Utente:Simone Serra/Sandbox/H

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Sandbox H di Simone Serra.

Voce Storia del Duecento in Abruzzo[modifica | modifica wikitesto]

L'Abruzzo sotto Svevi e Angioini[modifica | modifica wikitesto]

Federico II di Svevia in Abruzzo[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Giustizierato d'Abruzzo, Abruzzo Citra e Abruzzo Ultra.

Caduta della contea di Celano[modifica | modifica wikitesto]

Ritratto di Federico II con il falco

I Normanni, con il potenziamento delle autonomie nell'ambito di un sostanziale accentramento, crearono una fitta rete di subgiurisdizioni molto attive. A questa realtà, che attingeva alla tradizione dei "comitati" e "gastaldati" franco-longobardi, pose fine Federico II di Svevia, che tentò di eliminare ogni forma di autonomia locale, cercando di burocratizzare la giurisdizione in un unico sistema centralizzato dell'impero, con a capo del Meridione la Sicilia. I punti nevralgici della resistenza abruzzese furono costituiti dai conti di Celano e dai signori di Poppleto (oggi Coppito, frazione aquilana). I conti di Celano nel frattempo erano cresciuti a dismisura quanto a territori conquistati, estendendosi lungo la via Tiburtina Valeria, il Molise e anche la fascia costiera vastese come testimonia il castello di Monteodorisio, il cui toponimo deriva esattamente dal conte Odorisio I dei Marsi. Benché Federico all'inizio del Duecento avesse mantenuto buoni rapporti con il conte Pietro, con il figlio Tommaso, tali rapporti crollarono drasticamente nel 1223.

A causa dei forti rischi politici, per una probabile vendetta di Federico II, Pietro venne destituito e gli succedette Tommaso conte di Albe e del Molise, che sposò Giuditta, ultima erede della casa dei De Molisio. Tommaso si limitò a tentare di concretizzare il progetto statale del padre Pietro, facendo sviluppare molto l'agricoltura nel territorio paludoso fucense, e quando Federico II partì per la Germania, ne approfittò per rivendicare i titoli concessi al padre, scacciando inoltre le truppe sveve dalla contea. Federico II si vendicò nel 1223 assediando Celano, ed espugnano la fortezza del castello.

Il Castello Piccolomini di Celano, antica sede del potere dei Berardi

Sconfitta di Tommaso di Celano e incendio della contea[modifica | modifica wikitesto]

Il conte Tommaso scappò a Roccamandolfi in Molise, seguendo il tratturo Macerone e poi di Pescasseroli, e tentò un contraccolpo tornando ad Ovindoli[1]. Tuttavia dovette nuovamente fuggire, a Roma, mentre gli abitanti di Celano si disperdevano nelle campagne, e la città veniva bruciata. Restò indenne solo la chiesa di San Giovanni. Il gesto di Federico II fu un monito severo contro la dinastia dei baroni e dei conti che governava gran parte dell'Italia meridionale, sin sai tempi dei Longobardi, dato che il suo progetto era quello di unificare in un unico stato, con sede amministrativa in Sicilia, le varie contee e baronie, togliendo dunque il potere ai legittimi rappresentanti, arricchitisi con i feudi. Il conte Tommaso si riappacificò successivamente con Federico II, avendo come sede del potere Celano, ma rinunciando ad Ovindoli, San Potito e al controllo diretto del castello di Celano, e a quelle di Serra e Torre di Santa Jona. Inoltre i celanesi furono successivamente esiliati in Sicilia, Calabria e Malta, e lì restarono sino al 1227, quando Federico per volere di Onorio III concesse agli abitanti di tornare in patria. Celano subì l'umiliazione del cambio del nome in "Cesarea", che rimase sino al 1250, anno della morte di Federico, e ascesa al trono del conte Ruggerone dei Berardi. Benché in quel tempo il governo ripassasse ai Marsi, il felice periodo di semi-autonomia della provincia Valeria terminò per sempre, e l'equilibrio non fu più ristabilito. Anche perché di lì a poco nel 1254 verrà fondata dalle rovine di Amiternum e Forcona la nuova città di Aquila, che sancì di fatto la perdita dell'altopiano delle Rocche, della valle dell'Aterno e del Cicolano.

La clausola finale del documento prevedeva che, a garanzia del patto, il conte di Celano e del Molise consegnasse in ostaggio il figlio nelle mani del Maestro dei Cavalieri Teutonici; in seguito Federico concesse al conte dei Marsi il giustizierato del comitato, ma gli toglieva quei poteri che in virtù delle vecchie leggi franco-longobarde gli consentiva lo strapotere della provincia Marsicana, dichiarando fedele obbedienza all'imperatore, e che qualsiasi avvenimento politico o che avrebbe avuto a che fare con procedimenti giudiziari avrebbe dovuto essere compilato e mandato all'imperatore, che ne avrebbe deciso il verdetto della sentenza. Sebbene da una parte la contea di Celano si salvasse, nonostante la distruzione della città, della rocca, ad eccezione della chiesa di San Giovanni, la collera di Federico II contro Poppleto fu più dura.

Repressione dei fuoriusciti e assedio di Città Sant'Angelo[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1223 nella donazione al figlio Corrado IV di Svevia, oltre a Gaeta, i signori di Poppleto Rainone di Prata da Rainaldo di Spoleto[2] e Ruggero di Galluzzo, Todino di Amiterno e il traditore Corrado di Lucinardo venivano venduti come vassalli insieme al feudo della valle d'Aterno. Costoro si macchiarono del tradimento, difendendo la causa della Chiesa di Roma contro lo strapotere di Federico, dato che Amiterno e il vicino castello di Poppleto si trovavano in territorio di proprietà del Vaticano, i signori di Poppleto osarono dunque ribellarsi con più veemenza, nel 1228 e la repressione di Federico fu violenta. Nel giugno l'esercito assediò il castello, Federico tolse ai signori di Poppleto il dominio dei feudi della vallata dell'Aterno, e furono scacciati verso Capitignano, perdendo quasi completamente il loro potere sulla conca aquilana.

Veduta di Avezzano, del Monte Tino e del Fucino in un dipinto di Jean-Joseph-Xavier Bidauld

L'ultimo grande assedio di Federico in Abruzzo, fu quello di Città Sant'Angelo, ribellatasi nel 1239, quando il colle fortificato dove si trova la chiesa di Sant'Agostino, fu cinto d'assedio e distrutto. La politica di Federico II tuttavia non fu sempre repressiva, ma riorganizzò l'attività pastorale della transumanza ammodernando i tratturi, favorendo l'installazione dei Monaci Cistercensi, confermando all'abbazia di Santa Maria di Casanova di Villa Celiera molte "grance" (luoghi di approvvigionamento delle abbazie) e tra queste quella di Santa Maria del Monte di Campo Imperatore, provvide a regimare il lago Fucino, privo di emissario, che rendeva le terre della Marsica paludose e a rischio inondazioni. Nel 1240 mandò un tal Pissone giustiziere d'Abruzzo affinché sorvegliasse i lavori, cui aveva sovrinteso Ettore Montefuscolo, già giustiziere, onde ripulire i canali[3]. Nel 1223 nacque dunque, con la caduta della contea dei Marsi, l'unificazione di tutti i possedimenti normanni dal Sangro all'Aprutium teramano, dalla fortezza di Pescara a Popoli, da Penne a Sulmona, da Lanciano a Vasto. Nel 1233 soltanto fu formalizzata la costituzione del Giustizierato d'Abruzzo con città capitale Sulmona.

Il primo progetto di fondazione di Aquila nel 1229[modifica | modifica wikitesto]

Federico esercitò un sicuro controllo sull'Abruzzo, dove specialmente nella zona marsicana e amiternina venivano esercitate forti azioni di disturbo da parte della Chiesa, essendo noti gli aspri contrasti tra papato e dinastia sveva. Da una parte perché i monasteri di Farfa e Cassino non intendevano perdere le loro rendite negli storici territori marsicani, dall'altra per il ridisegno dei confini tra il Lazio e il comitato di Amiterno. Gli abitanti dei castelli antichi di Amiterno e Forcona, ma anche di Colle Branconio, Arischia, Poppleto, Bagno, Civitatomassa, Tornimparte, Paganica, Roio e Bazzano guardavano alla figura del pontefice come un potenziale alleato contro Federico II. Papa Gregorio IX rispose alle attese degli abitanti di Amiterno, che richiedevano protezione e il permesso di gettare le basi per una nuova città, L'Aquila, con una lettera, in cui si dice: «Vi lamentate esponendoci le innumerevoli tribolazioni e le infinite amarezze alle quali fino a questo momento vi ha sottoposti l'imperatore Federico, nemico di Dio e della Chiesa, attraverso i suoi ministri, i quali oltre a rapinare i vostri beni dei quali fanno vergognoso uso, arrivano al punto di lasciarvi appena di che vivere e non hanno remore nel chiedervi prestazioni di angherie per angherie, come se non foste servi e non liberi [...] Per queste ragioni voi ci chiedete di procurare la vostra liberazione, togliendo voi e le vostre terre alla soggezione feudale di Federico, per l'indegnità del feudatario e ciò, voi dite è possibile in quanto è cosa notoria che le vostre terre e voi stessi sono costituite un feudo di Romana Chiesa»[4]

Anche se durante il papato di Gregorio queste promesse non vennero mantenute, era nata comunque l'idea della fondazione dell'attuale L'Aquila.

La prima fondazione di Aquila (1254)[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Fondazione dell'Aquila § Prima fondazione.
Moneta ritraente Corrado IV, colui che avrebbe redatto il privilegio di fondazione della città aquilana

Nel 1229 gli abitanti dei castelli attorno a L'Aquila decisero di ribellarsi a Federico II e ai baroni che avevano stretto alleanza con lui, come i Berardi di Celano. Dopo essersi rivolti a papa Gregorio X, che concesse il permesso di edificare una nuova città in terre demaniali del Vaticano, l'iniziativa non si concretizzò. Gli aquilani ottengono nuovamente il permesso della costruzione di una nuova grande città in funzione antifeudale, di cui è rimasta testimonianza nel Diploma di Federico II[5], conservato negli archivi cittadini, dove si esortano i castelli di Amiternum e Forcona a unirsi per formare un unico centro.

Papa Gregorio X, che autorizzò la costruzione di una città tra Amiterno e Forcona

La trattativa fu avviata tra il 27 luglio e il 7 settembre 1229, con ambasciatori amiternini inviati al pontefice, i quali riferirono delle vessazioni a cui gli abitanti erano sottoposti dallo strapotere di Federico II, con tasse, imprigionamenti, condanne a morte e mutilazioni varie per chi disobbediva alla legge. Nelle lettere gli abitanti chiedevano a Gregorio, trovandosi nel demanio della Chiesa Romana, di riconoscere tale realtà di fatto, e anche di fondare una città nuova nella località di Acculi. Benché il progetto si sviluppasse una trentina di anni più tardi, la fondazione della città è stata vista come un atto politico, e controversie sono sorte attorno al diploma di Federico II, visto come uno dei patrocinatori di tale nascita, poiché come si è visto, il documento nel 1254 fu firmato dal figlio Corrado, anche se la leggenda e la tradizione continui a riportare il nome del padre, quale patrocinatore.

Le vicende della fondazione dell'Aquila sono raccontate da Buccio di Ranallo da Poppleto (oggi Coppito, frazione dell'Aquila), autore di una Cronica rimata che narra la storia della città dal 1254 fino al 1362 (anno che precede la sua stessa morte). Buccio parla di riunioni segrete presso San Vittorino e Santa Giusta di Bazzano, segno dei malumori dei cittadini per la mancata autorizzazione della fondazione della città. Tali riunioni sarebbero dovute terminare in un eccidio di massa, per scatenare una rivolta. A fatto compiuto, i cittadini mandarono un tal Jacopo de Senizo (o da Sinizzo) dal pontefice per richiedere nuovamente il permesso di fondazione della città, che fu accordato grazie anche alla mediazione di Corrado IV di Svevia[6]. Dunque il diploma federiciano sarebbe quello firmato da Corrado (poiché Federico morì nel 1250), dove si sancisce la nascita della città nella località "Acculi" (o Aquila) al fine di impedire il passaggio dei predoni e dei saccheggiatori nella vasta area della conca controllata da alcuni castelli già esistenti, come Forcona e Amiterno. Vennero stabiliti i confini della città, confiscate le terre e i boschi, si dette la licenza di universitas, e dunque aboliti gli obblighi feudali, oltre all'abbattimento delle varie rocche feudali che si trovavano dentro il territorio, come ad esempio un certo castrum Cassari.[7]

Il racconto epico di Buccio di Ranallo è stato giudicato non completamente attendibile, poiché lo storico visse un centinaio di anni dopo la fondazione, e poiché la stessa materia della Cronaca è piena di patetismi e di commenti personali; non attendibile è stata giudicata la vicenda della congiura dei baroni e il successivo intervento di Jacopo da Sinizzo presso il papa per far concedere a Corrado il diploma di fondazione. L'operazione di Corrado di Svevia di pacificare le lotte intestine dei baroni nel regno, ossia quella di creare una città simbolica per tale pacificazione, affinché fosse anche un punto di riferimento militare al confine tra Regno di Napoli e Stato Pontificio, sembra essere quella più plausibile. Non si hanno molte notizie sulla prima città, poiché quella attuale è il frutto della ricostruzione angioina del 1265 dopo il 1259, quando venne distrutta da Manfredi di Svevia. Lo storico Anton Ludovico Antinori cita un documento che parla del 1255, quando la città era ancora in fase di popolamento.

Transumanza: la via degli Abruzzi[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Via degli Abruzzi.
Mura di Peltuinum presso il tratturo magno

Sin dall'epoca italico-romana l'Abruzzo era stato attraversato da varie strade naturali, usate da viandanti, mercanti e pastori per i traffici di collegamento tra la Puglia e Roma, di cui l'Abruzzo era un importante veicolo, ancora oggi si parla di "via degli Abruzzi", attraversabile mediante la via Salaria, la via Claudia Nova, la via Tiburtina Valeria, la via Traiano Frentana. Con l'apertura di queste importanti strade da parte di Roma, in cui si inserivano i tratturi, tra i quali quello magno che da Amiternum portava a Foggia, usato sino al XVIII secolo, l'economia abruzzese del ceto medio-basso continuò per secoli a basarsi sulla pastorizia e la transumanza, veicolata nel tardo medioevo dalle leggi reali, come quella di Alfonso I d'Aragona per la regolamentazione dei traffici, e dalle pretese dei vari nobili e feudatari diversi dei territori abruzzesi, con cui ricavavano grossi proventi.

La strada durante gli Angioini e Aragonesi[modifica | modifica wikitesto]

La cosiddetta "via degli Abruzzi" che partiva dai confini occidentali d'Amiterno (oggi L'Aquila) e Avezzano andava a finire verso Vasto sulla costa abruzzese, per scendere nella Puglia foggiana: i percorsi erano interrotti da piccole dogane per il pedaggio, da cappelle per i pastori, cippi miliari per calcolare il percorso, e da torri di avvistamento, edificate dai conti dei Marsi, e castelli veri e propri come la Rocca Calascio della baronia di Carapelle, la Rocca Orsini di Tagliacozzo, la torre di Sperone dei Marsi, o il castello di Bominaco. Dal XIII secolo partì una colonizzazione dei tratturi delle principali famiglie locali, come i Di Capua, i Sangro, i Piccolomini, gli Orsini, i De Lanzo, poi nel XVI secolo i Farnese, i Colonna, mentre nel XIV secolo operavano i Caldora e i Cantelmo. Con l'ammodernamento delle vie nel tardo Medioevo, da Sulmona e L'Aquila, le vie principali si diramavano in diverse strade, che percorrevano i valichi della Majella, una direttrice, il tracciato delle vecchia via Valeria, portava lungo il Pescara ad Aterno, e a Chieti, mentre più a sud mediante il valico della Forchetta si passava da Palena, costeggiando la montagna fino a raggiungere l'importante città di Lanciano, per poter raggiungere il mare di Ortona e Vasto.

Maiolica di Castelli ritraente un pastore dell'Abruzzo (1520 ca.), conservato nel Museo del Louvre

Nel XIV secolo si segnala, grazie soprattutto a queste moderne vie di comunicazione, la presenza di ricchi commercianti come gli Acciaiuoli di Ortona e i Bardi di Sulmona, il passaggio di intellettuali come Giovanni Boccaccio[8]. Sulmona era un centro commerciale a cielo aperto per la ricchezza dei mercati, anche se venne fiaccata dalla peste del 1348 e dal terremoto dell'anno seguente.

La strada durante il Vicereame spagnolo[modifica | modifica wikitesto]

Il commercio tuttavia continuò a proliferare, sia nella città di Ovidio, sia nella seconda città dell'area della Majella, quale Guardiagrele, poiché Ladislao di Durazzo le concesse il diritto di battere moneta, e nel Quattrocento videro lo sviluppo crescente dell'oreficeria, il cui massimo esponente fu Nicola da Guardiagrele. Dopo l'istituzione della dogana regia a Foggia nel 1447, la Majella e la Val Pescara contavano 58 tratturelli circa, nel XV secolo fu introdotto, durante il governo della famiglia Cantelmo di Popoli una tassa sul valore del foraggio. Nel XVI-VII secolo molte città allora libere vennero infeudate dai nuovi proprietari provenienti da Napoli, come i Caracciolo, che si stabilirono a Tocco da Casauria. Le città di Sulmona e Pescocostanzo pagarono ingenti somme per conservare un minimo d'autonomia.[9] Il Settecento fu l'ultimo grande periodo felice dell'attività commerciale abruzzese e ne beneficiarono soprattutto Lanciano, Vasto e Ortona. A partire dalle occupazioni francesi del 1799, con le leggi napoleoniche del 1806, e dei successivi moti per l'unificazione italiana, con le leggi piemontesi e la successiva emigrazione al Nord Italia, la transumanza abruzzese subì gravi colpi, andando in lenta decadenza fino al rischio di scomparire.

Da Manfredi di Svevia alla battaglia dei Piani Palentini[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Tagliacozzo.

«Con quella che sentio di colpi doglie
per constatare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove senz'arme il vecchio Alardo.»

Scena della battaglia di Tagliacozzo (1268)

Alla morte di Federico II nel 1250, gli succedette il figlio Corrado IV di Svevia, ma ne tenne la reggenza Manfredi di Sicilia a causa dell'età troppo giovane. Proprio in un diploma di Corrado nel 1252 si sa che fu eletto Conte di Albe Federico d'Antiochia, un figlio bastardo di Federico II[10]. Tal Federico morì nel 1256, suo padre Corrado era morto nel 1254, e in suo luogo Manfredi scelse il figlio Corrado, nominato Conte di Celano. Federico d'Antiochia si era dimostrato molto irriconoscente con il pontefice di Roma, dopo esser stato catturato e rinchiuso nel castello di Montecchio, fuggì in Abruzzo per difendere i suoi territori, nel momento in cui Manfredi si scontrava con Carlo I d'Angiò per i possedimenti in Sicilia. Nel 1267 entrava in Italia Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV, per tentare la riconquista del regno svevo, fu sostenuto da Corrado di Antiochia, ottenendo le terre di Albe e Celano, ma sui Piani Palentini di Tagliacozzo il 23 agosto 1268 al fianco di Corradino nella battaglia di Tagliacozzo, cantata anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Le cose però andarono male, Corradino riuscì a fuggire, ma fu preso più tardi e ucciso, Corrado venne fatto prigioniero sul campo ma risparmiato per intercessione del Cardinale Giovanni Gaetano Orsini, futuro papa Niccolò III. Il castello di Albe e gli altri presidi ghibellini della Valle Roveto subirono rappresaglie da Carlo d'Angiò.[11].

Corradino intendeva riconquistare il dominio della Sicilia, dopo il fallimento di Manfredi a Benevento nel 1266. In febbraio 1268 la guarnigione di Lucera composta da saraceni si era ribellata a Carlo, opponendo resistenza all'assedio dentro la fortezza. Corradino colse l'occasione per bloccare l'avversario e non farlo arrivare a Roma. In primavera attraversò la Toscana, poi entrò nel Lazio papale, sfilando sotto Viterbo, e il 24 luglio entrò a Roma, accolto dalla popolazione, ma non dalla nobiltà, più fedele a Carlo. La rivolta di Lucera suggerì la strategia di puntare sulla città pugliese costringendo Carlo alla battaglia, seguendo la via Latina, che passava per la Campania, ma questa era bloccata dagli angioini. Rimaneva allora la via Tiburtina Valeria che passava per la Marsica, e Corradino lasciò Roma il 18 agosto. Carlo nel frattempo era rimasto a guardare, poiché disponeva di una rete di spie a Roma che lo informarono in anticipo dei piani di Corradino, e lo precedette in Abruzzo con un esercito di 4.5000 cavalieri. Con l'aiuto del fidato Alardo de Valery Carlo progettò la battaglia per distruggere il casato svevo, che si combatté il 23 agosto. I Piani Palentini si trovano tra Magliano de' Marsi e Avezzano, lungo la strada per Tagliacozzo, da cui il nome della battaglia, i due eserciti si scontrarono presso il torrente Rafia, alla confluenza con l'Imele presso Scurcola Marsicana. Nell'esercito angioino, indossava le insegne Henry de Cosances per ingannare Corradino, mentre Carlo guidava personalmente 800 tra i suoi migliori cavalieri nascosti tra le colline. Corradino mosse all'attacco, uccidendo Henry, scambiandolo per Carlo, cosicché il vero angioino poté mettere in atto il suo attacco a sorpresa. Corradino fuggì con l'amico Federico di Baden, ma prezzo Anzio fu tradito e consegnato a Carlo che lo decapitò a Napoli. A testimonianza dell'importanza politica della battaglia, c'è la costruzione un monastero, la purtroppo diruta abbazia di Santa Maria della Vittoria, alle porte di Scurcola, della quale restano il portale rimontato presso la nuova chiesa santuario di Santa Maria della Vittoria al fianco della rocca di Scurcola, con la preziosa statua votiva della Vergine della Vittoria col Bambino, di chiara ispirazione gotico-francese, voluta dal re Carlo d'Angiò per celebrare la sconfitta degli svevi.

Nel 2019 in occasione dell'anniversario della battaglia, è stata inaugurata, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, una statua in bronzo ritraente il poeta Dante Alighieri, nell'atto di declamare il famoso verso della Divina Commedia, riguardante l'evento. La statua si trova presso la stazione di Tagliacozzo.

Carlo I dunque fu il signore indiscusso dell'Abruzzo, con suo figlio Carlo II sino alla fine del Duecento. Il figlio si concentrò specialmente sul favorire lo sviluppo della risorta città dell'Aquila, dopo la distruzione di Manfredi del 1259, e la ricostruzione nel 1265. Nella Marsica la Valle Roveto passò dopo secoli di sottomissione alla Chiesa al Regno di Napoli, e nel 1293 dai registri si apprende che contessa d'Albe fu una tal Filippa di Celano, discendente di Tommaso Berardi[12], colui che si era scontrato con Federico II nel 1223.

Eremitaggio abruzzese e Celestino V[modifica | modifica wikitesto]

La storia dell'eremitaggio in Abruzzo è millenaria, perché questa pratica fu introdotta dai monaci basiliani già nell'VIII secolo d.C., quando durante le persecuzioni bizantine di Costantinopoli emigrarono in Italia, giungendo anche in Abruzzo, portando la nuova tradizione dell'ascetismo religioso. Molte tracce della loro presenza si hanno nelle grotte della Majella, dove i monaci si appartavano, vivendo una vita grama e piena di stenti e privazioni, in piena comunione spiritica con Dio. La tradizione, prima dell'arrivo di Celestino V, vuole che in Abruzzo peregrinassero certo Sant'Onofrio, per cui in suo onore sono stati realizzati degli affreschi nell'oratorio di San Pellegrino a Bominaco, San Pellegrino eremita, altro semi-leggendario personaggio, e poi l'eremo di Sant'Onofrio al Morrone di Sulmona, costruito da Pietro Angelerio, che volle intitolarlo proprio a questo santo; ma anche altri santi quali San Nicola Pellegrino o Greco, venerato nella chiesa dei Francescani a Guardiagrele, ma anche a Rosello, poi San Falco, venerato a Palena, Sant'Orante, venerato a Ortucchio.

La Badia Morronese di Sulmona

Pietro Angelerio, futuro papa Celestino V, nacque tra il 1209 e il 1215 presso Isernia o Sant'Angelo Limosano, nel Molise[13]). In età giovanile trascorse un breve periodo nella chiesa abbazia di Santa Maria di Faifoli a Montagano, manifestando notevole predisposizione alla solitudine e all'ascetismo, e nel 1239 si ritirò in una caverna isolata sopra il Monte Morrone, venendo successivamente soprannominato "Pietro da Morrone". Tale grotta costituisce oggi l'eremo della Madonna dell'Altare di Palena, posto al confine tra le due province di Chieti e dell'Aquila, sul valico della Forchetta che porto all'altopiano delle Cinquemiglia. Tornato agli inizi degli anni '40 del Duecento sul Morrone dopo un periodo a Roma, vi rimase sino al 1246 presso la chiesa di Santa Maria di Segezzano nei dintorni di Castel di Sangro (vi verrà eretto l'ex monastero di Santa Maria Maddalena), passando successivamente alla Majella via Campo di Giove.

La compagnia di Santo Spirito al Morrone e l'incoronazione a Collemaggio[modifica | modifica wikitesto]

Dopo aver costituito una congregazione ecclesiastica nominata "Compagnia dei frati di Pietro da Morrone", riconosciuta poi da papa Gregorio X come ramo dell'ordine Benedettino, Pietro si spostò nell'eremo sul Monte Morrone, che dedicherà a Sant'Onofrio eremita. Di qui successivamente deciderà di dare una sede più grande e stabile ai monaci dell'ordine, che nel frattempo si accresceva, costruendo la grande Abbazia di Santo Spirito al Morrone sulla piana vicino al tempio di Ercole Curino, detta anche "Badia Morronese". Nel 1273 Pietro si recò a piedi in pieno inverno a Lione, dove stavano cominciando i lavori del Concilio voluto da Gregorio X, onde impedire che il suo ordine venisse soppresso, raggiungendo l'obiettivo. La risolutezza di Pietro e il suo ascetismo presto gli fecero guadagnare la fama di santo e taumaturgo, e molti pellegrini venivano all'eremo di Sant'Onofrio per chiedergli udienza.

Negli anni successivi la vocazione ascetica di Pietro divenne sempre più radicale, così come il suo distacco dal mondo terreno, dato che ormai i Celestini operavano per conto proprio, diffondendo la parola dell'Angelerio attraverso la grande badia. Negli anni '90 del Duecento ci fu un periodo di crisi per la Chiesa cattolica, alla morte di papa Niccolò IV il 4 aprile 1292 si riunì il conclave per l'elezione del pontefice. A causa del numero ridotto dei porporati, nessun candidato riuscì ad ottenere la maggioranza, e nel 1294 la Chiesa era ancora senza un capo, dacché Pietro spedì a Roma una lettera, predicendo gravi sciagure per questo fatto. Il Cardinale Decano prese a cuore l'interesse di Pietro per i fatti romani, e propose di farlo eleggere pontefice, data la grande fama inoltre di cui godeva l'Angelerio in Abruzzo.

Ritratto di Celestino V ad opera di Giulio Cesare Bedeschini

Tale fama in Abruzzo di Pietro, prima del 1294, era stata confermata dal fatto che al ritorno dal viaggio a Lione, all'Aquila egli volle che fosse edificata la basilica di Santa Maria di Collemaggio, capolavoro d'arte romanica abruzzese. Prima della costruzione, l'area di Collemaggio era occupata dalla piccola edicola di Santa Maria dell'Assunzione sul Colle di Majo, dove Pietro trovò rifugio nel 1275, sognano la Vergine Maria, che gli chiese la costruzione della nuova basilica, completata nel biennio 1287-88.[14] Dentro la basilica l'eremita venne incoronato il 29 agosto 1294, dopo essere stato prelevato dal sovrano Carlo II d'Angiò a Sulmona presso l'eremo di Sant'Onofrio, e per questo Celestino V emanò per il perdono dei peccati la "Bolla del Perdono", in qualità di nuovo pontefice.

L'Aquila: dalla rifondazione al gran commercio[modifica | modifica wikitesto]

La distruzione di Manfredi nel 1259[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Fondazione dell'Aquila § Seconda fondazione.

Con la morte di Corrado nel 1254, Manfredi assunse la reggenza del regno, il quale si scontrò con papa Innocenzo IV per il dominio temporale del Regno di Sicilia. A Innocenzo succedette papa Alessandro IV, che aveva rapporti con la diocesi di Forcona, e si impegnò a fondare un partito guelfo in Aquila, promuovendo una campagna bellica contro Manfredi, in una lettera al popolo del 1256, e in un'altra dell'anno successivo, quando venne trasferita da Forcona la cattedra episcopale nella nuova cattedrale della città. Interessante notare come in queste lettere la città veniva chiamata "Communi Aquilano"[15]. Manfredi nel 1258 si fece eleggere a Palermo re di Sicilia, e rafforzò la sua campagna di compressione delle autonomie concesse dai suoi predecessori. Buccio commenta:

La fontana delle 99 cannelle, che simboleggia il mito della nuova fondazione del 1265

«Benché lo re Manfredo poi venne in signoria / Et contra della Ecclesia con forza e tirannia / Colli mali regnicoly, che gran copia ne avia: / Quale era per offitio et quale per leccaria. / Tanto co re Manfredo tucti se adoperaro / Con tucti quanti li altri che d'Abruzo camparo / Perché sconciasse l'Aquila jamai non refinaro, / Fi che, a lloro petetione tucta la deruparo.»

L'Aquila appoggiò il partito opposto a quello di Manfredi, prediligendo l'interesse della Chiesa di offrire la corona del Regno di Sicilia a Enrico III d'Inghilterra. Per questo fu presto raggiunta dalle truppe dello Svevo nel 1259, le mura furono presto abbattute, dato che la città non era stata ancora completata nella costruzione, e i cittadini dispersi tornarono ai loro castelli di origine.

Partecipazione alla battaglia di Tagliacozzo degli aquilani[modifica | modifica wikitesto]

In seguito al disastro, Carlo I dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento nel 1266, ricevette anche un'ambasciata dei popolani, al che il sovrano rispose, secondo Buccio il re ascoltò sia il partito dei villici che volevano ricostruire la città, che quello dei baroni fermamente opposto a tale scelta, i quali cercarono di corrompere il re anche con dell'oro, ma Carlo rispose secondo Buccio: Refayte l'Aquila ché io vollio in veritate! La moneta promessa per termene portate. La città dunque venne ricostruita, anche se durante l'edificazione si ebbero delle controversie, perché nel frattempo la diocesi forconese era stata assorbita dalla diocesi di Rieti, e sarebbe stato assurdo avere una città con due sedi vescovili. Infatti il papa Clemente IV si pose contro la ricostruzione, appoggiando la causa dei baroni feudatari, poiché il territorio oltretutto si trovava nello Stato della Chiesa, compresa Rieti[16]. Carlo tuttavia non tenne in considerazione le lamentele, e spinse fortemente per la ricostruzione. Nella Cronaca di Buccio si fa riferimento anche alla battaglia di Tagliacozzo nei Piani Palentini, quando il re Carlo chiese aiuto agli aquilani contro Corradino di Svevia.

Gli aquilani intervennero per ingraziarsi il re e per evitare un ritorno svevo, anche perché qualche anno prima si erano verificati disordini con la "liberazione" degli schiavi, rallentata dai baroni e da Rambotto, il loro rappresentante che fu ucciso dagli schiavi stessi, e dall'abbattimento incontrollato delle rocche nel territorio della conca. La vittoria a Tagliacozzo di Carlo giovò molto alla città, con l'afflusso sempre più cospicuo di cittadini dai vari borghi circostanti e l'avvio di un florido mercato con traffici commerciali lungo le principali vie dei tratturi.

Nonostante nei primi anni della ricostruzione fu massiccio l'afflusso dei villici, i baroni dei castelli ricostruirono le rocche, anche alle pendici del Gran Sasso d'Italia presso Assergi, il Vasto e Genca, per contrastare il flusso. In quest'epoca figurò il tribuno della plebe Niccolò dell'Isola, che prese dure posizioni contro le baronie dei castelli.

«Uno jorno fece fare un grande adunamento
Lui se levò in popolo et fé quisto parlamento;
Dixe: «Signuri dicovi dello meo intendimento:
Queste rocche de intorno fao grande impedimento
-Levete le coragera et giamole a derrupare,
Et quello che è facto non avremo ad fare!
Nullio signore saccio che possa contrariare
Se facto è, collo re ben l'haveremo accordare!»»

[17]

L'indignazione di Carlo II crebbe, che mandò il figlio Carlo Martello con l'incaricò di uccidere Niccolò, che infatti morirà avvelenato in circostanze misteriose. Dopo i funerali celebrati con commossa partecipazione popolare, scoppiò una guerra intestina tra i castellani, specialmente tra Paganica e Bazzano per i domini del quartiere di Santa Giusta e del contado orientale alle pendici del Gran Sasso, ritenuto più proficuo, dato che vi si coltivava anche lo zafferano. Paganica fu sconfitta (1293), i castellani anche dentro le mura, nel locale del Quarto Santa Maria, furono cacciati. Ma nel 1294 con l'elezione pontificia di Celestino V, fu accordata una pace generale, e i paganichesi poterono ritornare.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ TOMMASO DA CELANO, CONTE DEL MOLISE, su treccani.it.
  2. ^ I. Di Pietro, Memorie storiche degli uomini illustri della città di Solmona (1806), p. 56
  3. ^ F. Capecelatro, Istoria della Città e Regno di Napoli. Vol. II, Napoli 1724, p. 178
  4. ^ Ed. C. Radenberg, in "Monumenta Germaniae Historica", Epistolae saeculi XIII. Regestis pontificum romanorum selectae, Ex Gregorii IX Registro, München 1982, n. 402, pp. 321-322
  5. ^ "Privilegium concessum de Constructione Aquile" a cura di G.M. Monti in Los stato normanno svevo, Trani 1945, pp. 311-317
  6. ^ A. Clementi, Storia dell'Aquila, Editori Laterza 2009, p. 17
  7. ^ A. Clementi, Ibid., p. 18
  8. ^ V. Branca, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio Vol. II, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1991, p. 168
  9. ^ W. Capezzali, La civiltà della transumanza, in Archeoclub Italia, L'Aquila, 1992
  10. ^ Gualtieri d'Ocre Memoriale di notizie storico-critiche sotto il regno di Federico II. Napoli 1829, note e correzioni a p. 77
  11. ^ Battaglia di Tagliacozzo, su treccani.it.
  12. ^ C. De Lellis, Famiglie nobili del Regno di Napoli (1654), p. 57
  13. ^ Un documento parla della nascita di Celestino V « [...] in un castello di nome Sancto Angelo...», tradizionalmente interpretato come Sant'Angelo Limosano, ma gli abitanti di Sant'Angelo in Grotte ritengono si parli del loro borgo.
  14. ^ La fondazione di Collemaggio, su basilicadicollemaggio.it. URL consultato il 27 settembre 2018 (archiviato dall'url originale il 12 aprile 2009).
  15. ^ A. Clementi, Storia dell'Aquila, p. 25
  16. ^ L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi Vol. VI, Milano 1742, coll. 524-525
  17. ^ Buccio di Ranallo, Cronaca, CL-CLIV

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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