Mostro di Firenze: differenze tra le versioni

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Nel processo a Pacciani il teste Bardazzi venne ascoltato dal PM Canessa che mise in luce alcune incongruenze nella sua testimonianza; dando per scontata la sincera volontà di collaborare da parte del Sig. Bardazzi non venne però considerata credibile la sua testimonianza in quanto non coincidevano innanzitutto i tempi di spostamento della coppia dei ragazzi rispetto al tragitto casa-locale Bardazzi-luogo di lavoro di Pia Rontini e in più lo stesso Bardazzi non si dimostrò così certo al processo di riconoscere i ragazzi e la loro auto parcheggiata davanti al locale. Nel marzo del [[1994]] le croci piantate sul luogo del delitto dal padre di Pia Rontini in memoria dei due giovani assassinati sono state danneggiate da ignoti.<ref>{{Cita news|autore=Vittorio Monti|url=http://archiviostorico.corriere.it/1994/aprile/27/mostro_libero_Vigna__co_0_9404277429.shtml|urlarchivio=http://web.archive.org/web/20120607020522/http://archiviostorico.corriere.it/1994/aprile/27/mostro_libero_Vigna__co_0_9404277429.shtml|dataarchivio=7 giugno 2012|titolo=Il mostro è libero, Vigna lo sa|pubblicazione=[[Corriere della Sera]]|città=Firenze|data=27 aprile 1994|pagina=14|accesso=1º settembre 2010}}</ref>
Nel processo a Pacciani il teste Bardazzi venne ascoltato dal PM Canessa che mise in luce alcune incongruenze nella sua testimonianza; dando per scontata la sincera volontà di collaborare da parte del Sig. Bardazzi non venne però considerata credibile la sua testimonianza in quanto non coincidevano innanzitutto i tempi di spostamento della coppia dei ragazzi rispetto al tragitto casa-locale Bardazzi-luogo di lavoro di Pia Rontini e in più lo stesso Bardazzi non si dimostrò così certo al processo di riconoscere i ragazzi e la loro auto parcheggiata davanti al locale. Nel marzo del [[1994]] le croci piantate sul luogo del delitto dal padre di Pia Rontini in memoria dei due giovani assassinati sono state danneggiate da ignoti.<ref>{{Cita news|autore=Vittorio Monti|url=http://archiviostorico.corriere.it/1994/aprile/27/mostro_libero_Vigna__co_0_9404277429.shtml|urlarchivio=http://web.archive.org/web/20120607020522/http://archiviostorico.corriere.it/1994/aprile/27/mostro_libero_Vigna__co_0_9404277429.shtml|dataarchivio=7 giugno 2012|titolo=Il mostro è libero, Vigna lo sa|pubblicazione=[[Corriere della Sera]]|città=Firenze|data=27 aprile 1994|pagina=14|accesso=1º settembre 2010}}</ref>


Il padre di Pia, Renzo Rontini, si è impegnato profondamente per la ricerca della verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per crepacuore alla fine degli anni novanta.
Il padre di Pia, Renzo Rontini, si è impegnato profondamente per la ricerca della verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco alla fine degli anni novanta.


=== 8 settembre 1985 (domenica): L'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, Scopeti ===
=== 8 settembre 1985 (domenica): L'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, Scopeti ===

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Mostro di Firenze
SoprannomiMostro di Firenze, Cicci il Mostro di Scandicci, Maniaco delle Coppiette
Vittime accertate14 o 16
Periodo omicidi21 agosto 1968 - 8 settembre 1985
Luoghi colpitiToscana, campagne intorno a Firenze
Metodi uccisioneColpi di arma da fuoco, accoltellamento e mutilazioni sessuali
ProvvedimentiErgastolo per Mario Vanni e 26 anni per Giancarlo Lotti nella sentenza definitiva di condanna ai "compagni di merende."[1] Pietro Pacciani condannato in primo grado per essere l'unico responsabile di 7 degli 8 duplici omicidi, è stato assolto in appello per non aver commesso il fatto. E' morto in attesa di un nuovo processo d'appello, a seguito dell'annullamento dell'assoluzione da parte della Cassazione.

Mostro di Firenze è la denominazione sintetica utilizzata dai media italiani per riferirsi all'autore o agli autori di una serie di otto duplici omicidi avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze.

L'inchiesta avviata dalla Procura di Firenze ha portato alla condanna in via definitiva di due uomini identificati come autori materiali di 4 duplici omicidi, i cosiddetti compagni di merende: Mario Vanni e Giancarlo Lotti mentre il terzo, Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto ad un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell'annullamento nel 1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione.

Le Procure di Firenze e Perugia sono state impegnate in numerose indagini volte ad individuare i presunti mandanti. In particolare, le indagini si sono focalizzate su un possibile movente di natura esoterica, che avrebbe spinto una o più persone a commissionare i delitti.[2][3]

La vicenda ebbe molto risalto anche dal punto di vista sociale, suscitando estrema paura per la tipologia di vittime (giovani fidanzati in atteggiamenti intimi) ed aprendo l'opinione pubblica italiana al dibattito sull'opportunità di concedere con maggiore disinvoltura la possibilità per i figli di trovare l'intimità a casa, evitando i luoghi pericolosi.[4][5][6][7][8]

Le modalità dei duplici delitti

I reati del mostro di Firenze si sono sviluppati nell'arco di quasi 20 anni, e hanno riguardato giovani coppie appartatesi nella campagna fiorentina in cerca di intimità. Le costanti della vicenda attengono anche ai mezzi usati e al modus operandi dell'omicida: i delitti sono avvenuti nelle medesime circostanze di tempo e di luogo. Tranne nel duplice omicidio del 1985, in cui le vittime erano in una tenda da campeggio, tutte le altre coppie di vittime erano all'interno di autoveicoli. Luoghi appartati e notti di novilunio, o comunque molto buie, quasi sempre d'estate, nel fine settimana o in giorni prefestivi.[5]

È sempre stata usata la stessa arma da fuoco, identificata in un modello di pistola Beretta appartenente alla serie 70 (viene ormai dato per certo che si tratti del modello 74 o 76 da dieci colpi), calibro .22 Long Rifle, in commercio dal 1959, probabilmente un modello con canna lunga, sviluppata come propedeutica alla disciplina sportiva del tiro a segno, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera "H" sul fondello del bossolo (provenienti da almeno due scatole da 50 cartucce ciascuna), con palla in piombo nudo e con palla in piombo ramato galvanicamente.

Generalmente, soprattutto nei delitti esplicitamente maniacali, il serial killer sparava preferibilmente prima alla vittima maschile e poi alla donna. La vittima femminile, quando subiva le escissioni o veniva martoriata con l'arma da taglio, veniva trascinata, spostata, allontanata dall'auto e dal partner. Modus operandi quello della separazione uomo-donna che, oltre a motivi pratici, può avere anche un'interpretazione psicologica e psicopatologica. Spesso le vittime, sia maschili che femminili, subivano pure ferite d'arma bianca inferte post-mortem, anch'esse interpretabili sia da un punto di visto pratico (assicurarsi il decesso della vittima) che psicopatologico.

In quattro degli otto duplici omicidi, l'assassino ha asportato il pube delle donne uccise, servendosi di un'arma bianca che, secondo gli inquirenti dovrebbe essere un coltello da sub o una Pattadese. Negli ultimi due casi venne asportato anche il seno sinistro delle vittime femminili. I luoghi dei delitti (Signa, Borgo San Lorenzo, Scandicci, Calenzano, Baccaiano, Giogoli, Vicchio, Scopeti) erano per lo più isolate stradine di campagna sterrate o piazzole nascoste frequentate da coppie in cerca di intimità e da guardoni. Ciò ha portato a pensare che l'assassino fosse una persona che conosceva piuttosto bene i territori dei luoghi dei delitti e che, in alcuni casi, pedinasse le vittime prima di ucciderle.[5]. Il profilo più comune del killer, che emerge dalle prime indagini, ipotizza il mostro come un uomo destrimane della zona, iposessuale, feticista, d'intelligenza media o superiore alla media, alto circa 1,80 m. Queste caratteristiche psicologiche si evincono dalla perizia De Fazio e dal profilo dell'FBI di Quantico, anche se occorre ricordare che gli studi delle modalità dei delitti, al momento, non garantiscono certezze scientifiche sull'identità del killer, ma solo delle tracce di profiling che, come tali, sono più o meno condivisibili.[9] L'altezza superiore alla media del mostro, almeno 180 cm, è stata ipotizzata in base all'altezza dei fori nel furgoncino delle vittime di Giogoli.[10] Il dato trarrebbe conferma anche da una possibile impronta di un ginocchio, forse lasciata dal mostro nell'omicidio di Vicchio. Scientificamente però questi rilievi sull'altezza del killer non si sono concretizzati in prove processuali inoppugnabili, vista la condanna in primo grado inflitta a Pacciani come unico serial killer; quest'ultimo, comunque, era alto solo 165 cm circa. Secondo altre opinioni, invece, l'assassino seriale fiorentino sarebbe di altezza media o persino modesta.[11][12]

La serie di delitti e i primi sospettati

21 agosto 1968 (mercoledì): L'omicidio di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, Signa

Barbara Locci
Antonio Lo Bianco

La notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore siciliano di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, di origini sarde. I due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Al momento dell'aggressione, intorno alla mezzanotte, i due sono intenti in preliminari amorosi. Sul sedile posteriore dorme Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma ed esplode complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno repertati cinque bossoli di cartucce calibro.22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.

Intorno alle 2:00 del mattino del 22 agosto, il piccolo Natale "Natalino" Mele suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, ad oltre 2 chilometri di distanza da dove è parcheggiata l'automobile del Lo Bianco. Il proprietario, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina."[13] Dopo averlo soccorso, l'uomo chiede a Natalino cosa sia successo: il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato."[13] I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo dal signor De Felice, il padrone di casa, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il piccolo Mele. Intorno alle 3:00 del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione lampeggiante, nella stradina che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità.[14]

Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, quarantanovenne manovale originario di Fordongianus all'epoca in provincia di Cagliari, ora di Oristano, che si sospetta possa aver commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso piuttosto inverosimile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato esternato un temperamento decisamente succube nei confronti della moglie (che era soprannominata in paese Ape regina a causa dei suoi molteplici amanti), giungendo persino ad ospitare in casa sua per diverso tempo un suo amico ed amante della moglie, tale Salvatore Vinci, da taluni indicato come il vero padre del piccolo Natalino. I pettegolezzi del paese insinuavano persino che l'uomo, al mattino, portasse il caffè a letto agli amanti della donna e che accondiscendesse ad avere rapporti sessuali con alcuni di loro, incluso lo stesso Vinci.[15]

Il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio[16], e dopo aver negato inizialmente un suo coinvolgimento ed aver gettato sospetti sui vari amanti della moglie, arriva a confessare il delitto. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo mostra di conoscere alcuni particolari che solo chi era realmente presente all'omicidio poteva sapere, ma al contempo risulta totalmente incapace di maneggiare un'arma, e confonde il finestrino dal cui esterno partirono i colpi.[17] Dopo poche ore Mele ritratta in parte la confessione, e coinvolge come complice Salvatore Vinci. Lo accusa di avergli fornito l'arma e di essere stato da lui accompagnato in auto fino alla stradina di Castelletti. Dopo aver sparato, il Mele dichiara di aver gettato la pistola nel canale che corre lungo il cimitero, ma malgrado le ricerche l'arma non verrà mai ritrovata.

Nonostante il Vinci abbia portato un alibi confermato da due testimoni, il pomeriggio del 24 agosto i due uomini vengono messi a confronto. L'incontro però dura molto poco, perché dopo le prime battute Stefano Mele ritratta ancora e scagiona Salvatore.[18] Non passa mezz'ora che Mele fornisce una nuova versione; questa volta al posto di Salvatore Vinci c'è il di lui fratello Francesco, anch'egli amante della Locci e, a detta di Mele, assai geloso della donna. Francesco Vinci per un certo periodo aveva addirittura convissuto con la Locci a casa di quest'ultima, e per questo veniva denunciato dalla propria moglie per abbandono del tetto coniugale e concubinato. Il giorno successivo, accortosi che la nuova accusa non era sostenuta da riscontri, Stefano punta il dito contro un terzo amante della moglie, tal Carmelo Cutrona; dichiara che il pomeriggio prima del delitto, recatosi a casa sua in cerca di Barbara, vi trova lì presente il Lo Bianco (che Mele conosceva col nome di Enrico) e per questo motivo se ne va via molto turbato.

I magistrati intanto stanno nuovamente sentendo il piccolo Natalino Mele, che dopo aver sostenuto per giorni di non aver sentito, né visto nulla, adesso ammette di aver visto al suo risveglio il padre, e che questo lo avrebbe preso sulle spalle portandolo fino alla casa del Vingone dopo avergli fatto promettere di non dire nulla.[19] È a questo punto che Mele cede confermando la versione del figlio, scagionando le altre persone accusate fino a quel momento. Nonostante le molte incongruenze e l'assenza dell'arma, nel marzo del 1970 Stefano Mele viene condannato dal tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La pena è piuttosto mite perché l'uomo viene riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vengono inoltre inflitti 2 anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.[20]

Durante il processo a Stefano Mele, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele ed anch'egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti.[21]

14 settembre 1974 (sabato): L'omicidio di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, Borgo San Lorenzo

Il 14 settembre 1974 ha luogo il primo duplice omicidio di apparente natura maniacale; Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni, segretaria d'azienda presso un magazzino di Firenze ed attivista del Partito Comunista Italiano, vengono uccisi in una strada sterrata nella frazione di Rabatta, vicino a Borgo San Lorenzo. I due si frequentavano da circa due anni ed erano in procinto di annunciare il loro fidanzamento ufficiale[22]. Pasquale Gentilcore, dopo aver accompagnato la sorella Cristina alla discoteca Teen Club di Borgo San Lorenzo, promettendole di tornare a prenderla al più tardi per la mezzanotte, raggiunge la fidanzata a Pesciola di Vicchio, presso l'abitazione di lei. Da lì, verso le 22:00, i due giovani ripartono per raggiungere gli amici che li aspettano in quello stesso locale per proseguire la serata. Durante il tragitto decidono però di appartarsi in un tratturo sulle sponde della Sieve, da loro già conosciuto e normalmente frequentato dalle coppiette della zona.[23] Intorno alle 23:45 (orario appurato sulla base di una testimonianza che ode dei colpi a quell'ora[24]) qualcuno spunta forse dall'attiguo vitigno e comincia ad aprire il fuoco.

Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini

Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro.22 Long Rifle, la stessa utilizzata nel delitto del 1968; i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall'auto ancora viva, e uccisa con tre coltellate profonde allo sterno.[25] Dopo averne disteso il corpo dietro l'auto, l'assassino continua a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno ed il pube.[26][27] Successivamente l'omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite; particolare questo che, anni dopo, farà pensare ad un possibile movente esoterico, ma che altri più semplicemente interpretano come un ulteriore oltraggio da parte dell'assassino al corpo della vittima; considerato infatti che il luogo del delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è molto probabile che il gesto non fosse premeditato.

Le sevizie sul corpo di Stefania furono tanto violente da causare, in sede processuale, lo svenimento di un Carabiniere durante l'udienza in cui venivano mostrate le foto del corpo della ragazza.[27] Prima di lasciare il luogo l'omicida colpisce con il coltello anche il corpo esanime di Pasquale con 5 coltellate all'altezza del fegato.[27] Il mattino successivo, i familiari dei due ragazzi, allarmati per il mancato rientro dei figli, si recano a sporgere denuncia di scomparsa presso la stazione dei Carabinieri di Borgo San Lorenzo, ove vengono informati immediatamente del delitto, scoperto un'ora prima da un contadino che abitava e lavorava da quelle parti. In questo caso, così come nei delitti successivi, vengono ritrovati, sparsi sul terreno, gli oggetti contenuti nella borsetta della ragazza (particolare questo che si ripeterà costante in tutti gli omicidi). La borsa ed il reggiseno della Pettini verranno invece ritrovati sul far della sera in un luogo poco distante in seguito ad una telefonata anonima, mentre il portafogli della ragazza, il suo orologio ed alcuni monili di modesto valore a lei appartenenti non saranno più rinvenuti.

Il pomeriggio prima di essere uccisa, la Pettini aveva confidato ad un'amica di aver fatto uno "strano incontro" con una persona poco piacevole che l'aveva turbata, ma non ebbe tempo di approfondire il fatto. Un amico della Pettini, titolare della scuola guida dove la ragazza stava conseguendo la patente, raccontò ai carabinieri di un pedinamento da parte di uno sconosciuto in auto durante una lezione di guida, il venerdì sera prima del delitto. In ogni caso la Pettini non fu la sola, tra le vittime femminili del maniaco, ad aver lamentato molestie da parte di ignoti poco prima dei delitti.[20] Gli inquirenti esaminarono anche il diario della ragazza ma senza trovarvi alcun'annotazione insolita. Qualche anno dopo i quotidiani tornarono a parlare del caso dopo che la tomba di Stefania (sepolta assieme al fidanzato, nel cimitero di Borgo San Lorenzo) fu manomessa e danneggiata da ignoti.

6 giugno 1981 (sabato): L'omicidio di Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio, Scandicci

Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio

Il primo dei due duplici omicidi del 1981 viene commesso nella notte tra il 6 ed il 7 giugno nei pressi di Mosciano di Scandicci. Le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, dipendente dell'Enel, e la sua ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni. I due si conoscevano da pochi mesi ma avevano già programmato di sposarsi. La sera del delitto, un sabato, cenano a casa dei genitori di Carmela, poi, verso le 22:00, escono per una passeggiata e si appartano con l'auto, una Fiat Ritmo color rame, in una stradina sterrata sulle colline di Roveta, non lontano dalla discoteca Anastasia, e in una zona frequentata abitualmente da coppiette e guardoni.

Giovanni viene raggiunto da tre colpi di pistola esplosi attraverso il finestrino anteriore sinistro, mentre altri cinque proiettili colpiscono Carmela.[28] In fase di sopralluogo verranno però rinvenuti solo cinque bossoli su otto[29], un particolare, quello dei bossoli mancanti, che si ripresenterà ancora nel 1983, nel 1984, e che già si era verificato nel 1974 e nel 1968. La ragazza viene tirata fuori dalla macchina e trascinata in fondo al terrapieno rialzato su cui corre la stradina, dove le verranno recisi i jeans e, per mezzo di tre precisi fendenti, le verrà asportato interamente il pube. Anche in quest'occasione l'omicida, presumibilmente prima di lasciare il luogo del delitto, colpisce con il coltello il corpo esanime del ragazzo.

I corpi dei due giovani saranno rinvenuti il mattino dopo. L'uomo è ancora a bordo dell'auto, come nel delitto del 1974. Anche in questa occasione le armi usate sono la Beretta calibro.22 ed un coltello. Anche in questo caso si verifica l'accanimento sui cadaveri, soprattutto su quello della donna. Ma le analogie non sono finite, perché stranamente, proprio come a Borgo, la borsetta della ragazza viene rovistata e il contenuto gettato a terra senza che però questa volta risulti mancare nulla. Per il delitto viene inizialmente sospettato l'ex fidanzato della De Nuccio, che in passato aveva avuto screzi con lei, ma il giovane risultò avere un alibi inattaccabile.[30]

L'arresto di Vincenzo Spalletti

Nelle fasi successive al delitto del giugno 1981 entra in scena Vincenzo Spalletti, trentenne, sposato e padre di tre figli. Spalletti era, ai tempi, un autista di autoambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino. Tuttavia era conosciuto in famiglia e presso la Taverna del Diavolo, un ristorante della zona, per essere anche un guardone. Il fenomeno del voyeurismo era peraltro in quei tempi marcatamente diffuso nella provincia fiorentina.[20] La domenica mattina seguente al duplice delitto, rientrato all'alba dopo aver trascorso la serata fuori con un amico guardone, racconterà alla moglie e ad alcuni avventori di un bar da lui frequentato, di aver visto "due morti ammazzati"; racconterà inoltre particolari inerenti al delitto (in particolare la mutilazione inflitta alla ragazza) che però non erano ancora stati divulgati dagli organi di stampa e dai mass media.

In seguito alle indagini alcune persone testimoniarono di aver visto la sua auto nei pressi del luogo del delitto nella notte del 6 giugno. Spalletti viene quindi arrestato; durante l'interrogatorio afferma di aver letto la notizia sui giornali, cosa impossibile in quanto i giornali che riportavano il fatto non erano stati pubblicati prima di lunedì e, inoltre, mente sull'orario di rientro a casa per la notte del delitto. Viene quindi accusato di falsa testimonianza e incarcerato, ma col sospetto che l'assassino possa essere proprio lui.

Mentre Spalletti si trovava in carcere sua moglie e suo fratello ricevettero diverse telefonate anonime, in cui veniva loro assicurato che il loro congiunto sarebbe stato presto scagionato[20], cosa che in effetti accadrà nell'ottobre dello stesso anno a seguito di un nuovo duplice delitto che scagionerà completamente Spalletti.[31][32] Un conoscente dello Spalletti, anch'egli noto come guardone, sentito dagli inquirenti, asserì di essere stato fermato nei boschi, all'incirca all'epoca del delitto, da un tizio con una divisa che non aveva saputo identificare. L'uomo in divisa gli avrebbe rivolto velate minacce, rimbrottandolo aspramente e mostrandogli - a suo dire - una pistola.[20]

22 ottobre 1981 (giovedì): L'omicidio di Stefano Baldi e Susanna Cambi, Calenzano

Stefano Baldi e Susanna Cambi

Il 23 ottobre 1981, a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località Le Bartoline, lungo una strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, di 26 anni, operaio tessile di Calenzano e Susanna Cambi, commessa di 24 anni. I due giovani, che avrebbero dovuto sposarsi entro pochi mesi, avevano cenato a casa di Stefano la sera prima quindi erano usciti a bordo dell'auto del giovane, una Golf nera, e non avevano più fatto ritorno. Alcuni amici del ragazzo riferirono che il Baldi inizialmente intendeva restare con loro, guardando una partita di calcio ma poi aveva cambiato idea decidendo di trascorrere la serata (vigilia di uno sciopero generale) con la fidanzata. La Cambi viene raggiunta e uccisa da cinque colpi, il ragazzo viene invece colpito quattro volte. Le cartucce sono di marca Winchester con la lettera "H" sul fondello, sparate dalla stessa Beretta calibro.22 Long Rifle, di cui saranno repertati solo 7 bossoli dei 9 complessivi che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire.

In questo caso l'omicida, per raggiungere la ragazza e compiere l'escissione del pube, è costretto ad estrarre dall'auto anche il corpo di Stefano. Il corpo della ragazza verrà trovato ad una decina di metri dall'auto, in un canaletto, con la maglia sollevata fino al collo. Il seno sinistro presenta gravi ferite inferte con arma bianca. Anche in questo caso verranno ritrovati gli oggetti contenuti nella borsetta della vittima femminile sparsi nelle zone circostanti il luogo del delitto. Il corpo di Susanna Cambi presenta ferite da arma da taglio, almeno quattro, di cui tre alla schiena.

Il giorno successivo al delitto, prima del rinvenimento dei corpi, un uomo telefonò alla zia di Susanna chiedendo di parlare con la madre della giovane che, in effetti, in quel periodo era ospite con le due figlie presso la sorella. A causa di un guasto sulla linea tuttavia, la comunicazione venne interrotta subito. Si tratta di un particolare decisamente misterioso considerato che il numero di telefono, appartenente ad un indirizzo nuovo, era provvisorio e quindi nessuno avrebbe dovuto conoscerlo.[20] Secondo quanto sostenuto dall'avvocato Nino Filastò, inoltre, poco prima del delitto Susanna Cambi avrebbe fatto capire alla madre di essere pedinata da qualcuno. In una circostanza, mentre guidava l'auto in compagnia della madre, aveva rischiato di provocare un incidente spiegandole che "un tale, il solito" la stava seguendo e che era sua intenzione evitare di incontrarlo.

19 giugno 1982 (sabato): L'omicidio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, Baccaiano

Antonella Migliorini, Paolo Mainardi

La notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una ditta di confezioni. I due giovani, fidanzati da molti anni e soprannominati dagli amici Vinavil perché inseparabili, erano appartati a bordo di una piccola Fiat 147, in uno slargo presente sulla Strada Provinciale Virginio Nuova dopo aver trascorso la serata a cena con dei parenti. Nelle ultime settimane, Antonella aveva confidato ad amiche e colleghe di aver paura del maniaco delle coppiette (il termine "mostro di Firenze" non era stato ancora coniato) e che avrebbe evitato di appartarsi in luoghi isolati col fidanzato.

L'assassino sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia; Paolo viene solo ferito e riesce a mettere in moto l'auto e a inserire la retromarcia. Tuttavia, probabilmente a causa della concitazione del momento, Paolo non è in grado di controllare l'auto che attraversa trasversalmente la strada e resta poi bloccata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito sfilerà le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano, presumibilmente in segno di spregio. Esiste in verità un'altra ipotesi che stando alla testimonianza del Sig. Allegranti (l'addetto del pronto soccorso della Misericordia che per primo estrasse il corpo dei ragazzi dall'auto) il ragazzo Paolo Mainardi si trovasse anch'egli, come la ragazza, posizionato nel sedile posteriore della Fiat 147. Da qui l'ipotesi che non fu il ragazzo a spostare l'auto e a finire incastrato nel fossetto bensì invece l'aggressore stesso, a seguito del concitato tentativo di allontanarsi quanto prima dal luogo dell'omicidio. In ogni caso, la corporatura robusta di entrambi i giovani (il Mainardi era alto quasi due metri) avrebbe reso difficile all'assassino estrarli dall'auto rapidamente, soprattutto in una zona come quella dove avvenne il delitto.

Questo delitto si differenzia dai precedenti per almeno due motivi; innanzitutto il luogo in cui avviene l'aggressione non è appartato; a pochi chilometri di distanza, nel paese di Cerbaia è in corso la festa del Santo patrono, e il traffico di auto lungo la strada provinciale è ridotto ma costante. In secondo luogo l'omicida, per la prima volta, non esegue le escissioni dei feticci e non ha il tempo materiale per infierire sui cadaveri, probabilmente a causa dei rischi che questa operazione avrebbe comportato, considerato che la macchina era visibilmente disposta in modo innaturale sulla strada.

Il delitto sarà infatti scoperto pochissimo dopo da una vettura sopraggiunta nel frattempo. Antonella è morta, Paolo respira ancora e viene immediatamente trasportato al vicino ospedale di Empoli, dove muore il mattino seguente senza riprendere coscienza. Sul luogo del delitto verranno messi a reperto nove bossoli di calibro.22 Winchester sempre con la lettera "H" punzonata sul fondello. In quest'occasione il giudice Silvia Della Monica, sperando di indurre il mostro in errore, convocò in Procura i cronisti che si occupavano del caso e chiese loro di scrivere sui giornali che Paolo Mainardi, prima di morire, aveva rivelato importanti informazioni utili alla ricostruzione dell'identità dell'omicida, ma tale trucco non portò ad alcun risultato positivo.

Sarà inoltre a seguito di questo delitto che il maresciallo Fiori, 15 anni prima in servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell'estate del 1968, e permetterà la riapertura del fascicolo in cui verranno ritrovati i bossoli repertati quell'anno; sarà così possibile comparare i bossoli e stabilire che a sparare nel 1968 era stata la stessa arma utilizzata nel 1982. Anche questo evento non è privo di dettagli inconsueti in quanto, per legge, gli elementi raccolti nel corso di un processo devono essere distrutti a sentenza avvenuta. Va tuttavia rilevato che la pratica non è generalmente seguita nel caso in cui l'arma del delitto non sia stata ritrovata, per l'ovvia necessità di lasciare il campo a successive verifiche, cosa che si è in effetti verificata con i bossoli repertati a Signa nel 1968. Mario Spezi nel suo libro Dolci colline di sangue dà una versione un po' differente riguardo al collegamento dei delitti del mostro con quello del 1968 a Signa.

In pratica Spezi dice che arrivò agli inquirenti una lettera anonima che conteneva un ritaglio di giornale relativo al delitto del 1968 con un messaggio aggiunto a penna che recitava: "Perché non andate a rivedere il processo di Perugia contro Stefano Mele?" (Il fascicolo processuale di Stefano Mele era effettivamente presso il tribunale di Perugia). Nel fascicolo si trovarono stranamente i famosi bossoli calibro. 22 serie H in una busta spillata che permisero agli inquirenti di mettere in relazione i delitti del 1968 con i successivi del 1974, 1981 e 1982.

Francesco Vinci

Successivamente al delitto del giugno 1982, che aveva portato gli inquirenti a collegare alla serie di delitti maniacali anche quello avvenuto 14 anni prima a Signa, in maniera inequivocabile grazie ai bossoli sparati dalla medesima pistola, le indagini si rivolgeranno verso Francesco Vinci, pastore, pluripregiudicato, residente a Montelupo Fiorentino, già chiamato in causa anni prima da Stefano Mele nell'omicidio del 1968 per il quale lo stesso Mele stava in quegli anni scontando la pena a 13 anni.[33] Vinci era stato a suo tempo amante fisso della Locci (come il fratello Salvatore) e aveva addirittura abbandonato la famiglia per vivere con la donna, rimediando per questo una denuncia, da parte della moglie, per abbandono del tetto coniugale e concubinato (reato allora ancora punibile in Italia, così come del resto l'adulterio), fatto questo che aveva destato un certo scandalo in paese[34]

Il Vinci viene pertanto posto in stato di fermo con l'imputazione di maltrattamenti al coniuge[35], in modo da poter approfondire alcuni aspetti e raccogliere ulteriori prove per indiziarlo dei delitti del Mostro di Firenze. Tuttavia Francesco Vinci si trovava ancora in carcere al momento in cui avviene un nuovo duplice omicidio, quello del 1983. Scagionato da tale circostanza, e dalla successiva nuova testimonianza di Stefano Mele, Vinci resta in carcere per tre anni a causa di una condanna per furto di camion, ma viene completamente scagionato dalle accuse per gli omicidi.[36]

Francesco Vinci fu trovato assassinato il 7 agosto 1993 insieme a un amico, tal Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di Chianni. I loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di una Volvo data alle fiamme. Si ipotizzò un collegamento con la vicenda del "mostro", ipotesi però quasi subito scartata[37]; più probabilmente, date anche le modalità del delitto, era da ritenersi una vendetta nata in ambienti malavitosi sardi attorno ai quali pare che Vinci gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente insoluto.[38]

9 settembre 1983 (venerdì): L'omicidio di Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch, Giogoli

Il 9 settembre 1983, a Giogoli, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, studenti presso l'Università di Münster che al momento dell'aggressione si trovano a bordo del loro furgone Volkswagen T1 con l'autoradio accesa. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette proiettili, sparati con una certa precisione attraverso la carrozzeria del furgone, ma verranno messi a referto solo 4 bossoli sui 7 che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire. Le indagini successive al delitto permetteranno di stabilire che i colpi erano stati sparati da un'altezza di circa un metro e 30 centimetri da terra, il che fa supporre che l'assassino fosse alto almeno 1 metro e 80, o anche di più. L'ipotesi dell'altezza del mostro superiore alla media non è però condivisa da tutti, in primis da Perugini e da altri inquirenti[11].

L'assassino fredda dapprima Meyer con tre colpi in rapidissima successione, mentre Rüsch tenta inutilmente la fuga ma viene poi colpito anch'esso da quattro proiettili, di cui uno al cervello, accasciandosi sul fondo dell'automezzo. Una volta uccisi i due giovani, l'assassino sale sul retro del furgone ma, accortosi che le vittime sono entrambe di sesso maschile, si dilegua senza utilizzare armi bianche ed effettuare alcuna escissione sui corpi. In questo caso, l'assassino è stato forse tratto in errore dai capelli lunghi e dalla corporatura esile di Rüsch, scambiato evidentemente per una donna. Il denaro e e le macchine fotografiche delle vittime non vennero prelevate, né sembrarono mancare oggetti di valore. Nelle vicinanze del camper furono rinvenute anche alcune riviste pornografiche a contenuto probabilmente omosessuale, ma non è mai stato appurato se appartenessero ai giovani, né se i due fossero effettivamente amanti oppure solamente amici.

La pista sarda

Si pensò quindi che il mostro, non potendo essere Stefano Mele - detenuto nel periodo in cui il mostro aveva continuato a colpire - e neppure Francesco Vinci, potesse invece essere un altro personaggio appartenente alla loro cerchia di frequentazioni e conoscenze. Furono pertanto indiziati e inquisiti Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini, cognato di Giovanni Mele.[39] Sulla base di nuove rivelazioni di Stefano Mele, che in alcune deposizioni accusò il fratello ed il cognato di aver partecipato all'omicidio della moglie[40], e con l'aggravante di alcuni indizi materiali (tra cui un bisturi in possesso di Giovanni Mele), Piero Mucciarini e Giovanni Mele restano per otto mesi detenuti con l'accusa di essere gli autori dei duplici omicidi.[40]

I due vengono scarcerati, ed escono dall'inchiesta[41], non essendoci a loro carico indizi tanto gravi da giustificarne il rinvio a giudizio, ed essendo i due detenuti nel periodo in cui fu commesso l'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini.[42][43] Per un certo periodo venne indagato per gli omicidi anche Salvatore Vinci, fratello di Francesco.[44][45] Stefano Mele morì nel 1995 per una crisi cardiaca a seguito di un intervento chirurgico, mentre risiedeva in uno ospizio per ex detenuti a Ronco all'Adige, presso Verona.[46]

29 luglio 1984 (domenica): L'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini, Vicchio

Claudio Stefanacci

Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni e Pia Gilda Rontini di 18 anni, da poco tempo impiegata presso il bar della stazione ferroviaria di Vicchio e majorette nella banda musicale del paese. L'auto dei giovani, una Fiat Panda celeste, è parcheggiata in fondo a una strada sterrata che si diparte dalla Strada Provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di una collina. Quando vengono aggrediti, i due ragazzi sono seminudi sul sedile posteriore della Panda di proprietà del ragazzo. L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra colpendo il ragazzo quattro volte (di cui una alla testa), e due volte la ragazza (colpita al volto e al braccio che aveva probabilmente steso di fronte alla faccia come estremo gesto di difesa).[47]

Pia Rontini

In seguito l'assassino infierisce con diverse coltellate sui corpi dei due ragazzi, colpendo due volte alla gola Pia e una decina di volte Claudio. Pia viene trascinata, ancora viva anche se ormai in agonia, fuori dalla vettura in un vicino campo di erba medica, dove le vengono asportati il pube e il seno sinistro. Verrà ritrovata con il proprio reggiseno ancora serrato tra le dita della mano destra.[47] La catenina che portava è stata strappata ed è stato sottratto il pendente a forma di croce. In questo caso la borsetta non è stata frugata né manomessa, presumibilmente perché nascosta sotto il sedile del passeggero.

I cadaveri vengono scoperti prima dell'alba da alcuni amici della coppia, ma l'allarme per la scomparsa dei due era stato dato già verso le 23 circa dalla madre della Rontini, preoccupata per l'insolito ritardo della figlia che al momento di uscire di casa, poco dopo le 21, aveva promesso di rientrare entro un'ora essendo stanca per aver lavorato tutto il giorno.[20] Anche in questo caso pare che la vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni precedenti al delitto. Un'amica di Pia, conosciuta durante un soggiorno di studio in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto una telefonata dalla giovane, pochissimo tempo prima del delitto, in cui Pia le riferiva che nel bar dove lavorava "c'erano persone poco piacevoli assieme alle quali si sentiva molto insicura".[48]

Tale fatto sembra peraltro avvalorato da un riscontro raccolto in una fase successiva al delitto; il Sig. Bardazzi gestore di una tavola calda in località San Piero a Sieve aveva dichiarato di riconoscere nei due fidanzatini uccisi una coppia che nel pomeriggio del 29 luglio 1984, poche ore prima dell'omicidio, si era intrattenuta presso il suo locale. Subito dopo loro, secondo il teste, era arrivato un "signore distinto", alto, corpulento, sguardo intenso, in giacca e cravatta, dai capelli rossicci, che aveva ordinato una birra e si era seduto all'esterno del locale, senza staccare gli occhi dalla ragazza. Non appena i giovani avevano terminato di mangiare e si erano avvicinati alla cassa, l'uomo aveva bevuto d'un fiato la birra e si era accodato a loro. Invitato a partecipare ai funerali delle vittime, tuttavia, non riconobbe il "signore distinto" tra i presenti.[20]

Nel processo a Pacciani il teste Bardazzi venne ascoltato dal PM Canessa che mise in luce alcune incongruenze nella sua testimonianza; dando per scontata la sincera volontà di collaborare da parte del Sig. Bardazzi non venne però considerata credibile la sua testimonianza in quanto non coincidevano innanzitutto i tempi di spostamento della coppia dei ragazzi rispetto al tragitto casa-locale Bardazzi-luogo di lavoro di Pia Rontini e in più lo stesso Bardazzi non si dimostrò così certo al processo di riconoscere i ragazzi e la loro auto parcheggiata davanti al locale. Nel marzo del 1994 le croci piantate sul luogo del delitto dal padre di Pia Rontini in memoria dei due giovani assassinati sono state danneggiate da ignoti.[49]

Il padre di Pia, Renzo Rontini, si è impegnato profondamente per la ricerca della verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco alla fine degli anni novanta.

8 settembre 1985 (domenica): L'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, Scopeti

L'ultimo duplice delitto (quello su cui si hanno più particolari e riscontri[50]) avviene nella campagna di San Casciano Val di Pesa in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attorniata da cipressi, attigua ad un cimitero, in cui erano solite appartarsi le giovani coppie.[51] Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot, commerciante, madre di due bambine piccole recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt.

Le vittime sono accampate in una piccola tenda ad igloo a poca distanza dalla strada. L'omicidio è stato fatto risalire da taluni alla notte di domenica 8 settembre 1985, da altri a quella tra sabato 7 settembre e domenica 8 settembre 1985, considerazione motivata con la presenza sui cadaveri delle vittime di larve di mosca che necessitano di almeno 25 ore di tempo per svilupparsi[20] e col fatto che Nadine Mauriot aveva avvertito i parenti in Francia che sarebbe rientrata dalla vacanza al più tardi domenica sera per accompagnare a scuola le figlie il giorno successivo e riaprire il negozio di sua proprietà.[52] Una coppia che si era appartata nella piazzola del delitto nelle prime ore del pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 riferì di aver notato la tenda delle vittime all'interno della quale sembrava esservi una persona distesa; riferirono anche di un nugolo di mosche e di cattivo odore nella zona, tanto che proprio per tali motivi i due ragazzi decisero di andarsene.[20]

Le modalità dell'aggressione sono simili a quelle precedentemente messe in pratica dall'omicida, eccettuato il fatto che in questo caso, le vittime non si trovavano in auto ma in una tenda piantata vicino alla propria Volkswagen Golf: il mostro, dopo aver forse reciso con un coltello il telo esterno della tenda sulla parte posteriore, si sposta verso l'ingresso della tenda e spara. Nadine muore all'istante, il giovane Jean-Michel, ferito non mortalmente, riesce ad uscire dalla tenda e a fuggire di corsa in direzione del bosco, ma viene raggiunto dall'omicida che lo finisce a coltellate e poi ne occulta il corpo, cercando di nasconderlo tra alcuni rifiuti poco distante dalla tenda.[53]

Dopo averlo estratto dalla tenda per effettuare le mutilazioni sul pube e sul seno sinistro, anche il cadavere della donna viene in qualche modo occultato e risistemato all'interno della tenda in modo che non sia subito visibile. Il modus operandi particolare attuato dall'omicida in quest'ultimo delitto lascia presupporre che l'assassino avesse l'intento di ritardare il più possibile la scoperta dei corpi. Un brandello del seno della ragazza viene spedito alla Procura della Repubblica di Firenze in una busta anonima con l'indirizzo composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzato alla dottoressa Silvia Della Monica, PM incaricato delle indagini sul mostro.[54] La scoperta dei corpi avverrà, per puro caso, due ore prima che la lettera giunga in Procura vanificando così il possibile perfido piano dell'omicida che probabilmente voleva annunciare agli inquirenti l'avvenuto ultimo duplice delitto attraverso la sua stessa macabra missiva.

Poche settimane dopo il delitto, il 2 ottobre, giunsero in Procura tre buste anonime indirizzate ai tre sostituti procuratori Pier Luigi Vigna, Paolo Canessa e Francesco Fleury. Le tre buste contenevano la fotocopia di un articolo ritagliato dalla "Nazione", una cartuccia marca Winchester calibro 22 serie "H", e un foglietto di carta bianco piegato in due con scritto: "Uno a testa vi basta". Gli esami biologici evidenziarono che sui lembi delle tre buste c'erano tracce di saliva che diedero esito positivo di appartenenza a soggetto con gruppo sanguigno A. Non esiste però alcuna certezza che questo messaggio del 2 ottobre sia stato inviato dal mostro, poiché esso non conteneva alcuna "firma", cioè un qualcosa (come, per esempio, poteva essere un bossolo col segno di percussione della calibro 22 oppure una parte del corpo di una vittima) che sanciva la mano del mostro invece di quella di un "burlone" o mitomane. Il brandello di seno spedito a Silvia Della Monica rimane, infatti, l'unico "messaggio" inequivocabilmente inviato dal mostro agli inquirenti.[55]

I "compagni di merende"

Lo stesso argomento in dettaglio: Compagni di merende.

Pietro Pacciani

Dopo l'omicidio degli Scopeti (l'ultimo della serie) le indagini proseguono intensamente ma, fino al 1991, non ci sono sviluppi significativi. La SAM (Squadra Anti-Mostro), il pool di forze dell'ordine che indagava solo ed esclusivamente sugli omicidi seriali delle colline fiorentine dal 1984, era capeggiata da Ruggero Perugini. Pietro Pacciani diventò il sospettato numero uno della SAM nel 1991, mentre si trovava in carcere per la condanna di stupro nei confronti delle sue due figlie; anche una lettera anonima risalente al 1985 invitava gli inquirenti ad indagare su di lui.[56] Il pool di Perugini, oltre alla lettera anonima, aveva il nome di Pacciani schedato nel computer fra le molte persone aventi le caratteristiche per essere il mostro.[57]

Pietro Pacciani nella prima metà degli anni ottanta

Nato ad Ampinana il 7 gennaio 1925, ex partigiano[58] soprannominato il Vampa per via del suo carattere facilmente irascibile e per i suoi trascorsi giovanili come mangiafuoco per le fiere paesane (che una volta gli costarono persino un'ustione al viso), Pacciani era un uomo collerico, depravato e brutale indipendentemente dalle accuse riguardanti i delitti del mostro. A ventisei anni Pacciani sorprende l'allora fidanzata, Miranda Bugli (appena quindicenne), in atteggiamenti intimi con un altro uomo, tal Severino Bonini di 41 anni e uccide a coltellate il rivale costringendo poi la ragazza ad avere un rapporto sessuale proprio accanto al cadavere del Bonini; al processo per quel delitto l'imputato dichiarerà d'essere stato accecato dal furore avendo visto la fidanzata denudarsi il seno sinistro[59] (proprio quello che negli ultimi due delitti venne asportato alle vittime femminili del pluriomicida). Per questo omicidio Pietro Pacciani è condannato a 13 anni di carcere che sconta in pieno. L'analogia di questo delitto con quelli del "mostro" sarà l'intuizione e l'indizio principe che porterà gli inquirenti ad indagare seriamente su Pacciani.

Gli inquirenti si convincono, accumulando suggestioni/indizi, che Pacciani sia il serial killer delle coppiette fiorentine con questa tesi: Pacciani ucciderebbe le coppie per rivivere, da "vincitore", il delitto del 1951; accanenendosi quindi particolarmente sulla donna che simboleggia l'ex-fidanzata che l'ha tradito.[60] Gli indizi che accumularono gli inquirenti erano vari: Pacciani scriveva la parola Repubblica con una sola B (come scritto nella busta col lembo di seno inviata dal mostro nel 1985[61]), possedeva giornali e riviste che parlavano dei delitti del mostro e foto con pubi segnati a matita[62] ed aveva scritto su un foglio un numero di targa di un'auto appartenente ad una coppia che si appartava nella zona degli Scopeti, luogo del delitto del settembre 1985.[63] Una parte della "componente indiziaria" era anche di tipo territoriale-logistico. Pacciani aveva legami (più o meno espliciti o più o meno opinabili e forzati) con tutti i luoghi dove avvennero gli otto duplici omicidi del mostro. Il contadino aveva vissuto e lavorato nelle due aree geografiche dove il mostro aveva colpito più spesso: il Mugello e la Val di Pesa. Ma aveva un ipotetico legame anche con Signa (poiché nel 1968 vi risiedeva l'ex-fidanzata Miranda Bugli, che in seguito visse anche a Scandicci[64]), e Calenzano (poiché là viveva l'amico compagno di merende Giovanni Faggi[65]). Tuttavia, ciò che poteva avere teoricamente valenza probatoria, erano soltanto tre oggetti detenuti da Pacciani: una cartuccia trovata in giardino (se realmente fosse stata inserita nell'arma del mostro[66]), un blocco da disegno e un portasapone (se realmente fossero appartenuti alle vittime del mostro del 1983[67]).

Il Vampa era un agricoltore sessualmente perverso (celebre l'episodio di quando andò al Pronto Soccorso per farsi togliere un vibromassaggiatore dall'orifizio anale[68]), e violento, anche dopo l'omicidio del 1951, non soltanto nei confronti della famiglia, come quando prese a calci e colpi di pala un guardiacaccia che finì ricoverato per 26 giorni in ospedale[69]. Pacciani, oltre a definirsi totalmente estraneo ai fatti di sangue del mostro, voleva dare di sé anche l'immagine dell'agnelluccio e del lavoratore della terra agricola (come lui stesso amava definirsi), cioè l'immagine della persona buona e semplice, nonostante che al suo paese tutti lo conoscessero invece come un uomo assai violento, prepotente e litigioso e tanti suoi compaesani avevano molta paura di lui.[70] L'opinione pubblica fu sostanzialmente divisa in due sulla sua colpevolezza.[71] Ciò che è biograficamente certo, al di là delle varie teorie sull'identità del mostro, è che Pietro Pacciani era un personaggio tanto primitivo quanto particolare: bugiardo cronico, poeta e pittore autodidatta per hobby, cimentatosi in mille mestieri.[72] La sua indole violenta si riversò negli anni sulla moglie, Angiolina Manni, una donna semi-inferma di mente (bastonata e costretta a rapporti sessuali), e sulle due figlie Rosanna e Graziella[73], nutrite con cibo per cani, picchiate, violentate con falli artificiali e zucchine, costrette a visionare foto pornografiche del padre ripresosi in pose oscene.[59]

Pacciani viene arrestato con l'accusa di essere l'omicida delle otto coppie di giovani il 17 gennaio 1993. Il 19 aprile 1994, con il collegio difensivo composto dagli avvocati Piero Fioravanti e Rosario Bevacqua, inizia il processo di primo grado, che rivela anche le atroci violenze familiari commesse dal contadino[5], e che si conclude il 1º novembre 1994 con la condanna dell'imputato all'ergastolo da parte del tribunale di Firenze con l'accusa di essere il responsabile di quattordici dei sedici omicidi per cui era imputato.[74] Il verdetto si ribalterà però quindici mesi più tardi, nel secondo grado di giudizio.[75] Infatti, il 13 febbraio 1996 Pacciani (in carcere da 1.100 giorni), nel cui collegio difensivo si era nel frattempo aggiunto anche il famoso avvocato Nino Marazzita, è assolto dalla Corte d'appello di Firenze per non aver commesso il fatto e viene dunque scarcerato.[75][76]

Il magistrato presidente della corte d'assise d'appello, Francesco Ferri, critica aspramente l'impianto accusatorio contro Pacciani (mettendo poi, nero su bianco, tutte le critiche all'indagine in un libro[77]); l'assoluzione viene chiesta anche dal Pubblico Ministero Piero Tony.[78] Successivamente però, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annulla l'assoluzione e dispone un nuovo processo d'appello[79], che Pacciani non potrà subire a causa della sua morte avvenuta in data 22 febbraio 1998. Il processo d'appello a carico di Pacciani fu giudicato viziato da un errore tecnico, che non consentì di sentire e verbalizzare le testimonianze di quattro persone (i testi Alfa, Beta, Gamma e Delta[80]), tra i quali c'era anche Lotti, che pochi mesi dopo si autoaccuserà di alcuni degli omicidi come complice di Vanni e Pacciani.

Per la condanna di Pacciani in primo grado sono stati valutati vari elementi, perlopiù di valore indiziario. Intercettazioni ambientali di violenti rimproveri alla moglie Angiolina (che in sé non provavano niente, ma che indebolirono l'immagine del contadino), una cartuccia per pistola (in appello poi giudicata come "priva di valore" in un'"inchiesta inquinata"[81]) compatibile con i bossoli trovati sui luoghi degli omicidi e rinvenuta nell'orto di Pacciani[82], alcuni oggetti che l'accusa ritenne appartenessero ad alcune delle vittime[5][83][84] oltre alle testimonianze di alcune persone che lo riconobbero nei luoghi degli omicidi perlopiù in veste di guardone.[85][86] Un elemento dapprima trascurato nei processi contro Pacciani fu l'insieme dei grossi movimenti di denaro sul conto bancario dell'agricoltore, cifre forse troppo cospicue all'epoca dei fatti per un semplice contadino quale lui era.[87]

I soldi di Pacciani vennero presi in considerazione, come indizio del coinvolgimento del contadino nei delitti, solo nelle inchieste successive alle condanne ai compagni di merende, quando si ipotizzò che Pacciani e i suoi compari di bevute ricevessero denaro per eseguire gli omicidi su commissione da parte di mandanti mai identificati.[5][88] È pacifico che la tesi che vuole Pietro Pacciani capo-killer mercenario su commissione è incompatibile con quella del processo Pacciani del 1994, dove il contadino mugellano era considerato dalla Pubblica Accusa un serial killer solitario fin dal delitto di Signa del 1968.[89]

Solo a metà degli anni novanta, con l'arrivo a capo della Squadra Mobile di Firenze di Michele Giuttari le indagini si concentrarono più dettagliatamente, anche su alcuni amici di Pacciani coinvolti nella vicenda: Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e Giovanni Faggi[90][91][92] (quest'ultimo assolto, in tutti e tre i gradi di giudizio, da ogni accusa riguardante gli omicidi[93][94]). Un altro agricoltore della zona, tale Giorgio Rea, venne in principio sottoposto a sospetto da parte degli inquirenti, per via dell'amicizia decennale che lo legava ai vari Pacciani, Vanni, Lotti, Pucci e Faggi, ma i sospetti caddero quasi subito nel corso di pochi giorni[95]

A seguito dell'assoluzione di Pacciani nel processo d'appello, Angiolina Manni decise di abbandonare la casa coniugale, non volendo più avere nessun rapporto con l'uomo, tant'è che nel luglio dello stesso anno avviò anche le pratiche per la separazione dal marito[96]. Angiolina Manni è morta nel 2005 all'età di 80 anni.[97] Nel dicembre del 1996, Pacciani viene rinviato a giudizio per sequestro e maltrattamenti ai danni della moglie.[98] In particolare gli inquirenti addebitavano a Pacciani di aver aggredito la moglie nel 1992, al ritorno della stessa da un interrogatorio durante il quale la signora avrebbe rilasciato dichiarazioni compromettenti per il marito a causa del possesso di un fucile mai denunciato, anche se si trattava di un'arma che non era sicuramente quella usata per uccidere le coppiette.[98]. La reazione di Pacciani fu registrata e ascoltata in diretta dalla polizia che aveva apposto alcune microspie nella casa del contadino.[5]

Il 22 febbraio 1998, Pietro Pacciani viene trovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato in alto fino al collo. Un esame tossicologico rivela nel sangue tracce di un farmaco antiasmatico fortemente controindicato per lui (che non soffriva di asma ed era invece affetto da una malattia cardiaca). Le circostanze sospette della morte provocano ulteriori ombre sulla vicenda che sembrava essere giunta ad una conclusione.[5][99] Pacciani infatti, dopo la sentenza di assoluzione di secondo grado, era tornato ad abitare da solo (dopo l'abbandono della Manni) nel suo casolare, dove la sera era solito barricarsi in casa, sprangando la porta e tutte le serrande, quasi avesse timore di qualcosa o di qualcuno (così come confermato dalle testimonianze dei vicini)[3]. La sera in cui i Carabinieri lo trovarono morto nella sua abitazione, la porta e le finestre erano invece completamente spalancate e le luci spente.

Le successive intercettazioni telefoniche, relative al "caso Narducci" (vedi apposito paragrafo sotto), fecero emergere in alcuni la possibilità che Pacciani fosse stato ucciso dagli appartenenti ad una setta satanica-esoterica perché colpevole di averli traditi, magari proprio da coloro che l'avrebbero ingaggiato per i delitti[3]. L'ipotesi che Pacciani non morì per una casualità (teoria che non ebbe poi alcun sviluppo investigativo significativo), fu criticata da coloro che ricordavano come il Vampa fosse, nel 1998, anziano (aveva 73 anni), pluriinfartuato e sicuramente poco attento alla propria salute per indole naturale.[100]

Mario Vanni

Nato a San Casciano in Val di Pesa il 23 dicembre 1927, di professione portalettere, Mario Vanni, detto Torsolo per il suo fisico esile, è rimasto particolarmente famoso come inventore involontario della locuzione compagni di merende, che i media ricavarono dalla caricatura di una sua espressione. Sentito infatti come testimone al processo contro Pacciani, il postino, alla domanda «Signor Vanni, che lavoro fa lei?» rispose iniziando la sua deposizione in modo inatteso e illogico dicendo «Io sono stato a fa' delle merende co' i' Pacciani no?», suscitando così l'ilarità generale e facendo supporre al PM che l'interrogato fosse stato istruito a dare precise risposte. Il suo continuo, goffo e reticente riferimento a tali merende, oltre a determinarne l'incriminazione, produsse l'ironico modo di dire, usato per indicare persone legate da un rapporto losco o comunque poco onesto.

Vanni viene arrestato in concomitanza con l'assoluzione (poi annullata) di Pietro Pacciani, per concorso in duplice omicidio e vilipendio di cadavere, messo in atto secondo l'accusa proprio assieme a Pacciani.[76][101] Vanni, ha dimostrato durante lo svolgimento del processo un atteggiamento ostile nei confronti dei giudici, dettato in maggior parte dall'ignoranza, dall'abuso di alcol, dalla paura e dalla sua età avanzata, che non gli permetteva forse di comprendere lucidamente lo svolgersi delle udienze. Viene spesso richiamato e allontanato dall'aula, fino ad essere espulso dopo aver lanciato invettive sul PM e aver vantato la sua fede politica per Mussolini.[5] Tuttavia, il suo avvocato difensore Nino Filastò riuscì in seguito a farlo riammettere in aula.

Vanni fu condannato al carcere a vita. La condanna, per soli quattro degli otto duplici omicidi, è stata resa definitiva nel 2000 dalla Corte di Cassazione. Nel 2004 la pena gli viene sospesa per motivi di salute, e Vanni trascorre i suoi ultimi cinque anni di vita in una casa di riposo per anziani non autosufficienti a Pelago, in provincia di Firenze. Ricoverato il 12 aprile 2009 all'ospedale toscano di Ponte a Niccheri è morto il giorno dopo, all'età di 81 anni.[102] Era l'ultimo compagno di merende ad essere rimasto in vita.

Giancarlo Lotti

Giancarlo Lotti, detto Katanga, fu condannato a 30 anni di reclusione per i delitti del mostro; come Mario Vanni era nato anch'egli a San Casciano in Val di Pesa il 16 settembre del 1940. Rimasto orfano di entrambi i genitori in giovane età ed isolato dagli altri suoi parenti, era un disoccupato che in precedenza aveva sempre svolto solo piccoli lavori saltuari, alcolista fin dall'adolescenza e con problemi intellettivi, viveva solamente grazie agli aiuti del parroco del paese, che gli aveva trovato anche un'abitazione dove poter vivere.

A differenza di Vanni e Pacciani, che protestarono sempre la loro innocenza, Lotti rese confessione[5], e accusò Pacciani e Vanni.[53] fornendo particolari di alcuni omicidi cui aveva assistito[103] e autoaccusandosi[104] dell'omicidio dei due ragazzi tedeschi del 1983.[105] Per giustificare la sua partecipazione ai delitti, Lotti asserì di esservi stato costretto da Pacciani e Vanni, i quali lo avrebbero minacciato di rivelare in paese la sua omosessualità; Giancarlo Lotti era infatti omosessuale (o perlomeno bisessuale) ed una sera Pacciani e Vanni lo avrebbero scoperto in atteggiamenti intimi con un altro uomo, tale Fabrizio Butini. Addirittura Lotti rivelò che in un'occasione lo stesso Pacciani gli avrebbe fatto delle esplicite avances sessuali.

Le testimonianze di Lotti vennero ritenute decisive nel chiarire molti aspetti della vicenda, nonostante il legale dello stesso Lotti e alcuni periti lo indichino come un teste poco attendibile.[106]

Va detto che nel corso del dibattimento processuale ai cosiddetti "compagni di merende" e nei controinterrogatori fatti al Lotti dalla difesa di Mario Vanni (Avv. Nino Filastò) si evidenziarono infatti numerose incongruenze in ciò che riportava lo stesso Lotti; in pratica il Lotti riferì alcuni fatti e particolari dei delitti che oggettivamente non potevano essere considerati attendibili. Giancarlo Lotti viene scarcerato il 15 marzo 2002 per gravi motivi di salute e il 30 marzo successivo, all'ospedale San Paolo di Milano, muore a 61 anni per via di un tumore al fegato, da cui era afflitto da molto tempo, a causa del suo alcolismo decennale.[107]

Fernando Pucci

Amico dei tre compagni, invalido al 100% in quanto affetto da oligofrenia, pur non subendo condanne per i delitti, depose contro Pacciani e Vanni come testimone oculare degli ultimi due omicidi (quello del 1984 a Vicchio e quello del 1985 agli Scopeti)[103] rischiando l'incriminazione a causa delle dichiarazioni spesso reticenti e contraddittorie.[108]

Il "secondo livello" e i presunti mandanti

Le indagini sui delitti del mostro e sui compagni di merende hanno successivamente condotto gli inquirenti ad ipotizzare l'esistenza di una sorta di sovrastruttura mandante dei delitti.[109] Tale ipotesi si basa su alcune dichiarazioni del teste e imputato Giancarlo Lotti, il quale ha dichiarato in sede processuale che i feticci escissi dai corpi femminili sarebbero stati comprati da un ignoto "dottore"[5], e sul ritrovamento di un possibile simbolo esoterico, una piramide tronca di granito colorato (una rara varietà di una pregevole pietra ornamentale, nota come breccia africana) di circa quindici centimetri, rinvenuta ad alcuni metri dai corpi esanimi dei ragazzi uccisi in occasione del delitto dell'ottobre 1981.[110] Occorre però ricordare che tale oggetto viene spesso usato come fermaporte nelle campagne toscane.

Altri presunti riscontri di un possibile movente magico-esoterico si sono avuti in occasione dell'ultimo delitto della serie, quello del 1985 a danno dei due turisti francesi; pochi giorni prima di essere assassinati i due si erano accampati in zona Calenzano ma erano stati invitati ad andarsene da un guardacaccia, in quanto il campeggio libero non era consentito in quella zona.[5] In seguito lo stesso guardacaccia aveva rinvenuto, poco distante dal luogo in cui Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili si erano accampati la prima volta, tre cerchi di pietre, di cui due aperti ed uno chiuso, contenenti bacche, pelli di animali bruciate e croci di legno. Secondo il parere di alcuni inquirenti tali cerchi di pietre potrebbero essere ricondotti a pratiche di tipo rituale, da collegarsi con le fasi di individuazione, condanna a morte ed esecuzione materiale della coppia.[5] Tuttavia l'episodio del guardiacaccia è stato recentemente smentito dall'avvocato dei familiari delle vittime francesi, che a tal proposito ha diffuso anche un documento Pdf liberamente consultabile.[111] Infatti non risulterebbe la presenza dei due a Calenzano dagli scontrini che la coppia era solita conservare durante i viaggi; inoltre tutti i possibili avvistamenti della coppia francese meritano una riflessione e il beneficio del dubbio. Questo è dovuto al fatto che la foto della vittima francese che finì sui giornali (cioè quella del passaporto della vittima), mostrava la donna più giovane e con i capelli cortissimi, mentre nel settembre '85 Nadine aveva i capelli lunghi e qualche anno in più. Ciò è stato anche documentato in un programma televisivo.[112]

Le frequentazioni di Pacciani e Vanni durante gli anni degli omicidi alimentarono un filone d'inchiesta su possibili moventi esoterici e riti legati al satanismo alla base dei delitti.[113][114] In particolare Pacciani e Vanni frequentavano un tale mago Salvatore Indovino presso una cascina situata nei dintorni di San Casciano, dove si consumavano orge e riti collegabili all'occultismo.[3] Durante le perquisizioni eseguite dalla Polizia di Stato a casa di Pacciani sono stati trovati almeno tre libri ricollegabili alla magia nera e al satanismo.[3]

La cosiddetta pista esoterica si riallaccia anche alle grosse somme di denaro delle quali entrò in possesso Pacciani negli anni dei delitti, da qui nasce l'idea che i Compagni di Merende agissero per conto di personalità rimaste nell'ombra[115][116], interessate a ricavare i feticci dai corpi mutilati.[109] Pacciani, modesto agricoltore, arrivò addirittura a disporre di 157 milioni di lire (dell'epoca, corrispondenti ad oltre mezzo milione di euro attuali) in contanti e buoni postali fruttiferi, oltre ad aver acquistato un'automobile, due case e ristrutturato completamente la sua abitazione.[3] I controlli eseguiti dalla Polizia di Stato evidenziarono che Pacciani, prima dei delitti attribuibili al Mostro di Firenze, versava in condizioni economicamente più modeste, e non ereditò beni che potessero giustificare le somme di denaro ritenute (ma non da tutti) troppo cospicue ed improvvise per un semplice contadino quale lui era.[3] Anche Mario Vanni arrivò a disporre di cifre importanti, anche se in misura nettamente inferiore a quelle di Pacciani. Chi non crede a Pacciani killer prezzolato da mandanti misteriosi, fa infatti notare che il contadino, oltre ad affittare un appartamento, svolgeva molti lavori a nero ed era noto per la sua spilorceria, come sottolinea Giuseppe Alessandri nel libro La leggenda del Vampa. Inoltre il presunto complice Lotti era tutt'altro che ricco visto che negli anni ottanta e novanta trovava lavoretti e alloggio solo grazie all'aiuto del prete del paese, essendo a tutti gli effetti un disoccupato indigente. Anche Vanni, nonostante le cifre trovate sui suoi conti, è deceduto in una modesta casa di riposo di provincia.[117]

Le sentenze che condannano i compagni di merende si basano principalmente sulle tanto discusse testimonianze di Pucci e, soprattutto, Lotti. Ciò ha impedito l'individuazione di un movente certo, organico e globale, che fosse valido per tutti i delitti. Infatti Lotti, prima di accennare al "dottore" misterioso, aveva cambiato più volte versione sul perché Pacciani e Vanni agissero. Inizialmente Lotti, nel 1996, dichiarava "che i delitti erano atti di rabbia per approcci sessuali che le vittime respingevano".[118] Invece un anno più tardi dava un'altra versione sul movente, affermando che la volontà di Pacciani era quella di uccidere per poi dare da mangiare i feticci alle figlie.[119] Il dibattito sull'attendibilità del Lotti rimane aperto nell'opinione pubblica, nonostante costui sia stato la chiave di volta per ottenere delle sentenze giudiziarie definitive sulla vicenda. Nel 2010 Pier Luigi Vigna, ex procuratore di Firenze occupatosi del caso, nonché ex procuratore nazionale antimafia, si è dichiarato scettico sull'esistenza di un possibile secondo livello di mandanti, a dimostrazione del fatto che le inchieste successive a quelle dei compagni di merende non hanno avuto sviluppi clamorosi.[120] Anche Piero Tony, sostituto procuratore generale al processo d'appello contro Pacciani, definì ironicamente aria fritta l'ipotesi dei mandanti.[121]

Possibili collegamenti con il caso Narducci

Francesco Narducci

Ulteriore tesi è quella che vede nel responsabile dei delitti, o in uno dei capi della misteriosa setta che avrebbe commissionato gli omicidi seriali, il dottor Francesco Narducci, medico e professore universitario di Perugia, morto nel Lago Trasimeno a trentasei anni, il 13 ottobre 1985, poche settimane dopo l'ultimo degli omicidi del mostro. La morte, all'epoca, fu archiviata come incidente e la salma fu tumulata senza procedere ad autopsia, apparendo abbastanza chiara la causa di morte per annegamento.

Il coinvolgimento di Narducci, appartenente ad una delle famiglie perugine più in vista, si fonda inizialmente sull'intercettazione telefonica di un gruppo di pregiudicati che avrebbero minacciato una tale "Dora"[3] di fargli fare la stessa fine del "medico ucciso sul Trasimeno", velato riferimento alla morte dello stesso Narducci, rinvenuto cadavere al largo dell'isola Polvese, e sulla base di alcune lettere anonime ricevute dagli investigatori nei mesi successivi, nelle quali veniva collegato il medico agli omicidi.[122] In seguito furono intercettate altre telefonate minacciose rivolte a "Dora": in una di queste una voce femminile (molto alterata) faceva riferimento, oltre al presunto omicidio di Narducci, anche all'"omicidio di Pacciani". Secondo la voce al telefono, entrambi gli omicidi erano stati eseguiti dagli appartenenti ad una setta satanica, perché le vittime erano colpevoli di averli traditi[3]: la stessa fine, nella telefonata, era minacciata anche a "Dora".[123]

Il procedimento per le telefonate intercettate proseguì e portò ad una condanna patteggiata, mentre per i restanti imputati il processo è ormai prossimo alla discussione. Dichiarazioni di persone informate sui fatti e anomalie negli accertamenti sul cadavere ripescato dalle acque del Lago Trasimeno portarono ad ipotizzare che il Narducci fosse stato assassinato. Nel 2002 venne riesumata la salma, sulla quale esami autoptici dimostrarono la presenza di lesioni compatibili, per il Consulente Prof. Giovanni Pierucci dell'Università di Pavia, con lo strozzamento; ipotesi avvalorata anche dal rinvenimento di tracce di narcotizzanti nei tessuti.[124]

Proprio l'ipotizzato omicidio del medico perugino, legato alla sostituzione del suo cadavere[124][125] con quello di uno sconosciuto in maniera tale da insabbiare le indagini sulle effettive cause della morte nell'autunno del 1985, ha dato luogo all'avvio di un'inchiesta giudiziaria da parte della Procura della Repubblica di Perugia, profilando il coinvolgimento di una loggia massonica, alla quale risultava appartenere il padre di Narducci[126], coinvolta sia nella copertura degli omicidi del mostro che nella sostituzione del cadavere.[127][128] Secondo Ugo Narducci invece, il figlio Francesco si tolse volontariamente la vita a seguito di diagnosi mediche che gli attribuivano un grave problema di salute.[126]

All'epoca, però, la versione ufficiale, propugnata dalla famiglia, era quella della disgrazia e, del resto, nessuna conferma ha avuto la nuova versione della famiglia Narducci sul suicidio motivato dalla scoperta di una malattia. Nel giugno del 2009, una parte dell'inchiesta relativa alle modalità della fine del medico perugino è stata archiviata dal GIP del capoluogo umbro[129]. Per Mario Spezi e Francesco Calamandrei, indagati insieme ad altri nella vicenda, il GIP ha archiviato a norma dell'art. 125 disp. att. c.p.p., cioè per insufficienza e contraddittorietà degli elementi.[130].

Per quanto riguarda la morte per omicidio di Francesco Narducci, il GIP (Dott.ssa Marina de Robertis), nel procedimento n. 1845/08/21, ha disposto l'archiviazione (accogliendo la stessa richiesta del pubblico ministero, Dott. Giuliano Mignini). Comunque, bisogna sottolineare che il GIP, nell'ordinanza con cui ha disposto l'archiviazione per insufficienza di prove[131], ha accolto ed ha confermato i risultati delle indagini svolte dalla Procura di Perugia[131], confermando che il Narducci era stato ucciso[131], che il cadavere ripescato il 13 ottobre 1985 non poteva essere quello del medico (ma quello di uno sconosciuto)[131], e che il Narducci era morto in circostanze di tempo e di luogo completamente diverse, e non era annegato.[131] Sempre secondo il GIP, il Narducci era risultato coinvolto negli ambienti nei quali erano maturati i delitti.[131] Per quanto riguarda, invece, la gran parte dei reati "minori", tra i quali quelli di soppressione e occultamento di cadavere ed uso illegittimo e soppressione di svariati documenti, il GIP ha riconosciuto la maturata prescrizione in relazione agli indagati principali.[131] L'ordinanza di archiviazione è stata impugnata in Cassazione dal padre e dal fratello del medico morto ma la Corte stessa ha dichiarato inammissibile il ricorso.[131]

In particolare il GIP De Robertis, nell'ordinanza con cui ha accolto la richiesta di archiviazione per insufficienza di prove, ha affermato che "l'ipotesi del suicidio o dell'evento accidentale è sconfessata dagli elementi emergenti dalle consulenze tecniche".[132] Inoltre nella stessa ordinanza, con riferimento allo scambio del cadavere di Narducci con quello di uno sconosciuto, ha affermato che le testimonianze hanno trovato conferma nelle consulenze di natura antropometrica, "tutte concordi sul punto essenziale: il cadavere dell'uomo di Sant'Arcangelo non poteva appartenere al Narducci"[132] e "gli interrogativi sulla morte e sull'identità dello sconosciuto rimangono".[132] Riguardo ai collegamenti con i delitti fiorentini, "numerose sono le dichiarazioni di persone informate che hanno riconosciuto il Narducci come frequentatore dell'ambiente legato ai delitti."[132]

Un altro filone dell'inchiesta, relativo al procedimento n. 2782/95/21 e alla ipotizzata associazione per delinquere e a reati più recenti (posti in essere da vari soggetti istituzionali e dalla famiglia, oltre che da giornalisti e finalizzati a nasconderne l'omicidio e le sue cause e a sostituire il cadavere e comunque a depistare le indagini attraverso la riabilitazione di piste ormai sconfessate a livello giudiziario, come quella della cosiddetta "pista sarda") è stato aperto dalla Procura della Repubblica di Perugia.[133] In particolare si contestava, come s'è detto, a membri della famiglia di Narducci e a vari esponenti delle istituzioni, il reato di associazione per delinquere finalizzata all'occultamento di cadavere e altri reati. I soggetti, secondo l'accusa, avrebbero occultato le reali modalità della morte di Narducci, sostituendo a tal fine il suo cadavere con quello di uno sconosciuto.[133] Inoltre avrebbero impedito l'autopsia sul cadavere, assolutamente di regola in casi simili di sospetto annegamento: l'autopsia non fu eseguita all'epoca, ma soltanto dopo la riapertura delle indagini da parte della Procura di Perugia. Va sottolineato che all'epoca non furono neppure scattate foto del cadavere e le uniche utilizzate nelle indagini erano state effettuate da un fotoreporter del quotidiano "La Nazione". Il tutto sarebbe stato fatto, secondo la Procura, per evitare che emergesse il coinvolgimento del medico nella vicenda criminale fiorentina. Il 20 aprile 2010, all'esito dell'udienza preliminare davanti al Gup di Perugia, il Dr. Micheli ha emesso sentenza di non luogo a procedere, con diverse e articolate formule, anche sotto il profilo dubitativo.[134][135] Nonostante il termine per il deposito della motivazione da parte del GUP fosse scaduto alla data del 20 luglio 2010, solo il 20 febbraio 2012, dopo un ritardo di quasi due anni, il GUP ha depositato la motivazione di ben 934 pagine. Il Giudice, pur avendo dovuto valutare la possibilità di sviluppo o meno in giudizio dell'impianto accusatorio, ha, in pratica, adottato una decisione di merito, contestando gli accertamenti del 1985, ma anche le risultanze degli accertamenti medico legali del Dipartimento di Medicina Legale dell'Università di Pavia e quelli antropometrici del RIS Carabinieri di Parma e ha formulato l'ipotesi suicidiaria, escludendo un coinvolgimento del Narducci nei duplici omicidi di coppie attribuiti al "Mostro di Firenze".[136] Narducci si sarebbe ucciso "stordendosi" con la meperidina, un farmaco chiamato anche petidina.

In meno di 15 giorni, il PM storico dell'indagine sul caso Narducci, il Dr. Giuliano Mignini, ha impugnato la sentenza in Cassazione il 7 marzo 2012. Nel ricorso, il PM ha censurato la totale assenza della motivazione richiesta per una sentenza di non luogo a procedere al termine dell'udienza preliminare, sostituita da una ricostruzione del tutto personale e di merito della vicenda, operata dal GUP, in violazione dei limiti che la legge pone ai poteri del Giudice dell'udienza preliminare. Inoltre, sempre secondo il PM Dr. Mignini, la sentenza è affetta da gravi violazioni di norme sostanziali, dalla profonda contraddittorietà della stessa motivazione di merito utilizzata dal GUP e da altrettanto gravi incompatibilità tra diversi capi della stessa sentenza. Anche la vedova del Narducci, Francesca Spagnoli, ha impugnato in cassazione la sentenza Micheli. Per altri procedimenti minori, sempre legati alla vicenda, è stato fissato il giudizio. Ancora altri filoni processuali della vicenda sono sospesi ex lege in attesa della definizione del procedimento per cui è intervenuto il ricorso in cassazione del PM. In data 22 marzo 2013 la Terza Sezione della Corte di Cassazione accoglieva quasi completamente il ricorso proposto dal PM Dr. Giuliano Mignini, fatta eccezione per l'ipotesi associativa e annullava la sentenza Micheli, senza rinvio, per i reati che, nel frattempo, si erano prescritti e con rinvio al GUP di Perugia per le ipotesi di reato non prescritte. Durissima era stata la requisitoria del Procuratore Generale Gaeta che aveva chiesto l'integrale accoglimento del ricorso. Tra le ipotesi di reato che torneranno dinanzi al GUP di Perugia, c'è anche la calunnia e tentata calunnia aggravate, contestate a Mario Spezi e ad altri due imputati e che erano costate al giornalista la misura cautelare della custodia in carcere.

Francesco Calamandrei, il farmacista

Nell'ambito delle indagini collegate tra le Procure di Firenze e di Perugia, nel 2004 viene perquisito (per la terza volta) l'appartamento di un farmacista di San Casciano in seguito alle indagini per gli ultimi quattro omicidi. Questa volta però gli viene notificato anche un avviso di garanzia.[137] L'uomo, secondo l'accusa, è il "mandante" degli omicidi, il cui scopo è quello di prelevare parti anatomiche dai cadaveri per usarle durante riti satanici. La principale ma non unica testimone dell'accusa è la sua ex moglie, affetta da una malattia mentale.[138]

Il 21 maggio 2008, al termine di un processo con rito abbreviato iniziato nel settembre 2007, Calamandrei (che era indagato anche nell'inchiesta sulla morte di Narducci come possibile mandante dell'omicidio del medico perugino[139][140]) viene assolto con formula dubitativa dalle accuse in quanto il fatto non sussiste.[141] Francesco Calamandrei è morto il 1º maggio 2012, per un malore, all'età di 71 anni.

Ipotesi alternative alle sentenze giudiziarie

Ipotesi del serial killer solitario legato alla pista sarda

Una tesi seguita negli ultimi anni e profilata ad esempio da Mario Spezi nel libro Dolci colline di sangue del 2006, è quella secondo cui il mostro sarebbe un individuo legato al "clan dei sardi", già indagato marginalmente nelle vicende degli omicidi seriali. La tesi di Spezi muove dalla ricostruzione del primo omicidio del 1968 ritenendo che l'omicidio di Signa venne effettivamente commesso per ragioni sentimentali e d'onore da parte di soggetti legati alle famiglie Mele e Vinci, con la Beretta e le cartucce utilizzati successivamente dal mostro.

Tuttavia, il mostro sarebbe del tutto estraneo a tale vicenda essendosi appropriato solo successivamente della pistola e le munizioni per avviare, dal delitto del 1974, la catena seriale di omicidi.[5] Secondo Spezi solo un componente delle famiglie coinvolte nel primo delitto del 1968 avrebbe potuto appropriarsi di pistola e cartucce, essendo del tutto improbabile una casuale cessione, da parte del detentore, di un'arma e di una scatola di cartucce già utilizzati in un omicidio (quello del 1968, e quindi potenzialmente a rischio per lo stesso venditore). Sarebbe secondo Spezi soprattutto da escludere una cessione volontaria a soggetti estranei a quell'ambiente familiare, come pure un casuale e contemporaneo rinvenimento da parte di terzi di pistola e cartucce.[5]

Secondo il giornalista gli omicidi sono da attribuire ad una sola persona, un serial killer che avrebbe sempre agito da solo. Va sottolineato che il "Carlo" che, secondo lo Spezi e il giallista Douglas Preston, sarebbe il Mostro di Firenze, è un uomo nato nel 1959 che, all'epoca del primo delitto, aveva circa nove anni. Mario Spezi e Douglas Preston affermano che non hanno mai ritenuto "Carlo" responsabile del delitto del 1968 e che lo stesso "Carlo" fu arrestato una prima volta nell'ottobre 1983, un mese dopo l'omicidio dei due ragazzi tedeschi, e assolto per detenzione di armi. Finì di nuovo in carcere solo nel 1988, tre anni dopo l'ultimo omicidio del Mostro. Mario Spezi è stato arrestato nel 2006 con l'accusa di calunnia a fini di depistaggio delle indagini, proprio in conseguenza della sua propensione per la Pista Sarda, cosa che lo avrebbe portato, secondo la tesi accusatoria a creare false prove al fine di portare gli investigatori sulla strada da lui voluta.[142][143][144] Il Tribunale per il Riesame di Perugia, su ricorso dello Spezi, ha annullato l'ordinanza di misura cautelare emessa dal GIP nei suoi confronti sotto il profilo dubitativo sui gravi indizi di colpevolezza sul dolo della calunnia e, sotto il profilo oggettivo, per altra ipotesi di calunnia. Per l'ipotesi della calunnia, il GUP Dr. Paolo Micheli, con sentenza 20 aprile 2010, ha dichiarato non luogo a procedere contro Spezi, con formula dubitativa sul dolo e solo il 20 febbraio 2012 il GUP ha depositato ben 934 pagine di motivazione della sentenza, un fatto assolutamente insolito per una sentenza di non luogo a procedere.[145][146]. In data 22 marzo 2013, come si è visto, la sentenza del GUP Micheli è stata pressoché integralmente annullata dalla Corte di Cassazione.

Ipotesi del serial killer in divisa

Un'altra ipotesi di rilievo, contrastante e critica con le sentenze giudiziarie, è quella espressa dell'avvocato fiorentino Nino Filastò nel suo libro Storia delle Merende Infami.[147] Il libro, pubblicato da Maschietto Editore nel 2005, è una sorta di contro-inchiesta sui delitti delle coppiette. Lo scrittore-avvocato, che investiga sul mostro dai primi anni ottanta, oltre ad essere stato il legale di Mario Vanni, tenta di dimostrare l'innocenza dei compagni di merende con un'analisi globale su tutta la vicenda. Nel suo libro si mettono in luce le incongruenze del pentito Giancarlo Lotti e si criticano le modalità d'indagine. L'avvocato paragona la figura del Lotti a quella di Stefano Mele: entrambi sono intellettualmente molto modesti e suggestionabili, ma diventano a causa di un'errata (secondo Filastò) pista investigativa, personaggi di primo piano in due differenti periodi delle indagini. Filastò aveva già scritto, a metà anni novanta, un saggio sull'argomento chiamato Pacciani Innocente.[148]

Nell'ipotesi di Filastò il mostro è un serial killer di tipo lust murder affetto da una grave patologia sessuale, attivo perlomeno dal 1968 al 1993 (omicidi Francesco Vinci - Milva Malatesta) e mai entrato nelle indagini.[149] Alcuni elementi, come per esempio il libretto di circolazione trovato fuori posto nella macchina di una coppietta uccisa, oppure la capacità del mostro di avvicinarsi agevolmente alle vetture, portano l'avvocato ad inquadrare il serial killer come un "uomo in divisa". Qualcuno che potrebbe essere capace di interagire con le indagini e, addirittura, conoscere e anticipare alcune mosse degli inquirenti. Secondo il legale, la storia del mostro potrebbe somigliare molto a quella di Caryl Chessman, simbolo del movimento per l'abolizione della pena di morte, che prima di venire giustiziato dichiarò: "Non ero io che fingevo di essere un poliziotto, era un poliziotto vero, che abbagliava le future vittime, con il fanale rosso della polizia messo sulla sua auto".[150]

Radicale è anche la critica di Filastò verso le teorie esoteriche e "di gruppo" sulla vicenda, ritenute antistoriche e criminologicamente incompatibili con delitti seriali di stampo maniacale. Infatti Filastò considera assurda e grottesca l'ipotesi di una setta o un'organizzazione che usava i cosiddetti compagni di merende come manovalanza, e in "Storia delle Merende Infami" viene fatta una comparazione storica tra la caccia alle streghe della Santa Inquisizione e alcune scelte investigative intraprese nel caso.[151]

Ulteriori teorie

Sulla vicenda si riscontrano anche ulteriori ipotesi, più o meno discordanti con i verdetti dei processi. Il caso del Mostro è un evento e un'indagine dalla durata pressoché quarantennale (dal 1968 ad oggi, con i primi quattro omicidi ancora ufficialmente insoluti); è inevitabile dunque una grande varietà di opinioni. Oltre alle più celebri ipotesi "non ufficiali" di Spezi o Filastò, si registrano altre teorie su chi ha commesso i cosiddetti delitti delle coppiette. Secondo il noto criminologo Francesco Bruno, il mostro sarebbe un uomo mai individuato. Un assassino seriale d'intelligenza superiore alla media, mosso da delirio religioso e suggestioni moralistiche, che ha agito sempre da solo sin dal 1968.[152] Invece Francesco Ferri, giudice che assolse Pacciani nel processo d'appello ed autore del polemico Il caso Pacciani. Storia di una colonna infame?[153], si riallaccia all'idea originaria dell'ignoto serial killer lust murder, ipotizzato dal profilo dell'FBI e dalla perizia italiana di De Fazio; l'assassino sarebbe cioè una persona probabilmente affetta da impotenza o iposessuata. Restando ancora nella gamma d'ipotesi dell'autore unico, Ruggero Perugini (ex capo SAM) ha recentemente ribadito, in un convegno del 2010, la sua personale convinzione secondo cui il mostro fosse il solo serial killer Pietro Pacciani «senza compagni di merende né di bevute».[154]

Sul caso sono presenti anche idee alternative più di stampo settario-cospirazionista, che vedono i delitti come fatti di sangue legati a strategie occulte o organizzazioni internazionali: teorie che si basano su libri romanzati e non hanno alcuna base investigativa o tecnico-scientifica.[155] Tornando a teorie che ipotizzano il mostro come legato alla "pista sarda", si segnala l'idea di un detective privato che riporta dubbi e retroscena su uno dei primi sospettati.[156] Sempre sulla possibilità che l'assassino fosse nell'ambiente sardo coinvolto nelle indagini degli anni ottanta, il libro "il mostro di Firenze" di Cecioni e Monastra dedica notevole rilievo alla possibilità che il mostro potesse essere Salvatore Vinci, pur mantenendo un profilo bilanciato che valuta tutte le teorie sul colpevole o i colpevoli.[157] Lo scontro fra "colpevolisti" (termine che intende coloro che credono nella colpevolezza, o comunque nel coinvolgimento, di Pacciani e i compagni di merende) ed "innocentisti" (termine che intende coloro che non condividono le sentenze e ritengono che il mostro non sia mai stato catturato) ha causato, agli inizi e alla metà degli anni 2000, un clima "pesante" di scontro aspro, caratterizzato anche da duri litigi e reciproche querele.[158][159].[160]

Sviluppi recenti della vicenda

La pistola utilizzata dal mostro di Firenze sarebbe stata ritrovata nel 2011 in un armadio della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza.[161] La notizia, potenzialmente sconcertante, risale al 2 marzo 2013.[161] La Beretta ha matricola c3322: tale numero ha permesso di accertare che la pistola è stata venduta il 3 marzo 1960 in un'armeria di Sassari, con tutta probabilità ad un certo Stefano Aresti, amico di Salvatore Vinci, uno degli indagati della pista sarda, che lo stesso anno si era trasferito a Firenze.[161][162] In tutto il mondo ci sono cinque pistole con una matricola che inizia con quelle cifre. Due sono state vendute a New York, una a Roma ed un'altra in Campania: tutte armi ancora possedute dai proprietari, ad eccezione di quella che Aresti non ha più in suo possesso.[162]. La notizia ha però, con il tempo, preso il sapore della bufala. Infatti l'amico/parente di Salvatore Vinci si chiamava Franco Aresti e non Stefano.[163][164] Successivamente poi le analisi del Ris di Roma hanno escluso che si tratti dell'arma del mostro, visto che il modello dell'arma del mostro è assolutamente diverso rispetto a quello dell'arma trovata a Potenza.[165][166]

Filmografia

  • Nel febbraio 1986 esce con poca risonanza e in pochissime città italiane L'assassino è ancora tra noi diretto da Camillo Teti, film realizzato frettolosamente e con pochi mezzi che, pur cavalcando l'onda emotiva dell'ultimo duplice delitto del 1985, passerà del tutto inosservato. Due mesi dopo, distribuito dalla Titanus di Goffredo Lombardo, arriva sugli schermi Il mostro di Firenze, tratto dall'omonimo libro del 1983 del giornalista e scrittore Mario Spezi e diretto da Cesare Ferrario. Il film, che proponeva una efficace ricostruzione degli avvenimenti e una interessante analisi della personalità del mostro, ebbe un buon successo di pubblico, nonostante sia stato al centro di vicende giudiziarie e sia stato osteggiato dalla commissione di censura che ne vietò l'uscita nelle sale cinematografiche di tutta la Toscana.[167] Un altro film che ricalca la vicenda, pur inserendovi elementi di fantasia, è Tramonti fiorentini (noto anche con il titolo 28º minuto oppure Quel violento desiderio), diretto da Gianni Siragusa e, successivamente, da Paolo Frajoli. Tramonti fiorentini, pur essendo stato girato anch'esso nel 1986, fu distribuito nelle sale cinematografiche soltanto nel 1991, a causa del forte contrasto dei parenti delle vittime del mostro che ne stopparono gestazione ed uscita.[168]
  • Nel settembre 2008 l'attore americano Tom Cruise ha acquistato i diritti per portare prossimamente sul grande schermo un adattamento del libro Dolci colline di sangue (The monster of Florence) di Mario Spezi e Douglas Preston, ma poi il progetto è saltato. Il film avrebbe dovuto avere George Clooney nel ruolo del protagonista principale.[169]
  • Un documentario denominato I delitti del mostro di Firenze è andato in onda su Sky nel 2011 per la regia di Paolo Cochi. Il video, della durata di un'ora e mezza, raccoglie le opinioni di molti protagonisti della vicenda fornendo spazio a tutte le ipotesi.[171]

Note

  1. ^ Mostro di Firenze: Vanni condannato in Cassazione Confermato l'ergastolo all'ex postino complice di Pacciani in quattro degli otto delitti. Ribadita anche la condanna (26 anni) al pentito Lotti. "I familiari delle vittime hanno avuto giustizia", è il commento del capo della squadra mobile Giuttari che assicura: "continuiamo a indagare sul mandante", in Quotidiano Nazionale (archiviato dall'url originale il 28 novembre 2013).
  2. ^ Alvaro Fiorucci, 48 small il dottore di Perugia e il mostro di Firenze, Morlacchi, 2012.
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  32. ^ Ho la sensazione che tu mi stia guardando, so che da anni sei schiavo di un incubo. Mostro di Firenze, devi arrenderti. Drammatico appello in tv di un superpoliziotto, in La Stampa, Vicchio, 5 febbraio 1992, p. 10. URL consultato il 1º settembre 2010.
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Bibliografia

Voci correlate

Collegamenti esterni

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