Campo di transito di Bolzano

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Il Campo di transito di Bolzano (ted.: Polizei- und Durchgangslager Bozen) fu un campo di concentramento nazista che fu attivo a Bolzano tra l'estate 1944 e il termine del secondo conflitto mondiale. Era, con Fossoli, Borgo San Dalmazzo e Trieste, uno dei quattro Lager nazisti in Italia.

Storia

Bolzano, dopo l'8 settembre, era divenuta capoluogo della Zona d'Operazione delle Prealpi, e si trovava dunque sotto il controllo dell'esercito tedesco. Quando il campo di Fossoli fu smantellato perché non più sicuro, Bolzano divenne il campo di transito per i prigionieri diretti a Mauthausen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück ed Auschwitz.

Entrò in funzione nell'estate del 1944[1], in ex capannoni del genio militare italiano[2], e nei circa 10 mesi di attività passarono tra le sue mura tra 9.000 e 9.500 persone. Per decenni si è ritenuto che il numero dei prigionieri fosse superiore, perché la matricola più alta assegnata nel campo fu l'11.115, ed era noto che molti prigionieri - a cominciare dai circa 400 ebrei - non vennero immatricolati. In realtà però a Bolzano la numerazione non partì da 1, ma circa da 3.000, proseguendo da dove si era giunti a Fossoli. [3] I deportati provenivano prevalenemente dall'Italia centrale e nordoccidentale. Si trattava principalmente di oppositori politici, ma non mancarono deportati ebrei e zingari[4] e, secondo gli studi più recenti, almeno un Testimone di Geova.

Una parte dei deportati - circa 3.500 persone, uomini, donne e anche diversi bambini - fu trasferita nei campi di sterminio del Reich, una parte fu invece utilizzata in loco, come manodopera gratuita, sia nei laboratori interni al campo, che nelle aziende della vicina zona industriale ed alla IMI, che aveva trovato rifugio all'interno della galleria del Virgolo per sfuggire ai bombardamenti alleati, ma anche come raccoglitori di mele[2].

Durante la storia del campo, 23 italiani che furono catturati e lì internati, furono successivamente trucidati nell'eccidio della caserma Mignone, il 12 settembre 1944. In totale sono documentati circa 60 uccisioni nel campo, con una media di un ucciso ogni 5 giorni.

Man mano che gli alleati avanzavano, i deportati furono liberati a scaglioni tra il 29 aprile ed il 3 maggio 1945, quando il Lager fu definitivamente dismesso. Le SS ebbero cura di distruggere per intero la documentazione relativa al campo prima di ritirarsi[5].

Il campo

In un primo momento il campo era stato progettato per 1.500 persone. A questo scopo, i due capannoni esistenti erano stati divisi in sei blocchi, uno dei quali femminile. Il campo fu poi ingrandito, fino ad avere una capienza di 4.000 prigionieri[6].

I blocchi erano contrassegnati da una lettera. Nel blocco A, erano i lavoratori fissi, trattati leggermente meglio degli altri prigionieri perché necessari al funzionamento del campo; nei blocchi D ed E erano rinchiusi i prigionieri politici considerati più pericolosi, separati dagli altri deportati; nel blocco F donne e bambini [5]. I deportati ebrei di sesso maschile venivano invece stipati nel blocco L[7]. Era presente anche un blocco celle - la prigione del campo - con 50 posti angusti. Le celle furono luogo di tortura e di morte per decine di prigionieri.

Amministrativamente il campo era gestito dall SS di Verona. Comandante della Gestapo e del servizio di sicurezza tedesco in Italia era il Brigadeführer (Generale di brigata) delle SS Wilhelm Harster[2], a capo del campo vi erano invece il tenente Titho ed il maresciallo Haage, che guidavano una guarnigione composta da militari tedeschi, sudtirolesi ed ucraini[5].

I sottocampi

Il campo di Bolzano fu l'unico, tra quelli italiani, ad avere dei campi di lavoro dipendenti. Interrotti dai bombardamenti alleati i collegamenti ferroviari e stradali del Brennero, e quindi impeditie le deportazioni verso i grandi lager del Reish, i nazisti crearono dei sottocampi nella regione per sfruttare il lavoro dei prigionieri. I principali si trovavano in località Maia Alta nel comune di Merano, in località Certosa nel comune di Senales, a Sarentino, a Moso in Passiria ed a Vipiteno. Altri erano a Dobbiaco e Colle Isarco. In realtà, la definizione di sottocampi è piuttosto impropria: si trattava o di baracche (Sarentino) o di caserme dell'esercito (Maia Alta e Vipiteno) o della Guardia di Finanza (Certosa)[7].

Il campo satellite di Certosa

Ospitava circa 50 deportati, deputati al trasporto merci dalla stazione di Senales in paese; in un primo momento furono rinchiusi in baracche in paese, poi nella caserma della Guardia di Finanza[8]. Fu smantellato ad inizio 1945.

Il campo satellite di Merano - Maia Alta

Era il quarto campo satellite per numero di deportati (dopo Sarentino, Vipiteno e Moso[9]), oltre un centinaio, che trovavano posto nella caserma di Maia Alta, presso Merano. Anche in questo campo, compito principale dei deportati era quello di trasportare materiale dalla stazione[10].

Il CLN meranese fu molto attivo nel supporto a questi deportati[9], e si segnalò in modo particolare un sacerdote, don Primo Michelotti[10].

Il campo satellite di Sarentino

Fu di gran lunga il più grande fra i campi satellite. Oltre 500[9] furono i deportati nelle sei baracche costruite all'imbocco della val Sarentina. Compito dei deportati, oltre a lavori di falegnameria[11], era qui soprattutto quello di allargare la strada: la val Sarentina, che corre parallela alla val d'Isarco avrebbe potuto costituire una via di ritirata alternativa[9].

L'origine del campo è dovuta ad una serie di falliti trasferimenti a Mauthausen nel febbraio 1945. La linea del Brennero era stata danneggiata, ed i deportati nel Lager di Bolzano erano diventati troppo numerosi. Le SS decisero dunque di trasferirne una parte all'imboccatura della valle, per poterli utilizzare nel cantiere stradale[12]

La resistenza

Era presente un'organizzazione di resistenza con ramificazioni interne ed esterne al campo. In realtà si può parlare di tre forme distinte e parallele di resistenza[13]: una politica, organizzata dal Comitato di Liberazione Nazionale (prima dall'emanazione locale di quello milanese, fino al dicembre 1944, poi - quando si strutturò - da quello bolzanino) e dalle brigate partigiane; una organizzata dal clero (molti furono i sacerdoti arrestati e deportati per aver fornito aiuto agli internati nel Lager); una spontanea, fatta di semplici cittadini che portavano aiuto autonomamente, magari a parenti internati. L'attività coinvolse decine di persone che riuscivano a far giungere notizie dei deportati al di fuori delle mura, e viceversa[5]. Per tutta la vita del campo funzionò un comitato clandestino di resistenza interno - coordinato da Ada Buffulini e da Armando Sacchetta - che lavorò in costante contatto con un comitato clandestino operante nella città di Bolzano e che fu diretto fino al 19 dicembre 1944, data del suo arresto, da Ferdinando Visco Gilardi "Giacomo" e quindi, fino alla liberazione, da Franca Turra "Anita". Grazie a questa rete furono fatti pervenire ai prigionieri del lager centinaia di pacchi con generi di prima necessità, viveri e vestiario, e si mantenne attiva e operante una rete clandestina di corrispondenza che consentì a centinaia di famiglie di avere notizie dirette dai prigionieri: quelle lettere sono in moltissimi casi l'ultimo segno di vita di deportati uccisi nei lager nazisti.

La rete interna organizzò e realizzò con successo decine di fughe dal campo: ne sono documentate una cinquantina.[13].

I processi

Nel novembre 2000 il tribunale militare di Verona ha condannato all'ergastolo Michael Seifert, pena confermata poi in appello (2002) ed in cassazione (2003)[14]. Questi, nato in Ucraina, fu da giovanissimo una SS al campo di Bolzano, noto col soprannome di Misha. Si era reso protagonista, insieme ad una altra SS ucraina, Otto Sain, di una lunga serie di atrocità nei confronti dei deportati. Vittime preferite, secondo quanto stabilito dai giudici, coloro che occupavano il blocco celle.

Si tratta di uno di quei casi giudiziari, come ad esempio quello per l'Eccidio di Sant'Anna di Stazzema, rimasti sepolti per decenni in quello che è stato soprannominato l'armadio della vergogna, riportato alla luce solo nel 1994. Tra i prigionieri di Seifert e Sein vi fu anche un giovanissimo Mike Bongiorno[15].

Seifert, che dopo la guerra si era rifugiato in Canada, a Vancouver, dovette rispondere di 15 capi di accusa, tra cui 18 omicidi[16]. Fu rintracciato e fotografato da un cronista del Vancouver Sun, su indicazione dell'ANED [17], pochi giorni prima dell'inizio del processo..

La sua vicenda, attraverso le carte processuali, è stata ricostruita dagli storici Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo nel libro "Mischa". L'aguzzino del Lager di Bolzano[18]. Il 17 gennaio 2008 la Corte Suprema del Canada[19], dove risiedeva dal 1951, ha respinto la domanda per il permesso di appello dell'ottantatreenne criminale contro la sua estradizione in Italia, dove dovrà scontare l'ergastolo[20]. Seifert è giunto in Italia il 16 febbraio 2008.[21]

Otto Sain risulta ancora ricercato dalla giustizia italiana[14].

Alcuni anni prima, nel 1999, finirono sotto processo anche i comandanti del campo, Titho e Haage: il primo fu assolto per insufficienza di prove, contro il secondo, ritenuto dai giudici il vero padrone dei campi, non si poté procedere perché deceduto[22].

Il campo oggi

Del campo di Bolzano, oggi, rimangono poche tracce. Dove sorgeva il campo ora sorgono condomini. Sopravvive però parte del muro di cinta, valorizzato da un percorso corredato di illustrazioni che ricordano il tragico luogo.

Nel 2005 il comune ha bandito un concorso per una serie di quattro installazioni artistiche a ricordo dei deportati. Le opere vincitrici, della scultrice bolzanina Christine Tschager, si trovano nei pressi dell'ex-Lager, in via Pacinotti (lungo i binari che attraversavano la zona industriale di Bolzano e su cui passavano i treni da e per il campo) ed in via Claudia Augusta (non lontano dalla galleria del Virgolo, luogo di lavoro coatto dove era stata trasferita la fabbrica IMI)[23].

Già nel 1985 il comune aveva fatto erigere un monumento (opera di Claudio Trevi) ed una stele in memoria delle vittime del campo, ma non nell'area del campo stesso: sorge infatti sul sagrato della chiesa di San Pio X, poco distante da dove si trovava l'ingresso del lager, ma sull'altro lato della via Resia.[24]

Note

  1. ^ Una datazione più precisa è difficile. Per alcune fonti il campo era attivo già nel maggio 1944, per altre ad inizio di luglio. Certamente i primi trasporti da Fossoli furono effettuati alla fine del mese di luglio. Per le diverse ipotesi, si veda il sito di Romacivica.net, che riporta le tesi raccolte dall'ANPI di Bolzano.
  2. ^ a b c Lager e Deportazione. Bolzano. Cenni storici (DOC), su lageredeportazione.org, 2001. URL consultato il 26-11-2007.
  3. ^ L'ANPI di Bolzano parla di almeno 11.116 persone, ma la cifra viene considerata certamente errata per difetto. Altre fonti, ad esempio www.lager.it, indicano come cifra minima 11.115.
  4. ^ il Lager di Bolzano - NS-Lager Bozen (PDF), su comune.bolzano.it, Comune di Bolzano. URL consultato il 26-11-2007.
  5. ^ a b c d Campo di concentramento-transito di BOLZANO-GRIES (Italia), su lager.it, www.lager.it. URL consultato il 27-11-2007.
  6. ^ Il Lager di Bolzano - Gries, su anpi.it, www.anpi.it. URL consultato il 29-11-2007.
  7. ^ a b I campi italiani: Bolzano, su romacivica.net. URL consultato il 27-11-2007.
  8. ^ I campi satellite di Bolzano - Certosa, su deportati.it. URL consultato il 01-12-2007.
  9. ^ a b c d Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7.982 storie individuali (PDF), 2ª ed., Milano, Mimesis, 2004, ISBN 9788884832245. URL consultato il 1º dicembre 2007.
  10. ^ a b I campi satellite di Bolzano - Merano, su deportati.it. URL consultato il 01-12-2007.
  11. ^ I campi satellite di Bolzano - Sarentino, su deportati.it. URL consultato il 01-12-2007.
  12. ^ Carla Giacomozzi, L'ombra del buio, Bolzano, Comune di Bolzano, 1995.
  13. ^ a b Andrea Felis, La Resistenza, in Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7.982 storie individuali, Milano, Mimesis, 2004, ISBN 9788884832245.
  14. ^ a b Ergastolo a Michael Seifert, su anpi.it, ANPI. URL consultato il 01-12-2007.
  15. ^ Piero Colaprico, Boia Bolzano, parla Mike Bongiorno. "Ricordo ancora le urla e le botte", su repubblica.it, 16-02-2008. URL consultato il 02-04-2008.
  16. ^ Le accuse contro Michael Seifert, su anpi.it, ANPI. URL consultato il 01-12-2007.
  17. ^ Immagini di Michael Seifert a Vancouver (Canada), su deportati.it. URL consultato il 16 dicembre 2008.
  18. ^ Giorgio Mezzalira, Carlo Romeo, "Mischa". L'aguzzino del Lager di Bolzano (PDF), Bolzano, ANPI, 2002. URL consultato il 1º dicembre 2007.
  19. ^ (EN) Supreme Court of Canada - Judgments in leave applications, su scc.lexum.umontreal.ca, 17-01-2008. URL consultato il 23-01-2008.
  20. ^ (EN) War-crimes fugitive loses appeal bid, su canada.com, 17-01-2008. URL consultato il 23-01-2008.
    (EN) Ex-Nazi guard loses Canadian extradition appeal, su ca.reuters.com, 17-01-2008. URL consultato il 23-01-2008.
    (EN) Top court won't review war criminal's extradition, su thestar.com, 17-01-2008. URL consultato il 23-01-2008.
  21. ^ Estradato in Italia il boia di Bolzano. Nel lager era il "Micha" del terrore, su repubblica.it, 15-02-2008. URL consultato il 02-04-2008.
    In Italia il boia di Bolzano. Michael Seifert in carcere, su repubblica.it, 16-02-2008. URL consultato il 02-04-2008.
  22. ^ Fossoli, il silenzio sulla strage. Vi morirono Rino Molari, Walter Ghelfi e Edo Bertaccini, su digilander.libero.it. URL consultato il 01-12-2007.
  23. ^ Tre siti della memoria della deportazione a Bolzano. Opere di Christine Tschager, su comune.bolzano.it, Comune di Bolzano, 25-04-2005. URL consultato il 02-06-2008.
  24. ^ Claudio Trevi scultore - il percorso urbano, su provinz.bz.it, Provincia autonoma di Bolzano. URL consultato il 05-12-2008.

Bibliografia