Utente:Maxperot/Sandbox4

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  • Francesco Pricolo, La Regia Aeronautica nella seconda guerra mondiale. Novembre 1939 – Novembre 1941, Milano, Longanesi & C., 1971.

Bruno Pelizzi (Parma, 17 settembre 1926Pione, 14 luglio 1944) è stato un partigiano italiano con il nome di battaglia "Dena". Meccanico, decorato della Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nacque a Parma nel quartiere Oltretorrente, in una famiglia ed in un contesto antifascista. Come molti altri popolani di Parma il padre fu un volontario della Legione Garibaldina che combatté nelle Argonne contro i tedeschi prima dell'entrata in guerra dell'Italia nel 1914. Bruno Pelizzi, operaio, da giovanissimo fece parte del movimento antifascita e il 25 luglio 1943 partecipò alle manifestazioni di popolo che si svolsero per la caduta del fascismo.[1][2]

Chiamato alle armi venne inviato a Belluno per prestare servizio presso il deposito del 14° Reggimento del Genio.[2][3] All'armistizio dell' 8 settembre 1943 sfuggì all'arresto da parte della Wehrmacht che lo avrebbe tradotto in Germania. Tornò a casa e partecipò a numerose azioni clandestine del Fronte della gioventù.[1][2]

Richiamato alle armi dal bando Graziani si presentò e, aderendo alla resistenza, sottrasse armi ed equipaggiamenti dalla sua caserma, fuggendo in montagna solo prima di essere scoperto.[1][2]

Combattè nel distaccamento "Griffith",[1] attivo nella zona di Bardi, tra le file della 31ª Brigata Garibaldi "Copelli".[3] Il 14 luglio 1944 la sua formazione venne accerchiata dalle forze nemiche durante un rastrellamento nei pressi della località di Pione di Bardi. Bruno Pelizzi, si scagliò contro un nido di mitragliatrici, lanciando bombe a mano, per consentire il ripiegamento.[1][2][3]

Venne raggiunto da una raffica che lo uccise ma riuscì nell'intento di aprire la via di fuga per i suoi compagni.[2][3]

L'11 luglio 1972 il Presidente della Repubblica Giovanni Leone gli conferì la Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.[2][4]

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria - nastrino per uniforme ordinaria
«Animato da alti sentimenti patriottici, dedicava tutte le sue giovani energie alla causa della Resistenza dimostrando nella lotta alto spirito combattivo e sprezzo del pericolo. Nel corso di una ardita azione partigiana contro soverchianti forze avversarie, per salvare da sicuro annientamento il suo reparto rimasto accerchiato, si portava audacemente all'assalto, con bombe a mano, di una mitragliatrice nemica che con il suo micidiale fuoco sbarrava l'unica via di possibile sganciamento. Colpito mortalmente da una raffica avversaria, mentre stava per raggiungere la postazione nemica, cadeva eroicamente al grido di "Viva l'Italia"»
— Pione, Bardi, 14 luglio 1944[4]

Riconoscimenti e dediche[modifica | modifica wikitesto]

Alla memoria di Bruno Pelizzi sono state dedicate vie a Parma e a Roma.

Fonti bibliografiche[modifica | modifica wikitesto]

  • Autori vari, Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, Vol. III, Milano-Roma, Edizioni La Pietra, 1968-1989.
  • Tiziano Marcheselli, Le strade di Parma, Vol. II, Parma, Benedettina, 1988-1999.
  • Gazzetta di Parma, 15 dicembre 1972, p. 5.
  • Paolo Tomasi, Un ragazzo d'Oltrettorente morto in nome della libertà, in Gazzetta di Parma, 18 novembre 1974.

Note[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Bruno Longhi (Parma, 7 agosto 1909Parma, 15 febbraio 1945) è stato un antifascista italiano, impiegato, Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Figlio di Ciro Longhi, Bruno aderì fin dal 1930 al comunismo e da militante svolse attività clandestina antifascista.[1] Nel 1932 venne arrestato dalla polizia e denunciato al Tribunale speciale per attività sovversiva.[1] Scarcerato a seguito della cosiddetta amnistia del decennale, e licenziato, a causa dell'arresto, dalla Banca Commerciale Italiana presso cui lavorava, continuò la lotta clandestina a Milano.[2][3]

Nel 1936 tornò a Parma proseguendo l'attività clandestina. Dopo il 1940 s'impegnò ad accrescere i rapporti con gli appartenenti ad altri movimenti democratici.[1] Nel 1941 favorì lo sviluppo di una rete di stampa e propaganda all'interno delle Officine Reggiane-Caproni di Reggio Emilia.[1] Nella notte dell' 8 settembre 1943 stilò e diffuse un manifesto che invitava i soldati, a seguito dell'armistizio, ad unirsi al popolo per cacciare gli invasori. Con il nome di copertura di "Fulvio" fece parte del Comitato di Liberazione Nazionale di Parma per il Partito Comunista, dove ebbe l'incarico di seguire la stampa clandestina e per questo si occupò di produrre e diffondere un giornale locale che si intitolava "La ricossa". Fu tra i maggiori contributori alla fondazione del Fronte della gioventù a Parma.[1][2][3]

Nel 1944 organizzò una stamperia segreta in strada Farnese a Parma dove stampò L'Unità ed altro materiale propagandistico.[1] Nel febbraio del 1945 Bruno Longhi venne arrestato dalla Sicherheitsdienst e torturato a morte nei locali della Gestapo a Parma in viale San Michele. Per nasconderne la morte il corpo venne fatto sparire dai fascisti.[1][3] Il fratello Luigi, che ne cercava notizie, fu a sua volta arrestato e deportato in un campo di concentramento dove anch'egli morì.[2]

Il corpo di Bruno Longhi non fu mai più ritrovato.[3] Il 9 marzo 1966 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat gli conferì la Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.[1][2][4]

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria - nastrino per uniforme ordinaria
«Dava vita ai primi nuclei di combattimento e, durante un lungo periodo di dura lotta partigiana, svolgeva un'intensa attività clandestina. Pur a conoscenza di essere ricercato, proseguiva imperterrito nel suo arduo compito. Arrestato durante una rischiosa missione, resisteva stoicamente alle più inumane torture senza svelare alcuna notizia che potesse compromettere il Movimento di Liberazione. Piuttosto che tradire i suoi commilitoni, accelerava la sua morte insultando i carnefici nonché, ridotto agli estremi, si abbatteva esanime al suolo. Esempio magnifico di eroismo e di completa dedizione alla causa della libertà»
— Parma, 1º ottobre 1943 - 1º febbraio 1945[4]

Riconoscimenti e dediche[modifica | modifica wikitesto]

Alla memoria di Bruno Longhi è stata intitolata una via della città di Parma.[2]

Fonti bibliografiche[modifica | modifica wikitesto]

  • Autori vari, Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, Vol. III, Milano-Roma, Edizioni La Pietra, 1968-1989.
  • Tiziano Marcheselli, Le strade di Parma, Vol. I, Parma, Benedettina, 1988-1999.

Note[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Sante Vincenzi (Parma, 6 agosto 1895Bologna, 21 aprile 1945) è stato un partigiano italiano, meccanico, decorato della Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nacque a Parma nel 1895 da Marino Vincenzi ma risiedette a Reggio Emilia. A causa del suo dichiarato comunismo e antifascismo fu arrestato diverse volte e più volte condannato a varie pene detentive e di confino con l'accusa di aver ricostituito il Partito Comunista Italiano. Dal 1937, anno in cui ricevette l'ultima condanna al confino, riacquistò la libertà dopo la caduta del fascismo nell'agosto del 1943.[1][2]

Dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943 Vincenzi entrò nella resistenza, operando nel Comando Unico Militare dell'Emilia-Romagna (CUMER). Con il nome di battaglia di "Mario" svolse il compito di ufficiale di collegamento tra le Brigate della Divisione Garibaldi "Bologna".[1][2]

Tra febbraio e marzo del 1945 fu inviato in missione nel Sud dell'Italia presso il CLN nazionale.

Il 20 aprile 1945, alla vigilia dell'insurrezione, fu catturato dai fascisti, insieme a Giuseppe Bentivogli, in piazza Trento e Trieste a Bologna, ed entrambi furono torturati e fucilati nella stessa notte.[1][2][3]

I corpi di Vincenzi e di Bentivogli furono ritrovati il giorno dopo nell'attuale via Caravaggio.[3] La loro morte fu annunciata il 21 aprile 1945 con un manifesto del Partito Socialista Italiano di Bologna ed il 23 aprile con un'altro manifesto della Camera del Lavoro della provincia di Bologna.[1][2]

Nello stesso anno gli fu conferita la Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.[1][2][4]

Anche il figlio, William Vincenzi, nato Reggio Emilia il 14 novembre 1925, sottotenente, appartenente alla 37ª Brigata GAP, fu ucciso a San Rigo di Rivalta nel comune di Reggio Emilia due giorni dopo il padre, il 23 aprile 1945, e venne decorato della Medaglia di bronzo al valor militare.[5]

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria - nastrino per uniforme ordinaria
«Convinto assertore dei principi di libertà e fiero oppositore di qualunque forza d’oppressione, impugnava le armi contro i nazifascisti rifulgendo per impareggiabile audacia e sprezzo del pericolo. Varcava più volte le linee svolgendo brillantemente missioni importanti e delicate. Durante il compimento di una di esse veniva sorpreso da una pattuglia fascista, che, dopo fiera lotta, riusciva a catturarlo. Sottoposto a disumane torture e ad efferate sevizie, con il corpo straziato e l’animo indomo, non faceva alcuna rivelazione per non nuocere alla causa dei compagni di lotta, finché il nemico, esasperato da tanto stoico silenzio, barbaramente lo freddava. Fulgida figura di cospiratore, di combattente e di martire»
— Bologna, settembre 1943 - aprile 1945.[4]

Riconoscimenti e dediche[modifica | modifica wikitesto]

Alla memoria di Sante Vincenzi sono state intitolate vie nelle città di Parma, Reggio Emilia e Bologna.[1]

Fonti bibliografiche[modifica | modifica wikitesto]

  • Luciano Bergonzini, La svastica a Bologna, settembre 1943 - aprile 1945, Bologna, Il mulino, 1998, p. 323.
  • A cura dell'ANPI provinciale, Caddero a poche ore dalla liberazione, in Resistenza oggi Bologna. 50° della resistenza, , 1995, p. 163-164.
  • Grazia Verenine, "Palita" non è più con noi, in Luigi Arbizzani, Giorgio Colliva, Sergio Soglia (a cura di), Bologna è libera. Pagine e documenti della Resistenza, Bologna, ANPI, 1965, pp. 166-168.
  • Natale Guido Frabboni (a cura di), Molinella e Massarenti nel quadro delle lotte sociali in Italia. Alle radici del socialismo e della democrazia. Una rivoluzione concreta partito-sindacato-cooperative-Comune, Bologna, AGCI, 1980.
  • Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso, 1943-1947. La verità sul dopoguerra in Emilia-Romagna attraverso i documenti d'archivio, Roma, Sapere 2000, 1994, p. 28.
  • Gianfranco Paganelli, Bologna ricorda 1998. Ricerca sulle lapidi esterne situate entro la cerchia delle mura conclusasi nel dicembre 1997, Bologna, Centro sociale anziani Santa Viola, 1998, p. 47.

Note[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Template:Membro delle istituzioni italiane Gianguido Borghese (Parma, 18 dicembre 19022 novembre 1977) è stato un ingegnere, politico e partigiano italiano, eletto alla Camera dei deputati nella III Legislatura della Repubblica Italiana, fu decorato della medaglia d'argento al valor militare per le azioni intraprese nella resistenza.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Gianguido Borghese nacque a Parma da Giuseppina Chiari e Giuseppe Borghese.[1]

L'impegno politico e l'antifascismo[modifica | modifica wikitesto]

Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, dal 1921 studente della Facoltà di ingegneria all'università di Bologna,[2] si iscrisse al Partito Socialista Italiano fino a che, dopo il congresso del PSI che espulse l'ala riformista di Filippo Turati, il 1º ottobre 1922, aderì al Partito Socialista Unitario e ne divenne il segretario del gruppo giovanile della provincia di Bologna. Partecipò con altri studenti alla fondazione dell'Unione goliardica per la libertà nel 1924, gruppo che poi fu sciolto dal regime fascista. Continuò la sua attività politica a Bologna nelle file di Giustizia e Libertà. Laureatosi il 17 febbraio 1926,[2] per le sue idee politiche gli fu impedito l'esercizio della professione d'ingegnere.[1]

Il 15 novembre 1930 fu arrestato a Roma e il 26 giugno 1931, dopo alcuni mesi di carcere, il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato lo assolse facendogli riacquistare la libertà.[1]

Alla fine del 1942 Borghese aderì al Movimento di Unità Proletaria (MUP) e dopo l'arresto di Fernando Baroncini, nella primavera del 1943, fu chiamato, come rappresentante del movimento, a far parte del Fronte per la pace e la libertà, organizzazione unitaria dell'antifascismo bolognese.[1]

Nell'agosto dello stesso anno partecipò all'incontro tra il MUP e il PSI di Pietro Nenni che vide la fusione dei due gruppi nel Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP) che nacque ufficialmente a Roma il 22 agosto 1943. Borghese fu eletto nella prima direzione nazionale.[1]

La Resistenza[modifica | modifica wikitesto]

Dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943 aderì alla resistenza in cui si dedicò all'organizzazione militare. Dal 7 novembre 1943 entrò nel comando militare del Comitato di Liberazione Nazionale bolognese. Il 9 giugno 1944, alla costituzione del Comando unico militare dell'Emilia-Romagna (CUMER), comandato da Ilio Barontini, Borghese, nome di battaglia di Ferrero, ne fu nominato il commissario politico.[1][3] Con il grado di comandante di stato maggiore fu il massimo dirigente delle brigate Matteotti di Bologna dove invece adottò un diverso nome di battaglia, Rodi.[1]

Con altri tre ingegneri fece parte anche della commissione tecnica del CLN dell'Emilia-Romagna. Alla liberazione di Bologna, il 21 aprile 1944 fu designato dal CLN prefetto di Bologna e Borghese si occupò della ricostruzione della città fino al febbraio del 1946.[1][4]

Il dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]

Il 1º giugno 1958 fu eletto deputato alla Camera per il PSI nel collegio di Bologna. Durante la legislatura, che ebbe termine il 15 maggio 1963, Borghese fece parte della IX Commissione parlamentare (lavori pubblici) e della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla costruzione dell'aeroporto di Roma-Fiumicino.

Con il sindaco Giuseppe Dozza fu più volte chiamato a far parte della giunta Bolognese tra il 1960 e il 1966.[5]

Il 30 maggio 1967 gli fu conferita la medaglia d'argento al valor militare.[1]

Dopo il bando del Ministero dei lavori pubblici, nel 1969, per un concorso internazionale di idee per il Ponte sullo Stretto di Messina, fece parte del cosiddetto Gruppo Lambertini occupandosi delle relazioni esterne.

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Medaglia d'argento al valor militare - nastrino per uniforme ordinaria
«Già provato da carcere e persecuzioni per la sua irriducibile opposizione alla dittatura, si votava tra i primi alla causa della libertà. Organizzatore instancabile e capace, creava i primi nuclei della resistenza, divenendo poi l'animatore del movimento di liberazione della sua regione e ricoprendo cariche di alta responsabilità con intelligenza e abnegazione. Ricercato accanitamente e consigliato più volte di allontanarsi, preferiva restare a diretto contatto del nemico per contribuire più efficacemente a combatterlo. Con la sua continua, coraggiosa e capace azione contribuiva infine validamente a salvare da distruzione impianti di pubblica utilità e ad assicurare i rifornimenti alla città all'atto della Liberazione»
— Bologna, 9 settembre 1943 - 21 aprile 1945.[1]

Riconoscimenti e dediche[modifica | modifica wikitesto]

  • La città di Bologna lo ha nominato cittadino onorario per i suoi meriti politici e militari.[1]
  • Al suo nome è stata dedicata una via della città di Bologna.[1]

Note[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Sergio Soglia (a cura di), Gianguido Borghese Prefetto della Liberazione, Bologna, Teresa Borghese, 1987.

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Borghese Gianguido, su Camera.it - III legislatura, Parlamento italiano.

«Un uomo libero non chiede al tiranno nemmeno la vita che sta per togliergli.[1]»

Massenzio Masia (Como, 2 settembre 1902Bologna, 23 settembre 1944) è stato uno scrittore e partigiano italiano,uno dei massimi dirigenti della resistenza in Emilia-Romagna, oltre che esponente di primo piano del Partito d'Azione e dell'antifascismo italiano, decorato della medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nacque a Como nel 1902 da Angela Molteni e Angelo Masia.[2]

L'impegno giovanile[modifica | modifica wikitesto]

Studente di ragioneria, nel 1919 Massenzio Masia fuggì di casa per arruolarsi volontario tra i legionari di Gabriele D'Annunzio nell'impresa di Fiume. Dopo il Natale di sangue tornò a Como per proseguire gli studi ed allo stesso tempo lavorò presso un'azienda di tessile come disegnatore di stoffe.[2]

Nel 1923 frequentò la facoltà di Magistero presso il Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali in Venezia, oggi Università Ca' Foscari Venezia. Grazie al clima cosmopolita di Venezia ed il positivo influsso di numerosi esponenti antifascisti che ebbe modo di conoscere nella città lagunare, Massenzio Masia compì un processo interiore di autocritica della propria esperienza fiumana ed abbracciò gli ideali democratici e antifascisti.[2]

Nel 1924, prendendo esempio, tra gli altri, da Gino Luzzato, suo docente alla facoltà di Magistero, aderì ad una società segreta di nome Giovane Italia, che prospettava il ripristino del regime democratico costituzionale. A Como, nello stesso anno, rifondò la sezione del Partito Repubblicano Italiano di cui venne nominato segretario ma, scoperto dalla Polizia, venne schedato come sovversivo. Potè comunque tornare a Venezia dove conseguì la laurea a pieni voti in Scienze economiche, poi tornò a Como dove riprese il lavoro di disegnatore di stoffe.[2]

Venne assunto alla Olivetti nel 1930, lavorando a Catania e Milano. Nel frattempo, grazie alla sua buona condotta, venne cancellato dagli elenchi dei sovversivi. Spostandosi di frequente tra le città per ragioni professionali, riuscì tenere i contatti fra i vari gruppi della Giovane Italia e quando, a causa del fascismo, il suo gruppo politico cessò di esistere, Massenzio Masia aderì al movimento Giustizia e Libertà.[2]

Per motivi di lavoro fece numerose missioni in Asia, (conosceva e parlava tre lingue) e da giornalista pubblicista fece degli ampi resoconti dei suoi viaggi sulla rivista mensile del Touring Club Italiano. Assunto come tecnico bancario nell'Istituto internazionale delle Casse di Risparmio collaborò con la Rivista delle Casse di Risparmio.[2]

La Resistenza[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d'Azione e nello stesso anno, richiamato alle armi, fu destinato a Bologna presso l'ufficio della censura postale. Nella città emiliana contattò gli esponenti locali di Giustizia e Libertà e con essi fondò la sezione del Partito d'Azione bolognese. Sostenitore dell'unitarietà politica tre i diversi partiti antifascisti divenne rappresentante del Partito d'Azione quando si costituì, nel giugno del 1943, il comitato del Fronte per la pace e la libertà, organizzazione unitaria dell'antifascismo bolognese.[2]

Il 10 giugno 1943 venne arrestato con altri membri del Partito d'Azione, del Partito Socialista Italiano e del Movimento di Unità Proletaria, ma pochi giorni dopo la caduta del fascismo venne liberato. Rappresentò il suo partito nella redazione dell'organo d'informazione clandestino del Fronte, la "Rinascita" Nell'editoriale del primo numero scrisse:

«Vi sono delle ore nella storia dei popoli in cui si sente che tutto, l'avvenire, la vita stessa, sono in gioco. Vi sono delle ore in cui è necessario saper guardare in faccia alla realtà, tralasciando ogni preoccupazione od interesse personale per adeguarsi alle responsabilità imposte dalla situazione, ed agire sapendo che i propri atti contribuiranno ad influire sulle sorti collettive. Per la prima volta dopo un ventennio di schiavitù e d'abbiezione gli italiani si trovano sul banco di prova della storia, non più come un gregge negoziato da un tiranno, ma come un popolo libero di scegliersi il proprio destino.[2]»

Dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943 entrò nella resistenza, con il nome di battaglia "Max" divenne responsabile del Partito d'Azione per l'Emilia-Romagna, insieme a Mario Jacchia come responsabile militare, e come rappresentante del partito in seno al Comitato di Liberazione Nazionale fu un sostenitore della lotta armata contro il nazifascismo.[2]

Nel marzo del 1944 fondò il periodico emiliano del Partito d'Azione, "Orizzonti di libertà", e scrisse:

«Oggi non c'è che un modo di servire il Paese: partecipare alla lotta di liberazione nazionale. Per tutti gli italiani ancor degni di questo nome, unico criterio di moralità e ragione di vita dev'essere questa lotta, affinché il sacrificio liberamente accettato ci riscatti da vent'anni di abiezione e dall'ultima ignominia. È col sacrificio e col sangue dei suoi figli migliori che l'Italia sarà risollevata dalla vergogna presente. È attraverso la lotta ed il sacrificio che si acquista il diritto di cittadinanza nella nuova Italia. Solo così il nostro paese ritroverà il suo onore e la sua dignità nazionale e potrà assidersi con parità di diritti nel consesso della nuova Europa.[2]»

Dopo la cattura di Mario Jacchia divenne il responsabile delle formazioni di Giustizia e Libertà in Emilia-Romagna ma venne, probabilmente, scoperto dalla polizia nel luglio 1944. Non fu arrestato ma sorvegliato da vicino, all'interno del Partito d'Azione, da Paolo Kesler e Ivo Zampanelli, due spie infiltrate. Nonostante l'invito di Ferruccio Parri e di altri a lasciare Bologna, perché ormai per lui troppo rischiosa, Massenzio Masia preferì non lasciare i compagni di lotta.[2]

La cattura e la morte[modifica | modifica wikitesto]

Venne arrestato a Bologna nella notte tra il 3 e il 4 settembre 1944 insieme a Sario Bassanelli, Iolanda Benini, Enrico Bernardi, Giancarlo Canè, Orlando Canova, Sante Caselli, Giorgio Chierici, Antonino De Biase, Giuseppe Di Domizio, Sergio Forni, Arturo Gatto, Mario Giurini, Massimo Massei, Gino Onofri, Nazario Sauro Onofri, Leda Orlandi in Bastia, Armando Quadri, Anselmo Ramazzotti, Giosuè Sabbadini, Pietro Zanelli, Umberto Zanetti, Alberto Zoboli e Luigi Zoboli.[2][3]

Torturato nella caserma della Guardia Nazionale Repubblicana in via Borgolocchi non riuscirono a fargli rendere nessuna dichiarazione come riportato nel verbale:

«II Masia è un uomo d'azione e di intelligenza aperta. Nell'interrogatorio non ha fatto nessuna dichiarazione, ma si è limitato a vaghi accenni sui princìpi ideologici del Partito d'Azione. Ha tentato, nell'ufficio politico, di avvelenarsi. Ha tentato il suicidio gettandosi da una finestra di un secondo piano pur essendo sorvegliato ed ammanettato.[2]»

Il 19 settembre 1944 venne condannato a morte dal Tribunale militare straordinario di guerra. Venne fucilato insieme a Sario Bassanelli, Sante Caselli, Arturo Gatto, Mario Giurini, Armando Quadri, Pietro Zanelli e Luigi Zoboli nel poligono di tiro di Bologna il 23 settembre 1944.[2]

Per onorarlo presero il suo nome l'8ª brigata Giustizia e Libertà di Bologna e una divisione Giustizia e Libertà dell'Oltrepò Pavese.[2]

Federico Comandini, tra i fondatori del Partito d'Azione, ebbe a ricordarlo con queste parole:

«Masia, capo spirituale del P.d.A. in Emilia per tutto il tempo della lotta partigiana, uomo di socratica saggezza e serenità, di intelletto superiore, di matura capacità politica, si era imposto a tutti per la sua dirittura morale e il suo prestigio. Fu lo scrittore clandestino più apprezzato dell'Emilia: diresse il giornale clandestino del P.d.A. "Orizzonti di Libertà" e il giornale clandestino del C.L.N. "Rinascita". Al processo, cui fu condotto dopo un tentativo di evasione suicida con le gambe spezzate (e in queste condizioni fu fucilato) cercò di prendere su di sè tutte le responsabilità, tentando di scagionare gli altri tranquillamente, come se compisse con l'olocausto di sé un naturale dovere.[senza fonte]»

L'11 settembre 1968 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat gli conferì la medaglia d'oro al valor militare alla memoria.[1][2][4]

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria - nastrino per uniforme ordinaria
«Entrava tra i primi nelle forze della Resistenza della sua zona diventandone l'animatore. Incurante dei gravi pericoli che la sua multiforme attività comportava, si adoperava in tenace e feconda opera di reclutamento di partigiani e mediante brillanti colpi di mano procurava loro abbondanza di armi, munizioni e vettovaglie sottratte all'avversario. Scoperto, catturato e sottoposto a gravi sevizie, si rifiutava di rivelare qualunque notizia che potesse tradire i commilitoni ed il reparto di appartenenza, tentando addirittura il suicidio nel timore di tradirsi sotto le torture. Condannato a morte, rifiutava di chiedere la grazia, come propostogli, ed affrontava con sereno stoicismo il plotone di esecuzione. Luminoso esempio di nobile animo di combattente e di patriota.»
— Bologna, 23 settembre 1943.[4]

Riconoscimenti e dediche[modifica | modifica wikitesto]

Alla memoria di Massenzio Masia sono state intitolate vie nelle città di Bologna e Como.[1][2]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c Massenzio Masia, su anpi.it, 29 dicembre 2010.
  2. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q Nazario Sauro Onofri, Alessandro Albertazzi, Luigi Arbizzani, Volume IV Dizionario biografico M-Q, in Comune di Bologna (a cura di), Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), Bologna, ISREBO, 1995, pp. 111-112.
  3. ^ http://certosa.cineca.it/montesole/cronologia.php?y=1944&m=settembre
  4. ^ a b Scheda di Masia Massenzio sul sito della Presidenza della Repubblica, su quirinale.it, 27 dicembre 2010.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Armando Gavagnin, Vent'anni di resistenza al fascismo, Torino, Einaudi, 1957.
  • Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (a cura di), Massenzio Masia nel ricordo degli amici della Resistenza, Monza, Tipografia Monzese, 1911.

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