Sterminio tramite il lavoro

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Campo di concentramento di Mauthausen, prigionieri sulla scala della morte nella cava.

Lo sterminio tramite il lavoro (in tedesco: Vernichtung durch Arbeit) fu la pratica usata nei campi di concentramento della Germania nazista per uccidere i prigionieri sfruttando il lavoro forzato.[1] Nell'ambito dell'Olocausto il lavoro forzato aveva un duplice scopo: fornire forza lavoro utile ai nazisti e uccidere i prigionieri che altrimenti avrebbero dovuto essere uccisi con altri metodi.

Fu il risvolto crudele della frase Arbeit macht frei ("Il lavoro rende liberi"), frase presente sui cancelli di più campi di concentramento. Il lavoro è stato organizzato per essere assolutamente distruttivo. I detenuti dei campi di concentramento lavoravano fino a 12 ore al giorno con pochissimo cibo, vestiti o cure mediche; mediamente la vita media di un prigioniero fu di 4 mesi.

Alcuni storici, in particolare Aleksandr Solženicyn, affermano che anche il sistema sovietico dei gulag fosse una forma di sterminio attraverso il lavoro; altre affermazioni simili sono state fatte sul sistema Laogai nella Cina di Mao Zedong.

Terminologia[modifica | modifica wikitesto]

La frase "sterminio tramite il lavoro" non fu usata dalle SS. Tuttavia, fu specificamente impiegato da Joseph Goebbels e Otto Georg Thierack alla fine del 1942 nei negoziati che li vedevano coinvolti insieme a Albert Bormann e Heinrich Himmler, relativi al trasferimento dei prigionieri nei campi di concentramento.[2] La frase fu usata di nuovo durante i processi di Norimberga del dopoguerra.[2]

Negli anni '80 e '90, gli storici iniziarono a discutere dell'uso appropriato dei termini: secondo Falk Pingel la frase non doveva essere applicata a tutti i prigionieri nazisti, mentre Hermann Kaienburg e Miroslav Kárný credevano che "lo sterminio attraverso il lavoro" fosse un obiettivo coerente delle SS, infine secondo Jens-Christian Wagner non tutti i prigionieri nazisti furono presi di mira con l'annientamento.[2]

Il caso della Germania nazista[modifica | modifica wikitesto]

I nazisti perseguitarono molte persone a causa della loro razza, appartenenza politica, disabilità, religione o orientamento sessuale.[3][4] Nei gruppi emarginati dalla maggioranza della popolazione tedesca furono inclusi anche le famiglie con molti figli a carico, i presunti vagabondi e i migranti, nonché i membri dei gruppi di alcolisti e le prostitute. Sebbene queste persone fossero considerate "di sangue tedesco", furono anche classificate come "disadattati sociali" (Asoziale) e come "zavorre viventi" superflue (Ballastexistenzen).

Questi gruppi furono registrati negli elenchi, così come gli omosessuali, dalle autorità civili e di polizia e poi soggetti a una miriade di restrizioni statali e di azioni repressive, tra cui la sterilizzazione forzata e infine la reclusione nei campi di concentramento. Chiunque si opponesse apertamente al regime nazista (come comunisti, socialdemocratici, democratici e obiettori di coscienza) veniva detenuto nei campi di prigionia e molti di loro non sopravvissero al calvario.[3]

Mentre le altre categorie di persone poterono riscattarsi agli occhi dei nazisti, la Germania inizialmente incoraggiò e sostenne l'emigrazione degli ebrei in Palestina e anche altrove tra il 1933 e il 1941, con accordi come l'Accordo dell'Haavara o il Piano Madagascar. Nel 1942, la leadership nazista si riunì per discutere quella che fu definita "la soluzione finale alla questione ebraica" in una conferenza a Wannsee, in Germania. La trascrizione di questo incontro offre agli storici il pensiero della dirigenza nazista con i dettagli della futura distruzione degli ebrei, incluso l'uso dello sterminio attraverso il lavoro come una componente della loro cosiddetta "soluzione finale".[5]

(EN)

«Under proper leadership, the Jews shall now in the course of the Final Solution be suitably brought to their work assignments in the East. Able-bodied Jews are to be led to these areas to build roads in large work columns separated by sex, during which a large part will undoubtedly drop out through a process of natural reduction. As it will undoubtedly represent the most robust portion, the possible final remainder will have to be handled appropriately, as it would constitute a group of naturally-selected individuals, and would form the seed of a new Jewish resistance.»

(IT)

«Sotto la guida appropriata, gli ebrei devono ora, nel corso della Soluzione Finale, essere adeguatamente portati ai loro incarichi di lavoro in Oriente. Gli ebrei normodotati devono essere condotti in queste aree per costruire strade in grandi colonne di lavoratori separati per sesso, durante le quali una buona parte abbandonerà senza dubbio attraverso un processo di riduzione naturale. Poiché rappresenterà senza dubbio la parte più robusta, l'eventuale residuo finale dovrà essere gestito in modo appropriato, poiché costituirebbe un gruppo di individui selezionati naturalmente e formerebbe il seme di una nuova resistenza ebraica.»

Nei campi nazisti, questa modalità fu usata principalmente attraverso quello che nei successivi processi di Norimberga fu definito "lavoro da schiavi" e "lavoratori schiavi",[3] in contrasto con il lavoro forzato delle forze di lavoro straniere:

  • le condizioni di lavoro non prevedevano alcuna forma di retribuzione;
  • c'era sorveglianza costante sulla manodopera sfruttata fisicamente (ad esempio, nella costruzione di strade, nei lavori agricoli e in fabbrica, in particolare nell'industria delle armi);
  • l'orario di lavoro era eccessivo (spesso da 10 a 12 ore al giorno);
  • la nutrizione era minima per il razionamento alimentare;
  • la forte mancanza di igiene e la scarsa assistenza medica, insieme al vestiario insufficiente (ad esempio, i vestiti estivi usati anche in inverno), provocò malattie ed epidemie.

Furono usate anche alcune forme di tortura e di abusi fisici. Torstehen ("porta in piedi") per constringere le vittime a stare fuori nude con le braccia alzate. Quando crollavano o svenivano, venivano picchiati fino a quando non riprendevano la posizione. Pfahlhängen ("post attaccamento") implicava legare le mani del detenuto dietro la schiena e poi appenderle per le mani a un alto palo: questa tecnica provocava uno strappo ai muscoli e la slogatura delle braccia all'altezza dell'articolazione delle spalle, sarebbe fatale entro poche ore.[6]

Memoriale del campo di concentramento di Dachau, cancello nell'ex edificio d'ingresso del campo di concentramento di Dachau

Campi di concentramento[modifica | modifica wikitesto]

La reclusione nei campi di concentramento mirò non solo a sfruttare, ma anche a distruggere il detenuto. L'ammissione e la registrazione dei nuovi prigionieri, il lavoro forzato, l'alloggio dei prigionieri, gli appelli, e più in generale tutti gli aspetti della vita del campo, furono accompagnati da continue umiliazioni e molestie.[7]

Molti dei campi di concentramento incanalarono il lavoro forzato a beneficio della macchina da guerra tedesca. In questi casi le SS sfruttarono l'orario di lavoro eccessivo come mezzo per massimizzare la produzione. Oswald Pohl, il leader delle SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt che sovrintendeva all'impiego del lavoro forzato nei campi di concentramento, il 30 aprile 1942 ordinò:[8]

(EN)

«The camp commander alone is responsible for the use of man power. This work must be exhausting in the true sense of the word in order to achieve maximum performance. [...] There are no limits to working hours. [...] Time consuming walks and mid-day breaks only for the purpose of eating are prohibited. [...] He [the camp commander] must connect clear technical knowledge in military and economic matters with sound and wise leadership of groups of people, which he should bring together to achieve a high performance potential.»

(IT)

«Solo il comandante del campo è responsabile dell'uso della forza umana. Questo lavoro deve essere estenuante nel vero senso della parola per ottenere il massimo delle prestazioni. [...] Non ci sono limiti all'orario di lavoro. [...] Sono vietate sia le lunghe passeggiate che le pause di mezzogiorno solo per mangiare. [...] Egli [il comandante del campo] deve collegare una chiara conoscenza tecnica in questioni militari ed economiche con una guida sana e saggia dei gruppi di persone, che dovrebbe tenere uniti per raggiungere il massimo potenziale di rendimento.»

Ad Auschwitz morirono fino a 25.000 dei 35.000 prigionieri incaricati di lavorare per la IG Farben. L'aspettativa di vita media di un lavoratore era inferiore ai quattro mesi.[9][10] I lavoratori emaciati morirono per sfinimento o malattia, o furono ritenuti incapaci di lavorare e quindi uccisi. Morì circa il 30% dei lavoratori assegnati a scavare i tunnel per nascondere le fabbriche di armi durante gli ultimi mesi di guerra.[11] Nei campi satellite, stabiliti in prossimità di miniere e complessi industriali, si raggiunsero i tassi di mortalità più elevati poiché le condizioni di vita furono spesso più proibitive che nei campi principali.

La frase Arbeit macht frei, "Il lavoro rende liberi", poté essere trovata in vari punti dei campi di concentramento nazisti: il campo di concentramento di Buchenwald era l'unico campo con il motto Jedem das Seine, "A ciascuno ciò che si merita", sul cancello d'ingresso.

Il caso dell'Unione Sovietica[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Gulag.

Il Gulag sovietico è talvolta presentato come un sistema di campi di sterminio,[12][13][14][15] in particolare nella politica post-comunista dell'Europa orientale.[16] Questa visione è stata criticata, considerando che ad eccezione degli anni della guerra, la grandissima maggioranza delle persone che entrarono nei Gulag rimase viva.[17]

Alexander Solzhenitsyn ha introdotto l'espressione campi di sterminio tramite lavoro nel suo saggio Arcipelago Gulag.[18] Secondo la sua visione, il sistema sradicò gli oppositori costringendoli a lavorare come prigionieri su grandi progetti statali (ad esempio il canale Mar Bianco-Mar Baltico, cave, ferrovie remote e progetti di sviluppo urbano) in condizioni disumane.

Lo scrittore politico Roj Medvedev afferma: "Il sistema penale nel Kolyma e nei campi del nord è stato deliberatamente progettato per lo sterminio delle persone".[15] Lo storico sovietico Aleksandr Nikolaevič Jakovlev approfondisce questo argomento, sostenendo che Stalin era "l'architetto del sistema dei gulag per distruggere totalmente la vita umana".[19]

La teorica politica Hannah Arendt ha sostenuto che sebbene il governo sovietico li considerasse tutti campi di "lavoro forzato", in realtà il lavoro in alcuni dei campi era deliberatamente inutile, poiché "il lavoro forzato è la condizione normale di tutti i lavoratori russi, che non hanno nessuna libertà di movimento e può essere applicato arbitrariamente per lavorare in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento".[20] Nei suoi studi ha differenziato tra campi di lavoro forzato "autentici", campi di concentramento e "campi di annientamento": nei campi di lavoro autentici, i reclusi hanno lavorato in "relativa libertà e sono condannati per periodi limitati"; nei campi di concentramento i tassi di mortalità erano estremamente elevati e tuttavia erano ancora "essenzialmente organizzati per scopi di lavoro"; i campi di annientamento erano quelli in cui i detenuti venivano "sistematicamente spazzati via dalla fame e dall'incuria". Critica la conclusione di altri commentatori secondo cui lo scopo dei campi era una fornitura di manodopera a basso costo. Secondo lei, i sovietici furono in grado di liquidare il sistema dei campi senza gravi conseguenze economiche, dimostrando che i campi non erano un'importante fonte di lavoro ed erano nel complesso irrilevanti dal punto di vista economico.[20]

Secondo dei documenti interni dei Gulag precedentemente segreti, circa 1,6 milioni di persone potrebbero essere morte nel periodo tra il 1935 e il 1956 nei campi di lavoro e nelle colonie sovietiche (esclusi i campi per i prigionieri di guerra). Circa 900.000 di queste morti cadono tra il 1941 e il 1945,[21] in coincidenza con la seconda guerra mondiale, quando i livelli di approvvigionamento alimentare furono minimi in tutto il paese.

Queste cifre sono coerenti con i documenti archiviati che lo storico russo Oleg Chlevnjuk presenta e analizza nel suo studio The History of the Gulag: From Collectivization to the Great Terror, secondo il quale circa 500.000 persone morirono nei campi e nelle colonie dal 1930 al 1941.[22] Khlevniuk sottolinea che queste cifre non tengono conto dei decessi avvenuti durante il trasporto[23] e sono esclusi anche coloro che morirono poco dopo la loro liberazione a causa del duro trattamento nei campi,[24] che secondo gli archivi e le memorie erano numerosi.[25]

Lo storico J. Otto Pohl[26] afferma che 2.749.163 prigionieri perirono nei campi di lavoro, colonie e insediamenti speciali, sottolineando che si tratta di una cifra ancora incompleta.[27]

Il caso della Cina maoista[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Laogai.

Come il sistema sovietico, il governo cinese di Mao Zedong incluse anch'esso un sistema carcerario di lavoro forzato noto come Laogai o "riforma attraverso il lavoro". Secondo Jean-Louis Margolin durante la campagna per la soppressione dei controrivoluzionari, la durezza del sistema carcerario ufficiale raggiunse dei livelli senza precedenti ed il tasso di mortalità, fino al 1952, era "certamente superiore" del 5% all'anno e fino a raggiungere il 50% in sei mesi nel Guangxi.[28] Nello Shanxi, più di 300 persone al giorno morirono in miniera.[28] La tortura era all'ordine del giorno e la repressione delle rivolte, che furono piuttosto numerose, sfociò in "veri e propri massacri".[28]

In Mao: The Unknown Story, la biografa di Mao Jung Chang e lo storico Jon Halliday stimano che forse 27 milioni di persone morirono nelle prigioni e nei campi di lavoro durante il governo di Mao Zedong:[29] affermano che i detenuti furono soggetti a lavori spietati nelle terre più ostili e che le esecuzioni ed i suicidi, con qualsiasi mezzo, erano all'ordine del giorno.[29]

Ne Il libro nero del comunismo, Jean-Louis Margolin descrive la storia delle repressioni da parte degli stati comunisti, e afferma che forse 20 milioni di persone morirono nel sistema carcerario.[30] Il professor Rudolph Rummel stima il numero di democidi da lavoro forzato a 15.720.000, escludendo "tutti quei contadini collettivizzati, malnutriti e malvestiti che avrebbero lavorato fino alla morte nei campi".[31] Harry Wu calcola il bilancio delle vittime a 15 milioni.[32]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ European History Quarterly, vol. 39, n. 4, 2009, pp. 606–632, DOI:10.1177/0265691409342658, https://oadoi.org/10.1177/0265691409342658.
  2. ^ a b c Buggeln Marc, Slave Labor in Nazi Concentration Camps, Oxford University Press, 2014, p. 63, ISBN 9780198707974. URL consultato il 19 agosto 2015.
  3. ^ a b c Robert Gellately e Nathan Stoltzfus, Social Outsiders in Nazi Germany, Princeton University Press, 2001, p. 216, ISBN 978-0-691-08684-2.
  4. ^ Richard Weikar, Hitler's Ethic, p. 73.
  5. ^ a b Wannsee Protocol, su prorev.com, 20 gennaio 1942. URL consultato il 17 maggio 2021 (archiviato dall'url originale il 19 settembre 2018). La traduzione ufficiale del governo degli U.S.A. preparata come prova nel processo di Norimberga.
  6. ^ Pratica in uso già dal Medioevo e nota come Tratto di corda.
  7. ^ Wachsmann Nikolaus, 1. Early camps, in KL: A History of the Nazi Concentration Camps, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2015, p. 44, ISBN 9781429943727. URL consultato il 30 gennaio 2019.
  8. ^ IMT, Der Nürnberger Prozess, XXXVIII, p. 366 / document 129-R.
  9. ^ The number of victims, su Memorial and Museum: Auschwitz-Birkenau. URL consultato il 24 maggio 2016.
  10. ^ Auschwitz Museum e Raul Hilberg, Die Vernichtung der europäischen Juden, vol. 2, estesa, Frankfurt, 1990, p. 994f, ISBN 3-596-24417-X.
  11. ^ Michael Zimmermann, Kommentierende Bemerkungen – Arbeit und Vernichtung im KZ-Kosmos, in Ulrich Herbert et al. (a cura di), Die nationalsozialistischen Konzentrationslager, vol. 2, Frankfurt, 2002, p. 744, ISBN 3-596-15516-9.
  12. ^ Gunnar Heinsohn, Lexikon der Völkermorde, Rowohlt rororo, 1998, ISBN 3-499-22338-4.
  13. ^ Joel Kotek e Pierre Rigoulot, Gefangenschaft, Zwangsarbeit, Vernichtung, Propyläen, 2001.
  14. ^ Ralf Stettner, Archipel Gulag. Stalins Zwangslager, Schöningh, 1996, ISBN 3-506-78754-3.
  15. ^ a b Roy Medwedew, Die Wahrheit ist unsere Stärke. Geschichte und Folgen des Stalinismus, a cura di David Joravsky e Georges Haupt, Frankfurt am Mein, Fischer, 1973, ISBN 3-10-050301-5.
  16. ^ Małgorzata Pakier e Bo Stråth, A European Memory?: Contested Histories and Politics of Remembrance, Berghahn Books, 15 luglio 2013, ISBN 9780857456052. URL consultato il 2 gennaio 2017. Ospitato su Google Books.
  17. ^ Timothy Snyder, Hitler vs. Stalin: Who Killed More?, in The New York Review of Books, 10 marzo 2011. URL consultato il 2 gennaio 2017.
  18. ^ Alexander Solzhenitsyn, Arkhipelag Gulag, vol. 2, Novyy Mir, 1990.
  19. ^ Aleksandr Nikolaevič Jakovlev, A Century of Violence in Soviet Russia., Yale University Press, 2002, p. 15, ISBN 0-300-08760-8.
  20. ^ a b Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, 1985, pp. 444-445.
  21. ^ (RU) A. I. Kokurin e N. V. Petrov, GULAG (Glavnoe Upravlenie Lagerej): 1918–1960 (Rossija. XX vek. Dokumenty), Mosca, Materik, 2000, pp. 441–442, ISBN 5-85646-046-4.
  22. ^ Oleg V. Khlevniuk, The History of the Gulag: From Collectivization to the Great Terror, New Haven, Yale University Press, 2004, pp. 326-327, ISBN 0-300-09284-9.
  23. ^ Oleg V. Khlevniuk, The History of the Gulag: From Collectivization to the Great Terror, New Haven, Yale University Press, 2004, pp. 306-308, ISBN 0-300-09284-9.
  24. ^ Ellman, Michael, Soviet Repression Statistics: Some Comments (PDF), in Europe-Asia Studies, vol. 54, n. 7, 2002, pp. 1151-1172.
  25. ^ Anne Applebaum, Gulag: A History, Doubleday, 2003, p. 583, ISBN 0-7679-0056-1.
  26. ^ J. Otto Pohl, su scholar.google.com. URL consultato il 14 agosto 2023.
  27. ^ Pohl, The Stalinist Penal System, p. 131.
  28. ^ a b c Stephane Courtois, The Black Book of Communism, Harvard University Press, 1999, pp. 481-482, ISBN 0-674-07608-7.
  29. ^ a b Chang Jung e Halliday Jon, Mao: The Unknown Story, Londra, Jonathan Cape, 2005, p. 338.
  30. ^ Stephane Courtois e Jean-Louis Margolin, The Black Book of Communism: Crimes, Terror, Repression, Harvard University Press, 1999, pp. 464], ISBN 0-674-07608-7.
  31. ^ R. J. Rummel, China's Bloody Century: Genocide and Mass Murder Since 1900, Transaction Publishers, 1991, pp. 214-215, ISBN 0-88738-417-X.
  32. ^ Aikman, David., The Laogai Archipelago, The Weekly Standard, 29 settembre 1997. URL consultato il 17 maggio 2021 (archiviato dall'url originale l'8 marzo 2021).

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

in italiano[modifica | modifica wikitesto]

in inglese[modifica | modifica wikitesto]

in tedesco[modifica | modifica wikitesto]

  • (DE) Stéphane Courtois, Das Schwarzbuch des Kommunismus, Unterdrückung, Verbrechen und Terror, Piper, 1998, ISBN 3-492-04053-5.
  • (DE) Jörg Echternkamp, Die deutsche Kriegsgesellschaft: 1939 bis 1945: Halbband 1. Politisierung, Vernichtung, Überleben, Stoccarda, Deutsche Verlags-Anstalt, 2004, ISBN 3-421-06236-6.
  • (DE) Hermann Kaienburg, Vernichtung durch Arbeit. Der Fall Neuengamme (Extermination through labour: Case of Neuengamme), Bonn, Dietz Verlag J.H.W. Nachf, 1990, p. 503, ISBN 978-3-8012-5009-6.
  • (DE) Joel Kotek e Pierre Rigoulot, Das Jahrhundert der Lager.Gefangenschaft, Zwangsarbeit, Vernichtung, Propyläen, 2001, ISBN 3-549-07143-4.
  • (DE) Rudolf A. Mark, Vernichtung durch Hunger: der Holodomor in der Ukraine und der UdSSR, Berlino, Wissenschaftlicher Verlag Berlin, 2004, ISBN 3-8305-0883-2.
  • (DE) Gerd Wysocki, Arbeit für den Krieg (Work for the War), Braunschweig, 1992.

in altre lingue[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]