Sibilla Appenninica: differenze tra le versioni

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Oltre alle leggende legate alla Sibilla e alla sua [[grotta della Sibilla|grotta]], si tramandano fatti e storie anche riguardo al [[lago di Pilato]] a lei intimamente legato e situato ai piedi del vicino [[Monte Vettore]]. Infatti nel XV secolo veniva ancora chiamato Lago della Sibilla come si evince sia da un documento amministrativo di quel periodo (una sentenza) sia da un disegno di Antoine de la Sale mentre nei secoli successivi si affermerà sempre più la dizione Lago di Pilato.
Oltre alle leggende legate alla Sibilla e alla sua [[grotta della Sibilla|grotta]], si tramandano fatti e storie anche riguardo al [[lago di Pilato]] a lei intimamente legato e situato nel vicino [[Monte Vettore]]. Infatti nel XV secolo veniva ancora chiamato Lago della Sibilla come si evince sia da un documento amministrativo di quel periodo (una sentenza) sia da un disegno di Antoine de la Sale mentre nei secoli successivi si affermerà sempre più la dizione Lago di Pilato.


E anche per il lago le leggende che ci sono pervenute provengono dal testo di [[Antoine de La Sale]]: è qui infatti che si racconta di come il corpo di [[Ponzio Pilato]], dopo essere stato giustiziato per ordine dell'[[Imperatore romano|imperatore]] per non aver impedito la [[crocifissione]] di [[Gesù]], fu caricato su un carro trainato da due [[Bufalo mediterraneo italiano|bufali]] che da [[Roma]] lo trasportarono fino ai [[Monti Sibillini]] e si gettarono infine nel lago. Il [[Antoine de La Sale|De La Sale]] riferisce questa storia udita dagli abitanti di [[Montemonaco]], dimostrando come questa non può essere vera in quanto la versione raccontata dal popolo voleva che l'imperatore che emise la condanna a morte fu [[Vespasiano|Tito Vespasiano]], quando [[Ponzio Pilato|Pilato]] visse invece sotto [[Tiberio]].
E anche per il lago le leggende che ci sono pervenute provengono dal testo di [[Antoine de La Sale]]: è qui infatti che si racconta di come il corpo di [[Ponzio Pilato]], dopo essere stato giustiziato per ordine dell'[[Imperatore romano|imperatore]] per non aver impedito la [[crocifissione]] di [[Gesù]], fu caricato su un carro trainato da due [[Bufalo mediterraneo italiano|bufali]] che da [[Roma]] lo trasportarono fino ai [[Monti Sibillini]] e si gettarono infine nel lago. Il [[Antoine de La Sale|De La Sale]] riferisce questa storia udita dagli abitanti di [[Montemonaco]], dimostrando come questa non può essere vera in quanto la versione raccontata dal popolo voleva che l'imperatore che emise la condanna a morte fu [[Vespasiano|Tito Vespasiano]], quando [[Ponzio Pilato|Pilato]] visse invece sotto [[Tiberio]].

Versione delle 10:07, 5 feb 2019

Sibilla Appenninica
La Sibilla Appenninica presso il Palazzo del Governo di Ascoli Piceno, dipinto di Adolfo De Carolis
AutoreAntoine de La Sale, Andrea da Barberino, vari
Caratteristiche immaginarie
SessoFemmina

La Sibilla Appenninica, detta anche Sibilla Picena o Sibilla di Norcia è una figura dell'immaginario collettivo diffusasi a partire dal medioevo nell'area montana del Piceno e di Norcia, in particolare appunto sui Monti Sibillini, ai quali questa ha dato il nome.

Sebbene nei testi medievali si parli della Sibilla, la definizione di Sibilla Appennina compare per la prima volta solo nel 1938, nel libro di Augusto Vittori "Montemonaco nel Regno della Sibilla Appennina" con prefazione di Fernand Desonay.[1]

Probabilmente a causa di complessi processi di sincretismo culturale viene identificata come sibilla; ma in realtà, nonostante alcune fonti risalenti all'inizio dell'era imperiale riferiscano di un oracolo sugli Appenini, essa non rientra nel canone delle dieci Sibille classiche riportato da Varrone.[2]


Le leggende

Secondo la leggenda, la Sibilla è una maga, incantatrice e indovina; regina di un mondo sotterraneo paradisiaco al quale si accede attraverso la grotta che si apre sulla vetta del Monte Sibilla.

Le prime fonti scritte riguardanti questa leggenda risalgono al basso medioevo; i testi che contribuiscono alla definizione della figura della Sibilla Appenninica come la si conosce oggi sono fondamentalmente due:

Le due opere quattrocentesche riportano per iscritto voci e racconti provenienti dalla tradizione orale locale del tempo[3], delle cui origini non si hanno però ulteriori notizie, in quanto dal I secolo fino al medioevo non esiste ancora alcun tipo di fonte storica o riferimento archeologico che possa aiutare nella ricostruzione dei processi culturali avvenuti in quel periodo[4].

Altri aspetti e prerogative della Sibilla e delle sue damigelle, identificate nel folklore come fate, si apprendono dai racconti degli anziani di Montegallo, Montemonaco, Montefortino, Castelsantangelo sul Nera, Norcia, raccolti e messi per iscritto nel corso del XX secolo da molti autori, umbro marchigiani e non.

Il racconto di Antoine de La Sale

Illustrazione del 1420 di Antoine de La Sale, raffigurante il Vettore e il Lago di Pilato, e la Sibilla con la sua grotta.

Il gentiluomo francese Antoine de la Sale, in un capitolo de La Salade, redige la relazione di un viaggio che egli compì in Italia nella primavera del 1420, durante il quale visitò Montemonaco e la grotta del Monte Sibilla.

Lo scritto è dedicato alla duchessa Agnese di Borgogna (moglie di Carlo I di Borbone, sorella di Filippo il Buono, principessa Borgogna), alla quale l'autore sta inviando il suo resoconto per onorare una promessa fatta: da questo si evincerebbe la curiosità di detta signora di conoscere meglio la leggenda sul lago e la grotta dei Monti Sibillini, della quale era già a conoscenza per averli raffigurati in un arazzo in suo possesso. De La Sale descrive innanzitutto i luoghi e la prima parte accessibile della grotta, che egli stesso ha verosimilmente esplorato; poi riporta i racconti orali degli abitanti di Montemonaco (tra cui un sacerdote, tale Antonio Fumato) i quali narrano di varie spedizioni all'interno della grotta, più o meno fantastiche, compiute dagli abitanti locali e da un cavaliere tedesco e il suo scudiero che si avventurarono nella grotta giungendo al paradiso della Sibilla.

Il cavaliere tedesco e il suo scudiero sulla soglia del Regno della Sibilla

Entrati nella grotta tramite uno stretto pertugio in parte occluso da una roccia, si giunge facilmente ad un primo vano quadrato dove tutt'intorno vi sono dei sedili intagliati nella roccia delle pareti. Da questa stanza si prosegue solo scendono per stretti e ripidi cunicoli, i quali scoraggiarono de La Sale, che non proseguì oltre. Tuttavia, dai racconti degli abitanti di Montemonaco, si apprende che questi cunicoli scendano per circa tre miglia per poi allargarsi in un ampio corridoio, fino a giungere ad una fessura dalla quale scaturisce un vento procelloso che ricaccia indietro anche i più audaci; quindici tese oltre la vena del vento la corrente d'aria cessa, dopodiché, proseguendo per ancora altre tre tese, si arriva sul ciglio di un baratro senza fondo dove scorre un fiume fragorosissimo, attraversabile solo tramite un ponte di materia indefinita, lunghissimo e non più largo di un piede. Ma come per incanto, appena imboccato il ponte questo si allarga e l'abisso si rimpicciolisce sempre più, finché ci si trova in una galleria fantasmagorica attraversata da una strada comodissima. Al termine della strada si trovano due statue di dragoni dagli occhi fiammeggianti che illuminano tutt'intorno; superati i dragoni si prosegue per ancora cento passi lungo un corridoio strettissimo, fino ad uno spiazzo quadrangolare dove si trovano due porte di metallo che sbattono violentemente l'una contro l'altra rischiando di schiacciare chi dovesse tentare di attraversarle. Oltre le porte metalliche vi è una porta fastosissima e luminosissima che immette nel regno della Sibilla, la quale accoglie festosa l'intrepido viaggiatore insieme ad una moltitudine di soavi damigelle e giovani, tra lo sfolgorio abbagliante di vesti e gioielli.

Coloro che abitano nella grotta imparano a comprendere tutte le lingue del mondo dopo nove giorni, e dopo trecento giorni sanno parlarle tutte. Ed essi restano immortali fino alla fine dei tempi. Chi entra nella grotta può decidere di andarsene solo dopo l'ottavo, il trentesimo o il trecentotrentesimo giorno, e chi dovesse decidere di rimanere nella grotta per un anno non potrà più tornare al mondo terreno.

Nella grotta non esistono vecchiaia e dolore, né sofferenza del caldo o del freddo, ma si gode fino al sommo della delizia. Tutti gli abitanti della grotta vivono immersi nelle più fastose ricchezze, allietati dalle splendide damigelle della Sibilla. Tuttavia alla mezzanotte di ogni venerdì essi si trasformano serpenti schifosi, e tali restano fino alla mezzanotte del sabato.

Il cavaliere tedesco dei racconti di De La Sale si rende presto conto di vivere in un paradiso demoniaco, e decide infine di uscire prima dello scadere dell'anno, per salvare la sua anima dalla dannazione eterna. Egli si recò a Roma per chiedere l'assoluzione del Papa, il quale non la concesse immediatamente a salutare ammonimento; ma il cavaliere disperato lasciò delle lettere di addio ai pastori dei Monti Sibillini e si rituffò per sempre nel paradiso della Regina Sibilla.[5]

Un'altra storia riportata da Antoine de La Sale è quella del Sire di Pacs (o di Pacques) che si disperò dopo aver trovato incisa la firma del fratello all'interno dell'antro della Sibilla. Il De La Sale riferisce verosimilmente la presenza di queste firme di cavalieri Europei nel primo vano della grotta: il che testimonierebbe un importante flusso di visitatori anche durante il medioevo.

Il Guerrin Meschino

Guerino giunge alle porte del Regno della Sibilla

Quasi in concomitanza al viaggio di Antoine de La Sale (circa una trentina di anni prima), il letterato fiorentino Andrea da Barberino compone Il Guerrin Meschino: un romanzo cavalleresco ambientato nell'anno 824 in cui si raccontano le gesta di Guerino, cavaliere presso la corte di Costantinopoli, soprannominato "meschino" a causa del fatto che egli non conosceva i propri genitori, ragione per cui egli si mette in viaggio per l'Europa alla ricerca delle proprie origini. Durante le sue peripezie Guerino si ritrova a Norcia, dal qual paese parte alla volta della grotta della Sibilla per chiedere alla veggente di rivelargli il nome dei suoi genitori.

La descrizione che che Andrea da Barberino dà della corte della Sibilla è molto simile a quella dei racconti popolari trascritti dal De La Sale, e anche le vicende del cavaliere all'interno della grotta non sono troppo dissimili da quelle del cavaliere tedesco di Antoine de La Sale. La Sibilla trattiene Guerino senza rivelargli il nome dei suoi genitori, tentandolo a peccare e rinnegare Dio. Il cavaliere riuscirà infine a resistere alle tentazioni della maga grazie alla sua fede cristiana, e dopo un anno lascerà la grotta, ma senza aver raggiunto il suo scopo. Quando Guerino si recherà poi a Roma a chiedere perdono al Papa, il pontefice concederà l'assoluzione e lo invierà come penitenza lungo la via di Santiago de Compostela a proteggere i pellegrini. Infine Guerino scoprirà la sua identità in Irlanda, presso il Pozzo di San Patrizio.

Nella versione originale del romanzo si parla esplicitamente di Sibilla, mentre nelle versioni successive, sottoposte alla censura dell'Inquisizione, diversi capitoli vengono soppressi e il termine Sibilla viene sostituito con Alcina (maga dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, datato 1516). Il motivo di questa modifica è da ricercarsi nel fatto che nel XIV-XV sec. la figura della sibilla era già completamente affermata nella cultura cristiana come profetessa della nascita del Messia, e non poteva perciò ricoprire il ruolo demoniaco attribuitole nell'opera e nelle leggende popolari.

La tradizione popolare

Secondo la tradizione locale, la Sibilla (nel dialetto locale indicata come "Sibbilla") è una fata buona, Maga bella e maliarda,[6] "veggente e incantatrice,"[7], ma non perfida e neppure demoniaca[6]. Ella vive nella grotta circondata dalle sue ancelle, ovvero fate dai piedi caprini che escono dalla grotta per ballare il saltarello con i pastori, o scendono a valle per insegnare alle fanciulle del posto a filare e tessere le lane.

Secondo un racconto locale, fu la Sibilla a provocare un intenso evento tellurico nel paese di Colfiorito, antico nome di Pretare, che distrusse il sito riducendolo ad un mucchio di pietre. Questo avvenne quando le sue fate rimasero a ballare nel borgo oltre l'orario consentito per il rientro nella grotta.[8]


Il lago di Pilato

Lo stesso argomento in dettaglio: Lago di Pilato.
Il lago di Pilato, sul Monte Vettore

Oltre alle leggende legate alla Sibilla e alla sua grotta, si tramandano fatti e storie anche riguardo al lago di Pilato a lei intimamente legato e situato nel vicino Monte Vettore. Infatti nel XV secolo veniva ancora chiamato Lago della Sibilla come si evince sia da un documento amministrativo di quel periodo (una sentenza) sia da un disegno di Antoine de la Sale mentre nei secoli successivi si affermerà sempre più la dizione Lago di Pilato.

E anche per il lago le leggende che ci sono pervenute provengono dal testo di Antoine de La Sale: è qui infatti che si racconta di come il corpo di Ponzio Pilato, dopo essere stato giustiziato per ordine dell'imperatore per non aver impedito la crocifissione di Gesù, fu caricato su un carro trainato da due bufali che da Roma lo trasportarono fino ai Monti Sibillini e si gettarono infine nel lago. Il De La Sale riferisce questa storia udita dagli abitanti di Montemonaco, dimostrando come questa non può essere vera in quanto la versione raccontata dal popolo voleva che l'imperatore che emise la condanna a morte fu Tito Vespasiano, quando Pilato visse invece sotto Tiberio.

Disegno di Antoine De la Sale

Antoine de La Sale racconta anche che al tempo della sua visita a Montemonaco (inizio XV sec), l'accesso al lago fosse vietato in quanto frequentatissima meta di negromanti che vi salivano per consacrare libri del comando ai demoni che abitavano quelle acque. Ogni volta che qualcuno evocava gli spiriti maligni del lago si scatenava una violenta tempesta che distruggeva tutti i raccolti della zona; ed era perciò interesse degli abitanti del luogo tutelarsi: per visitare il lago era necessario un salvacondotto rilasciato dalle autorità della città di Norcia, e il malcapitato che vi fosse stato sorpreso senza autorizzazione avrebbe perfino rischiato la vita. Si racconta di una volta in cui due negromanti (uno dei quali era un prete) vennero catturati presso il lago dai locali: uno venne condotto a Norcia e condannato, mentre l'altro fu fatto a pezzi e gettato nelle acque del lago.

Durante i secoli XV, XVI e XVII la letteratura italiana è prodiga di riferimenti, seppur spesso consistenti solo in semplici accenni, alle arti negromantiche praticate presso il lago di Pilato. Conferma dell'importante afflusso di visitatori alla grotta e al lago è data da una sentenza di assoluzione del 1452, in cui l'inquisitore della Marca Anconitana De Guardariis assolve la popolazione di Montemonaco dalla scomunica in cui era incorsa per aver accompagnato "ad lacum Sibyllae" (al lago della Sibilla) cavalieri "provenienti da ogni dove" per consacrarvi libri proibiti mentre li ospitavano in Montemonaco ove praticavano, in casa di Ser Catarino, l'alchimia.[9]

Origine del mito

Le sibille

Lo stesso argomento in dettaglio: Sibilla.
Una kylix attica del 440-430 a.C. su cui è rappresentato il re anteniese Egeo nell'atto di consultare l'oracolo di Delfi.

In genere per sibilla si intende una istituzione religiosa del mondo classico. Nell'Antica Grecia e poi presso i Romani, la sibilla era una sacerdotessa dotata di capacità profetiche ispirate da una divinità, solitamente Apollo o Ecate. La carica era ricoperta esclusivamente da donne vergini interamente consacrate al dio.

La sibilla più antica di cui si hanno documentazioni (circa XIV secolo a.C.) è la Pizia: profetessa dell'Oracolo di Delfi, ovvero una sacerdotessa che esercitava la divinazione del futuro presso il tempio di Apollo della città greca di Delfi, situato nella Focide alle falde del Monte Parnàso. La Pizia era coadiuvata da un gruppo di sacerdoti che amministravano il culto di Apollo ed interpretavano i vaticini che essa pronunciava invasata dalla spirito del dio. Per quasi due millenni il ruolo fu ricoperto dalle donne della città di Delfi, scelte senza requisiti di età. La pratica venne destituita nel 392 d.C., quando i decreti teodosiani soppressero i culti pagani.

In età antica le sedi oracolari presidiate dalle sibille proliferarono intorno al Mediterraneo. Nella seconda metà del I secolo a.C., l'autore romano Varrone, in un capitolo della sua opera Antiquitates rerum humanarum et divinarum, riporta un elenco delle dieci sibille esistenti in quel periodo: Cimmeria, Cumana, Delfica, Ellespontica, Eritrea, Frigia, Libica, Persica, Samia, Tiburtina. In seguito Lattanzio confermerà la stessa lista nel suo De Divinis institutionibus (304-313 d.C.).

I responsi oracolari delle sibille erano raccolti in nove testi greci noti come Libri Sibillini, conservati a Roma e andati bruciati nell'83 a.C.; si tentò in seguito di ricostruirli, ma dei nuovi volumi si ha notizia solo fino al V secolo d.C..

Le sibille italiche

Tempio della Sibilla Tiburtina a Tivoli

In Italia esisteva un centro oracolare presso l'acropoli magnogreca di Cuma, dove sorgeva dal VI secolo a.C. un tempio dedicato ad Apollo sulla sommità di un rilievo roccioso. Secondo il mito la Sibilla Cumana esercitava la sua attività divinatoria nei pressi del Lago d'Averno, all'interno di una caverna nota appunto come Antro della Sibilla: essa scriveva i vaticini in esametri su delle foglie di palma che venivano poi mescolate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i responsi incomprensibili e misteriosi.

La Sibilla Cumana entra nella mitologia classica grazie all'Eneide di Virgilio (fine I secolo a.C.), in cui si racconta che la sacerdotessa, attraverso il lago d'Averno, discese con Enea nell'Ade, dove l'eroe troiano incontrerà il padre Anchise.

Al II secolo a.C. risale invece il tempio della sibilla dell'acropoli di Tibur (Tivoli), dove esercitava la Sibilla Tiburtina.

Le sibille nel cristianesimo

Sibilla Cumana dipinta da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina

Con il sovrapporsi della religione cristiana a quella pagana, si tentò di estirpare i culti oracolari e lentamente si innescò un processo di sincretismo che trasformò le sibille classiche in profetesse della nascita del Cristo. Già dal II secolo i vaticini delle sibille erano andati gradualmente modificandosi, adattandosi alla sovrapposizioni di varie tradizioni, prima su tutte quella cristiana[10].

Tra il II e il I secolo a.C. compaiono i volumi più antichi degli Oracoli Sibillini: questi testi, fatti risalire alle comunità ebraiche di Alessandria d'Egitto (quindi classificati come "tradizione giudaico-ellenistica"), riadattano gli oracoli del mondo greco-romano (attribuiti soprattutto alla Sibilla Eritrea) in un'ottica monoteista, fortemente connotata da tematiche apocalittiche[11].
I primi Padri della Chiesa traggono ispirazione proprio da questi testi per la trasposizione della figura della sibilla dallo scenario pagano a quello cristiano[12].
Saranno poi i testi ripresi dagli intellettuali cristiani ("tradizione giudeo-cristiana") a circolare fino al XIV secolo.

Nel suo De civitate Dei, Sant'Agostino di Ippona (uno dei padri fondatori della dottrina cristiana, vissuto dal 354 al 430 d.C.) riprese alcuni versi dalla IV Egloga delle Bucoliche di Virgilio (circa 40 a.C.)[13], nei quali si parla di un responso oracolare attribuito alla Sibilla Cumana secondo il quale una Vergine partorirà un fanciullo che vivrà tra gli dèi e governerà il mondo come un padre, cancellando il timore e le colpe degli uomini, ponendo fine alla mitologica Età del Ferro e decretando l'inizio di una nuova Età dell'Oro in cui l'uomo vivrà in pace, sostentato dalle messi e dagli armenti elargiti dalla natura benevola. Il componimento venne interpretato da Agostino come un annuncio della venuta del Cristo redentore dell'umanità, predetto appunto dalla Sibilla Cumana.

Dall'VIII secolo, teologi cristiani quali Isidoro di Siviglia, Rabano Mauro, Gervasio di Tilbury e Vincenzo di Beauvais, scrivono delle sibille come profetesse di Cristo in terre pagane. I testi degli oracoli sono trasmessi soprattutto da Rabano Mauro nel De Universo e da Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae.[14] Quest'ultimo in particolare parla delle sibille antiche trasmettendo la lista di Varrone, e riporta inoltre che il termine "sibilla" diventa appellativo di donna che pratichi la divinazione: questa associazione tra essere femminile e pratiche divinatorie costituisce un elemento importante per il delineamento dell'immagine della strega dal IX-X secolo[15].

Le sibille entrarono quindi a pieno titolo nella cultura religiosa cristiana. Tanto che con la riscoperta della cultura classica avvenuta durante il Rinascimento (XIV-XVI secolo) esse compariranno affiancate ai profeti biblici nelle opere di arte sacra: sono famose sibille affrescate da Michelangelo al fianco dei profeti biblici sulla volta della Cappella Sistina (1508-12), o quelle intarsiate nella pavimentazione del Duomo di Siena (1482-83). Altri esempi di sibille raffigurate nell'arte sacra si trovano negli affreschi della chiesa di S.Giovanni Evangelista a Tivoli (1483), o della Cappella di Marciac della chiesa di Trinità dei Monti a Roma (XVI sec), o ancora tra le sculture del pulpito della chiesa di Sant'Andrea di Pistoia (1298-1301).

Nel territorio dei Monti Sibillini ritroviamo le sibille affrescate nel Santuario della Madonna dell'Ambro (Montefortino) e nella chiesa di Santa Maria in Pantano (Montegallo).

La sibilla sull'Appennino

Un primo riferimento storico riconducibile a un qualche culto pagano sugli Appennini sembra potersi trovare nella Storia dei Cesari di Svetonio che, a proposito di Vitellio, accenna ad una veglia negli Appennini tenuta prima del suo ingresso a Roma nel 69[16]:

(LA)

«In Appennini quidem iugis etiam pervigilium egit»

(IT)

«Sulla sommità dell'Appennino si fece anche una veglia»

Anche Trebellio Pollione nella sua Storia Augusta riporta un episodio relativo a Claudio il Gotico, che, nel 268, consultò sul suo futuro un oracolo negli Appennini:[17]

(LA)

«Item cum Appennino de se consuleret, responsum huius modi accepit»

(IT)

«Analogamente, quando negli Appennini chiese del suo futuro, ricevette il seguente responso»

Potrebbe aver consultato l'oracolo sibillino anche l'imperatore Aureliano (III secolo) figlio di Zenobia, sacerdotessa del tempio del Sole.[18]

Tuttavia, in questi documenti non si fa nessun accenno ad una sibilla, tanto che all'inizio del IV sec, Lattanzio conferma il catalogo di Varrone (precedente di un paio di secoli), nel quale non compare nessuna sede sibillina sui monti dell'Appennino centrale. Inoltre, dopo il II secolo non si hanno fonti scritte né archeologiche che permettano di ricostruire i processi storici avvenuti nei seguenti mille anni, fino al medioevo, quando una sibilla compare negli scritti di Antoine de La Sale e di Andrea da Barberino.[4]

Dal XV sec almeno si diffuse una leggenda secondo la quale la Sibilla Cumana, vergine profetessa della nascita di Cristo, si adirò con Dio per non essere stata scelta come madre del Salvatore, e fu per questo esiliata sugli Appennini[19]. Nel Guerrin Meschino si narra questa storia, che il protagonista sente raccontare da due uomini appena giunto nella città di Norcia:

«Di questa città ho udito dir, che ci è la Incantatrice Alcina, la qual s'ingannò di modo, che ella credea che Dio scendesse in lei, quando incarnò in Maria vergine, e per questo ella si disperò, e fu giudicata per questa cagion in queste montagne.»

Sibilla Chimica dipinta nel Santuario dell'Ambro

Anche Giovan Battista Lalli, poeta tardo rinascimentale di Norcia scrisse all'inizio del '600:

«È fama, che da Cuma, oue le prime
Stanze l'illustre Profetessa ottenne,
Mentre turba importuna iui le opprime
La sua quiete, a lei partir convenne.
Ne le rimote, e discoscese cime
Del Norsin Monte a riposar se'n venne
Dal curioso vulgo iui si cela,
E raro altri secreti altrui riuela.»

Non si hanno fonti certe sull'origine di questa leggenda che vede la Sibilla Cumana spostarsi verso gli Appennini. Il primo documento in cui si trova un riferimento ad una storia simile è Le Livre de Sibile, attribuito al monaco francese Philippe de Thaon (XI-XII sec): egli tradusse in francese medievale (più esattamente in anglo-normanno) un poema latino riguardante la Sibilla Tiburtina, nel quale si narra che la profetessa fu chiamata a Roma e interpellata per interpretare un sogno fatto nella stessa notte da cento senatori che sognarono ognuno nove soli diversi; la Sibilla risponde che non era possibile svelare un tale segreto in un luogo contaminato e corrotto qual era il Campidoglio, ma era necessario spostarsi sul monte Aventino. Nella traduzione francese medievale viene riportato "mont Apennin" invece di "mont Aventin".[22]

Il lago e la grotta

L'associazione della Sibilla Cumana ai monti di Norcia deve aver determinato la sovrapposizione dell'antro della Sibilla di Cuma alla grotta del Monte Sibilla, e quindi l'identificazione del lago di Pilato con il lago d'Averno. Infatti nelle leggende locali dei Monti Sibillini il lago di Pilato è dimora di demoni e luogo di contatto con il mondo infernale[23], proprio come il lago d'Averno è per Virgilio l'ingresso dell'Ade, tramite il quale la Sibilla Cumana conduce Enea all'incontro con defunto padre Anchise.

Il culto di Cibele

Simulacro di Cibele, II sec a.C., Roma - Antiquarium del Palatino

A riguardo dell'origine più antica della Sibilla Appeninica, la maggioranza degli studiosi (tra i quali Gaston Paris, Pio Ràjna, Fernand Desonay e Domenico Falzetti) cita le tradizioni legate a Cibele: Magna Mater anatolica, dea dei laghi e delle fonti, importata a Roma dalla Frigia nel 204 a.C., venerata con riti orgiastici e cruenti. Alla dea sarebbe stata sostituita la sibilla, tenuta in grande onore anche dai cristiani come profetessa. Secondo gli apologeti di questa teoria, la stessa parola "Sybilla" potrebbe esse morfologicamente connessa con "Cybele". Ancora, la forma della corona rocciosa della vetta del Monte Sibilla ricorderebbe il polos che adorna il capo di Cibele nelle icone tradizionali, la quale circostanza avrebbe contribuito all'accostamento della divinità a questo particolare monte.

Altri parlano di una dea Nemesi o Norzia, dea della fortuna e del fato, di origine etrusca, rappresentata da un idolo d'argento con il volto di pietra nera, affine a Cibele, e che era venerata sotto forma di roccia ma anche come uno straordinario idolo, prima di pietra e poi d'argento, noto a Norcia sin dall'epoca del bronzo tardo: la dea Orsa. Si tratta di un ricco complesso mitico-rurale (sino ad ora quasi ignorato, forse una traduzione italica paleoumbra del culto di Artermide Brauronia con possibili influenze celtiche) nato a Norcia ma trasferitosi sulle montagne nel VI secolo e che può costituire un antecedente significativo del culto sibillino. Il nome della cattedrale di Santa Maria Argentea testimonierebbe il culto di questi idoli dalla testa argentata.

Forse il culto pastorale del Giove delle alture - o, secondo altri, della Dea della Vittoria - si fuse con altre tradizioni oracolari dei Pelasgi approdati sulle coste marchigiane e con quelle dei Celti presenti sul territorio sin dal V seccolo a.C., ma anche con arcaici culti solari e riti erotico-orgiastici a dominante femminile.

Le cerimonie a carattere iniziatico femminile (legate alle nozze e più in generale alla propiziazione delle fecondità umana e animale) erano caratterizzate da riti orgiastici e sembrerebbero apparentate con i riti descritti nelle tavole iuguvine, il più importante testo rituale dell'antichità classica risalente al 1000 a.C., inciso in sette tavole di bronzo tra III e I sec a.C. L'intero complesso può costituire le basi del mito della Sibilla Appenninica la cui figura si definisce e si consolida in epoca medievale.[18]


Medioevo e letteratura cavalleresca

La figura del cavaliere

Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura cavalleresca.
Illustrazione di una capolettera tratta da un'edizione del Guerrin Meschino del 1841, tipografia Guglielmini-Radaelli, Milano.

Nel medioevo viene a definirsi in Europa la figura del cavaliere: non solo inteso come un nuovo ruolo militare che in quel periodo iniziò a ricoprire un'importanza sempre crescente negli eserciti, ma anche come modello di valori ideale. I costi da sostenere per l'equipaggiamento e l'addestramento della cavalleria facevano del cavaliere un ruolo riservato a ceti sociali nobili e abbienti, finendo per delineare una vera e propria casta sociale elitaria. Gradualmente si diffusero i blasoni come segno distintivo del cavaliere in battaglia e nei tornei, vennero introdotte le liturgie iniziatiche dell'investitura, si costituirono gli ordini cavallereschi, e i cavalieri divennero gli eroi della letteratura epica medievale.

Questo nuovo stile letterario si sviluppò dai poemi e le canzoni del ciclo carolingio, che celebravano le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini e cavalieri, spesso rileggendo la storia in chiave leggendaria; e dal ciclo bretone, ovvero l'insieme dei racconti leggendari di origine celtica riguardanti le isole britanniche, e in particolar modo i cavalieri di Re Artù. Questa celebrazione e mitizzazione della figura del cavaliere contribuì ad adergerla, da semplice ruolo militare quale effettivamente era, a modello ideale di virtù e valori: il cavaliere si attiene alle regole del codice cavalleresco, che gli impongono lealtà, onore e coraggio; egli è inoltre difensore della cristianità, e protettore dei deboli, delle vedove e degli orfani, è devoto ad una donna alla quale presta giuramento di fedeltà e in nome della quale compie le proprie gesta.[24]

Presto si sviluppano dei temi ricorrenti su cui la letteratura cavalleresca è imperniata: primi tra tutti la ricerca del Graal e l'amore ideale per la dama che redime il cavaliere.

Il mito cavalleresco del Cavaliere e la Dea

Ulisse e Calipso, Arnold Böcklin, olio e tempera su tavola, 1883

Un tema che ricorre in diversi miti cavallereschi è quello dell'Eroe e della Dea, della quale il cavaliere ha bisogno per adempire alla sua missione, ma che al contempo lo tiene prigioniero con le sue arti erotiche in un paradiso malefico. È possibile rintracciare la stessa identica storia del Guerrin Meschino e della Sibilla, sotto mutate vesti letterarie, nelle leggende germaniche del Tannhäuser sul Venusberg e nel mito celtico di Oisìn nel Tír na nÓg. Ancora, un tema molto simile si ritrova anche in Omero, nelle vicende di Odìsseo e Calipso.[25][3]

Questa tematica ricorrente nel mito, definita mitèma, sarebbe comparsa originariamente nelle leggende tradizionali celtiche di Oisin, ma sulla sua diffusione in Europa ci sono due teorie[5]:

  • la prima vorrebbe che il mitema celtico, venendo a contatto con le tradizioni popolazioni germaniche, sarebbe stato reinterpretato nella leggenda del cavaliere Tannhäuser, per poi giungere in Italia e subire gli influssi delle preesistenti leggende della Sibilla, trasformandosi nelle storie dei cavalieri narrate dal De La Sale, e poi su reinterpretazione letteraria di Andrea da Barberino, nella storia del Guerrin Meschino
  • altri sostengono invece che il processo sia avvenuto all'inverso: ovvero che il mitema si sia sviluppato prima nella leggenda della Sibilla, e solo in seguito, grazie alla divulgazione attuata dal romanzo di Andrea da Barberino, sarebbe stato trasposto nella leggenda del Tannhäuser. Questa teoria sarebbe avallata dal fatto che il primo riferimento scritto alla leggenda germanica si trova in un lied del XVI secolo (molto posteriore quindi al Guerrin Meschino) al quale poi Wagner si sarebbe ispirato per comporre la sua opera teatrale Tannhäuser und der Sängerkrieg auf Wartburg (1845)[26]. In questa versione inoltre, quando Tannhäuser si reca da Papa Urbano IV per avere l'assoluzione, il pontefice la negherà dicendo che il perdono sarebbe stato possibile solo quando il suo bastone sarebbe fiorito, metafora per indicare la necessità di un miracolo divino: questa particolarità della grazia divina necessaria per la salvezza dell'anima (in contrapposizione con il perdono ottenuto per merito delle sue azioni dal Guerrin Meschino) è un concetto tipicamente luterano, quindi introdotto dal XVI secolo, e per questo costituirebbe una prova della posteriorità della leggenda del Tannhäuser rispetto a quella del Meschino. C'è inoltre da dire che Andrea da Barberino, tra l'altro anche traduttore delle chanson de geste e autore de I Reali di Francia, era un cultore della letteratura cavalleresca che di certo non ignorava il mito celtico di Oisin.[3]


Le fate dei monti Sibillini

Le ancelle della Sibilla che abitano la grotta sono identificate nella tradizione locale come fate: esse sono donne bellissime[27] con piedi caprini,[27] che di notte frequentano le feste ed i balli dei paesi,[27] ma devono ritirarsi sui monti prima dell'alba: alla fuga precipitosa da una di queste feste nella quale si erano attardate, la leggenda fa risalire la Strada delle Fate,[28] una faglia a 2000 metri sul monte Vettore.

Sono fate la cui storia è indissolubilmente legata alle tradizioni leggendarie e popolari che si originano dalla presenza dell'oracolo della Sibilla Appenninica. Di loro non si ritrovano tracce nei racconti e nei miti del contado ascolano, ma soltanto nelle narrazioni tramandate dal versante umbro, cioè dalle zone di montagna comprese tra il massiccio del Vettore e monte Sibilla.[29] Esse appartenevano alla corte della Sibilla Appenninica, e con questa dimoravano stabilmente all'interno della sua grotta.

Sui monti Sibillini ci sono molti luoghi segnati dal passaggio e dalla leggenda lasciata dalle fate, infatti, oltre alla grotta della Sibilla, ci sono: le “fonti delle fate”, i “sentieri delle fate” e la "strada delle fate".

Queste affascinanti creature si muovevano tra il lago di Pilato, dove secondo la tradizione si recavano per il pediluvio,[30] ed i paesi di Foce, Montemonaco, Montegallo, tra il Pian Grande, il Pian Piccolo ed il Pian Perduto di Castelluccio di Norcia e Pretare,[29] dove ancora oggi una rappresentazione detta “La discesa delle fate” custodisce e rievoca la memoria della presenza di queste creature.[27][31]

Uscivano prevalentemente di notte e dovevano ritirarsi in montagna prima del sorgere delle luci dell'aurora[32] per non essere escluse dall'appartenere al regno incantato della Sibilla.

Secondo le tradizioni locali le fate si recavano a valle per insegnare alle giovani la filatura la tessitura delle lane. Renzo Roiati le individua come “le Tria Fata”.[32]

Sono descritte come giovani donne di bell'aspetto, vestite con caste gonne da cui spuntavano zampe di capra e che il calpestio dei loro passi ricordava il rumore degli zoccoli degli animali sulle pietraie dei monti.[7] Questa caratteristica del piede caprino è diffusa nei racconti di tutta la zona dei Sibillini.

Secondo l'antropologo Mario Polia le fate appenniniche erano avvezze alle asperità della montagna[30] e non sono da considerarsi come figure assimilabili alle creature leggiadre delle tradizioni celtiche,[30] alle donne-elfo della tradizione germanica fatte di luce solare,[30] alle fate delle fiabe che ballano nelle radure dei boschi o alle figure minori delle ninfe greche.[30]

Le fate sibilline amavano danzare nelle notti di plenilunio[30] e, appropriandosi segretamente dei cavalli[30] dei residenti, raggiungevano le piazze dei paesi vicini alla loro grotta per ballare[30] con i giovani pastori. Sempre secondo questi ricordi si attribuisce alle fate l'aver introdotto il ballo del "saltarello".

A Montefortino, presso la frazione di Rubbiano, vicino alle Gole dell'Infernaccio, c'è un appezzamento di terreno che in ricordo di questi balli (in dialetto locale “valli”), ancora oggi si chiama “Valleria”.[33]

Secondo la leggenda, dopo essere uscite dalla loro grotta, le fate si fermavano presso una stalla per impadronirsi degli equini ed utilizzarli per rapidi spostamenti. Il proprietario dei cavalli insospettito dal ritrovare al mattino le bestie sudate ed affaticate,[30] nonostante la fresca temperatura del ricovero,[30] si appostò per capire cosa succedesse durante la sua assenza e scoprì che erano proprio le fate a servirsi dei suoi animali.[30]

Anche in alcuni detti popolari sopravvive il ricordo di queste misteriose creature quando si dice: “Quanto sono belle queste fate, però jè scrocchieno li piedi come le capre.”[7] Polia riporta questa frase nella narrazione del racconto in cui descrive l'avvenenza di queste donne ed il desiderio degli uomini di riaccompagnarle presso la loro dimora.

Da questa abitudine delle fate di avere contatti con il mondo che le circondava nasce anche il tema del mito dell'amore che le legava agli uomini.[7] Questi ultimi, una volta entrati in contatto con loro, sarebbero stati sottratti al loro mondo, abbandonando così la sorte di semplici mortali, ed investiti di una sorta di immortalità virtuale[7] che li avrebbe lasciati in vita fino alla fine del mondo, così come succedeva alle fate, ma costretti a vivere nel sotterraneo regno di Alcina.[7]

Le fate sibilline furono demonizzate per lunghi secoli dalle prediche di santi e di frati e costrette a rifugiarsi nelle viscere della montagna e costrette ad entrare a far parte del mondo invisibile.[34] Sempre secondo la ricerca di Polia, gli abitanti delle zone imputano la scomparsa delle fate ad una sorta di “scomunica” inflitta loro da Alcina che volle punirle per aver incautamente mostrato le loro parti caprine.[30]

Alcuni sostengono che le fate ci siano ancora adesso sui monti Sibillini e a riscontro di questa convinzione adducono fantasiose prove:

  • le “treccioline” delle criniere delle cavalle. A volte gli animali condotti liberi al pascolo sui monti tornano con la criniera pettinata a treccioline ed i valligiani sostengono che le artefici sarebbero le fate;
  • le luci random, fenomeno osservato in prevalenza nella zona di Santa Maria in Pantano, a Colle di Montegallo, quando, dopo il tramonto, sulle montagne si vedono delle luci che si muovono come se fossero delle persone, individuate come le fate che risalgono i pendii.[senza fonte]

Ipotesi sull'origine delle fate

Secondo Cesare Catà sarebbero numerose le similarità tra le fairies celtiche e le fate sibilline (così come tra i folletti irlandesi, chiamati leprechauns, e i folletti dei Monti Sibillini, detti nella lingua locale Mazzamurélli).[3] Come nella cultura celtica, anche in ambiente sibillino le figure delle fate e dei folletti presero forma nell'incontro sincretico tra culti pagani e tradizione cristiana.[35]

Un interessante parallelismo, notato ancora da Cesare Catà, riguarda la leggenda sibillina delle fate che intreccerebbero i crini dei cavalli al pascolo, e l'uomo che osasse sciogliere le trecce delle fate sarebbe colpito da sventura. È interessante notare come in Romeo e Giulietta, tragedia teatrale del XVI secolo, si parli della Regina Mab che intreccia le criniere dei cavalli[36]. Questo similarità di storie potrebbe essere riconducibile ad un mitèma dal profondo significato filosofico: le trecce fatate sarebbero il simbolo della manifestazione del mistero della divinità, e l'uomo che volesse svelare questo mistero sciogliendo le trecce subirebbe conseguenze spiacevoli.[37]

Secondo altri, le fate in realtà potrebbero essere state delle donne celtiche, che orfane dei loro guerrieri morti o fatti prigionieri dai Romani nella battaglia di Sentino del 293 a.C., si rifugiarono in migliaia sulle alture marchigiane dove trovarono ospitalità.[38]


Note

  1. ^ Augusto Vittori, Montemonaco nel Regno della Sibilla Appennina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1938.
  2. ^ A. Bucciarelli, op. cit., p. 25.
  3. ^ a b c d C. Catà, Il retroterra “celtico” di Andrea da Barberino. Significati storico-filosofici del mitema dell'incontro tra il Cavaliere e la Fata-Sibilla, in S. Papetti (a cura di), Atti del Convegno “Corrado Giaquinto tra Fortunato Duranti e la Sibilla” ,Montefortino, 18-24 settembre 2009
  4. ^ a b G. Santarelli, op. cit..
  5. ^ a b Giuseppe Santarelli, Leggende dei Monti Sibillini, Voce del Santuario Madonna dell'Ambro, 1974, pp. 23-30.
  6. ^ a b R. Roiati, op. cit., p. 79.
  7. ^ a b c d e f M. Polia, op. cit., p. 229.
  8. ^ M. Scatasta, La leggenda della Sibilla, art. cit., p.28.
  9. ^ Giuseppe Ghilarducci, Sulle tracce della Sibilla - Un documento del XV sec., Progetto Elissa-Editrice Miriamica, Montemonaco, 1998.
  10. ^ Claudio Schiano, Il secolo della Sibilla. Momenti di traduzione cinquecentesca degli "Oracoli Sibillini", Edizioni di Pagina, Bari, 2005.
  11. ^ H.R. Drobner, Patrologia, Piemme, 1998.
  12. ^ Monaca Mariangela, Oracoli Sibillini a cura Monaca Mariangela, Città Nuova, Roma, 2005.
  13. ^ Publio Virgilio Marone, Bucoliche, IV Egloga.
  14. ^ A. Salvi, Le sibille nelle fonti medievali, in "Il Santuario dell’Ambro e l’area dei Sibillini. Atti del convegno" (Santuario dell’Ambro, 8-9 giugno 2001), Edizioni di Studia Picena, Ancona, 2002, pp. 479-494.
  15. ^ Ileana Chirassi Colombo, Un pellegrinaggio del fantastico: itinerario al regno di Sibylla, in "Homo viator: nella fede, nella cultura, nella storia. Atti del convegno" (Tolentino, Abbazia di Chiaravalle, 18-19 ottobre 1996), a cura di B. Cleri, QuattroVenti, Urbino, pp. 37-64.
  16. ^ De vita Caesarum
  17. ^ Historia Augusta
  18. ^ a b Tratto da una didascalia esplicativa esposta presso il Museo della Sibilla a Montemonaco (AP)
  19. ^ Francesco Adornato, Sviluppo integrato e risorse del territorio, Un caso di studio nel Piceno, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 145.
  20. ^ Andrea da Barberino, Guerrino detto il Meschino, Venezia, 1589.
  21. ^ G.B.Lalli, Il Tito overo Gerusalemme desolata, Foligno, 1635.
  22. ^ Ileana Chirassi Colombo, Storia di una fata gelosa di Maria, in "Il Santuario dell’Ambro e l’area dei Sibillini, Atti del convegno" (Santuario dell’Ambro, 8-9 giugno 2001), a cura di G. Avarucci, Edizioni di Studia Picena, Ancona, 2002, pp. 505-561.
  23. ^ Giuseppe Ghilarducci, Sulle tracce della Sibilla - Un documento del XV sec., Progetto Elissa-Editrice Miriamica, Montemonaco, 1998.
  24. ^ A. Camera, R. Fabietti, Elementi di storia, vol. 1, Il Medioevo, Zanichelli, 1977, p. 153.
  25. ^ Uno stesso nucleo narrativo ricorrente in mitologie diverse è stato chiamato da Claude Lévi-Strauss mitèma, e spesso nasconde significati filosofici più profondi, tramandati tramite una storia simbolica. Il concetto di mitema si ricollega a quello che lo psicoanalista Jung definisce archètipo dell'inconscio collettivo: secondo questa teoria, nello stesso modo in cui i desideri inconsci di un individuo si manifestano nel sogno, così i valori etico-sociali di un popolo appartenenti alla stessa cultura, o ad identità culturali simili o correlate, si manifestano nella mitologia. Per questo motivo, una stessa tematica può svilupparsi indipendentemente in culture o zone geografiche senza una diretta influenza.
  26. ^ Sulle concordanze musicologiche e letterarie fra la leggenda italiana della Sibilla Appenninica e il Tannhäuser di Wagner si veda Markus Engelhardt (Direttore del Dipartimento Musicologico dell'Istituto Storico Germanico di Roma): Dal Monte Sibillino al Venusberg nel Tannhäuser di Wagner pag 57-67 in Le terre della Sibilla Appenninica, Antico crocevia di idee scienze e cultura, Atti del Convegno di Ascoli Piceno-Montemonaco 6-9 novembre 1998, a cura del Progetto Elissa, Progetto Elissa, 1999
  27. ^ a b c d R. Roiati, op. cit., p.80.
  28. ^ A. Bucciarelli, op. cit., p. 26.
  29. ^ a b M. Polia, op. cit., p. 228.
  30. ^ a b c d e f g h i j k l M. Polia, op. cit., p. 230.
  31. ^ A. Bucciarelli, op. cit., p.28.
  32. ^ a b R. Roiati, op. cit., p.81.
  33. ^ Valleria in Beni culturali - Marche URL consultato il 25 febbraio 2015.
  34. ^ M. Polia, op. cit. p. 231.
  35. ^ "Per molti versi la cultura dei Monti della Sibilla, che risulta protagonista del sapere connesso alla phantasia tra Medioevo e Rinascimento, presenta tratti accostabili a quelli della cultura celtica irlandese che prese forma soprattutto nell'Occidente dell'Isola, dove, come nei Monti della Sibilla, vennero a incontrarsi, attorno alla montagna del Ben Bulben, culture pagane e Cristianesimo, dando vita a una vasta e formidabile schiera di leggende fiabesche popolari." In: Cesare Catà, I monti della Sibilla nella Marca, su fantasymagazine.it. URL consultato il 16-04-2010.
  36. ^ W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, monologo di Mercuzio (Atto I, Scena IV)
  37. ^ Cesare Catà, L'essenziale è invisibile agli occhi, in Lezione tenuta durante il workshop "Letteralmente fotografia" a Castelluccio di Norcia, dal 28 al 31 marzo 2013.
  38. ^ Giuseppe Matteucci, Associazione "La Cerqua Sacra", Montefortino, Fate sibilline e battaglia del Sentino, su vocesibillina.blogspot.com.

Bibliografia

  • Antonio Rodilossi, Ascoli Piceno città d'arte, "Stampa & Stampa" Gruppo Euroarte Gattei, Grafiche STIG, Modena, 1983, pp. 121;
  • Le terre della Sibilla Appenninica, Antico crocevia di idee scienze e cultura, Atti del Convegno di Ascoli Piceno-Montemonaco 6-9 novembre 1998, a cura del Progetto Elissa, Progetto Elissa, 1999;
  • Adele Anna Amadio e Stefano Papetti (a cura di), "Adolfo de Carolis - Il salone delle feste del Palazzo del Governo di Ascoli Piceno", Fast Edit, Ascoli Piceno, dicembre 2001;
  • Mario Polia, "Tra Sant'Emidio e la Sibilla. Forme del sacro e del magico nella religiosità popolare ascolana" Arnaldo Forni Editori, Bologna, 2004, pp. 228 – 231;
  • Renzo Roiati, "La Sibilla Appenninica e le nove stelle maggiori della vergine", Edizioni Lìbrati, Tipografia Fast Edit di Acquaviva Picena (Ascoli Piceno), luglio 2006, pp: 77 - 82;
  • Marco Scatasta, La leggenda della Sibilla in Flash Ascoli - mensile di vita Picena, anno 2008, n. 366, p. 28;
  • "Saggia sibilla, quant'ornata, bella" di Cristina Marziali in "Adolfo de Carolis e la democrazia del bello", catalogo della mostra del Polo Museale di Montefiore dell'Aso 13 dicembre 2008-3 maggio 2009 a cura di Tiziana Maffei. Edizione Librati, Ascoli Piceno, 2009;
  • Cesare Catà, Il retroterra “celtico” di Andrea da Barberino. Significati storico-filosofici del mitema dell'incontro tra il Cavaliere e la Fata-Sibilla, in S. Papetti (a cura di), Atti del Convegno “Corrado Giaquinto tra Fortunato Duranti e la Sibilla”, Montefortino, 2010, pp. 63–81;
  • Cesare Catà, Filosofia del Fantastico. Escursione tra i Monti Sibillini, l'Irlanda e la Terra di Mezzo, Il Cerchio, Rimini, 2012
  • Maria Luciana Buseghin, L'ultima sibilla. Antiche divinazioni, viaggiatori curiosi e memorie folcloriche nell'Appenino umbro-marchigiano, Carsa Edizioni, Pescara, 2012
  • Americo Marconi, La Sibilla, Marte Editrice, Marte Editrice, Colonnella (TE), 2016
  • Giuseppe Santarelli, Leggende dei Monti Sibillini, Voce del Santuario Madonna dell'Ambro, 1974

Voci correlate

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