Guerra civile in Italia (1943-1945)

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La locuzione guerra civile in Italia è impiegata nella storiografia di settore, anche internazionale[1][2], per riferirsi agli eventi accaduti durante la seconda guerra mondiale, in un periodo compreso tra l'annuncio dell'armistizio di Cassibile (8 settembre 1943) e la resa di Caserta (2 maggio 1945), durante il quale si verificarono combattimenti tra reparti militari della Repubblica Sociale Italiana (RSI), collaborazionisti con le truppe occupanti della Germania nazista, e i partigiani italiani, sostenuti materialmente dagli Alleati. Oltre ai combattimenti diretti tra i reparti armati delle due parti, si registrarono anche rappresaglie sulla popolazione civile e repressioni da parte delle autorità della RSI, scontri tra partigiani[3], mentre rari furono gli scontri armati tra le truppe fasciste e quelle fedeli al governo monarchico, il cosiddetto "Regno del Sud"[4].

Il tardivo riconoscimento storiografico

Lo stesso argomento in dettaglio: Storiografia della guerra civile in Italia (1943-1945).

Nel biennio 1943-1945, la natura di guerra civile del conflitto combattuto tra fascisti e antifascisti era riconosciuta in entrambi gli schieramenti (in campo antifascista soprattutto tra gli azionisti), ma dal dopoguerra la definizione di "guerra civile" fu gradualmente respinta dalla cultura antifascista, cosicché cadde quasi completamente in disuso[5]. Salvo alcune eccezioni, rimase circoscritta alla pubblicistica neofascista fino agli anni ottanta, quando fu riproposta all'attenzione della storiografia accademica da Claudio Pavone in una serie di convegni. Dopo un intenso dibattito, lo stesso Pavone nel 1991 ne determinò una vasta diffusione con la sua opera più celebre: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Tra gli studi successivi, dedicato a questa fase storica è anche l'ultimo volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, intitolato La guerra civile 1943-1945.

Alcuni degli storici che si sono occupati dell'argomento hanno esteso la loro ricerca alle conseguenze che la guerra civile ebbe nell'immediato dopoguerra[6].

Le origini

Il 25 luglio 1943: la caduta del fascismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Ordine del giorno Grandi.
Il verbale dell'ordine del giorno Grandi

Dopo la vittoria conseguita nella campagna del Nordafrica, gli Alleati diedero avvio alla Campagna d'Italia: tra l'11 e il 12 giugno del 1943 Lampedusa e Pantelleria furono i primi territori italiani ad essere conquistati, il 10 luglio iniziò lo sbarco in Sicilia, mentre il 19 luglio Roma fu bombardata per la prima volta.

La minaccia dell'invasione del territorio nazionale, la convinzione dell'inevitabilità della sconfitta, l'incapacità di Mussolini di «sganciarsi dalla Germania»[7], insieme alla consapevolezza che la sua presenza impediva ogni trattativa con gli Alleati, determinarono la caduta del suo governo: nella notte tra il 24 ed il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo approvò una mozione di sfiducia contro il primo ministro, denominata ordine del giorno Grandi, dal nome del suo promotore Dino Grandi. L'indomani il re Vittorio Emanuele III fece mettere agli arresti Mussolini e lo sostituì al governo con il maresciallo Pietro Badoglio. Di fronte al colpo di Stato, i fascisti rimasero inerti e l'esercito poté occupare senza incontrare resistenze sia palazzo Wedekind che palazzo Braschi, rispettivamente sedi del partito e della federazione romana. In mancanza di ordini da parte del generale Enzo Emilio Galbiati (che pure aveva votato contro la destituzione di Mussolini), non si mosse nemmeno la milizia fascista, sebbene potesse contare sulla 1ª Divisione corazzata "M", costituita da elementi fedeli al regime, che era dislocata a nord del Lago di Bracciano[8].

I quarantacinque giorni

La notizia delle dimissioni di Mussolini venne vissuta da una parte degli italiani, prostrati dal conflitto, come prova della sua prossima conclusione: si ebbero manifestazioni di giubilo, ma anche di violenza, con la distruzione di beni e proprietà del PNF e delle organizzazioni di partito, la rimozione ed il danneggiamento di simboli e monumenti legati al fascismo. Tuttavia, le speranze riposte nella pace svanirono ben presto, in seguito al proclama con cui Badoglio annunciava: «La guerra continua. L'Italia [...] mantiene fede alla parola data»[9]. Cominciava così il periodo dei «quarantacinque giorni», in cui iniziarono le trattative segrete per concludere una pace separata con gli Alleati, dissimulate da pubbliche dichiarazioni di fedeltà alla Germania. I tedeschi intanto, preparati all'eventualità di una resa italiana, pianificavano l'operazione Achse per occupare la penisola.

Pietro Badoglio

Il governo Badoglio iniziò l'opera di smantellamento dello Stato fascista e adottò provvedimenti per mantenere l'ordine del Paese: sciolse il PNF, mantenne la proibizione della costituzione di partiti politici e impose la legge marziale. Inoltre, furono represse nel sangue alcune manifestazioni antifasciste, come quelle che si svolsero il 28 luglio a Bari (eccidio di via Nicolò dell'Arca) e Reggio Emilia (eccidio delle Reggiane), dove i militari spararono contro i manifestanti come disposto da una circolare del generale Mario Roatta, capo di stato maggiore dell'esercito, che ordinava di fronteggiare i disordini «in formazione di combattimento» e di «aprire il fuoco a distanza anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta»[10]. Tali provvedimenti fecero in modo che presso gli antifascisti si diffondesse l'idea di una sostanziale continuità tra il governo di Mussolini e quello di Badoglio, fino a «domandarsi se la liquidazione del fascismo non sia per caso un tragico inganno»[11].

Successivamente, Badoglio riuscì a neutralizzare completamente la milizia, incorporandola nell'esercito e sostituendo i quadri superiori con ufficiali di sicura fede monarchica. Il successore di Galbiati al comando del corpo, Quirino Armellini, emanò il 30 luglio una circolare con cui riuscì a garantire a Badoglio l'inoffensività delle camicie nere, stigmatizzando «la reazione del Paese, antipatica e spesso brutale nei riguardi della Milizia», e assicurando la volontà del nuovo governo di continuare la guerra contro gli anglomericani, descritti come nemico «animato da inumano odio e dal deciso proponimento di annientare» la patria, al quale bisognava «oppore i nostri petti e le nostre armi, strenuamente combattendo a fianco dell'alleato»[12].

Negli stessi giorni, gli antifascisti cominciavano a riorganizzarsi grazie al ritorno dal carcere, dal confino o dall'esilio di numerosi dirigenti di primo piano: Longo, Secchia e Scoccimarro per i comunisti; Nenni, Pertini, Morandi e Saragat per i socialisti; Bauer, La Malfa e Lussu per gli azionisti. Iniziarono quindi a formarsi le prime organizzazioni e i primi "Comitati di opposizione interpartitici" antifascisti, gettando le basi del futuro Comitato di Liberazione Nazionale. Il 3 agosto, una delegazione del Comitato centrale delle opposizioni – composta da Bonomi, De Gasperi, Salvatorelli, Ruini e Amendola – presentò a Badoglio una dichiarazione con cui si «reclamava» dal governo, «senza esitazioni e indugi che potrebbero essere fatali, la cessazione di una guerra contraria alle tradizioni e agli interessi nazionali e ai sentimenti popolari, la responsabilità della quale grava e deve gravare sul regime fascista».

Durante la notte tra il 23 e il 24 agosto il gerarca fascista Ettore Muti – accusato di complottare per restituire il potere a Mussolini – fu ucciso dai carabinieri inviati ad arrestarlo, ufficialmente durante un tentativo di fuga. In seguito alla fondazione della RSI, i fascisti indicarono in Badoglio il mandante dell'uccisione e celebrarono ampiamente Muti come il primo caduto della guerra civile, rivendicando la tesi del complotto come dimostrazione di non essere rimasti inattivi dopo il 25 luglio[13]. L'argomento secondo cui un tentativo di rivolta fascista contro Badoglio sarebbe stato impedito dalla morte di Muti – oltre che dall'assenza dei «migliori fascisti», impegnati al fronte, e dall'aver creduto alla continuazione dell'alleanza con la Germania – fu riproposto dalla pubblicistica di Salò anche nel dopoguerra[14].

Le stime sulle uccisioni di fascisti e le aggressioni da loro subite durante i quarantacinque giorni sono variabili[15]. Nei mesi successivi, gli antifascisti si sarebbero presto convinti di essere stati eccessivamente clementi verso gli esponenti del deposto regime, tanto da ricondurre l'inizio della guerra civile al fatto che «I fascisti sono ritornati perché il 25 luglio sangue fascista non è stato sparso» (Giuseppe Lopresti). Il sentimento era suffragato anche dal fatto che molti funzionari pubblici del periodo fascista in posti chiave erano stati lasciati al loro posto dal nuovo governo Badoglio, come rimarcato dalla strofa della Badoglieide «Gli squadristi li hai richiamati / gli antifascisti li hai messi in galera / la camicia non era più nera / ma il fascismo restava padron». Viceversa, per i fascisti il 25 luglio sarebbe iniziato il loro «martirio», del quale bisognava vendicarsi[16].

L'8 settembre 1943: l'armistizio e il crollo dello Stato

Nelle settimane successive alla caduta di Mussolini, mentre l'Italia continuava la guerra accanto alla Germania, il nuovo governò ricercò con una certa confusione di far uscire il Paese dal conflitto: il 3 settembre firmò l'armistizio di Cassibile, imposto dalle Potenze Alleate, e ne diede inaspettatamente comunicazione con un messaggio radiofonico letto dal maresciallo Badoglio la sera dell'8 settembre.[17].

Più rapidamente di quanto accadde il 25 luglio, malgrado l'iniziale entusiasmo con cui la maggior parte della popolazione accolse la notizia, apparve chiaro che l'armistizio non avrebbe portato la pace. Il giorno stesso, il re e Badoglio abbandonarono la capitale riparando in Puglia con tutti i membri del governo, compresi i ministri delle tre forze armate (Sorice, de Courten e Sandalli), al fine di evitare la temuta reazione tedesca per la resa italiana. In breve tempo i tedeschi attuarono l'operazione Achse e occuparono gran parte della penisola, compresa Roma, lasciata senza difesa nonostante nei dintorni della capitale le forze del Regio Esercito fossero nettamente superiori a quelle della Wehrmacht.

Soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l'8 settembre a Corfù

In Italia e nelle zone d'occupazione (Francia meridionale, Balcani e Grecia) furono centinaia di migliaia i soldati che, in assenza di ordini, si arresero senza combattere e furono deportati in Germania, dove furono detenuti nella dura condizione di "internati militari". Altri riuscirono a procurarsi abiti borghesi e a trovare rifugio, beneficiando delle numerose manifestazioni di solidarietà in cui si prodigò la popolazione civile[18]. I casi in cui dei reparti reagirono con successo all'aggressione tedesca furono invece rari e dovuti all'iniziativa personale dei comandanti[19]. Nelle città, provocarono rabbia e disperazione le scene in cui moltitudini di soldati italiani sbandati vennero rapidamente sopraffatte da pochi militari tedeschi: fu proprio la repentina disfatta subita per mano degli ex alleati, ancor più della resa agli angloamericani, ad essere percepita come una «nuova immensa Caporetto»[20].

L'annuncio dell'armistizio prese parecchi italiani alla sprovvista: le circostanze in cui esso venne reso pubblico determinarono la sensazione tra militari e civili di essere stati abbandonati e lasciati a sé stessi, rispettivamente i primi dagli ufficiali ed i secondi dall'autorità pubblica[21], e vi è stato chi ha visto nell'8 settembre e nelle sue conseguenze il momento della venuta meno del tessuto connettivo nazionale[22].

La scelta

Nei giorni immediatamente successivi all'armistizio, con l'eclissi del potere dello Stato regio, iniziarono a delinearsi i due schieramenti della guerra civile, i partigiani e i fascisti, entrambi convinti di rappresentare legittimamente l'Italia. Molti di coloro che imbracciarono le armi si trovarono, colti di sorpresa dall'armistizio, da una parte o dall'altra quasi casualmente e dovettero compiere la propria scelta di campo sulla base delle circostanze[23]. La decisione fu resa maggiormente drammatica per la solitudine in cui avvenne, in quanto di fronte al crollo dello Stato non esisteva più la possibilità di rifarsi ad un'autorità, ma solo ai propri valori[24]. Naturalmente le scelte non furono tutte istantanee e basate su certezze assolute, bastava anzi «un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima» per trovarsi dall'altra parte[25]. In alcuni casi fu determinante anche la sorte avuta in seguito al 25 luglio, come accadde a Nuto Revelli:

«Senza la Russia[26], all'8 settembre forse mi sarei nascosto come un cane malato. Se nella notte del 25 luglio mi fossi fatto picchiare, oggi forse sarei dall'altra parte. Mi spaventano quelli che dicono di aver sempre capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l'8 settembre non era facile![27]»

La scelta fu particolarmente gravosa per i militari, vincolati da una parte al giuramento al re e dall'altra al rispetto dell'alleanza con i tedeschi, pena in entrambi i casi il proprio onore di soldati; risolsero il problema facendo appello alla propria coscienza: alcuni, considerando sciolto il giuramento al Re per via del suo comportamento, si presentarono ai comandi tedeschi chiedendo d'essere arruolati[28][29], ricevendo come distintivo una fascia da braccio con un tricolore e la scritta Im Dienst der Deutschen Wehrmacht (al servizio della Wehrmacht germanica); altri, pur essendo del medesimo avviso, scelsero comunque di non parteggiare per l'Asse[30].

Disordini e scontri a fuoco avvennero durante i giorni dell'armistizio, ma raramente coinvolsero italiani di entrambi gli schieramenti. Lo Stato Maggiore del Regio Esercito provvide in alcuni casi a modificare i comandi con elementi di sicura fede monarchica, come accadde alla 1ª Divisione corazzata "M", che divenne 136ª Divisione corazzata "Centauro II" e fu assegnata al generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, genero del re; tuttavia il Comando Supremo non giudicava affidabile la divisione, che infatti durante gli eventi dell'8 settembre non si mosse a difesa di Roma. Ciò non di meno, vi furono alcuni episodi in cui italiani delle due parti si scontrarono.

Il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, caduto il 10 settembre 1943 in Sardegna in uno dei primi scontri tra italiani

Rilevanti fatti di sangue si registrarono in Sardegna, dove il contingente italiano, godendo di una netta superiorità numerica e di una buona qualità dei reparti a disposizione, tra i quali la 184ª Divisione paracadutisti "Nembo", obbligò i tedeschi ad una veloce ritirata dall'isola. Di conseguenza, diversamente che dal resto d'Italia, non vi fu margine di manovra per quegli italiani che non avessero voluto obbedire alle disposizioni armistiziali e che pertanto dovettero compiere la scelta di campo immediatamente. La Sardegna fu quindi teatro di «uno dei primi episodi di guerra civile»[31], quando all'annuncio dell'armistizio il XII battaglione della "Nembo", al comando del maggiore Mario Rizzatti, si ammutinò per seguire i tedeschi della 90ª Divisione Panzergrenadier e continuare quindi la lotta contro gli angloamericani. A sedare questa sedizione venne inviato il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, che fu ucciso dagli ammutinati. Cinque giorni dopo veniva ucciso da un ignoto il maresciallo ordinario Pierino Vascelli, che, sebbene non si fosse unito agli ammutinati, non aveva nascosto i propri sentimenti fascisti[32].

Si schierarono con i tedeschi anche il 63º battaglione della legione Camicie Nere Tagliamento, un centinaio di paracadutisti della scuola di Viterbo, una parte del 10º reparto Arditi presso Civitavecchia[31], nonché i militari della Xª Flottiglia MAS di stanza a La Spezia, al comando del principe Junio Valerio Borghese, che ricostituì il corpo mantenendo lo stesso nome, principalmente come fanteria di marina. In altre parti d'Italia i fascisti non presero posizione contro i reparti fedeli alla monarchia, ma si limitarono a non opporre resistenza ai tedeschi.

Nel clima generale in cui «tutti erano come posseduti da un "bisogno di grandi tradimenti" contro i quali rivalersi»[33], entrambe le parti (sebbene tra i partigiani non mancasse una minoranza di convinti monarchici) erano accomunate dalla condanna del re e di Badoglio: i fascisti li accusavano di aver tradito l'alleanza con i tedeschi e di aver così compromesso l'onore dell'Italia agli occhi del mondo, mentre i resistenti di aver impedito all'8 settembre di «trasformarsi in una trionfale e redentrice giornata di resurrezione» (Silvio Trentin)[34].

I primi gruppi di fascisti ripresero l'iniziativa[35]; contemporaneamente a Roma – perduranti ancora i combattimenti fra Regio Esercito e Wehrmacht – veniva fondato dagli esponenti dell'antifascismo politico il primo Comitato di Liberazione Nazionale, mentre, specialmente in Piemonte e in Abruzzo, si formarono i primi gruppi partigiani[36]. In quei giorni furono gettate le basi sia della "resistenza attiva" sia della "resistenza passiva", con la popolazione civile che offriva solidarietà ed aiuto ai soldati che si davano alla macchia[37] o che sceglieva "di non scegliere", mettendosi nella "zona grigia" o fra gli "attendisti".

L'Italia divisa in due: il Regno del Sud e la Repubblica Sociale Italiana

La situazione politica del Regno e l'AMGOT

A seguito della divulgazione pubblica dell'armistizio e degli eventi conseguenti, l'Italia si trovò divisa in più entità politico-territoriali. Il governo Badoglio, presieduto dal Re, si trovò ad esercitare la propria autorità solo su una parte del territorio del Regno d'Italia, corrispondente principalmente alle province di Brindisi e Taranto ed alla Sardegna. Solo progressivamente i territori italiani via via conquistati dagli angloamericani passarono sotto la giurisdizione regia: per questo motivo i territori amministrati direttamente dal Re e dal suo governo erano denominati "Regno del Sud". Le terre italiane sotto controllo alleato non ancora affidate all'amministrazione regia erano sottoposti a un governo militare d'occupazione, l'Allied Military Government of Occupied Territories (AMGOT).

Dipendente dal quartier generale di Algeri, l'AMGOT fu retto da diversi generali alleati, tra cui il colonnello Charles Poletti, di origini italiane e accusato poi di collusioni con la mafia, che aveva esercitato un ruolo importante nel favorire lo sbarco angloamericano in Sicilia. Nelle terre sottoposte alla legge alleata, venne emessa una nuova moneta, l'Am-lira (che provocò una consistente svalutazione della lira normale). Dal febbraio 1944, rimasero competenza dell'AMGOT solo la zona di Napoli e le terre d'interesse militare.

Fu sottoposta ad un AMGOT anche la "Zona A" del Territorio Libero di Trieste tra il 1945, quando furono cacciati i partigiani jugoslavi, che nel frattempo avevano occupato Trieste effettuando rastrellamenti di massa ed esecuzioni sommarie, coadiuvate da partigiani comunisti locali, e il 1954, quando la città si ricongiunse all'Italia.

Durante l'occupazione alleata della Sicilia e soprattutto dopo il ritorno dell'isola alla parziale sovranità del Regno si verificarono episodi di rivolta, a carattere indipendentista e sociale, sfociati in scontri, nell'intervento dell'Esercito, vittime e feriti e nella proclamazione di effimere "repubbliche" (Comiso, Vittoria, Piana degli Albanesi[38]), dove le varie correnti sotterranee del malcontento si andavano a sommare in convergenze tra fascisti e comunisti[39]. "Repubbliche" autoproclamate sorsero anche altrove, nel Mezzogiorno, come per esempio la Repubblica rossa di Caulonia, in Calabria[40].

Vita partitica nel Regno

Dopo l'8 settembre si delinearono all'orizzonte delle forze anglosassoni due prospettive: quella dei liberals, che volevano sostenere i partiti democratici per rovesciare la monarchia, e quella di Churchill, che confidava nel fatto che si sarebbe potuto trarre maggiore vantaggio da un nemico sconfitto[41]. Tuttavia i partiti ricostituiti dopo l'8 settembre furono scettici nel collaborare con la monarchia, compromessa com'era con il defunto regime: «in questa situazione anche col passare dei mesi la vita dei partiti rimase al sud nel '43-'44 assai stentata e soprattutto scarsamente capace di fare breccia nell'apatia che caratterizzava le popolazioni»[42]; del resto «la grande maggioranza dei contadini faceva riferimento alle strutture parrocchiali»[43]. Per tali ragioni le rimanenti risorse furono concentrate nella propaganda tra le masse nelle regioni liberate, perdendo consistenza il comune denominatore antifascista[44]. A conferma del fenomeno vi sono i rapporti delle Prefetture, nei quali si attesta il reclutamento di molti ex fascisti nei ranghi dei partiti[45].

La Repubblica Sociale Italiana

Lo stesso argomento in dettaglio: Repubblica Sociale Italiana.

A seguito della caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, all'arresto del Duce ed allo scioglimento del Partito Nazionale Fascista, avvenuto due giorni dopo, alcuni esponenti del Fascismo si rifugiarono in Germania. Fra costoro Roberto Farinacci, Renato Ricci e Alessandro Pavolini. Anche la famiglia di Mussolini fu messa al sicuro in Germania. Fin da quel momento la dirigenza politica e militare del Terzo Reich aveva inziato a progettare un possibile rovesciamento del governo regio e l'instaurazione di uno stato fascista filotedesco, che garantisse l'alleanza col Reich.

Quando – dopo l'annuncio dell'Armistizio di Cassibile – venne meno la necessità per la Germania che i rapporti col governo di Roma fossero anche solo formalmente mantenuti, Adolf Hitler in persona ordinò che Benito Mussolini, fino ad allora prigioniero sul Gran Sasso, venisse liberato, e portato in Germania.

Campo Imperatore, 12 settembre 1943. Mussolini posa assieme ai paracadutisti tedeschi di Otto Skorzeny ed ai carabinieri di guardia alla sua detenzione

L'Operazione Quercia che portò alla liberazione di Mussolini avvenne il 12 settembre 1943: tradotto a Monaco e poi a Rastenburg, il duce si incontrò il 14 con Hitler, il quale gli fece presente la necessità di creare un governo fascista nella parte d'Italia non occupata dagli Alleati[46]. Il 15 settembre Mussolini emanò da Radio Monaco le prime direttive volte a riorganizzare il disciolto partito fascista, annunciando la nomina di di Alessandro Pavolini alla sua guida e la prossima formazione di uno stato fascista in Italia.

Il 18 settembre Mussolini parlò, sempre da Radio Monaco, annunciando il suo ritorno. Nel discorso annunciava la costituzione della Repubblica, la decadenza della Monarchia, lo scioglimento di militari e funzionari italiani dal giuramento al Re e la ricostituzione della Milizia. Egli si richiamava a Mazzini ed enfatizzava le origini e i contenuti repubblicani e socialisti, riprendendo il programma dei Fasci italiani di combattimento del 1919, il codittetto Sansepolcrismo. Sembra che, peraltro, Mussolini non si facesse molte illusioni sulle speranze che restavano al movimento fascista e alla sua persona[47][48].

Nei giorni successivi il governo fascista repubblicano prese forma ed accanto ad esso furono stabilite da Berlino anche le strutture di potere tedesche in Italia: Rudolph Rahn, ambasciatore tedesco presso la RSI, e Karl Wolff, comandante in Italia delle SS e della polizia. Hitler[49] rifiutò di rivedere i provvedimenti presi poco prima e poco dopo la liberazione di Mussolini circa la sorte delle province di Trento, Bolzano, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana e Zara, sottoposte alla giurisdizione militare e civile del Reich.

La situazione degli ebrei[50], rimasta immutata dopo le leggi razziali del 1938 fino al settembre 1943[51], ebbe una evoluzione tragica nel territorio italiano occupato dai tedeschi in cui si organizzò l'apparato amministrativo dalla RSI[52]. La soluzione finale potè avere attuazione anche in Italia[53]: a partire dalla notte del 15-16 ottobre 1943 (aktion contro la comunità ebraica di Roma) ebbero inizio le deportazioni[54]. Il 30 novembre 1943 il ministero degli interni della RSI decise il concentramento di tutti gli ebrei, e l'apparato repressivo della Repubblica participò attivamente con i tedeschi alle retate[55]. In dicembre 1943 venne organizzato un campo di transito a Fossoli di Carpi da cui gli ebrei vennero deportati dai tedeschi nel campo di sterminio di Auschwitz; circa 7.500 ebrei furono deportati dall'Italia e solo 800 sopravvissero[56].

Il 13 ottobre 1943 fu annunciata l'imminente convocazione di un'Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto redigere una Carta costituzionale nella quale la sovranità sarebbe stata attribuita al popolo. La costituzione, pur essendo stata redatta[57] non venne mai discussa e approvata. Infatti, dopo la prima assemblea nazionale del PFR, svoltasi a Verona il 14 novembre 1943, questo annuncio fu annullato da Mussolini, avendo deciso di convocare detta Assemblea Costituente a guerra conclusa. Nel corso della stessa assemblea, venne costituito il Partito Fascista Repubblicano, erede del PNF[58], venne ufficializzata la nomina di Alessandro Pavolini come suo Segretario di partito e ne venne adottato il manifesto programmatico, che riconosceva a Benito Mussolini il titolo di Capo della Repubblica[59].

Sulla funzione, sul ruolo e sulle caratteristiche fondamentali del nuovo stato repubblicano fascista, alcuni storici hanno parlato di "alleato occupato", evidenziando la subordinazione del regime alle esigenze dell'alleato nazista e la dipendenza per la propria sopravvivenza reale dal Terzo Reich e dall'apparato militare germanico, inserendo quindi la RSI tra le numerose forme di collaborazionismo organizzate dalla Germania negli stati occupati[60]. Altri, oltre a questi aspetti, hanno evidenziato i caratteri di originalità dello stato di Salò, interpretato come evoluzione della precedente esperienza fascista del ventennio[61] e parlano di una complessità della Repubblica Sociale, non più considerata semplice fenomeno di collaborazionismo[62].

Il PFR venne militarizzato per far fronte alle esigenze belliche: si ebbe la costituzione di formazioni militari impegnate nella repressione e nella lotta contro i partigiani; l'esercito regolare repubblicano prese parte anch'esso prevalentemente nelle operazioni antipartigiane; si ebbero episodi di intimidazione e di uso della violenza nei rapporti con la popolazione passiva o simpatizzante con la Resistenza[63].

Erede di ciò che rimaneva al nord della MVSN, dell'Arma dei Carabinieri e della Polizia dell'Africa Italiana, fu creata la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), con compiti di polizia giudiziaria e di polizia militare, posta sotto il comando di Renato Ricci.

Si ebbero gruppi di donne volontarie alla causa fascista, organizzate nel Servizio Ausiliario Femminile.

Relazioni tra Regno e RSI

Il conflitto civile combattuto tra fascisti e partigiani raramente coinvolse in scontri diretti le forze armate di RSI e Regno del Sud. I due Stati italiani in linea di massima evitarono perfino di schierare i propri reparti al fronte davanti a reparti dell'altro[4]. In alcuni casi tuttavia soldati italiani si trovarono dinnanzi altri italiani: il Gruppo Battaglioni Forlì della RSI inquadrato nella 278ª Divisione tedesca ebbe di fronte i marò del Gruppo di Combattimento ''Folgore'' del Regio Esercito, coi quali vi furono anche scontri con morti e feriti[64], e quello del Gruppo di Combattimento Cremona, il cui I Battaglione si scontrò contro i resti del Battaglione Barbarigo della Decima MAS in ritirata, a Santa Maria in Punta nel Polesine[65].

Al sud si sviluppò anche un movimento di resistenza fascista agli angloamericani, che tuttavia non ebbe né l'estensione né il supporto popolare di quello antifascista al nord. La stampa della RSI ne ingigantiva propandisticamente l'entità attraverso la figura di O' Scugnizzo, un sottotenente che operava al sud dietro le linee nemiche[66], protagonista anche di una striscia a fumetti di Guido Zamperoni. Nonostante i tentativi da parte di Alessandro Pavolini di creare unità militari vere e proprie che operassero con tattiche partigiane alle spalle delle linee alleate, per espressa volontà di Mussolini l'attività del movimento di resistenza fascista al sud si limitò allo spionaggio, alla propaganda e al sabotaggio contro le truppe d'occupazione. Si registrarono casi di omicidio, come quello del console generale della milizia Gianni Cagnoni, ucciso – presumibilmente da sicari fascisti per la sua attività di doppio agente in intelligenza con i servizi segreti alleati – in Sardegna nel 1944[67].

Più articolata e problematica è la questione dei rapporti segreti fra Salò e Brindisi (poi Salerno), in particolare fra elementi delle due Marine Militari[68] (e – nell'ambito della Marina Nazionale Repubblicana – della Xª MAS) allo scopo di raggiungere un modus vivendi e di evitare scontri diretti fra le due Forze Armate, e – verso la fine del conflitto – per cercare di pianificare un'azione comune di sbarco in Istria, onde scongiurare il pericolo dell'invasione iugoslava. Contatti diretti fra emissari di Borghese e il capitano di vascello Agostino Calosi, nonché con Ivanoe Bonomi e l'ammiraglio De Courten non condussero tuttavia ad alcun risultato, per l'opposizione della Germania e della Gran Bretagna, che per motivi analoghi non gradivano la presenza italiana in Venezia Giulia. Diversi risultati si ottennero invece nel coinvolgimento, a guerra finita, di ex marò nelle organizzazioni stay behind anticomuniste[69] o in operazioni segrete come l'affondamento dietro commissione britannica di navi cariche d'armi destinate ai sionisti in Palestina[70].

La Resistenza partigiana

Lo stesso argomento in dettaglio: Resistenza italiana e Comitato di Liberazione Nazionale.
Partigiani del 1° Gruppo Divisioni Alpine del comandante Enrico Martini "Mauri", una delle prime formazione partigiane a costituirsi in Piemonte nel settembre 1943

I primi nuclei del movimento partigiano si costituirono attorno a Boves (Piemonte) e a Bosco Martese (Abruzzo). Altri reparti – egemonizzati dall'elemento slavo e comunista – nacquero o si rafforzarono in Venezia Giulia. Altri ancora si formarono attorno ai soldati alleati, iugoslavi e russi prigionieri di guerra, rilasciati o sfuggiti alla prigionia in seguito alle vicende dell'8 settembre. Questi primi nuclei organizzati si dissolsero in breve tempo a causa della rapida reazione tedesca. In particolare, a Boves – durante una di queste operazioni di controguerriglia – i nazisti commisero la loro prima strage su territorio italiano.

Fin dalla sera dell'8 settembre, poche ore dopo la comunicazione radiofonica dell'armistizio, a Roma si riunirono i seguenti esponenti dell'antifascismo politico, usciti dalla clandestinità a seguito del crollo del regime fascista il 25 luglio: Ivanoe Bonomi (PDL), Scoccimarro e Amendola (PCI), De Gasperi (DC), La Malfa e Fenoaltea (PdA), Nenni e Romita (PSI), Ruini (DL), Casati (PLI). Essi costituirono il primo Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e Bonomi ne assunse la presidenza[71].

In particolare il PCI fremeva sull'iniziativa senza attendere gli Alleati:

«...è necessario agire subito ed il più ampiamente e decisamente possibile perché solo nella misura in cui il popolo italiano concorrerà attivamente alla cacciata dei tedeschi dall'Italia, alla sconfitta del nazismo e del fascismo, potrà veramente conquistarsi l'indipendenza e la libertà. Noi non possiamo e non dobbiamo attenderci passivamente la libertà dagli angloamericani.»

D'altronde gli Alleati non credevano nelle possibilità di successo di una guerriglia locale, tanto che inizialmente il generale Alexander invitò i nuclei costituiti a posticipare gli attacchi contro i nazisti. Il 16 ottobre il CLN diramava un comunicato, il primo di rilevanza politico-operativa[72] – in cui respingevano gli appelli alla riconciliazione lanciati dagli esponenti repubblicani. Il CLN milanese faceva eco con un ordine del giorno in cui chiamava alle armi «tutto il popolo italiano alla lotta contro il tedesco invasore e contro i fascisti, che se ne fanno servi»[73].

A fine novembre i comunisti decisero la costituzione di "distaccamenti d'assalto Garibaldi", che poi sarebbero diventati "brigate" e "divisioni"[74], il cui comando fu affidato a Luigi Longo, sotto la direzione politica di Pietro Secchia, con Giancarlo Pajetta capo di Stato Maggiore. Il primo ordine operativo – datato 25 novembre – recitava:

a) attaccare in tutti i modi e annientare ufficiali, soldati, materiale, depositi delle forze armate hitleriane;
b) attaccare in tutti i modi e annientare le persone, le sedi, le proprietà dei traditori fascisti e di quanti collaborano con l'occupante tedesco;
c) attaccare in tutti i modi e distruggere la produzione di guerra destinata ai tedeschi, le vie e i mezzi di comunicazione e tutto quanto può servire ai piani di guerra e di rapina dell'occupante nazista[75].

Fin da subito dopo l'Armistizio sorsero, per iniziativa del Partito Comunista Italiano, al quale rimasero quasi sempre legati[76], i Gruppi d'azione patriottica[77], composti da gruppi esigui a struttura cellulare, concepiti per non pregiudicare l'esistenza reciproca[78]in caso di arresto o di tradimento di singoli elementi, il cui scopo principale fu quello di scatenare azioni di terrore urbano[79] colpendo con attentati dinamitardi tedeschi, fascisti e simpatizzanti per minarne sicurezza e morale[80][81]. L'abilità dei GAP nel compiere le missioni fu tale che inizialmente le polizie italiane e tedesche credettero che fossero composti da agenti segreti stranieri[82]. A tal proposito è significativo quanto scritto nell'Appello del PCI al popolo italiano del settembre 1943:

«Alla prepotenza del nazismo che pretende di ridurre in servitù con la violenza e il terrore dobbiamo rispondere con la violenza e il terrore.»

Una parte della pubblicistica ha giustificato l'azione gappista come missione di "giustizia"[84] contro la prepotenza ed il terrore nazifascista, ponendo l'accento su come la selezione degli obiettivi da colpire privilegiasse «ufficiali, gerarchi collaborazionisti, agenti prezzolati per denunciare uomini della Resistenza ed ebrei, informatori della polizia nazista e delle organizzazioni repressive della RSI»[82], rivendicando pertanto una sostanziale differenza con il terrore nazifascista, che invece sarebbe risultato indiscriminato agli occhi della popolazione[85]. La memorialistica partigiana in particolare insiste sull'«eliminazione di nemici particolarmente odiosi»[86], quali torturatori, spie, provocatori. Alcuni ordini diramati dai comandi partigiani insistono sulla necessità di evitare di colpire gli innocenti, fornendo invece elenchi delle categorie da colpire in quanto «individui meritevoli di punizione»[87].

Un'altra parte della pubblicistica fin dal periodo bellico ha insistito sul fatto che accanto a queste azioni venissero pianificate ed effettuate operazioni di eliminazione di quegli elementi del fascismo repubblicano più disposti al compromesso ed alla trattativa, come Aldo Resega, Igino Ghisellini, Eugenio Facchini ed il filosofo Giovanni Gentile[88].

Alla Resistenza parteciparono anche, principalmente per attività di approvigionamento di viveri, indumenti e medicinali, di propaganda antifascista, di raccolta fondi, di mantenimento delle comunicazioni nel ruolo di staffette partigiane[89], di soccorso e d'assistenza, diverse donne, variamente organizzate[90]; alcune parteciparono attivamente al conflitto come combattenti[91][92]: il primo distaccamento di partigiane combattenti sorse in Piemonte alla metà del 1944 presso la Brigata garibaldina "Eusebio Giambone"[93]. Donne parteciparono a scioperi e manifestazioni contro il fascismo.[94]

La guerra al nemico interno

Tra i fatti di sangue più significativi accaduti nella fase immediatamente successiva alla costituzione della RSI vi fu l'uccisione del federale ferrarese Igino Ghisellini, avvenuta il 14 novembre 1943. Durante il Congresso di Verona del Partito fascista repubblicano la notizia che il federale di Ferrara fosse stato ucciso provocò una reazione squadrista che si tradusse in rappresaglia su undici antifascisti estranei all'assassinio. Un gesto definito «stupido e bestiale» dallo stesso Mussolini[95]. Tale fu l'impressione negativa che questo episodio sollevò come «primo omicidio della guerra civile» e come termine ad ogni speranza «di riconciliazione degli italiani»[96], che sull'effettiva responsabilità della morte di Ghisellini c'è stata una serie di reciproche accuse da parte di entrambe le parti e non è mai stata definitivamente chiarita.

A prescindere da chi abbia materialmente sparato "il primo colpo", Claudio Pavone[97] parte dalle conclusioni di Giorgio Bocca («È ovvio che siano gli antifascisti a muoversi per primi e che si muovano per primi i comunisti»), considerandole però non esaurienti e necessitanti di un'integrazione attraverso l'analisi del «desiderio di vendetta»[98] dei fascisti repubblicani. Renzo De Felice[99] fa ascendere l'origine della guerra civile alla nascita della Repubblica Sociale Italiana[100]: secondo lo storico la fondazione di uno Stato italiano fascista, collaborazionista con la Germania nazista, impedì alla Resistenza di assumere un carattere nazionale esclusivo e di esclusiva liberazione dai tedeschi per trasformarla anche in un movimento di lotta politica e sociale, in cui i comunisti ebbero una parte di grande importanza.

Alcuni tentativi di evitare lo scoppio di una guerra civile operati da diversi esponenti fascisti[101] vennero presto accantonati di fronte agli sviluppi degli avvenimenti, alla realtà della dura occupazione tedesca, al crescere della violenza dei gruppi partigiani. Ben presto gli intransigenti del neonato Partito Fascista Repubblicano ebbero il sopravvento[102]. I comunisti presero l'iniziativa di portare la resistenza armata contro il nuovo fascismo, alleato dei tedeschi, nelle città; dopo una serie di attentati, i GAP uccisero il 29 ottobre il capo della Milizia di Torino Domenico Giardina, e quindi gli attacchi si diffondono in tutte le città: a Roma (attacco al Teatro Adriano dove parlava il maresciallo Graziani), a Firenze, a Genova, a Ferrara[103][104].

Di fronte a questa serie di attacchi e attentati, gli intransigenti fascisti, Pavolini prima d'ogni altro, ebbero la possibilità di far valere la propria posizione ed imporre un giro di vite anche a Mussolini: a fine novembre Mezzasoma ordinò ai giornali di cessare ogni discussione circa la possibile "pacificazione"[105].

Le prime formazioni partigiane – quasi tutte a carattere militare, perché formate principalmente da militari del Regio Esercito sbandati o da ex prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento – furono investite dalla reazione tedesca e distrutte anche perché impiegavano tattiche di presidio territoriale e di mantenimento di capisaldi attraverso una difesa rigida e concentrata, anziché adottare la guerriglia[106]; un esempio fu la sorte toccata al gruppo Cinque giornate, badogliano, che venne assediato nel forte di San Martino sopra Varese dai tedeschi e costretto alla resa[107]. Di conseguenza il movimento partigiano ottenne migliori risultati con la creazione di squadre e gruppi di dimensioni minime – cellulari – con le quali compiere attacchi.

Tuttavia fu con il "Bando Graziani" del 19 febbraio 1944 che la Resistenza acquistò una massa di uomini sufficiente per poter dar vita ad un vero e proprio esercito clandestino alle spalle delle linee tedesche. Fino al febbraio 1944, infatti, secondo Ferruccio Parri[108] le forze armate partigiane assommavano ad un totale di 9.000 effettivi. Con la proclamazione della leva di massa, almeno settantamila giovani si unirono ai partigiani per non dover sottostare all'arruolamento, e buona parte di costoro andò ad ingrossare i reparti resistenziali. A questi occorreva poi aggiungere i reparti della pianura e delle città, i "patrioti" e i fiancheggiatori, che durante il periodo di massima attività partigiana giunsero a toccare i 200.000 elementi fra uomini e donne[108]. Nella primavera-estate del 1944 la forza del movimento partigiano fu tale da consentire la creazione di effimere Repubbliche partigiane, che riuscirono a sopravvivere fino all'autunno-inverno dello stesso anno, quando vennero distrutte da controffensive italotedesche. In particolare Mussolini definì le operazioni contro le repubbliche partigiane piemontesi una «marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea»[109], riferendosi all'episodio delle guerre civili francesi dove le armate rivoluzionarie schiacciarono le rivolte legittimiste vandeane.

Nei confronti dei partigiani, sempre più audaci nelle loro imprese, i tedeschi decisero di impiegare in misura sempre maggiore le forze della RSI, facendo anche leva sulle personalità più intransigenti, e legando la "repressione del ribellismo" ad un problema interno italiano del quale gli italiani stessi si sarebbero dovuti occupare. In questa maniera, oltre a demandare il "lavoro sporco" ad altri[110], riuscivano anche a tenere occupate le forze repubblicane, che altrimenti – se impiegate al fronte – avrebbero creato problemi di ordine militare e politico.

In seguito allo sfondamento del fronte sulla Linea Gustav ed all'avanzata alleata nell'Italia centrale, molte delle guarnigioni repubblicane della GNR si sciolsero. Al contrario, specialmente in Toscana, gli elementi armati dipendenti direttamente dal Partito riuscirono in qualche misura ad organizzarsi e ad offrire un'ultima resistenza all'avanzata nemica e agli attacchi partigiani. I franchi tiratori di Firenze tennero in scacco numerosi reparti alleati e partigiani per diversi giorni. Questi episodi diedero la possibilità ad Alessandro Pavolini di ottenere da Mussolini la militarizzazione del Partito mediante la costituzione delle Brigate Nere, fondate con la dichiarata intenzione di combattere innanzitutto contro i partigiani[111] prima ancora che contro gli Alleati: la loro creazione rappresentò il punto di non ritorno della guerra civile, definita da Pavolini una «guerra di religione»[112], tanto che nella loro creazione viene individuato «il punto culminante dell'impegno fascista nella guerra civile»[113]. Le brigate furono utilizzate eminentemente in operazioni antipartigiane, ma anche, nonostante ciò fosse contrario al loro intento originario, in compiti di polizia, quali arresti e requisizioni, anche dirette alla cattura degli ebrei; solo sporadicamente parteciparono a scontri bellici, che riguardarono quei reparti che si trovarono a dover affrontare le unità alleate in offensiva o che rimasero nelle città del nord dopo l'evacuazione delle truppe regolari formando gruppi di resistenza e franchi tiratori.

Le Brigate Nere e la GNR si distinsero per la mancanza di disciplina e per l'estrema durezza impiegata nella repressione, al punto che in più occasioni gli stessi comandi tedeschi e talvolta i questori italiani protestarono per le violenze gratuite, le esecuzioni sommarie e la loro spettacolarizzazione attraverso l'esposizione di cadaveri nelle strade. Ad esempio, sul finire del 1944 il generale Frido von Senger und Etterlin, preoccupato per la tenuta dell'ordine pubblico, contestò alle autorità fasciste di Bologna i metodi della brigata di Franz Pagliani, per poi determinarne l'espulsione dalla città all'inizio del 1945[114].

L'operazione militare più importante cui presero parte le brigate fu l'azione, portata a termine con successo di concerto con reparti della GNR e tedeschi, per la riconquista della Val d'Ossola e la distruzione dell'ominima repubblica partigiana. Mancò quasi sempre il contatto col nemico angloamericano, poiché l'impiego delle brigate fu costantemente ridotto alle retrovie del fronte, dove si svolsero i pochissimi episodi che le videro coinvolte al di fuori della guerra civile.

I tre partigiani Mario Cappelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani impiccati pubblicamente dai tedeschi il 16 Agosto 1944 a Rimini

La necessità per la RSI di mantenere l'ordine e riaffermare la sovranità sul territorio era imperativa anche per poter gestire le relazioni coi tedeschi, in maniera da cercare di riacquisire posizioni e contemporaneamente impedire che le autorità germaniche – con la scusa di dover assicurare le retrovie alle loro armate – scavalcassero le autorità repubblicane. Nonostante tutti gli sforzi, questo obiettivo fu mancato, e il deflagrare sempre più duro della guerra civile, unito all'incapacità dei fascisti di mantenere autonomamente l'ordine pubblico e contrastare i partigiani, consentì ai tedeschi di erodere anche il poco potere che formalmente la RSI era riuscita a farsi lasciare[115].

In questa guerra «a tre»[116] i tedeschi mantennero un atteggiamento ambiguo, non esitando a sacrificare i fascisti nel nome del quieto vivere coi partigiani[117]. In diversi casi[118] i tedeschi offrirono ai comandi partigiani coi quali erano venuti in contatto "carta bianca" nelle azioni contro i fascisti, purché fossero risparmiati i reparti germanici. Nonostante molti dei comandanti partigiani abbiano rifiutato accordi simili, il clima di «odio contro i fascisti rispetto a quello contro i tedeschi»[119] sembra prevalere nell'ambito delle motivazioni che spingevano i partigiani alla lotta. Questo genere di motivazioni erano prevalenti fra i partigiani di area azionista, mentre alcuni commissari comunisti vedevano comunque con preoccupazione la possibilità di un «offuscarsi del carattere nazionale della lotta»[119]. In altri casi si giunse a volte ad accordi locali, specialmente con elementi partigiani non azionisti o comunisti, per esempio le Fiamme Verdi[120], con scopi tattici oppure per raggiungere un modus vivendi di tipo patriottico o addirittura con temporanee alleanze «per la lotta alle bande estremiste e ai delinquenti comuni»[121] presenti in ampie zone del Paese.

Questi contatti ottenevano il risultato di provocare aspri contrasti dentro l'uno e l'altro schieramento: le formazioni partigiane si accusavano tra loro di intelligenza col nemico, e di sfruttare temporanee tregue coi nazifascisti a danno di reparti partigiani di diverso allineamento ideologico oppure di volersi conservare lasciando il grosso delle perdite ad altri, in attesa del momento buono per una resa dei conti. In particolare sono azionisti e comunisti che nelle loro denunce mostrano il timore di trame strette alle loro spalle fra partigiani "di centro e di destra" con i nazifascisti[122]. In non pochi casi fra reparti partigiani si consumarono scontri e vendette (uno dei più eclatanti dei quali fu quello della Malga Porzûs).

Il problema della guerra civile fra italiani fu molto sentito da entrambe le fazioni in lotta: molti furono coloro i quali ebbero forti obiezioni di coscienza verso questo tipo di guerra, ma molti furono anche gli intransigenti. Inoltre, sebbene i comandi militari angloamericani non volessero affatto una crescita oltremisura del movimento partigiano ed un suo impegno militare al di là delle esigenze alleate (sostanzialmente: spionaggio e raccolta di informazioni; sabotaggio; messa in salvo di agenti, piloti abbattuti e fuggiaschi alleati), le radio di propaganda alleata (Radio Algeri, Radio Londra, Radio Milano Libertà, Radio Bari) incitavano apertamente all'omicidio nei confronti degli esponenti del fascismo repubblicano[123], lanciando avvertimenti intimidatori e diffondendo notizie circa domicilio, abitudini, frequentazioni ed eventuali coperture di questi, affinché si sentissero perennemente braccati.

Attentati, rappresaglie, controrappresaglie

Il più scottante dei problemi legati alla guerra civile in Italia è quello delle rappresaglie, delle loro cause e delle loro conseguenze. Fin dai primissimi episodi della guerra, le contrapposte fazioni definirono le rappresaglie attraverso schemi che – sopravvissuti al conflitto – hanno costituito la base della cosiddetta "vulgata resistenziale" e della tesi reducistica neofascista.

Per la fazione resistenziale, le rappresaglie erano stragi che testimoniavano ad un tempo la rabbiosa impotenza degli occupanti nazifascisti e la loro costituzionale bestialità nei confronti di una popolazione che li odiava.

Per la fazione neofascista, le rappresaglie erano scientificamente cercate dai partigiani del PCI, attraverso azioni ed attentati volti coscientemente a colpire gli elementi più moderati del Fascismo repubblicano e contemporaneamente a scatenare quelli più intransigenti e i tedeschi.

Quest'ultima accusa è anche il principale sostegno della versione neofascista della tesi della "guerra civile".

La storiografia scientifica moderna ha accolto e sintetizzato entrambe le tesi enucleando da un lato le motivazioni psicologiche delle azioni di rappresaglia – legate al nichilismo del Fascismo repubblicano[124], al "bisogno di vendetta" generalizzato, alla scarsa considerazione che godevano gli italiani di fronte ai tedeschi dopo l'8 settembre – ma anche riconoscendo la strategia perseguita dalle forze della Resistenza – soprattutto dai comunisti – volta all'innalzamento del livello di scontro, all'aperto coinvolgimento delle masse popolari, ad ottenere lo scollamento fra popolazione, fascisti e tedeschi[125]. Non mancano peraltro sostenitori di quest'ultima tesi anche nella letteratura resistenziale[126].

Alcuni hanno evidenziato come per aumentare il clima di tensione e lo scollamento fra popolazione e fascismo repubblicano o per frustrare quei tentativi delle Propaganda Staffeln tedesche di fraternizzare con i civili italiani per disporli alla collaborazione, i comandi partigiani cercarono coscientemente di scatenare le rappresaglie nazifasciste. In questo quadro andrebbero inquadrati gli attentati di via Rasella a Roma e di piazzale Loreto a Milano, ma anche i giri di vite nei confronti di quei comandanti partigiani troppo rispettosi delle convenzioni di guerra[127].

D'altro canto, gli stessi partigiani fecero uso della rappresaglia – anche se sotto forme differenti, per esempio nell'uccisione dei congiunti di aderenti alla RSI – e soprattutto della controrappresaglia, minacciando esplicitamente fucilazioni in varie proporzioni di prigionieri tedeschi o fascisti per ogni partigiano o patriota ucciso dalle forze dell'Asse.

Gruppi speciali fascisti

Milano, Piero Parini e Francesco Colombo presso l'Arena Civica con gli arditi della Compagnia Giovanile "Alfiero Feltrinelli"

Oltre alle unità regolari dell'Esercito Repubblicano ed alle Brigate Nere, operarono vari reparti speciali fascisti, spesso inizialmente costituitisi spontaneamente e poi inquadrati nelle forze armate di Salò. Queste formazioni, costituite in buona parte da delinquenti comuni[128], adottarono spesso metodi brutali durante operazioni di controinsurrezione, repressione, rappresaglia e controspionaggio.

Tra le prime a formarsi, vi fu la banda dei federali Bardi e Pollastrini a Roma, i cui metodi grossolani e volgari scandalizzarono persino i tedeschi[129]. Successivamente, sempre a Roma fu molto attiva la Banda Koch che contribuì a smantellare la struttura del Partito d'azione nella capitale. La cosiddetta Banda Koch, guidata da Pietro Koch, personalità discussa inizialmente collegata con Bardi e Pollastrini, in seguito sotto la protezione del generale Kurt Mältzer, comandante militare della piazza[130], si distinse per i metodi violenti basati anche sulla tortura contro partigiani e antifascisti. Dopo la caduta di Roma Koch si trasferì a Milano e divenne l'uomo di fiducia del ministro dell'Interno Guido Buffarini Guidi, continuando la sua azione di repressione e partecipando alle lotte intestine tra i vari poteri e le varie polizie della Repubblica[131]. In Toscana e nel Veneto fu attiva la Banda Carità, costituita come Reparto Servizi Speciali all'interno della 92ª Legione Camicie Nere, che si rese protagonista di gesti come l'Eccidio di Piazza Tasso.

A Milano operò invece la Squadra d'azione Ettore Muti (poi Legione Autonoma Mobile Ettore Muti) agli ordini dell'ex caporale dell'esercito Francesco Colombo, già espulso dal PNF durante il ventennio per malversazioni. Ritenendolo pericoloso per l'ordine pubblico, nel novembre 1943 il federale Aldo Resega avrebbe voluto destituirlo, ma venne ucciso da un attacco dei GAP; Colombo rimase al suo posto, nonostante varie denunce e inchieste[132]. Furono gli squadristi della Muti insieme a militi della GNR a compiere il 10 agosto 1944 la strage di Piazzale Loreto, di cui furono vittime quindici detenuti antifascisti, come rappresaglia per un assalto contro un camion tedesco. In seguito al massacro, lo stesso podestà e capo della privincia di Milano, Piero Parini, rassegnò le dimissioni nel tentativo di rinsaldare la coesione delle forze moderate, minata dalla durezza della repressione tedesca e delle varie milizie della Repubblica Sociale[133].

Anche la catena di comando dell'Esercito Nazionale Repubblicano in primo luogo nella persona del maresciallo Graziani e in subordine dei suoi vice Mischi e Montagna contribuì alla repressione antipartigiana coordinando le azioni delle truppe regolari, della GNR, delle Brigate Nere e delle varie polizie semiufficiali di concerto con i tedeschi, cui vennero spesso fornite anche informazioni su persone e gruppi di resistenti poi utilizzate per rappresaglie; inoltre, di certo, contribuì a rendere l'Esercito Repubblicano uno strumento realmente operativo, grazie al famoso e draconiano Bando Graziani. Va detto comunque che Graziani almeno nominalmente fece sì che le forze armate della RSI fossero unitarie e apolitiche, dipendenti quindi non dal Partito Fascista Repubblicano ma dal comando supremo delle forze armate[134].

L'insurrezione

Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione Sunrise.

Nei primi mesi del 1945, comprendendo che la guerra era perduta, il comandante delle SS e delle forze di polizia tedesche in Italia (Höhere SS und Polizeiführer, HSSPF), il generale delle SS Karl Wolff, prese contatto con gli agenti segreti alleati in Svizzera. Nel tentativo di accattivarsi le simpatie alleate, ordinò diverse scarcerazioni di esponenti partigiani catturati (primo fra tutti, Ferruccio Parri) e quindi il 12 marzo 1945 impose alle truppe alle sue dipendenze la cessazione delle operazioni antipartigiane, eccetto l'autodifesa e il minimo indispensabile per salvare la «necessaria apparenza»[135]. Questo ordine fu reiterato il 26 aprile[136], il giorno seguente l'insurrezione. L'esercito clandestino, quindi, poté operare con tutta la sua forza contro i reparti fascisti repubblicani che, privi di ordini e disorientati si trovarono praticamente abbandonati dai tedeschi.

Il 9 aprile 1945 gli Alleati scatenarono l'offensiva finale sulla Linea Verde. il 10 il PCI inviava una circolare ai comandi partigiani comunisti di tenersi pronti all'insurrezione in ogni caso. Il 19 l'intero CLNAI si accordava sull'insurrezione, proprio lo stesso giorno in cui le avanguardie alleate entravano a Bologna.

Nel frattempo, Mussolini aveva abbandonato Gargnano e si era recato a Milano, dove sperava di poter prendere contatti sia con gli antifascisti del CLNAI, sia con eventuali agenti stranieri. Tramite di queste trattative era la curia del cardinal Ildefonso Schuster. Gli ultimi giorni della RSI si fanno convulsi, accavallandosi ordini contraddittori fra loro, mentre alcuni elementi – principalmente nella Guardia di Finanza del generale Diamanti – già erano segretamente passati col nemico. L'invasione alleata della Valle del Po dopo il 20 aprile si era fatta inarrestabile, e solo il 25 Mussolini si rese conto che le promesse di Karl Wolff di resistenza ad oltranza erano false: i tedeschi non combattevano quasi più, ma si ritiravano, abbandonando frequentemente le forze fasciste come retroguardia, senza preavviso e prive di ordini.

Negli ultimi giorni della RSI furono le Brigate Nere ad offrire una certa opposizione contro l'invasione alleata e l'insurrezione partigiana; circa 5.000 brigadisti neri costituirono il nerbo della cosiddetta "Colonna Pavolini", che, nell'intenzione del gerarca, avrebbe dovuto raggiungere la Valtellina per l'ultima resistenza. A Torino, in particolar modo, i franchi tiratori della Brigata Nera Ather Capelli si opposero alle forze partigiane fino alla fine di aprile 1945. In Romagna alcune Brigate Nere – durante la ritirata – impedirono ai tedeschi di operare distruzioni e rappresaglie. Infine, presso i pozzi di petrolio di Montechino, reparti delle BBNN combatterono assieme a quelli dell'ENR e della GNR per contenere l'avanzata delle forze americane.

Alla Repubblica Sociale non restavano che pochi giorni, e Mussolini si agitava fra diverse opzioni. Contemporaneamente tentava di dare l'avvio alla socializzazione, per lasciare all'Italia un'eredità socialista (le "uova di drago"), anche come ultima vendetta contro le "plutocrazie". Sul piano militare, mentre Diamanti e Borghese proponevano di attendere l'inevitabile resa arma al piede, Pavolini e Costa continuarono a propugnare l'idea di un'estrema resistenza in Valtellina, mentre Graziani rimaneva ancora convinto che le truppe tedesche combattessero lealmente al fianco di quelle repubblicane e rifiutava ogni ipotesi di accordo che avrebbe consentito per la seconda volta ai tedeschi di accusare l'Italia di tradimento[137].

Disorientato dalla scoperta delle trattative segrete di Wolff con gli angloamericani, Mussolini, dopo un inutile tentativo nel pomeriggio del 25 aprile di trattare con gli esponenti del CLNAI con la mediazione del cardinale Schuster[138] alle ore 20 dello stesso giorno decise di abbandonare Milano in direzione del lago di Como, per motivi ancora non chiari[139]. Con la partenza del Duce, seguito da una lunga colonna di fascisti in armi e di gerarchi, le forze della Repubblica sociale a Milano si disgregarono.

Nel frattempo, mentre si moltiplicano gli scontri a fuoco fra insorti e forze repubblicane e tedesche, lo stesso 25 aprile Sandro Pertini proclamava alla radio[140] lo sciopero generale insurrezionale della città di Milano.

Arrivo dei partigiani nelle grandi città e ultimi scontri

A partire dalla mattina del 26 aprile tutta la Valle del Po si trovò in insurrezione. I tedeschi oramai erano in ritirata sotto i bombardamenti dell'aeronautica alleata e le avanguardie americane oltre il Po a Guastalla e Borgoforte combattevano contro i reparti repubblicani della divisione "Etna", contro il battaglione "Debiça" delle SS Italiane e contro il gruppo corazzato "Leonessa". Per le truppe della Repubblica Sociale restava ancora valido il piano Nebbia Artificiale, che nelle intenzioni di Kesselring e Vietinghoff avrebbe dovuto condurre ad una ritirata strategica dietro la linea Po-Ticino per una resistenza ad oltranza. In realtà già dal 20 i comandi germanici intendevano retrocedere fino all'Adige.

Le forze repubblicane erano a questo punto abbandonate: le divisioni tedesche dell'Armata Liguria sul fronte alpino (DXXV Armeekorps, generale Schlemmer) si stavano ritirando dal 23 verso la linea Po-Ticino, senza aver avvisato i reparti italiani delle divisioni "Littorio" e "Monterosa", che restarono da sole ad affrontare l'offensiva francese e gli attacchi partigiani. Le divisioni e i reparti schierati sul fronte meridionale (Savonese, Langhe e Garfagnana) invece restarono compatte, ed iniziano a ripiegare verso Ivrea, in lunghe colonne, soprattutto dopo lo sfondamento della Linea Verde a Massa, tenuta dalla malferma 148ª Divisione di fanteria tedesca.

Milano, aprile 1945. Soldati della Xª Flottiglia MAS catturati e fatti prigionieri dal IV battaglione della Guardia di Finanza del colonnello Malgeri.

A Genova il comandante della piazza, generale Meinhold, cercò di trattare, senza successo, con i partigiani della brigata garibaldina Pinan-Cichero appostati sulle montagne che dominano la città, mentre il capitano di vascello Bernighaus organizzava la distruzione del porto. Dopo violenti scontri al centro tra le squadre GAP e i garibaldini della brigata Balilla e i reparti tedeschi e fascisti, il generale Meinhold firmò la resa del presidio alle ore 19.30 del 25 aprile. Il capitano di vascello Berlinghaus ed il capitano Mario Arillo della Xª MAS continuarono tuttavia la resistenza, decisi a eseguire le distruzioni previste; dopo nuovi scontri con i partigiani della Cichero e della Mingo scesi in città la sera del 26 aprile anche gli ultimi reparti nazifascisti si arresero. I partigiani avevano salvato il porto dalla distruzione e catturato 6.000 prigionieri che furono consegnati agli alleati giunti il 27 aprile a Nervi.[141].

A Torino, mentre alcune colonne nazifasciste si avviavano verso Ivrea, per attendere gli alleati e arrendersi, i reparti repubblicani radunarono alcuni reparti e ingaggiarono aspri scontri coi partigiani che raggiunsero la città dalle montagne il 28 aprile. Le colonne militari tedesche riuscirono a ripiegare attraverso l'abitato. Quindi, mentre alcuni reparti repubblicani abbandonavano il capoluogo piemontese per avviarsi nella Valtellina, il grosso dei fascisti torinesi rimasti in armi decideva di continuare a combattere. Le brigate Garibaldi di "Nanni", gli autonomi di "Mauri", i reparti "Giustizia e Libertà", liberarono gran parte della città dopo violenti combattimenti e salvaguardarono i ponti in attesa dell'arrivo degli alleati che giunsero a Torino il 1º maggio[142].

La sera del 25 aprile, Milano era ancora relativamente tranquilla, alcuni reparti fascisti decisi a combattere avevano abbandonato la città, mentre alcuni tedeschi restavano in armi nei loro quartieri, senza combattere secondo gli ordini di Wolff. La Brigata Nera "Aldo Resega" abbandonò le sue posizioni dentro la città, la Guardia Nazionale Repubblicana si sciolse spontanemente, mentre la Xª MAS, invece di ripiegare in Valtellina, rimase accasermata e si arrese senza combattere[143]. La Guardia di Finanza invece si unì agli insorti e, comandata da Alfredo Malgeri, occupò facilmente, nella notte tra il 25 e il 26, i principali punti nevralgici della città[144]. Il 27 aprile, alle ore 17.30, arrivarono in città con poche difficoltà i partigiani garibaldini delle brigate di Cino Moscatelli, mentre altri reparti occuparono Busto Arsizio e le strade per la Valtellina su cui in teoria avrebbero dovuto ripiegare gli ultimi reparti della RSI[145].

La morte di Mussolini

Lo stesso argomento in dettaglio: Morte di Benito Mussolini.
Pier Bellini delle Stelle comandante partigiano che catturò Mussolini.
Walter Audisio guidò la fucilazione sommaria di Mussolini.

Giunto a Como la sera del 25 aprile, Mussolini ripartì il 27 con i gerarchi e un reparto di SS della guardia del Duce[146], percorrendo il lungolago occidentale; dopo un vano tentativo dei ministri Tarchi e Buffarini Guidi di entrare in Svizzera, la colonna, a cui si erano aggiunti Pavolini e la Petacci, riprese verso nord, rafforzata dall'arrivo di un gruppo di soldati tedeschi della contraerea, ma alle porte di Musso, venne bloccata dai reparti partigiani del comandante Pier Bellini delle Stelle "Pedro"; dopo una lunga trattativa ai soldati tedeschi, compresa la guardia SS di Birzer, fu concesso di proseguire verso la Germania, mentre gli italiani vennero abbandonati nelle mani dei partigiani. Nonostante un travestimento da soldato tedesco, Mussolini venne riconosciuto e catturato[147].

Condotti a Dongo, Mussolini e la Petacci vennero separati dagli altri e portati a Giulino di Mezzegra dove trascorsero la notte in una casale e quindi consegnati ad un gruppo di partigiani inviati dal CLNAI di Milano, guidati da Walter Audisio ("colonnello Valerio") e Aldo Lampredi ("Pietro"), importanti esponenti comunisti della Resistenza. Quindi, il 28 aprile 1945, Mussolini e la Petacci vennero uccisi, verosimilmente dopo le ore 16, da Audisio e da Michele Moretti lungo il muro di cinta di una villa su una strada isolata[148].

Audisio e Lampredi ritornarono a Dongo dove, alle ore 17:17, i partigiani della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia del comandante Alfredo Mordini ("Riccardo"), fucilarono sulla riva del lago quindici gerarchi tra cui Pavolini, Barracu, Bombacci, Mezzasoma, Liverani, Zerbino, e il fratello della Petacci, Marcello[149][150]. I cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi fucilati vennero trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto, luogo di una precedente sanguinosa rappresaglia nazifascista, dove furono esposti al pubblico e fatti oggetto di oltraggi da parte della popolazione[151].

I prigionieri di guerra della RSI, comprendenti soldati, sostenitori e collaboratori a vari livelli della Repubblica Sociale, vennero detenuti, alcuni sino al dicembre del 1947, in vari campi di concentramento (tra cui quello di Coltano), siti a Pisa, Rimini, Viareggio ed in altre località.

La zona grigia

La categoria storiografica che va sotto il nome di "zona grigia" fu introdotta per la prima volta da Renzo De Felice ed è stata, nel tempo, oggetto di vari studi[152].

Il termine "zona grigia" indica quella parte della popolazione italiana, maggioritaria, che assistette alla guerra civile senza prenderne parte, oscillando su posizioni di opportunismo e mantenendo un rigido atteggiamento attendista. Rifiutando di schierarsi costoro venivano visti da entrambi gli schieramenti come traditori[153][154]. Il sentimento prevalente era quello di aspirazione alla pace. Gli attendisti detestavano i fascisti – considerati come causa prima del perdurare della guerra e dei sacrifici che essa comportava – e maltolleravano i partigiani, a loro volta ritenuti causa delle rappresaglie, rastrellamenti e – in ultima analisi – del coinvolgimento delle popolazioni civili in una guerra che non era sentita come propria. Naturalmente le sfumature di comportamento delle popolazioni della "zona grigia" erano estremamente varie e la memorialistica e la letteratura di parte ha di volta in volta sottolineato la simpatia manifestata per i reparti e le istituzioni repubblicane oppure la solidarietà verso la lotta partigiana, concretizzatasi anche nell'occultamento dei prigionieri alleati, dei piloti alleati abbattuti e degli ebrei nonché nel sostegno dato ai renitenti alla macchia e ai militari del Regio Esercito in clandestinità.

Tuttavia le reazioni delle due fazioni in lotta nei confronti delle manifestazioni di simpatia per l'altra – reciprocamente considerate un "tradimento" – e che andavano da vendette (saccheggi, vandalismo sui beni e gli animali dei civili, cattura di ostaggi, violenze fisiche) a rappresaglie sanguinose, fino all'invocazione dei bombardamenti alleati su quei borghi che avessero accolto festosamente il passaggio di un reparto repubblicano[155] o l'abbruciamento di quei paesi che avessero appoggiato le formazioni partigiane, aumentarono il distacco delle popolazioni, tanto che con l'avvicinarsi della primavera 1945 la stanchezza e il rancore delle popolazioni verso i contendenti erano diffuse.

Alcune frange fasciste tendevano ad enfatizzare l'isolamento in cui versavano, per alimentare il mito dei «pochi, ma sani». Un esempio è dato dalla protesta contro il giornale di Roberto Farinacci, che scrisse che al funerale di Igino Ghisellini aveva partecipato l'intera polazione di Ferrara:

«Anche sui giornali quotidiani è bene che il 'popolo bue' sappia che intorno alle bare dei fascisti, come ai tempi di Berta, non c'erano e non ci sono che i fascisti, soli con la loro inesauribile fede ed il loro grande amore di Patria. Neppure sui giornali vogliamo che il ricordo che noi abbiamo dei nostri martiri e dei nostri morti venga confuso con quello della 'popolazione tutta'. Ce ne freghiamo del consenso popolare, perché ormai sappiamo che questo non può assolutamente esistere là dove di chiedono sacrifici per la salvezza della Patria[156]

La stanchezza e il disimpegno delle popolazioni civili non fu però un fenomeno solo registrato nelle regioni coinvolte direttamente dalla guerra civile, ma riguardò l'intero Paese, con il rifiuto del richiamo di leva, con una renitenza diffusa e malamente repressa dagli organi centrali dello Stato regio.

Fra i motivi di questo scollamento di parte della popolazione dalla politica e dall'impegno vi è la percezione del peso dell'impegno dell'Italia regia nella lotta all'Asse come insignificante (e dunque un'ulteriore inutile sofferenza per le popolazioni costrette a sostenerlo)[157], l'epurazione delle classi dirigenti fasciste[158], vista a seconda del punto di vista come troppo leggera, oppure come un'ingiusta persecuzione perpetrata in un Paese dove pressoché tutti potevano essere considerati ex fascisti[159], il diffondersi della miseria e della fame, appena ostacolata dalle elargizioni alleate (considerate come un'elemosina)[160] e del mercato nero (ampiamente tollerato dalle autorità d'occupazione se non addirittura gestito dall'Allied Military Government)[161]. È nel 1944 che nasce appunto a Roma il Fronte dell'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, reazione politica all'autolegittimazione dei partiti del CLN.

La delinquenza comune

Il crollo dell'autorità centrale, la successiva faticosa ripresa del governo regio al sud e di quello fascista repubblicano al nord provocarono un vuoto di potere del quale approfittarono individui e bande dediti al brigantaggio ed alla delinquenza. In tutto il Paese si assisté ad una recrudescenza dei fenomeni criminali[162], spesso favoriti anche dal torbido clima politico del periodo, con aderenze di volta in volta a questa o a quella fazione politica o potenza belligerante.

«Rapina, tortura, saccheggio, linciaggio: concetti da cui era aliena ogni mente onesta [...] sono diventati il nostro pane spirituale quotidiano. [...] La cronaca nera è saltata dalla quarta pagina dei quotidiani alla prima.»

L'impatto sulle popolazioni era molto duro e in molte zone della RSI le autorità non riuscirono a far fronte al dilagare del banditismo[163], anche per la crisi nel controllo del territorio provocata dall'internamento di numerosi carabinieri (a causa della loro fedeltà monarchica) e dall'incompleta od inadeguata sostituzione coi militi della Guardia Nazionale Repubblicana. Addirittura in alcune zone la latitanza di ogni potere statuale e la presenza di episodi di banditismo e delinquenza spinse le popolazioni locali ad organizzare proprie ronde armate a difesa delle proprietà[164].

In alcuni casi a commettere gesti di brigantaggio erano gli stessi elementi fascisti o partigiani (anche a viso aperto) e vi furono episodi in cui uomini travestiti in uniforme compivano ruberie, sia per avvalersi della soggezione che la vista di una divisa provocava nel popolo, sia per creare un vero e proprio "danno d'immagine" al nemico, facendo cadere su di esso la colpa di furti, delinquenze e rapine[165]. Inoltre per sua stessa natura la guerriglia partigiana aveva necessità di "autofinanziamento" e di conseguenza «le rapine alle banche, alle casse delle aziende e ai danni di ricchi proprietari e imprenditori [...] divennero pressochè una necessità alla quale tutte o quasi le formazioni finirono per far ricorso abbandonandosi (soprattutto quelle garibaldine) assai spesso a soprusi, imposizioni, grassazioni e violenze indiscriminate...»[166].

Per i partigiani si pose quindi ben presto il problema di distinguersi dai banditi comuni, poiché l'incertezza della «linea di demarcazione» tra partigianato e banditismo[167] nuoceva fortemente all'immagine della Resistenza presso il popolo[168]. Su questo problema, Nuto Revelli scrisse:

«Il fenomeno del banditismo si sta allargando. Ex militari sbandati della 4ª armata e delinquenti locali, mascherandosi alla partigiana, terrorizzano le popolazioni. Basta un cappello alpino, una giubba grigioverde, per confondere le acque. Tanti ne pescheremo, tanti ne fucileremo. Se vorremo evitare che i tedeschi e i fascisti facciano di ogni erba un fascio, speculandoci su per diffamarci, non dovremo perdonare[167]

Oltre a collaborare con i carabinieri al servizio della RSI[167], i comandi partigiani adottarono misure rigorose per reprimere la delinquenza. In primo luogo, furono emarginate le formazioni che non riconoscevano l'autorità del CLN e del CVL, alle quali fu negata ogni legittimità. Fu inoltre previsto che chi avesse usato i buoni di prelevamento del CLN usurpandone il nome sarebbe stato giudicato da un tribunale popolare, mentre chi lo avesse fatto senza nemmeno servirsi del nome sarebbe stato fucilato[169]. La severità di tali provvedimenti, testimoniata dalle numerose condanne alla pena di morte inflitte ai partigiani che si resero colpevoli di rapine e furti, era richiesta – come evidenzia Claudio Pavone – dalla «necessità di autolegittimazione senza ombre del movimento resistenziale»[170].

Situazione speculare quella venutasi a creare con i soprusi e le rapine commesse da tedeschi e fascisti, che spesso risultavano incontrollabili nonostante ogni sforzo e stigmatizzazione da parte del potere centrale[171]. Schegge impazzite di entrambe le compagini si comportavano in maniera banditesca. Fra i tedeschi, inoltre, si segnalavano per particolare efferatezza quei reparti formati da personale "ost" (tartari, russi bianchi e, in misura minore, cosacchi[172] eccetera), che spesso si abbandonavano a violenze e stupri, e non di rado dovevano essere tenuti a bada con vero e proprio controterrorismo da parte delle autorità militari repubblicane. D'altro canto gli stessi tedeschi non esitavano a passare per le armi quegli elementi italiani (guide, spie, delatori, informatori o collaborazionisti di vario genere, ma anche regolari) che approfittavano dei rastrellamenti per compiere grassazioni e rapine.

Risulta difficile studiare il problema della criminalità comune nel periodo della guerra civile, poiché le fonti primarie di parte fascista o tedesca[173] (notiziari e relazioni delle questure, dei comandi GNR e del Ministero degli Interni) e i resoconti (diari di guerra, memoriali) sono viziate da un punto di vista politico, che tende a confondere indiscriminatamente partigiani, briganti, militi fascisti e grassatori[174]. Inoltre la stessa natura della guerra intestina creava delle aderenze, scambi di ruolo, intelligenze fra fazioni, tali da rendere a volte impossibile discernere fra combattenti politici e semplici delinquenti o addirittura fra combattenti dell'una o dell'altra parte. Ne è esempio il caso della città reatina di Leonessa, nei cui dintorni fra 1943 e 1944 si costituì una camarilla di trafficanti di bestiame rubato con la connivenza e la copertura di alcune autorità repubblicane e la collaborazione di alcuni nuclei di partigiani, tale da scatenare la successiva rappresaglia nazista, condotta sulle semplici indicazioni di una donna mentalmente disturbata, che condusse alla morte di 51 innocenti (fra cui diversi fascisti ed elementi del CLN locale)[175]. Altro caso significativo è dato dal cosiddetto "Battaglione Davide"[176], una formazione partigiana dedita al banditismo comune nella zona di Canelli, duramente contrastata dai rastrellamenti fascisti, che improvvisamente si mise a disposizione delle autorità, addirittura proponendosi come "battaglione bersaglieri". Dopo violenti screzi sia coi fascisti della Guardia Nazionale ("Davide" – al secolo Giovanni Ferrero – si definiva pubblicamente "antifascista" e "filotedesco" e i suoi uomini gridavano provocatoriamente «morte al Duce») che con altre bande partigiane dei dintorni, venne d'arbitrio prelevata in blocco dai nazisti per essere impiegata nelle SS e come guardia nella Risiera di San Sabba a Trieste. A Torino la GNR catturò una banda di delinquenti minorili che rapinava tabaccherie ed altri esercizi commerciali rilasciando dei "pagherò" con un falso timbro "Brigata Garibaldi"[177]. A Roma – durante l'occupazione tedesca – un gruppo di truffatori diffondeva false notizie circa "liste di proscrizione" tedesche e fasciste, estortcendo poi alle terrorizzate vittime denaro o beni coi quali, assicuravano, sarebbero riusciti a corrompere dei fidati funzionari per ottenere la cancellazione dei nomi dalle liste.

Nel territorio del Regno proprio in questo periodo si assisté alla nascita del fenomeno del Bandito Giuliano, sul cui ruolo criminale o politico, le aderenze con l'occupante americano o addirittura con frange dei servizi segreti fascisti-repubblicani il dibattito storiografico è tuttora aperto[178]. Sempre nel Regno con l'occupazione alleata[179] e la drammatica situazione sociale ed economica favoriva la rinascita o la recrudescenza del fenomeno camorristico – in special modo a Napoli ed a Bari, dove la presenza di basi logistiche alleate era terreno fertile per i traffici del mercato nero e per la prostituzione, anche infantile[180]. Anche al Sud dunque c'è stata una recrudescenza del banditismo (anche a carattere sociale e spinto dai motivi tradizionali della fame, della disperazione e del crollo di ogni riferimento statuale), della delinquenza comune e organizzata, della corruzione, corresponsabile la scarsa autorità esercitata dal Regio Governo[179].

Violenze postbelliche

Alcuni storici che si sono occupati del fenomeno della guerra civile in Italia hanno preso in considerazione i fenomeni di violenza e rappresaglia posbelliche, considerando la durata della guerra civile superiore alla fine effettiva della Seconda guerra mondiale in Europa. Pertanto per costoro non è facile identificare una vera e propria data finale del fenomeno, che tende a sfumare con il diradarsi degli omicidi e delle epurazioni. Alcuni hanno proposto come data finale della guerra civile l'amnistia Togliatti del 22 giugno 1946[181].

Immediatamente dopo che le forze della Resistenza partigiana riuscirono ad assumere il potere nelle città del nord, vennero istituiti tribunali improvvisati i quali – dopo un sommario giudizio – iniziarono a comminare condanne capitali per i fascisti catturati. Nei due mesi successivi all'insurrezione un numero notevole di persone fu sottoposto a processi popolari o giustiziato senza processo per aver militato nella RSI, aver manifestato simpatie fasciste o aver collaborato con le autorità tedesche. Nel clima di violenza insurrezionale si verificarono anche omicidi legati a fatti privati.

Le esecuzioni degli esponenti della Repubblica di Salò avvennero in fretta e con procedimenti sommari anche perché – constatato il mancato rinnovamento dei quadri del vecchio regime nell'Italia regia – i capi partigiani temevano che il passaggio definitivo dei poteri agli angloamericani ed il ritorno alla "legalità borghese" avrebbero impedito un'epurazione radicale. Questa volontà di accelerare i tempi trova testimonianza in una lettera in cui l'azionista Giorgio Agosti scrive al compagno di partito Dante Livio Bianco, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, che «occorre... prima dell'arrivo alleato, una San Bartolomeo di repubblichini che gli tolga la voglia di ricominciare per un bel numero di anni»[182].

Il 24 giugno 1945, Ferruccio Parri stigmatizzò duramente questi episodi nel corso del primo radiomessaggio agli italiani tenuto dopo la sua nomina a capo del governo:

«Ed ancora una parola per gli atti arbitrari di giustizia, quando non sono di vendetta, e per le esecuzioni illegali che turbano alcune città del Nord, ci compromettono con gli alleati ed offendono soprattutto il nostro spirito di giustizia. È un invito preciso che io vi formulo. Basta: e siano i partigiani autentici, diffamati da questi turbolenti venuti fuori dopo la vittoria, siano essi a cooperare per la difesa della legalità che la nostra stessa rivoluzione si è data[183]

Sulle dimensioni effettive delle violenze postbelliche si è sollevata un'aspra polemica in Italia fin dal dopoguerra. I due estremi parlano di 1.732 morti, secondo l'allora ministro Mario Scelba[184], e di trecentomila morti, secondo diverse fonti neofasciste. Reportage e studi scientifici più accurati hanno riscontrato cifre intermedie: 12.060 assassinati nel 1945 e 6.027 nel 1946 secondo lo studioso tedesco Hans Woller dell'Università di Monaco; trentamila, secondo Ferruccio Parri, in una intervista con Silvio Bertoldi[185]; il reduce della RSI Giorgio Pisanò giunse a stimare il numero dei morti fascisti o presunti tali in 48 mila, comprendendo però nel computo anche gli italiani d'Istria e Dalmazia trucidati dai partigiani jugoslavi[186]. Guido Crainz analizza i vari dati, spesso molto criticamente, ritenendo esagerate le cifre proposte da Pansa e da Pisanò e indicando invece come realistica la cifra di 9.364 uccisi o scomparsi "per cause politiche" secondo i rapporti di polizia del 1946[187], aggiungendo poi – tuttavia – un lungo elenco di violenze ed uccisioni a carattere di vera e propria jacquerie, secondo l'autore solo debolmente collegate ai fatti della guerra civile, ma piuttosto legate ad una lunga tradizione di scontri sociali e di «durezza estrema, settaria», risalenti addirittura al secolo precedente[188], o al ritorno ad una ferocia ancestrale[189].

La particolarità del caso italiano

Nonostante anche altri paesi europei come la Norvegia, i Paesi Bassi e la Francia avessero governi collaborazionisti, in nessuno di essi l'estensione del confronto armato tra compatrioti raggiunse l'intensità toccata in Italia[190].

Lo studioso di Relazioni internazionali Luigi Bonanate ha individuato proprio nella guerra civile le cause di quella che definisce l'«eccezione italiana»:

«Perché il caso italiano sfugge a ogni regola? Si considerino i casi di tre diversi paesi, Francia, Germania e Italia, e li si confrontino con le tre possibili forme di guerra che uno stato può conoscere: guerra internazionale, guerra partigiana (o di liberazione), guerra civile (che potremo considerare come tre cerchi concentrici). Ebbene, la Germania ha sperimentato esclusivamente la prima; la Francia ha conosciuto le prime due e non la terza; l'Italia tutte e tre. L'intensità della violenza nei tre casi è crescente e progressiva, fino a toccare il massimo nell'ultimo: la Germania è stata schiacciata e disgregata, ma la sua guerra è stata una sola; in Francia si è svolta, come in Italia, una fase di resistenza e poi di guerra di liberazione contro l'occupante, ma come è noto le dimensioni del movimento partigiano vi furono ben più limitate che non in Italia, la quale oltre ad avere partecipato – per così dire – a una doppia guerra internazionale (quella nazifascista a cui poi seguì quella con gli alleati occidentali), ne ha combattuta un'altra, condotta dal CLN e mirante a ricacciare i tedeschi fuori dal Paese (come la Francia), e poi ancora una terza, la più tragica e lacerante – la guerra civile – tra fascisti e antifascisti[191]

Note

  1. ^ Si veda ad esempio l'intervista, su societasalutediritti.com. allo storico francese Pierre Milza sul Corriere della Sera del 14 luglio 2005: «È stata una guerra civile, fra gente fascista e gente antifascista. Anzi, in Italia ce ne sono state due, di guerre civili. Una all'inizio del fascismo, dal 1920 al 1925, e la seconda dal 1943 al 1945»; in Germania si vedano le lezioni tenute da Thomas Schlemmer presso l'Università di Monaco dal titolo Zwischen Bündnis und Besatzung. Krieg und Bürgerkrieg in Italien 1943-1945 (Alleanza ambigua e occupazione: guerra e guerra civile in Italia 1943-1945). E ancora, durante il convegno internazionale di Studi (PDF), su dhi-roma.it. tenuto presso l'Istituto Storico Germanico di Roma il 13, 14 e 15 aprile 2005 le relazioni dello storico tedesco Wolfgang Schieder e dell'italiano Carlo Gentile, entrambi dell'Università di Colonia.
  2. ^ Eric Morris in La guerra inutile (Longanesi, 1993, p. 167) scrive: "Gli italiani erano ormai impegnati in una guerra civile. Il paese era un mosaico di realtà contrastanti. Spesso i membri di una stessa famiglia o di una stessa comunità si uccidevano fra loro in uno scontro che aveva ben poco rispetto delle norme umanitarie della battaglia".
  3. ^ vedi ad esempio l'Eccidio di Porzûs
  4. ^ a b Pavone, p. 238: «[...] sia il governo regio che il governo fascista evitarono di massima, evidentemente d'intesa con i rispettivi alleati, di schierare sul fronte gli uni contro gli altri i propri reparti regolari. È questa una conferma che la guerra civile non fu combattuta fra Regno del Sud e Repubblica sociale italiana. Fu una guerra combattuta tra i fascisti e gli antifascisti, sull'unico territorio che li vedeva presenti entrambi politicamente e militarmente, in una partita che assumeva peraltro un significato coinvolgente l'intero popolo italiano».
  5. ^ Pavone, p. 221 ss..
  6. ^ Si vedano Claudio Pavone, L'eredità della guerra civile e il nuovo quadro istituzionale, in AA.VV., Lezioni sull'Italia repubblicana, Roma, Donzelli Editore, 1994, ISBN 8879890700; Gianni Oliva, La resa dei conti, 1999, in bibliografia; Guido Crainz, L'ombra della guerra. Il 1945, l'Italia, Donzelli, 2007; e Hans Woller, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia 1943 - 1948, Il Mulino, 2008.
  7. ^ Renzo De Felice, Mussolini l'alleato 1940-1945, I, L'Italia in guerra 1940-1943, t. II, Crisi e agonia del regime, Torino, Einaudi, 1990, p. 1331, riporta che il generale Vittorio Ambrosio rimproverò a Mussolini di non aver chiesto a Hitler – durante il loro colloquio di Feltre del 19 luglio – di lasciar concludere all'Italia, stremata dalla guerra, una pace separata. Mussolini gli rispose:

    «Credete forse che questo problema io non lo senta agitarsi da tempo nel mio spirito travagliato? [...] Ammetto l'ipotesi di sganciarsi dalla Germania: la cosa è semplice, si lancia un [messaggio via] radio al nemico. Quali saranno le conseguenze? [...] E poi, si fa presto a dire: sganciarsi dalla Germania. Quale atteggiamento prenderebbe Hitler? credete forse che egli ci lascerebbe libertà d'azione?»

  8. ^ Oliva, 1998, pp. 18-19.
  9. ^ Pavone, p. 6.
  10. ^ Pavone, p. 9.
  11. ^ L'Unità del 4 agosto (edizione milanese), cit. in Pavone, p. 10.
  12. ^ Il documento, noto come "circolare Armellini", è riprodotto integralmente in Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, pp. 1689 e ss. Alcuni passi sono citati inoltre in Pavone, p. 9, come esempio della «posizione ambigua» in cui venne a trovarsi l'esercito dopo il 25 luglio.
  13. ^ Arrigo Petacco, Ammazzate quel fascista! Vita intrepida di Ettore Muti, Milano, Mondadori, 2002, ISBN 8804506865, p. 181.
  14. ^ Ad esempio da Giorgio Pisanò, come rileva Pavone, p. 226.
  15. ^ Nove fascisti uccisi in tutto il periodo 25 luglio-8 settembre, secondo fonti di polizia dell'Archivio Centrale dello Stato, cit. in AA.VV., L'Italia dei quarantacinque giorni, Milano, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, 1969, pp. 377-408. De Felice, 1997, p. 116 n., cita una fonte fascista in cui invece si contano nella sola provincia di Milano 7 fascisti o presunti tali uccisi, 91 feriti, 7190 cacciati dal lavoro, 12 milioni di danni alle abitazioni e 345 abitazioni dalle quali i fascisti furono cacciati
  16. ^ Alessandro Pavolini cit. in Osti Guerrazzi, p. 40.
  17. ^ Su invito del Ministero della Cultura Popolare, sui giornali il testo dell'armistizio fu pubblicato listato a lutto. Pavone, p. 18.
  18. ^ Pavone, pp. 17-18
  19. ^ Significativo è il caso del generale Bellomo, che organizzò la difesa del porto di Bari e mantenne il controllo della città fino allo sbarco delle forze britanniche. Vedi Sergio Dini, Il "Caso Bellomo", su Storia Militare N° 167, Agosto 2007, p. 4 ss.
  20. ^ Pavone, pp. 16-18.
  21. ^ Pavone, p. 14.
  22. ^ Vedi Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, 2003.
  23. ^ De Felice, 1995, pp. 58 ss., insiste sul termine "opportunità" in vece di "opportunismo", proprio per sottolineare la casualità delle scelte.
  24. ^ Pavone, p. 27.
  25. ^ Pavone, p. 33.
  26. ^ Revelli si riferisce alla sua esperienza come ufficiale degli alpini sul fronte orientale.
  27. ^ Pavone, p. 34.
  28. ^ Pavone, p. 169, riporta che ad alcuni giovani romani che si presentarono ai tedeschi per arruolarsi, l'ufficiale disse che «l'Italia non c'era più; non c'era più governo, esercito» e chiese: «Volete diventare soldati tedeschi?».
  29. ^ Altri si arruolarono in seguito: dei 30000 ufficiali internati in Germania dopo il passaggio dalla condizione di prigionieri di guerra ad internati militari almeno un quarto aderì alla RSI. Lotto A., Recensione su Desana P., I 360 di Colonia, in GUISC, Atti del terzo raduno nazionale, gualdo tadino (PG), 3-5 ottobre 1986, Napoli, 1987, in “Protagonisti”, 29, 1987, pp. 53-54, p. 53.
  30. ^ Pavone, p. 49: «lo schietto atteggiamento resistenziale fu di tagliare il nodo e non scegliere né l'uno né l'altro, sganciando da ogni precostituito impaccio istituzionale e da ogni vincolo ad personam l'alto problema della fedeltà a sé stessi».
  31. ^ a b Pavone, p. 37.
  32. ^ La misteriosa morte del maresciallo Pierino Vascelli, di Gesuino Loi, su terralbaierieoggi.it. URL consultato il novembre 2008.
  33. ^ Pavone, p. 42.
  34. ^ Pavone, pp. 43-45.
  35. ^ ristabilendo tra l'altro le sedi dei Fasci, come avvenne a Trieste per mano di Idreno Utimperghe
  36. ^ Oliva, 1998, pp. 158 ss.
  37. ^ Pavone, p. 18.
  38. ^ Crainz, p. 60.
  39. ^ I rapporti di polizia siciliani fanno notare come a cavalcare o a scatenare le rivolte siano gruppi di ex fascisti o di nostalgici e contemporaneamente di separatisti e gruppi inneggianti a Stalin, cfr. Crainz, pp. 58-61.
  40. ^ Crainz, p. 123.
  41. ^ Ferrari M., Recenti tendenze storiografiche sulla seconda guerra mondiale, “Annali di storia contemporanea”, 1995, 1, pp. 411-430, p. 419
  42. ^ De Felice R., La resistenza ed il regno del sud, “Nuova storia contemporanea”, 1999, 2, pp. 9-24, p. 17
  43. ^ Vendramini F., (1987) Il PCI a Belluno e l'avvio della lotta armata. Documenti, “Protagonisti”, 29, pp. 35-42, p. 37
  44. ^ De Felice R., La resistenza ed il regno del sud, “Nuova storia contemporanea”, 1999, 2, pp. 9-24, p. 21
  45. ^ De Felice R., La resistenza ed il regno del sud, “Nuova storia contemporanea”, 1999, 2, pp. 9-24, p. 22
  46. ^ Secondo alcune ricostruzioni il Führer avrebbe minacciato di trasformare l'intero territorio italiano in zona d'occupazione tedesca. Secondo De Felice, 1997, pp. 60-61, che riporta la testimonianza di Carlo Silvestri, Hitler avrebbe minacciato: «L'Italia settentrionale dovrà invidiare la sorte della Polonia se voi non accettate di ridare valore all'alleanza fra Germania e Italia ponendovi a capo dello Stato e del nuovo governo»; Questa ricostruzione è considerata inattendibile da Fioravanzo, pp. 31-51. La storica scrive a p. 49: «Il 'sacrificio' di Mussolini, costretto suo malgrado a riassumere la guida del fascismo per salvare l'Italia dalla vendetta tedesca, non è dunque altro che un mito costruito sulla base di un documento falsificato». Questa tesi è invece ripresa da Sergio Romano, La repubblica di Mussolini e le minaccie di Hitler, in Corriere della Sera, 21 gennaio 2010.
  47. ^ «Se Hitler e la Germania vincessero la guerra, Mussolini e l'Italia l'avrebbero ugualmente perduta. Per noi non c'è più via di scampo. Di là siamo nemici che si sono arresi senza condizioni, di qua siamo dei traditori»; in Benito Mussolini, Opera Omnia, XXXII, p. 180
  48. ^ Mussolini sembrò «consapevole che i tedeschi consideravano il suo governo nulla più che un governo fantoccio, insediato al potere "per puri motivi di interesse politico" e per il resto più di intralcio che di utilità per la loro politica di occupazione». De Felice, 1997, p. 437.
  49. ^ L'atteggiamento di Hitler nei confronti della RSI fu sempre oscillante ed apparentemente incoerente, oscillando da manifestazioni di amicizia - esclusivamente verso Mussolini - a una totale sfiducia, temperata solo da considerazioni d'ordine politico-propagandistiche. D'altro canto, l'intero establishment politico-militare nazista ebbe tutt'altro che una visione unitaria nel considerare il nuovo Stato italiano, di volta in volta dimostrando lealtà verso l'alleato o considerandolo terra d'occupazione. De Felice, 1995, pp. 118-119, definisce la situazione politica della RSI in relazione al potere tedesco di "poliarchia anarchica".
  50. ^ Nel 1943 nel territorio metropolitano italiano vivevano 37.100 ebrei italiani e 7.000 ebrei stranieri. Il loro numero era diminuito a seguito delle emigrazioni successive alle leggi razziali e all'inizio della guerra: il censimento del 1938 aveva registrato più di 47.000 ebrei italiani e 10.000 stranieri. Sul punto Susan Zuccotti, L'Olocausto in Italia, p. 31.
  51. ^ ii Governo Badoglio non modificò nè abrogò la legislazione razziale
  52. ^ Che considerava stranieri gli ebrei ai sensi del punto 7 del Manifesto di Verona: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica»
  53. ^ Questi i primi episodi: il 16 settembre a Merano venticinque ebrei vennero arrestati dai tedeschi e successivamente deportati: uno solo sopravviverà alla guerra; lo stesso giorno, reparti della 1. SS-Panzer-Division "Leibstandarte SS Adolf Hitler" arrestarono sedici ebrei nella località di Meina (sul Lago Maggiore), che uccisero nella notte fra il 22 e il 23 successivi: fu la prima strage di ebrei compiuta sul territorio italiano; il 18 settembre, le SS catturarono 349 profughi ebrei nei paesini al confine con la Francia, venuti in Italia dopo l'8 settembre: 330 furono rimandati in Francia e poi deportati. Ne sopravvissero solo nove.
  54. ^ Hilberg, pp. 694-695.
  55. ^ Hilberg, p. 696.
  56. ^ Hilberg, pp. 699-700.
  57. ^ "COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA", presso il sito della cattedra torinese di diritto costituzionale
  58. ^ Tra l'altro ne adottò la sede nazionale, in Piazza San Sepolcro a Milano
  59. ^ nel progetto di Costituzione si parla di Duce della Repubblica e Capo del Governo
  60. ^ E.Collotti, L'Europa nazista, pp. 407-410.
  61. ^ C. Pavone in: E.Collotti, L'Europa nazista, p. 408.
  62. ^ Intervista a Claudio Pavone: «ho ribadito che per la Repubblica sociale italiana la categoria di collaborazionismo non è del tutto adatta, perché esistono collaborazionismi, diciamo così, a posteriori, cioè in paesi più o meno democratici invasi dai nazisti e, nel loro piccolo, dai fascisti italiani. Gli invasori creano in quei paesi governi a loro asserviti, fondati sui fascisti locali che, da soli, non avevano avuto la forza di conquistare il potere. In questi casi senz'altro la categoria di collaborazionismo funziona, ma per l'Italia purtroppo non è così, perché i fascisti sono nati proprio qui e il potere, nel 1922, se lo erano conquistato da soli. [...] non era corretto considerare l'ultimo atto del fascismo italiano un collaborazionismo minore; forse non è nemmeno un collaborazionismo tout-court. [...] la categoria di collaborazionismo [...] mi sembra che stia stretta alla repubblica sociale, la quale è collaborazionismo ma non è soltanto collaborazionismo».
  63. ^ E.Collotti, L'Europa nazista, pp. 412-419.
  64. ^ Giorgio Pisanò, Gli ultimi... cit. pp. 2239 e ss.
  65. ^ M.P.Chiodo, Nel nome... cit. p. 542. L'autore definisce lo scontro "un episodio da guerra civile, il più duro del conflitto fra reparti regolari".
  66. ^ Ganapini, p. 198; Parlato, pp. 61-62.
  67. ^ Sul caso del c.g. Cagnoni la letteratura è molto scarna. cfr. Corriere della Sera del 20 settembre 1993, su archiviostorico.corriere.it.
  68. ^ De Felice, 1997, p. 493, cita anche una missione della Regia Aeronautica al nord per indurre i reparti dell'ANR a disertare per "riunire la famiglia Aeronautica" al sud
  69. ^ Simonetta Fiori, Neofascisti. Una storia taciuta (intervista a Giuseppe Parlato), in la Repubblica, 9 novembre 2006, p. 50.
  70. ^ De Felice, 1995, pp. 132-133.
  71. ^ Bocca, 1995, p. 16.
  72. ^ http://www.anpi.it/cln.htm
  73. ^ Oliva, 1998, p. 176.
  74. ^ Il nome non deve trarre in inganno circa le dimensioni reali di questi reparti, che – per le precipue esigenze della guerriglia – non potevano essere composte da più di qualche centinaio di uomini. Si ha tuttavia notizia di formazioni con alcune migliaia di effettivi, almeno fino all'estate del 1944, prima delle offensive italotedesche di "grande polizia" (cfr. Appendice in De Felice, 1997).
  75. ^ Oliva, 1998, p. 177.
  76. ^ Leo Valiani rivendicava anche l'esistenza di "terroristi del Partito d'Azione". Cfr. Pavone, p. 495.
  77. ^ cui aderirono uomini e donne come Giovanni Pesce "Visone", Ilio Barontini "Dario", Dante Di Nanni, Giuseppe Bravin, Alessandro Sinigaglia, Bruno Fanciullacci, Rosario Bentivegna.
  78. ^ A tal fine i gappisti erano sottoposti ad una dura disciplina ed alla necessità di condurre una vita clandestina sotto falso nome. Vedi M. Rendina, Dizionario... cit. p. 68 voce "Gap" e Pavone, p. 500.
  79. ^ Obiettivo degli attentati erano i luoghi dove le truppe dell'Asse trovavano svago (cinema, ristoranti, alberghi) o dove avvenivano "fraternizzazioni" con la popolazione civile.
  80. ^ Pavone, p. 496 e ss., et alia
  81. ^ . Un attentato venne anche pianificato a Roma contro Vittorio Mussolini, ma fu sventato dalla polizia fascista, messa in preallarme dall'intercettazione dei messaggi fra GAP. La lista degli obbiettivi dei GAP è in M. Rendina, Dizionario... cit. p. 69 voce "Gap"
  82. ^ a b M. Rendina, Dizionario... cit. p. 68 voce "Gap"
  83. ^ Pavone, p. 493.
  84. ^ Pavone, p. 500.
  85. ^ Per es. Leo Valiani, in Pavone, p. 495. Pavone concorda - in linea generale - con l'affermazione di Valiani, ammettendo delle eccezioni
  86. ^ Dante Livio Bianco, cit. in Pavone, p. 495.
  87. ^ Pavone, p. 496.
  88. ^ Riguardo quest'ultimo attentato mortale, avvenuto a Firenze il 15 aprile 1944, i partigiani evidenziarono, per giustificare l'esecuzione, il coinvolgimento ideale e morale del filosofo nella RSI come presidente dell'Accademia d'Italia, il suo allineamento alle posizioni dell'estremismo fascista filo-tedesco e le sue invocazioni alla concordia ed alla collaborazione contro i partigiani «sobillatori, venduti o in buona fede, ebbri di sterminio». Vedi: Pavone, pp. 503-505; Bocca, 1995, pp. 238-243.
  89. ^ La donna nella Resistenza in Liguria, La nuova Italia Editrice, 1979
  90. ^ Ad esmpio nei Gruppi di Difesa della Donna, "aperti alle donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica o religiosa, che volessero partecipare all'opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione. Vedi Le Donne della Resistenza
  91. ^ Ad esempio Irma Bandiera, staffetta nella 7ª G.A.P, che divenne combattente con il soprannome di Mimma
  92. ^ a Genova una formazione partigiana fu intitolata ad una combattente fucilata da fascisti; nel Biellese, nel 1944, nacque un battaglione costituito da operaie tessili della Brigata "Nedo"
  93. ^ Convegno su Pietro Secchia: Le donne partigiane, Torino 16/04/2005, intervento di Nori Brambilla Pesce
  94. ^ Le donne nella Resistenza
  95. ^ Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, Garzanti, 1949, p. 96
  96. ^ Cervi, Montanelli, op. cit. p. 122
  97. ^ Pavone, pp. 225 e ss., liquida il problema del "primo colpo" come "poco produttivo".
  98. ^ Pavone, p. 227.
  99. ^ De Felice, 1995, pp. 109 e ss.. Le stesse conclusioni sono poi state più estesamente trattate in Mussolini l'alleato. La guerra civile, cit.
  100. ^ Del medesimo avviso erano anche i partigiani. Cfr. E. Gorrieri, op.cit. p. 176 cit.
  101. ^ Il federale di Venezia Eugenio Montesi, quello di La Spezia, Franz Turchi, poi Igino Ghisellini, Giovanni Gentile e Concetto Pettinato. A farsi portavoce di queste istanze anche i giornali Il Resto del Carlino, La Stampa e La Gazzetta del Popolo: cfr. M. Bontempelli, La Resistenza italiana, cit. pp. 90 e ss.
  102. ^ Bocca, 1994, pp. 76-77.
  103. ^ Bocca, 1994, pp. 98-99.
  104. ^ Secondo M.Bontempelli in La Resistenza italiana, cit. pp. 90 e ss.: «Il Partito Comunista volendo impedire ad ogni costo che l'idea di una conciliazione fra fascismo e antifascismo abbia qualche eco credibile, non si limita a colpire i tedeschi, ma scatena una campagna di terrore contro i dirigenti fascisti, uccidendone tra la metà di settembre e la metà di novembre, ben sessantaquattro, in altrettanti agguati»
  105. ^ M.Bontempelli La Resistenza italiana, p. 91. L'ordine verrà in parte disatteso, anche grazie alla protezione accordata da Mussolini ad alcuni tentativi successivi, peraltro velletarii e inefficaci. Fra gli altri i casi di Edmondo Cione, Carlo Silvestri e Giovanni Gentile.
  106. ^ Oliva, 1998, p. 189.
  107. ^ http://anpi-lissone.over-blog.com/70-categorie-10128678.html
  108. ^ a b De Felice, 1995, p. 49.
  109. ^ Mussolini a Graziani, 25 giugno 1944, cit. in Ganapini, p. 48.
  110. ^ Pavone, p. 269.
  111. ^ Secondo il Decreto Legge 30 giugno 1944-XXII n.446 istitutivo delle Brigate Nere (art. 7),

    «Compito del Corpo è quello del combattimento per la difesa dell'ordine della Repubblica Sociale Italiana, per la lotta contro i banditi e i fuori legge e per la liquidazione di eventuali nuclei di paracadutisti nemici. Il corpo non sarà impiegato per compiti di requisizione, arresti od altri compiti di Polizia. (...)»

  112. ^ «Le Brigate nere anelano al combattimento contro il nemico esterno, ma sanno che in una guerra come l'attuale, guerra di religione, non c'è differenza fra nemico di fuori e di dentro...»
  113. ^ Pavone, p. 236.
  114. ^ Ganapini, p. 50; Cronologia di Bologna dall'unità ad oggi, 28 gennaio 1945, Biblioteca Salaborsa.
  115. ^ Oliva, 1998, pp. 209-210.
  116. ^ Pavone, p. 273.
  117. ^ Pavone, p. 271: «Sul campo non sono rari i tentativi tedeschi di dirottare contro i fascisti la forza e la rabbia dei partigiani».
  118. ^ Documentati da Pavone, pp. 268 e ss.
  119. ^ a b Pavone, p. 268.
  120. ^ Pavone, p. 276.
  121. ^ Pavone, p. 274.
  122. ^ Pavone, p. 275.
  123. ^ Pavone, p. 501.
  124. ^ Carattere evidenziato anche nella memorialistica saloina, ad esempio nel libro di Carlo Mazzantini A cercar la bella morte.
  125. ^ L'argomento è trattato ad esempio in Giordano Bruno Guerri, Fascisti – Gli italiani di Mussolini, il regime degli italiani, Mondadori, Milano, 1995
  126. ^ Bocca, 1995, p. 151: «[...] gli stessi comunisti, nel corso delle discussioni, concedono qualcosa all'antica paura, spiegano anch'essi la necessità del terrorismo come prevenzione dell'inevitabile terrorismo tedesco, come presenza che rincuora chi resiste: quasi cercassero delle giustificazioni. In realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla, subito».
  127. ^ Per esempio, due comandanti garibaldini, Romeo Fibbi e Bruno Bernini, il 7 marzo 1944, a rapporto dal comandante dei GAP bolognesi e poi fiorentini Luigi Gaiani (responsabile dell'omicidio di Pericle Ducati e poi fra i mandanti di quello di Giovanni Gentile) a Firenze, furono posti di fronte a questo aut-aut: «se la prossima volta non avessimo fucilato i prigionieri fascisti, avrebbero fucilato noi al posto dei fascisti». Cfr. Fernando Gattini, Giorni da Lupo, Comune di Vicchio, Vicchio, p. 50.
  128. ^ Ganapini, p. 278.
  129. ^ Ganapini, 279.
  130. ^ Bocca, 1995, p. 289.
  131. ^ Bocca, 1994, pp. 196-199.
  132. ^ Ganapini, p. 53.
  133. ^ Ganapini, p. 322.
  134. ^ F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1968, p. 579.
  135. ^ Elena Aga-Rossi, Bradley F. Smith, Operazione Sunrise, Mondadori, 2005, p. 107.
  136. ^ Elena Aga-Rossi, Bradley F. Smith, Operazione Sunrise, Mondadori, 2005, p. 182.
  137. ^ B. Spampanato, Contromemoriale cit. p. 1227.
  138. ^ I delegati del CLNAI, Cadorna, Lombardi, Marazza, Arpesani e Pertini (giunto in seguito), si rifiutarono di trattare e chiesero la resa incondizionata entro due ore, in Bocca, 1995, pp. 519-520.
  139. ^ Alcune fonti riferiscono che Mussolini, alla notizia delle trattative dei tedeschi, si rivolse al tenente Birzer, capo della scorta delle SS, con le parole: «Il vostro generale Wolff ci ha traditi»; in G. Pisanò, Storia della Guerra... cit. p. 1515; tuttavia la circostanza viene completamente smentita da E. Kuby in Il tradimento tedesco, p. 609, che si basa sulla testimonianza di Birzer.
  140. ^ CESP - Audio Audio dell'annuncio radiofonico.
  141. ^ Bocca, 1995, pp. 514-515. Alcune fonti asseriscono che anche alcuni reparti di marò della Xª MAS parteciparono al salvataggio del porto di Genova. Sembra che dal 9 aprile avessero ricevuto un ordine segreto per impedire con ogni mezzo la distruzione del porto e delle installazioni industriali, in: Sergio Nesi, Decima Flottiglia nostra..., Mursia, pp. 319 e ss., ed in: Mario Bordogna, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, Mursia, 2007, pp. 188-189 e pp. 194 e ss.
  142. ^ Bocca, 1995, p. 518.
  143. ^ Bocca, 1995, p. 481.
  144. ^ Franco Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, Mondadori, Milano, 1968.
  145. ^ Bocca, 1995, p. 520.
  146. ^ Reparto comandato dal tenente Birzer
  147. ^ Bocca, 1995, pp. 522-523.
  148. ^ Sulle circostanze dell'esecuzione, espressamente ordinata ad Audisio e Lampredi dal CLNAI e in particolare da Luigi Longo, esiste oggi la documentazione segreta dell'agente dell'OSS incaricato dagli americani di svolgere una relazione sui fatti, agente OSS441, Valerian Lada-Mocarski, in: G.Cavalleri/F.Giannatoni/M.Cereghino, La fine, pp. 64-83. In particolare l'agente OSS441 precisa che a sparare furono Moretti, con un mitra francese MAS 7,65 mod. 1938, e Audisio con una pistola Beretta 7,65.
  149. ^ G.Cavalleri, F.Giannatoni, Mario Cereghino, La fine, pp. 90-91.
  150. ^ Solo il maresciallo Graziani, che aveva abbandonato la colonna in precedenza, riuscì a sfuggire e venne catturato dagli alleati al quartier generale delle SS a Cernobbio.
  151. ^ Bocca, 1995, p. 523.
  152. ^ Fra questi quello di Aurelio Lepre, che afferma l'esistenza di una solidarietà – anche solo passiva – della gran parte della popolazione italiana verso i partigiani; cfr. Lepre-Petraccone, Storia d'Italia... cit. pp. 266-267; o quello di Gianni Oliva nel libro La resa dei conti.
  153. ^ Oliva, 1999, p. 56: «traditore è chi sta nella zona grigia dell'astensionismo».
  154. ^ Questo concetto di zona grigia era stato già definito da Gabriele Ranzato a proposito della guerra civile spagnola in Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, Bollati Boringhieri, 1999; la citazione viene riportata in Oliva, 1999, p. 62, dove testualmente si legge In mezzo e dentro i fronti delle due minoranze in conflitto continua ad estendersi la zona grigia. Imbelle ed incolore, essa è disprezzata da entrambe per la sua pavidità, il suo particolarismo, la sua insensibilità ai forti ideali che animano lo scontro. Coloro che la compongono sono perciò considerati dai combattenti cittadini di secondo rango, che è lecito sottomettere, usare, sacrificare.
  155. ^ Cfr. G. Pisanò, Gli ultimi... cit. p. 310, nella fattispecie il caso di Montebruno (GE).
  156. ^ Non diciamo balle, in "Libro e moschetto", 27 novembre 1943, cit. in Ganapini, p. 171.
  157. ^ Crainz, p. 53 ss.
  158. ^ Crainz, p. 52.
  159. ^ M. Pannunzio, Una generazione fra due guerre in Risorgimento liberale 1° agosto 1944
  160. ^ Definite dagli stessi Alleati «il minimo indispensabile per tenere l'Italia in vita», cfr. Crainz, p. 22.
  161. ^ Crainz, p. 33.
  162. ^ Crainz, p. 85 n., riferisce che nel triennio prebellico la media dei reati - rapine, estorsioni e sequestri - denunciati alle autorità era di 1.800 all'anno; nel 1945 i reati denunciati erano saliti a 20.000 e nel 1946 erano ancora 18.000.
  163. ^ De Felice, 1997, p. 323 n.
  164. ^ De Felice, 1997, pp. 334-335.
  165. ^ De Felice, 1997, pp. 334-335, nota come questi episodi siano stati spesso citati in letteratura per giustificare il logoramento delle relazioni fra resistenti e civili.
  166. ^ De Felice, 1997, p. 332; Pavone, pp. 449 ss.
  167. ^ a b c Pavone, p. 450.
  168. ^ Si veda il rapporto stilato dal comandante la 2^ Divisione GL dell'Oltrepò pavese, nella quale si lamentava lo scollamento fra Resistenza e popolo causato dalle illegalità commesse dalle formazioni partigiane, in particolare quelle garibaldine, in Giovanni De Luna (a cura di) Le Formazioni GL nella Resistenza, Collana dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, pp. 152 e ss.
  169. ^ Pavone, pp. 451-452.
  170. ^ Pavone, p 457.
  171. ^ Si veda per esempio il caso di Bardi e Pollastrini a Roma
  172. ^ Dagli studi di Paolo Arrigo Carner (L'armata cosacca in Italia 1944-1945 Mursia 1990 e Lo sterminio mancato, Mursia 2000) e di Patrizia Deotto (Stanitsa Tèrskja. L'illusione cosacca di una terra. Verzagnis 1944-1945, Gaspari, 2005) si evince come nonostante l'asprezza tipica del carattere nazionale cosacco e la loro durezza nel condurre la controguerriglia, i rapporti con i civili friulani con cui vennero a contatto furono rudi ma improntati alla correttezza, in certi casi perfino alla cordialità. Episodi di violenza o soperchierie ve ne furono, ma furono, appunto, episodici.
  173. ^ Lepre, pp. 183-184.
  174. ^ Cfr. Allegato 17, Inconvenienti causati dai rastrellamenti contro le bande partigiane, al Capo della Provincia di Perugia del 5 aprile 1944, riprodotto integralmente in Enzo Climinti, Leonessa 1943/1944, Comune di Leonessa, 2001
  175. ^ Per un maggior approfondimento della vicenda vedi la voce Strage di Leonessa
  176. ^ Cfr. per questa vicenda L. Klinkhammer, L'occupazione... cit. pp. 325 e ss.
  177. ^ Rapporto del Questore di Torino, 9 settembre 1944, cit. in De Felice, 1997, p. 324 n.
  178. ^ Si vedano i controversi studi sull'argomento di Giuseppe Casarrubea, Nicola Tranfaglia e Aldo Giannuli.
  179. ^ a b Crainz, p. 28.
  180. ^ Napoli nella Seconda guerra mondiale atti del convegno di studi storici di Napoli del 5 marzo 2005, Istituto di Studi Storici Economici e Sociali. In particolare Cfr. pp. 164 e ss. e 209 e ss.
  181. ^ Togliatti Guardasigilli, l'amnistia criticata del 1946 di Sergio Romano, su archiviostorico.corriere.it. URL consultato il 30-04-2009.
  182. ^ De Felice, 1997, p. 233.
  183. ^ Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Pelazza Solaro, Paolo Speziale, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 145.
  184. ^ ATTI PARLAMENTARI, Camera dei deputati, 1952, Discussioni, 11 giugno 1952, p. 38736
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  186. ^ Storia della Guerra Civile... cit. pp. 1801 e ss.
  187. ^ Crainz, p. 79.
  188. ^ Crainz, p. 102.
  189. ^ Crainz, p. 120.
  190. ^ De Felice, 1995, p. 22
  191. ^ Luigi Bonanate, La violenza nelle guerre del Novecento, "l'impegno", a. XIV, n. 2, agosto 1994, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.

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