Trattato di Rapallo (1920)

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Trattato di Rapallo
Le due delegazioni dopo la firma del trattato. Il secondo da sinistra è il primo ministro serbo-croato-sloveno Vesnić, al centro il suo omologo italiano Giolitti
Contestoprima guerra mondiale
Firma12 novembre 1920
LuogoRapallo (Italia)
PartiRegno d'Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni
FirmatariGiovanni Giolitti e Milenko Vesnić
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Il primo trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920, fu un accordo con il quale l'Italia e la Jugoslavia stabilirono i confini dei due Regni e le rispettive sovranità, nel tentativo di risolvere la difficile situazione venutasi a creare dopo il Trattato di Pace di Versailles del 1919.

A Parigi, durante la conferenza di pace, le potenze vincitrici della prima guerra mondiale decisero di annettere all'Italia solo una parte dei territori che le erano stati promessi con i Patti di Londra, stipulati nel 1915. Questo fatto causò le proteste del primo ministro Vittorio Emanuele Orlando, che abbandonò indignato Parigi, e provocò un diffuso malumore in Italia, dove nacque l'idea della Vittoria mutilata.

Quando il Senato degli Stati Uniti scelse di non ratificare il trattato di Versailles e quando la città di Fiume fu occupata da gruppi di volontari italiani guidati dallo scrittore Gabriele d'Annunzio, si rese necessaria la stipula di un accordo tra i due Regni, promossa dal presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. L'esito delle trattative fu l'accordo, firmato nella cittadina ligure dopo diversi mesi di colloqui, che confermò sostanzialmente ciò che già era stato deciso durante le precedenti conferenze di pace; non servì dunque, a placare completamente i malumori dei nazionalisti, ma fece uscire la politica estera italiana da un periodo di stasi e isolamento durato oltre un anno. La situazione di Fiume sarebbe stata risolta solamente nel 1924.

Antefatti

I Patti di Londra e la vittoria dell'Intesa

Lo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra mondiale § Partecipazione Italiana.
Le terre del Mare Adriatico nel 1911.

Subito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, il 3 agosto 1914, l'Italia dichiarò la sua neutralità; in realtà, il governo di destra guidato da Antonio Salandra avviò presto, per iniziativa del ministro degli esteri Sidney Sonnino, trattative con entrambe le fazioni, specialmente con le potenze dell'Intesa, le quali promisero importanti compensi territoriali nell'eventualità di una vittoria. Con il Patto di Londra, stipulato in gran segreto il 26 aprile 1915, l'Italia s'impegnò dunque ad entrare in guerra nel mese di maggio a fianco di Russia, Francia e Inghilterra in cambio delle regioni del Trentino e dell'Alto Adige fino al Brennero, dell'Istria (con l'esclusione della città di Fiume, in quanto avrebbe potuto garantire all'Austria-Ungheria uno sbocco sul mare a cui aveva diritto) e della Dalmazia, delle città di Trieste, Gorizia e Gradisca, di un protettorato sull'Albania e della sovranità sul porto di Valona e sulla provincia di Adalia, in Turchia, oltre al Dodecanneso e a diverse colonie in Africa orientale e in Libia. Il 24 maggio l'Italia dichiarò guerra all'Austria.

Dopo oltre tre anni di battaglie nel Triveneto, la situazione si risolse a favore dell'Intesa con la decisiva Battaglia di Vittorio Veneto, che iniziò il 24 ottobre 1918 e che fu vinta dalle truppe di Diaz contro le forze imperiali; a Padova, il 3 novembre 1918, fu firmato l'armistizio e le truppe italiane occuparono Rovigno, Zara e Fiume, che si era autoproclamata italiana, oltre a Pola e Sebenico, cercando di spingersi addirittura fino a Lubiana, ma venendo fermate nei pressi di Postumia dai serbi.

I trattati di pace

«Sonnino tacerà in tutte le lingue che sa, Orlando parlerà in tutte le lingue che non sa.»

File:WilsonVersailles.jpg
Woodrow Wilson a Versailles con la delegazione statunitense.

Il 18 gennaio 1919 iniziò la Conferenza di pace di Parigi, che sarebbe durata oltre un anno e mezzo; rappresentante per l'Italia fu l'allora presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, accompagnato dalla delegazione composta dal ministro degli esteri in carica Sidney Sonnino, dall'ex-capo del governo Antonio Salandra e dal giornalista triestino Salvatore Barzilai. Luigi Luzzatti espresse perplessità soprattutto per le difficoltà che avrebbe avuto Orlando nel negoziare, dato che non conosceva l'inglese, e per il ruolo che il cosmopolita Sonnino aveva avuto nel corso del conflitto: nel 1914 aveva avviato anche trattative con gli Alleati e, soprattutto, non avrebbe potuto giustificare il fatto che la guerra a quello che era il nemico più temibile, la Germania, era stata dichiarata solamente nell'agosto del 1916 nel timore dell'ausilio che le truppe di Guglielmo II, meglio organizzate sul piano tecnologico e superiori numericamente, avrebbero portato a quelle austriache. Ciò non gli avrebbe garantito molto dialogo con l'Intesa.

La questione dei territori che sarebbero spettati agli italiani fu dibattuta a partire dal mese di febbraio, e in quell'occasione Orlando si ritrovò di fronte l'ostilità degli jugoslavi, che miravano a ottenere, oltre alla Dalmazia, anche Gorizia, Trieste e l'Istria, e che l'11 febbraio proposero alla delegazione italiana di affidare al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson la risoluzione delle controversie sui territori; il netto rifiuto degli italiani provocò disordini a Lubiana, Spalato e Ragusa di Dalmazia, ai quali Orlando rispose rivendicando con fermezza Fiume.

Fu proprio sulla questione legata alla città portuale che l'Italia aveva trovato la grande ostilità di Wilson, il quale, il 19 aprile, avanzò la proposta di creare uno stato libero di Fiume, spiegando che la città istriana doveva essere un porto utile per tutta l'Europa balcanica e che le rivendicazioni dell'Italia nei territori a est del Mare Adriatico andavano contro i quattordici punti da lui stesso fissati l'8 gennaio 1918 con l'obiettivo di creare una base per le trattative di pace, tanto da essere additate come "imperialiste". Fece pubblicare, sui giornali francesi, un suo articolo che ribadiva questi concetti[1].

«Fiume deve servire come sbocco commerciale non dell'Italia ma delle terre situata al Nord e al Nord-Est di questo porto: a Ungheria, Boemia, Romania, e agli stati del nuovo gruppo jugoslavo. Assegnare Fiume all'Italia significherebbe creare la convinzione che noi abbiamo, deliberatamente, posto il porto (...) nelle mani di una Potenza della quale esso non forma una parte integrante (...) E la ragione per la quale la linea del patto di Londra ha incluso molte delle isole della costa orientale dell'Adriatico e la porzione di costa dalmata è stato (...) che era necessario l'Italia avere una posizione nei canali dell'Adriatico orientale perché essa potesse difendere le sue coste contro l'aggressione navale dell'Austria-Ungheria. Ma l'Austria-Ungheria non esiste più.»

Vittorio Emanuele Orlando.

Orlando rispose con fermezza al presidente degli Stati Uniti[2]

«Ed io penso ancora che è proprio colui il quale può vantare (...) di avere proclamato al mondo il diritto di autodeterminazione dei popoli, questo diritto abbia a riconoscere a Fiume, antico comune italiano (...). Non sono forse Anversa, Genova, Rotterdam porti internazionali che servono popoli e regione diverse senza che questo privilegio sia duramente pagato colla coericizione della loro coscienza nazionale? (...) E può dirsi eccessiva l'aspirazione italiana verso la costa dalmata che fu nei secoli baluardo d'Italia, fatta nobile e grande dal genio romano e dall'attività veneziana (...)? Si proclamò a proposito della Polonia il principio che la nazionalizzazione dovuta alla violenza e all'arbitrio non può creare diritti; perché questo medesimo principioi non si applica alla Dalmazia?»

Nello stesso giorno, il primo ministro italiano lasciò polemicamente Parigi: al suo rientro in Italia, le piazze lo accolsero con grande calore, mentre a Roma, Milano, Torino e Napoli si verificarono disordini presso le ambasciate britanniche, francesi e statunitensi. Orlando fece ritorno a Parigi il 7 maggio, dopo che, il 29 aprile, la Camera aveva confermato la fiducia al suo governo. Il 4 maggio, intanto, dalla balconata del Campidoglio lo scrittore cinquantaseienne Gabriele d'Annunzio, fervente nazionalista, aveva attaccato duramente l'atteggiamento di Wilson, arrivando a insultarne la moglie in quella che fu un'orazione dai toni simili a quelli d'una dichiarazione di guerra.

«Laggiù sulle vie dell'Istria e della Dalmazia, che sono tutte Romane, non udite un esercito in marcia?»

Ma la mossa di Orlando non ebbe l'effetto sperato e, al suo arrivo nella capitale francese, il politico italiano trovò un clima decisamente ostile nei suoi confronti, tanto che in meno d'un mese fu indotto ad accettare la proposta che prevedeva la creazione dello Stato di Fiume e l'assegnazione della maggior parte della Dalmazia al Regno di Jugoslavia, con l'Italia che avrebbe guadagnato gran parte dell'Istria, con Pola, ma solo una parte della costa dalmata, con la sovranità su Zara e non sul porto albanese di Valona; le ex-colonie tedesche sarebbero state spartite solamente tra la Francia e l'Inghilterra.

L'assenso della delegazione italiana al progetto di Parigi costò al primo ministro la poltrona: la Camera gli negò la fiducia e il governo entrò in crisi. A rappresentare l'Italia alla conferenza rimase Sonnino, mentre Orlando dovette lasciare spazio a Francesco Saverio Nitti, che il 21 giugno ottenne da Re Vittorio Emanuele III l'incarico di formare un nuovo governo. Nitti ottenne la fiducia il 12 luglio; nuovo ministro degli esteri fu Vittorio Scialoja. Il 28 giugno, intanto, a Versailles era stato firmato il trattato di pace.

La firma dell'armistizio e l'occupazione di Fiume

Lo stesso argomento in dettaglio: Impresa di Fiume.
File:Giolitti1.jpg
Giovanni Giolitti.

Quando il Senato degli Stati Uniti scelse di non ratificare il trattato di Versailles, iniziarono tra i Paesi trattative separate. Ma distratto dai problemi interni (erano gli anni del Biennio rosso), Nitti preferì concludere al più presto i negoziati di pace con l'Austria, rinunciando a Fiume e arrivando ad accordarsi già a fine agosto, per poi firmare ufficialmente l'armistizio il 10 settembre; per questo decisivo passo indietro fu criticato aspramente dai nazionalisti e, in particolare, da Gabriele d'Annunzio, medaglia d'oro al valore militare, che coniò per lui il nomignolo di "Cagoia", accusandolo di viltà.

Tra il popolo era dunque cresciuta la delusione per la Vittoria Mutilata e la sfiducia verso le istituzioni era largamente aumentata dopo la caduta del gabinetto Orlando - arenatosi proprio sul progetto dell'espansione nei Balcani - e, soprattutto, dopo l'armistizio con l'Austria.

Nitti, nonostante gli fosse confermata la fiducia del governo, scelse di dimettersi il 16 novembre, preoccupato anche dalle agitazioni sul fronte interno degli operai e degli agricoltori. Le elezioni di dicembre decretarono la vittoria dei socialisti e l'esecutivo fu inizialmente affidato ancora a Nitti per passare poi nel mese di giugno, dopo una nuova crisi di governo, a Giovanni Giolitti che, alla sua ottava presidenza del Consiglio, ricoprì anche il ruolo di ministro degli interni.

Villa del Trattato, sede del convegno.

Le conseguenze a Fiume

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D'Annunzio ritratto in un francobollo fiumano del 1920.

Nonostante la firma del trattato, Gabriele d'Annunzio, che l'8 settembre aveva pubblicato la Carta del Carnaro e si era proclamato governatore, rifiutò categoricamente di lasciare Fiume: questo malgrado la situazione economica della città, dopo oltre un anno di isolamento, non fosse nelle condizioni migliori, tanto che tra la cittadinanza e i volontari erano cominciati a serpeggiare malcontento e antipatia nei confronti dell'eccentrico Vate. Persino Mussolini, che aveva appoggiato anche finanziariamente l'iniziativa dell'intellettuale, approvò il trattato di Rapallo, definendolo "unica soluzione possibile" per uscire dal periodo di stasi che caratterizzava ormai la politica estera italiana.

Il governo italiano optò per un ultimatum e impose ad un d'Annunzio sempre più isolato di abbandonare la città con le truppe entro il 24 dicembre; dopodiché, nel caso avesse resistito, si sarebbe mosso l'esercito italiano. D'Annunzio sottovalutò gli avvertimenti del governo. Convinto che mai Roma avrebbe attaccato Fiume, mantenne la sua posizione e così fecero i suoi uomini, fino alla vigilia di Natale, alle sei di sera, quando il primo colpo di cannone sparato dalla corazzata Andrea Doria sventrò la residenza fiumana del Vate, che rimase illeso ma optò, il 31 dicembre, per la resa, dopo che negli scontri con l'esercito italiano della settimana precedente cinquanta suoi uomini avevano perso la vita (Natale di sangue).

D'Annunzio lasciò rammaricato Fiume il 18 gennaio, scegliendo di ritirarsi nella sua villa di Gardone Riviera, il Vittoriale. La vita dello stato di Fiume poté avere inizio.

La firma del trattato e le conseguenze

I negoziati e la riunione di Villa Spinola

Già durante il governo Nitti, Vittorio Scialoja e il ministro degli esteri jugoslavo Ante Trumbić, in un incontro avvenuto 11 maggio 1920 a Pallanza avevano avviato pacificamente i negoziati, gettando le basi per un trattato. Dopo la crisi di governo, Trumbić incontrò Carlo Sforza, nuovo ministro degli esteri del gabinetto Giolitti, a Spa, in Belgio; fu in quell'occasione che si trovò un accordo.

L'Italia prima della Grande Guerra.
L'Italia dopo il trattato di Rapallo.

Il 12 novembre a Villa Spinola (oggi conosciuta anche come Villa del trattato), nel borgo di San Michele di Pagana presso Rapallo, si riunirono ancora Trumbić e Sforza, oltre a Giolitti e al ministro della guerra Ivanoe Bonomi per l'Italia e Milenko R. Vesnić (presidente del Consiglio) e Kosta Stojanović (ministro delle finanze) per la Jugoslavia; verso la mezzanotte si firmò un trattato, in 9 articoli, che confermava praticamente ciò che era stato deciso a Parigi.

Il trattato articolo per articolo

«Il regno d'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, desiderando stabilire tra loro un regime di sincera amicizia e cordiali rapporti, per il bene comune dei due popoli (...) hanno convenuto quanto segue.»

  • Con l'Articolo I, si ridisegnarono i confini nella parte orientale; Trieste, Gorizia e Gradisca, l'Istria e alcuni distretti della Carniola (Postumia, Villa del Nevoso, Idria, Vipacco, Sturie) furono annesse all'Italia.
  • Con l'Articolo II, Zara fu assegnata all'Italia.
  • L'Articolo III stabilì come sarebbero state spartite le isole del Quarnaro: Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta furono assegnate all'Italia, mentre le altre isole, precedentemente proprietà dell'Impero Austro-Ungarico, andarono al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
  • Con l'Articolo IV, nacque ufficialmente lo stato libero di Fiume. Lo stato doveva avere per territorio un cosiddetto "Corpus separatum", "delimitato dai confini della città e del distretto di Fiume", ed un tratto di territorio già istriano.
  • L'Articolo V stabilì il metodo con cui sarebbero stati tracciati i confini; in caso di divergenze sarebbe stato chiesto l'ausilio del Presidente della Confederazione Elvetica.
  • Con gli Articoli VI e VIII furono organizzati degli incontri durante i quali si sarebbe discusso sui temi dell'economia e della cultura, al fine di mantenere saldi i rapporti tra i due Regni. Gli accordi economici furono successivamente approvati e firmati a Roma il 23 ottobre 1922.
  • Nell'Articolo VII fu elencata una serie di risoluzioni a problematiche relative alla cittadinanza che sarebbero sorte in seguito al passaggio dei territori serbi all'Italia.
  • L'Articolo IX esplicò la modalità con cui era stato redatto il trattato, che si chiudeva con le firme dei sei Plenipotenziari.

Avvenimenti successivi

480.000 furono secondo i dati del censimento del 1910 gli Sloveni e i Croati che si ritrovarono entro i confini del Regno d'Italia a fronte dei circa 15.000 Italiani divenuti cittadini del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

Dopo il 1922 e la marcia su Roma, i fiumani si divisero tra autonomisti e fascisti, accrescendo così le tensioni interne. La situazione si risolse nel 1924 per un evento del tutto estraneo agli avvenimenti che avevano avuto per protagonista la città di Fiume negli anni precedenti.

Il 27 agosto del 1923, nei pressi della città greca di Giannina, furono uccisi quattro diplomatici italiani, inviati dalla Società delle Nazioni al confine con l'Albania per risolvere un contenzioso tra le due nazioni riguardante i rispettivi confini. Il presidente del Consiglio Benito Mussolini reagì con rabbia, chiedendo la pena capitale per gli assassini e un risarcimento pari a 50 milioni di lire; scaduto l'ultimatum, il 31 agosto venne attuato il raid di Corfù che portò all'uccisione di venti civili e alla rivendicazione dell'isola.

Ammonito inizialmente dalla Società delle Nazioni, della quale gli Stati Uniti non facevano parte, Mussolini rispose non solo mantenendo le truppe sull'isola greca ma annettendo Fiume all'Italia, con il trattato di Roma, firmato il 27 gennaio 1924. Francesi e inglesi preferirono tirarsi indietro e non prendere nessun provvedimento contro l'Italia, i primi poiché, interessati alla regione della Ruhr, avrebbero potuto sentire la necessità d'un alleato in un ipotetico scontro con la Germania, i secondi poiché preferirono non muovere le truppe per terre che non suscitavano loro alcun interesse. Fiume diventò dunque città e capoluogo di provincia italiano fino alla seconda guerra mondiale.

Note

  1. ^ "Messaggio per l'Italia" di Woodrow Wilson, pubblicato dalla stampa francese il 23 aprile 1919.
  2. ^ Risposta di Vittorio Emanuele Orlando al "Messaggio per l'Italia" di Woodrow Wilson, pubblicata il 24 aprile del 1919 dalla stampa francese.

Bibliografia

  • Paolo Viola. Storia moderna e contemporanea, vol. IV - Il Novecento. Torino, Einaudi, 2000. ISBN 8806155113. pp. 69-75.
  • Giorgio Bonacina. Arrivano vittoria e pace, in Italia - Ventesimo Secolo. Milano, Selezione del Reader's Digest, 1985. ISBN 8870450503. pp. 116-117.
  • Sandro Liberali. Un sogno eroico: Fiume italiana, in Italia - Ventesimo Secolo. Milano, Selezione del Reader's Digest, 1985. ISBN 8870450503. pp. 122-125.

Voci correlate

Collegamenti esterni

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