad alta risoluzione hanno mostrato che alcune delle presunte "protostelle" in realtà erano a loro volta dei gruppi estremamente compatti di protostelle (decine di oggetti nello spazio di 0,1 a.l.[4]), segno che su piccola scala la teoria dell'accrescimento competitivo risulta valida.[4]

Eccettuando la lacuna appena discussa, il modello standard descrive bene ciò che accade in nuclei isolati in cui sta avvenendo la formazione di una stella. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle stelle non nasce in solitaria, ma in folti ammassi stellari, e il modello non spiega l'influenza che tale ambiente ha sulle stelle nascenti. Inoltre, rispetto a quanto ritenuto in passato, la formazione stellare è un evento piuttosto violento: infatti l'osservazione infrarossa ha mostrato che la formazione di una stella interferisce negativamente sulla nascita degli astri adiacenti, dal momento che la radiazione e il vento prodotti nelle ultime fasi della formazione possono limitare la quantità di gas che può accrescere liberamente sulle vicine protostelle.[3]

Per sopperire a tale lacuna, sono state sviluppate due teorie.[3]

La prima, detta teoria dell'accrescimento competitivo, si concentra sulle interazioni tra nuclei densi adiacenti. La versione estremizzata di questa teoria prevede la formazione di numerose piccole protostelle, che si muovono rapidamente nella nube entrando in competizione tra loro per catturare quanto più gas possibile. Alcune protostelle tendono a prevalere sulle altre, divenendo le più massicce;[4] altre potrebbero persino essere espulse dall'ammasso, libere di muoversi all'interno della galassia.[3]

La concorrente, la teoria del nucleo turbolento, privilegia invece il ruolo della turbolenza dei gas: la distribuzione delle masse stellari rispecchia, infatti, lo spettro dei moti turbolenti all'interno della nube, piuttosto che una successiva competizione per l'accumulo di massa. Le osservazioni infatti sembrano favorire questo modello, anche se la teoria dell'accrescimento competitivo potrebbe sussistere pienamente in regioni in cui la densità stellare è particolarmente elevata (vedi immagine al lato).[4]

Formazione dei sistemi multipli

Lo stesso argomento in dettaglio: Sistema stellare.
Un super-flare emesso da XZ Tauri, un sistema doppio[71] o forse triplo[72] costituito da stelle T Tauri.

Si è visto che gran parte delle stelle si formano inizialmente come sistemi multipli,[73] poiché solo una nube di gas di numerose masse solari può diventare sufficientemente densa da collassare sotto la sua stessa gravità; tuttavia, una nube di questo genere non collassa in una stella singola, ma, come si è visto, si frammenta diversi nuclei densi a seconda della massa complessiva.[74]

Anche se è possibile che alcuni sistemi stellari multipli (in particolare le binarie a lungo periodo[75]) si siano formati dalla cattura gravitazionale reciproca tra due o più stelle singole nate indipendentemente, tuttavia, data la bassissima probabilità di un simile evento (sarebbero comunque necessari almeno tre oggetti anche per la formazione di un sistema binario,[76] dal momento che in base alla legge della conservazione dell'energia serve comunque un terzo elemento che assorba l'energia cinetica in eccesso affinché due stelle possano legarsi reciprocamente) e l'elevato numero di stelle binarie note, appare evidente che quello della cattura gravitazionale non sia il principale meccanismo di formazione di un sistema multiplo. Anzi, l'osservazione di sistemi multipli costituiti da stelle pre-sequenza principale dà credito all'ipotesi secondo cui simili sistemi esistano già durante la fase di formazione.

Il modello che dunque ne esplica in modo accettabile l'esistenza suggerisce che questi si siano creati dalla suddivisione della nebulosa pre-stellare in più frammenti orbitanti attorno a un comune centro di massa,[75] i quali collassano a formare le componenti del futuro sistema binario o multiplo.[77][78]

Formazione degli ammassi stellari

Lo stesso argomento in dettaglio: Ammasso aperto.

La formazione di un ammasso aperto inizia col collasso di una parte di una nube molecolare gigante, la quale si frammenta in numerosi piccoli bozzoli, processo questo che può durare alcune migliaia di anni. Nella nostra Galassia, il tasso di formazione degli ammassi aperti si stima che sia attorno ad uno ogni poche migliaia di anni.[79]

Una piccola porzione della Nebulosa Tarantola, una regione H II gigante nella Grande Nube di Magellano. È visibile il superammasso R136.

Una volta che il processo di formazione è iniziato, le stelle più calde e massicce (di classe spettrale O e B) emetteranno una grande quantità di radiazione ultravioletta, la quale ionizza rapidamente il gas circostante della nube molecolare gigante, che diventa una regione HII. Il vento stellare delle stelle massicce e la pressione di radiazione iniziano a spingere via il gas non collassato; dopo alcuni milioni di anni, il nuovo ammasso sperimenta la prima esplosione di supernova,[80] che contribuisce ad espellere il gas residuo dal sistema. Di solito, meno del 10% del gas originario della nube collassa per formare le stelle dell'ammasso, prima di essere espulso.[79]

Un altro modo di vedere la formazione degli ammassi aperti considera una loro rapida formazione a seguito della contrazione della nube molecolare, cui segue una fase, non superiore ai tre milioni di anni, in cui le stelle più calde espellono a grande velocità le nubi di gas ionizzato. Dato che in questo caso solo il 30-40% del gas della nube collassa per formare le stelle, il processo di espulsione del gas residuo fa in modo che l'ammasso perda molte o tutte le sue componenti stellari potenziali.[81] Tutti gli ammassi perdono una notevole quantità di massa durante la loro prima giovinezza e molti si disgregano prima ancora di essersi formati del tutto. Le stelle giovani rilasciate dal loro ammasso natale diventano così parte della popolazione galattica diffusa, ossia quelle stelle prive di legami gravitazionali che si confondono fra le altre stelle della galassia. Poiché la gran parte delle stelle, se non tutte, quando si formano fanno parte di un ammasso, gli ammassi stessi vengono considerati come gli elementi fondamentali delle galassie; i violenti fenomeni di espulsione di gas che modellano e disgregano molti ammassi aperti alla loro nascita lasciano la loro impronta sulla morfologia e sulle dinamiche strutturali delle galassie.[82]

Spesso accade che due o più ammassi apparentemente distinti si siano formati nella stella nube molecolare: è il caso ad esempio di Hodge 301 e R136, nella Grande Nube di Magellano, che si sono formati dai gas della Nebulosa Tarantola; nella nostra Galassia invece si è scoperto, ripercorrendo indietro nel tempo i loro movimenti nello spazio, che due grandi ammassi aperti relativamente vicini al sistema solare, le Iadi e il Presepe, si sarebbero formati dalla stessa nube circa 600 milioni di anni fa.[83]

Talvolta due ammassi aperti formatisi nello stesso periodo possono formare ammassi doppi; l'esempio più noto nella Via Lattea è quello dell'Ammasso Doppio di Perseo, formato da h Persei e da χ Persei, ma sono noti un'altra decina di ammassi doppi.[84] Ne sono noti diversi anche nella Piccola Nube di Magellano e nella stessa Grande Nube, sebbene sia spesso più facile riconoscerli come realmente tali in galassie esterne, dato che la prospettiva può far apparire vicini due ammassi della nostra galassia quando invece non lo sono.

Formazione delle stelle massicce

Rappresentazione artistica di un disco circumstellare attorno ad una stella massiccia in formazione. Il disco si estende per circa 130 unità astronomiche ed ha una massa simile a quella della stella; le sue porzioni più interne sono prive di polveri, vaporizzate dall'intensa radiazione stellare.

Presa alla lettera, la teoria standard della formazione stellare sembra precludere l'esistenza delle stelle massicce (M>8 M), dal momento il rapido raggiungimento delle condizioni necessarie per innescare la fusione dell'idrogeno causerebbero l'immediato arresto della fase di accrescimento e una forte limitazione alla massa della futura stella.[4] Pertanto, si ritiene che nel caso delle stelle massicce al modello standard si aggiungano dei meccanismi supplementari, ancor'oggi in certa misura oggetto d'ipotesi, che consentano a questi oggetti di raggiungere le quantità di materia che le caratterizzano.

Per le stelle massicce il tempo di Kelvin-Helmholtz è notevolmente inferiore al tempo di accrescimento: di conseguenza, queste stelle non passano attraverso la fase di PMS, ma raggiungono direttamente la sequenza principale. L'intensa emissione elettromagnetica (in particolare di ultravioletti – UV –) che ne consegue porrebbe fine immediatamente alla fase di accrescimento, mantenendo dunque la massa della stella entro una decina di masse solari.[4] In passato si riteneva che questa pressione di radiazione fosse sufficiente ad arrestare l'accrescimento della protostella; di conseguenza, risultava impensabile la formazione di stelle di massa superiore ad una decina di masse solari.[85] Tuttavia, la scoperta di stelle aventi anche masse ben oltre le 100 M ha indotto gli astrofisici a formulare dei modelli che possano spiegarne la formazione.

Quest'immagine schematica mostra come la luminosità delle stelle massicce si oppone all'accrescimento: in questi oggetti, infatti, la fusione nucleare inizia prima che questa fase sia giunta al termine. I modelli prevedono che la radiazione ultravioletta, emessa dalla stella, allontani la polvere disponendola in un guscio che la assorbe e la riemette sotto forma di infrarossi; questo irraggiamento secondario frenerebbe il collasso impedendo alla stella di crescere. Supponendo però che la caduta della materia non sia omogenea in ogni direzione e che la radiazione possa sfuggire lungo un certo asse, il ruolo delle polveri è ridotto al minimo e l'accrescimento può proseguire fino a permettere l'accumulo di una grande massa.[4]

Fino ai primi anni ottanta si riteneva che un ruolo importante nella formazione di una stella massiccia fosse rivestito dalle polveri miste al gas della nube, che sembrerebbero svolgere una funzione di tampone tra l'irraggiamento della protostella massiccia ed il gas della nube. La radiazione UV disgrega le polveri nelle immediate vicinanze dell'astro o le confina a una certa distanza, sicché i granelli di polvere si accumulano andando a costituire un guscio la cui sorte dipende dalle caratteristiche chimico-fisiche delle polveri stesse. Se queste hanno un punto di sublimazione basso, la radiazione disgrega facilmente il guscio; l'irraggiamento non è però sufficientemente potente da contrastare la caduta della materia, sicché essa prosegue fino al termine dei materiali a disposizione. Viceversa, se la temperatura di sublimazione delle polveri è molto alta, il guscio assorbe la radiazione UV riemettendola nell'infrarosso. La pressione esercitata da questo irraggiamento secondario contrasta la caduta dei gas arrestando l'accrescimento.[4] Tuttavia, la scoperta che in media il punto di sublimazione delle polveri era piuttosto basso alimentò le suggestioni che potessero esistere stelle con masse addirittura di 1000 masse solari. Questo entusiasmo fu frenato dalla scoperta che le polveri erano costituite prevalentemente da grafite e silicati, che hanno un alto potere assorbente nei confronti della radiazione UV: di conseguenza, l'irraggiamento infrarosso secondario delle polveri avrebbe sempre prevalso sul collasso della nube, rendendo di fatto impossibile la formazione di una stella così massiccia. Alla fine degli anni novanta, un astrofisico giapponese ipotizzò che il collasso avvenisse in maniera asimmetrica, e che un disco mediasse l'accrescimento, proprio come accade per le stelle di piccola massa.[4] Diversi lavori teorici hanno rinforzato quest'ipotesi, mostrando che la produzione di getti e flussi molecolari[86] a partire dal disco crea una cavità nel materiale nebuloso, formando un corridoio di sfogo attraverso il quale la grande radiazione di una protostella massiccia può disperdersi senza intaccare l'accrescimento.[87][88] L'ipotesi è stata poi confermata da numerosi dati, sia teorici[89] sia osservativi:[90] sono state individuate, tramite procedimenti indiretti basati sulla luminosità della protostella riflessa dalla nube, diverse strutture discoidali, grandi alcune migliaia di unità astronomiche, che si ritiene appartengano a protostelle di classe B, che possiederebbero una massa inferiore a 20 M ed un tasso di accrescimento stimato in circa 10−4 M/anno.[4] Gli studi condotti sull'emissione di maser CH3OH e H2O[91] da parte di protostelle massicce ha indotto gli astrofisici a ipotizzare che il campo magnetico generato dalla protostella, proprio come nel caso delle stelle di piccola massa, giochi un ruolo importante nel vincolare le polveri, stabilizzando quindi il disco di accrescimento, e consenta inoltre di mantenere gli elevati tassi di accrescimento necessari per la nascita della stella.[92]

La ricerca invece di dischi attorno alle protostelle supermassicce di classe O (che possono anche superare le 100 M) non ha ancora dato frutti, anche se sono state individuate delle imponenti strutture toroidali (~20 000 UA e 50-60 M) i cui tassi di accrescimento sono stimati tra 2 × 10−3 e 2 × 10−2 M/anno. Alla luce di questa scoperta si ipotizza che l'accrescimento delle stelle massicce sia mediato da questi imponenti ed instabili tori di gas e polveri, nel cui versante interno si trova il disco di accrescimento.[4]

File:RCW 120aa.jpg
Immagine infrarossa ripresa dall'Herschel Space Observatory della regione H II RCW 120 che mostra una vasta bolla generata da una stella massiccia, non visibile a queste lunghezze d'onda. Sul bordo inferiore destro della bolla è visibile un bozzolo luminoso, contenente un oggetto stellare giovane di circa 10 masse solari circondato da una nube contenente almeno 2000 masse solari di gas e polveri, dalla quale può attingere ulteriore materiale per portare avanti il suo accrescimento.[93]

Anche alla formazione delle stelle massicce è stata applicata la teoria dell'accrescimento competitivo, la quale riesce a spiegare sia le grandi masse sia la tipica collocazione galattica di questa classe stellare. Infatti, la maggior parte delle stelle massicce note è sita nelle zone centrali di grandi ammassi stellari o di associazioni OB, che corrispondono al "fondo" del pozzo gravitazionale della nube: le protostelle che si sono originate in questa posizione risultano avvantaggiate dal potenziale gravitazionale e riescono ad accumulare più materia rispetto a quelle che si originano nelle altre aree della nube. In questo ambiente la densità di protostelle di massa intermedia può risultare tale da favorire le possibilità di collisione; di conseguenza, le stelle di massa media formatesi in questo modo potrebbero poi fondersi per dar luogo a una stella massiccia.[94][95] Questo scenario implica però elevate densità dei gas, che una gran parte delle stelle massicce risultanti siano dei sistemi binari e che siano poche le stelle di massa intermedia che siano riuscite a competere con le stelle più massive.[96] Alcune osservazioni e simulazioni computerizzate confermano in parte quest'ipotesi, anche se presuppone delle densità di presenza protostellare talmente elevate (>3 milioni di astri per anno luce cubo) da sembrare poco realistiche.[4]

La questione aperta su come possa formarsi una stella estremamente massiccia senza che la pressione di radiazione ne impedisca l'accrescimento è stata affrontata da una nuova simulazione computerizzata, i cui risultati sono stati resi noti nel gennaio 2009.[97] Il collasso e la rotazione di un'enorme nube molecolare porta alla formazione del disco di accrescimento, che alimenta la protostella. La grande mole del disco lo rende gravitazionalmente instabile, il che ne causa la frammentazione e la formazione in questi frammenti di altrettante protostelle secondarie, la gran parte delle quali precipita fondendosi con la protostella centrale.[97] La simulazione ha anche dimostrato come mai gran parte delle stelle massicce siano sistemi multipli; si è visto infatti che una o più delle protostelle secondarie riesce a raggiungere, senza esser fagocitata dalla protostella primaria, una massa tale da svincolarsi dal disco della principale, formare a sua volta un proprio disco e fondersi con le protostelle secondarie che da esso traggono origine, divenendo quindi anch'essa una stella massiccia.[97] L'osservazione di alcune regioni di formazione stellare da parte del telescopio spaziale Spitzer ha in parte confermato questo modello, anche se la verifica sarà complicata: infatti è difficile riuscire a cogliere le stelle massicce nell'atto della loro formazione, visto che si tratta comunque di una classe stellare piuttosto rara e visto che il processo che porta alla loro formazione si esaurisce in tempi assai brevi (su scala astronomica).[3]

Formazione planetaria

Un fenomeno strettamente correlato alla formazione stellare è quello della formazione planetaria. Tra le diverse teorie sviluppate in merito quella che attualmente gode del maggior consenso presso la comunità astronomica è la così detta "nebulosa solare"[98][99] (in inglese SNDM, acronimo di Solar Nebular Disk Model[8]), proposta per la prima volta da Swedenborg nel 1734[7] e successivamente ripresa da Kant e Laplace (si veda a tal proposito anche il paragrafo Cenni storici). Originariamente formulata per spiegare la formazione del sistema solare, si ritiene che la teoria sia valida anche per quanto concerne gli altri sistemi planetari.[5]

Un disco protoplanetario attorno ad una giovanissima stella nata nella Nebulosa di Orione.

Non appena la stella conclude la fase protostellare e fa ingresso nella pre-sequenza principale, il disco di accrescimento diviene protoplanetario; la sua temperatura diminuisce, permettendo la formazione di piccoli grani di polvere costituiti da roccia (in prevalenza silicati) e ghiacci di varia natura, che a loro volta possono fondersi tra loro per dar luogo a blocchi di diversi chilometri detti planetesimi.[100] Se la massa residua del disco è sufficientemente grande, in un lasso di tempo astronomicamente breve (100 000–300 000 anni) i planetesimi possono fondersi tra loro per dar luogo a embrioni planetari, detti protopianeti, di dimensioni comprese tra quelle della Luna e quelle di Marte. Nelle regioni del disco più prossime alla stella, in un arco temporale compreso tra 100 milioni e un miliardo di anni, questi protopianeti vanno incontro ad una fase di violente collisioni e fusioni con altri corpi simili; il risultato sarà la formazione, alla fine del processo, di alcuni pianeti terrestri.[5]

La formazione dei giganti gassosi è invece un processo più complicato, che avverrebbe al di là della così detta frost line, che corrisponde ad una distanza dalla stella tale che la temperatura è sufficientemente bassa da permettere ai composti contenenti idrogeno, come l'acqua, l'ammoniaca e il metano, di raggiungere lo stato di ghiaccio.[101] I protopianeti ghiacciati possiedono una massa superiore e siano in maggior numero rispetto ai protopianeti esclusivamente rocciosi.[98] Non è completamente chiaro cosa succeda in seguito alla formazione dei protopianeti ghiacciati; sembra tuttavia che alcuni di questi, in forza delle collisioni, continuino a crescere raggiungendo una massa oltre 10 masse terrestri – M (secondo recenti simulazioni si stima addirittura 14-18[102]), necessaria per poter iniziare ad accrescere massa dall'idrogeno e dall'elio del disco, residuato dalla formazione della stella.[101] L'accumulo di gas da parte del nucleo protopianetario è un processo inizialmente lento, che prosegue per alcuni milioni di anni fino al raggiungimento di circa 30 M, dopo di che subisce un'accelerazione che lo porta in breve tempo ad accumulare quella che sarà la sua massa definitiva: si stima che pianeti come Giove e Saturno abbiano accumulato la gran parte della loro massa in appena 10 000 anni.[99] L'accrescimento si conclude all'esaurimento dei gas disponibili; successivamente il pianeta subisce, a causa della perdita di momento angolare dovuta all'attrito con i residui del disco, un decadimento dell'orbita che risulta in un processo di migrazione planetaria, più o meno accentuato a seconda dell'entità dell'attrito;[99] questo spiega come mai in alcuni sistemi extrasolari siano stati individuati dei giganti gassosi a brevissima distanza dalla stella madre, i così detti pianeti gioviani caldi.[103] Si ritiene che i giganti ghiacciati, come Urano e Nettuno, costituiscano dei nuclei falliti, formatisi quando oramai gran parte dei gas erano stati esauriti.[5]

Osservazioni

L'astro nelle prime fasi della sua formazione risulta spesso pressoché invisibile, nascosto in profondità all'interno della nube molecolare e celato dalle polveri che assorbono gran parte della radiazione; tali regioni possono essere individuate come delle ombre scure che risaltano rispetto allo sfondo, come nel caso dei globuli di Bok e delle nebulose oscure.[12][13] Tuttavia, per avere una visione molto più dettagliata delle prime fasi della vita di una stella, è necessario far ricorso ad osservazioni a lunghezze d'onda maggiori di quelle del visibile, tipicamente l'infrarosso, la radiazione terahertz (THz o submillimetrica) e le onde radio, in grado di penetrare meglio la coltre di polveri e gas che cela gli embrioni stellari alla nostra vista.[104]

Ripresa nel visibile (sinistra) e nell'infrarosso (destra) dell'ammasso del Trapezio. L'immagine nel visibile mostra ampie nubi di polveri, mentre l'immagine infrarossa mostra un gran numero di oggetti stellari giovani, la cui luce è celata dalle polveri della nebulosa in cui si sono formati.

La struttura delle nubi molecolari e gli effetti che su di esse hanno le protostelle possono essere compresi tramite mappe di estinzione nell'infrarosso vicino, nelle quali il numero di stelle per unità di superficie è confrontato con un'area di cielo la cui estinzione è quasi pari a 0.[105] Le osservazioni nelle onde radio millimetriche e nella banda della radiazione THz evidenziano invece l'emissione delle polveri e le transizioni rotazionali del monossido di carbonio e di altre molecole presenti nelle nubi.[106] La radiazione emessa dalla protostella e dalle stelle neoformate risulta osservabile nell'infrarosso, dal momento che l'estinzione del resto della nube in cui si trova è in genere troppo alta per permetterne l'osservazione nel visibile. L'osservazione infrarossa risulta però difficoltosa dalla superficie terrestre, dal momento che l'atmosfera è quasi completamente opaca agli infrarossi tra 20 ed 850 μm, con l'eccezione della banda compresa tra 200 μm e 450 μm ("finestra"), e che la Terra stessa emette una certa quantità di radiazione a queste lunghezze d'onda;[17] pertanto ci si affida quindi alle osservazioni compiute da satelliti e telescopi spaziali al di fuori dell'atmosfera.[17]

La dimensione di una sorgente infrarossa dipende fortemente dalla lunghezza d'onda di osservazione: nell'infrarosso lontano l'emissione appare proveniente da una regione più estesa, mentre nell'infrarosso vicino l'emissione deriva da una regione più circoscritta. Conoscere la luminosità totale di questi oggetti ricopre una grande importanza, dal momento che essa dipende dalla massa della stella che la produce: le sorgenti infrarosse più luminose sono infatti oggetti stellari giovani di massa più elevata.[107]

La formazione delle singole stelle può essere osservata in maniera diretta solo nella nostra galassia, la Via Lattea, mentre nelle galassie più distanti è stata dedotta indirettamente grazie ad indagini spettroscopiche e alle interazioni che le stelle neoformate, in particolare quelle di massa più cospicua, esercitano nei confronti dei gas da cui hanno tratto origine.

Le regioni di formazione stellare sono inoltre importanti sorgenti di maser, con caratteristici schemi di pompaggio che risultano da transizioni multiple in molte specie chimiche: ad esempio, il radicale °OH[108] possiede emissioni maser a 1612, 1665, 1667, 1720, 4660, 4750, 4765, 6031, 6035 e 13 441 MHz.[109] Sono noti anche numerosi maser ad acqua[110][111] e metanolo,[91] molto frequentemente riscontrati in tali regioni, e a formaldeide[111][112] ed ammoniaca,[111][113] relativamente più rari.

Diagramma colore–colore

Lo stesso argomento in dettaglio: Diagramma colore-colore.
Il diagramma colore–colore dell'ammasso del Trapezio, che mostra come diversi membri dell'ammasso abbiano un eccesso di emissione infrarossa, tipica di stelle giovani circondate da dischi circumstellari.

Un valido mezzo utilizzato nello studio dei processi di formazione stellare è il diagramma colore–colore, che permette di mettere a confronto la magnitudine apparente delle protostelle a differenti lunghezze d'onda dello spettro elettromagnetico. In particolare esso trova impiego nell'analisi infrarossa delle regioni di formazione stellare. Infatti, dal momento che il disco di accrescimento che circonda l'embrione stellare riemette parte della radiazione che riceve dalla stella sotto forma di infrarossi, l'astro mostrerà un eccesso di emissione a queste lunghezze d'onda.[114] Tale eccesso va tuttavia distinto da quello causato dall'arrossamento della luce di una stella, ovvero l'allungamento delle lunghezze d'onda dovuto allo scattering operato dalle polveri del mezzo interstellare, e dal redshift, dovuto al moto spaziale dell'astro.

I diagrammi colore–colore permettono di isolare questi effetti. Poiché sono ben note le relazioni colore-colore delle stelle di sequenza principale, è possibile proiettare nel diagramma come riferimento il tracciato di una sequenza principale teorica, come è visibile nel diagramma riportato a lato. Alla luce dello scattering operato dalle polveri interstellari, nel diagramma colore-colore si rappresentano solitamente delle porzioni, circoscritte da linee tratteggiate, che definiscono le regioni in cui ci si attende di osservare delle stelle la cui luce subisce un processo di arrossamento. Di norma, nel diagramma riferito all'infrarosso, si pone nell'asse delle ascisse la banda (H – K) e nell'asse delle ordinate la banda (J – H) (vedi la voce astronomia dell'infrarosso per informazioni sulle designazioni delle bande di colore). In un diagramma con questi assi, le stelle che cadono alla destra della sequenza principale e le stelle di sequenza principale arrossate dalle polveri sono significativamente più brillanti, nella banda K, delle stelle di sequenza principale non arrossate. La banda K, inoltre, è quella con la maggiore lunghezza d'onda, per cui gli oggetti che hanno una luminosità anormalmente alta in questa banda mostrano il così detto eccesso di emissione infrarossa. L'emissione nella banda K di tali oggetti, in genere di natura protostellare, è dovuta all'estinzione causata dai gas in cui essi sono immersi.[115] I diagrammi colore–colore inoltre permettono di determinare in che stadio di formazione si trova la stella, semplicemente osservando la sua posizione nel diagramma.[116]

Distribuzione spettrale dell'energia (SED)

Distribuzione spettrale dell'energia negli oggetti stellari giovani.[117][118]
Lo stesso argomento in dettaglio: [[[[Oggetto stellare giovane#Distribuzione spettrale dell'energia (SED)|Oggetto stellare giovane § Distribuzione spettrale dell'energia (SED).

Sebbene la localizzazione, la dimensione e la luminosità forniscano informazioni essenziali sull'entità delle sorgenti infrarosse, per comprendere le caratteristiche di tali sorgenti è necessario ricorrere alla distribuzione spettrale dell'energia (SED, acronimo dell'inglese spectral energy distribution),[119] ovvero la variazione dell'intensità della radiazione in funzione della lunghezza d'onda λ; nel caso dei processi di formazione stellare, gli astronomi studiano principalmente la porzione della SED nelle bande del vicino e medio infrarosso.[107]

Le stelle T Tauri e le protostelle possiedono delle SED caratteristiche. In base al contributo della radiazione emessa dalle polveri e dalla radiazione di corpo nero emessa, le T Tauri sono state suddivise nel 1984 in tre classi (I, II, III), ciascuna delle quali è caratterizzata da peculiarità spettrali.[120] Le sorgenti di classe I hanno spettri la cui intensità aumenta molto rapidamente al crescere della lunghezza d'onda λ e irradiano maggiormente a λ>20 μm; le sorgenti di classe II hanno uno spettro molto più piatto, con contributi quasi uguali nel vicino e nel lontano infrarosso; infine, le sorgenti di classe III possiedono uno spettro che si affievolisce nettamente per λ>2 μm e irradia maggiormente per λ<5 μm.[107]
Questa classificazione è stata estesa nel 1993 anche alle protostelle, cui è stata assegnata la classe 0, caratterizzata da un'intensa emissione alle lunghezze della radiazione submillimetrica, che però diviene molto debole a λ<10μm.[121]

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Voci correlate

Collegamenti esterni