Utente:MirrorOfThePast/Sandbox/2

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Il Gattopardo
Claudia Cardinale e Burt Lancaster nella celebre scena simbolo del ballo finale
Paese di produzioneItalia, Francia
Anno1963
Durata187 min
205 min (versione estesa)
Dati tecniciEastmancolor
rapporto: 2,21:1 (stampa 70 mm)
2,35:1 (stampa 35 mm)
2,25:1 (negativo)
Generestorico, drammatico
RegiaLuchino Visconti
SoggettoGiuseppe Tomasi di Lampedusa (romanzo)
SceneggiaturaSuso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti
ProduttoreGoffredo Lombardo
Produttore esecutivoPietro Notarianni
Casa di produzioneTitanus, Société Nouvelle Pathé Cinéma
Distribuzione in italianoTitanus
FotografiaGiuseppe Rotunno
MontaggioMario Serandrei
MusicheNino Rota
ScenografiaMario Garbuglia
CostumiPiero Tosi, Reanda, Sartoria Safas
Interpreti e personaggi
Doppiatori originali

Il Gattopardo è un film del 1963 diretto da Luchino Visconti.

Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia tra il 1860 e il 1910, in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia Ciminna, Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).

Il film ha vinto la Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes.[1]

Trama[modifica | modifica wikitesto]

Nel maggio 1860, dopo lo sbarco a Marsala di Garibaldi in Sicilia, Don Fabrizio assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia. Vedendo come gli amministratori e i latifondisti della nuova classe sociale in ascesa approfittano della nuova situazione politica, la classe dei nobili capisce che ormai è prossima la fine della loro superiorità.

Don Fabrizio di Salina in una scena del film.

Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote prediletto Tancredi che, pur combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gli eventi a proprio vantaggio e cita la famosa frase: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi". Specchio della realtà siciliana, questa frase simboleggia la capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia all'amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto per forza sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: "... E dopo sarà diverso, ma peggiore."

Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Calogero Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito, che si è arricchito e ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in precedenza aveva manifestato qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, s'innamora di Angelica, figlia di don Calogero, che infine sposerà, sicuramente attratto dal suo notevole patrimonio.

Episodio significativo è l'arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno d'Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano, citando come risposta al cavaliere la frase: "In Sicilia non importa far male o bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'".

Il connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è un cambiamento ormai inconfutabile: Don Fabrizio ne avrà la conferma durante un grandioso ballo, al termine del quale inizierà a meditare sul significato dei nuovi eventi e a fare un sofferto bilancio della sua vita.

Produzione[modifica | modifica wikitesto]

Difficoltà produttive[modifica | modifica wikitesto]

Luchino Visconti e Burt Lancaster sul set esterno de Il Gattopardo (1963), in piazza Croce dei Vespri, Palermo.

Nel 1958 il produttore Goffredo Lombardo, patron della Titanus, acquistò i diritti del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando Il Gattopardo stava riscuotendo un grande successo editoriale. La regia venne affidata inizialmente a Mario Soldati e poi ad Ettore Giannini, che però vennero entrambi licenziati da Lombardo per divergenze sulla realizzazione della pellicola e sostituiti con Luchino Visconti[2][3]. Ettore Giannini scrisse addirittura una bozza di sceneggiatura che approfondiva le vicende risorgimentali, allontanandosi però dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e mettendo in secondo piano la storia d'amore tra Tancredi e Angelica: per queste ragioni, Lombardo, con la mediazione di Visconti, incaricò Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli e Massimo Franciosa di scrivere una nuova sceneggiatura, accantonando quella di Giannini, che rimase molto offeso dal comportamento del produttore e per questo si ritirò per sempre dal mondo del cinema[3].

Il 27 marzo 1963, al cinema Barberini di Roma, il film uscì in anteprima dopo una lavorazione che aveva richiesto quindici intensi mesi, iniziata alla fine del dicembre 1961, mentre il primo ciak ebbe luogo lunedì 14 maggio 1962. Nell'autunno precedente, il regista, insieme allo scenografo Mario Garbuglia e al figlio adottivo di Giuseppe, Gioacchino Lanza Tomasi, aveva effettuato un sopralluogo in Sicilia, che non era certo valso a dissipare le preoccupazioni del produttore Goffredo Lombardo. Lo stesso Lombardo raccontò in un'intervista che, recatosi sui set per raccomandare a Visconti di contenere i costi che crescevano sempre di più, ricevette questa risposta dal regista: "Lombardo, io questo film lo posso fare solo così. Se lei vuole, mi può sostituire"[3].

L'investimento richiesto da questo colossal italiano si rivelò infatti presto superiore a quanto previsto dalla Titanus allorché ne aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato accordo di co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel ruolo di protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti (che avrebbe preferito che a vestire i panni di Don Fabrizio fosse Laurence Olivier o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov[4]), e forse dello stesso attore,[5] permise un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th Century Fox.

Ciononostante, le perdite subite dal film Sodoma e Gomorra e da questo film, costato quasi tre miliardi di lire, causarono la sospensione dell'attività della Titanus come produttrice cinematografica[6].

Riprese[modifica | modifica wikitesto]

Per quanto, come si è detto, la narrazione oggettiva degli eventi sia oscurata e marginalizzata nel film dallo sguardo soggettivo del protagonista-regista, un grande impegno fu posto nella ricostruzione degli scontri tra garibaldini ed esercito borbonico. A Palermo nei vari set prescelti (piazza San Giovanni Decollato, piazza della Vittoria allo Spasimo, piazza Sant'Euno, piazza della Marina) "l'asfalto fu ricoperto di terra battuta, le saracinesche sostituite da persiane e tende, pali e fili della luce eliminati".[7] Tutto questo per iniziativa di Visconti, poiché il produttore Lombardo si era raccomandato che non vi fossero scene di combattimento.

Villa Boscogrande

Si rese inoltre necessario il restauro, avvenuto in 24 giorni, della villa Boscogrande, nei pressi della città, che sostituì, per le scene iniziali del film, il palazzo dei Salina, le cui condizioni ne sconsigliavano l'utilizzo.

Anche per le scene girate nella residenza estiva dei Salina, Castello di Donnafugata, che nel romanzo sostituiva Palma di Montechiaro, si scelse un sito alternativo, Ciminna. "Visconti s'infatuò per la Chiesa Madre e il paesaggio circostante. L'edificio a tre navate presentava uno splendido pavimento in maiolica. L'abside decorata con stucchi rappresentanti apostoli e angeli di Scipione Li Volsi (1622) era inoltre provvista di scranni lignei del 1619 intagliati con motivi grotteschi, particolarmente adatti ad accogliere i principi nella scena del Te Deum. Il soffitto originale della chiesa, in parte danneggiato durante le riprese è stato poi rimosso e oggi non è più in sito.

Inoltre la situazione topografica della piazzetta di Ciminna sembrava ottimale, mancava solo il palazzo del principe. Ma in 45 giorni la facciata disegnata da Marvuglia fu innalzata davanti agli edifici a fianco della chiesa. L'intera pavimentazione della piazza fu rifatta eliminando l'asfalto e rimpiazzandolo con ciottoli e lastre"[7] Gran parte delle riprese ambientate all'interno della residenza furono girate a Palazzo Chigi di Ariccia.[4]

Infine, varie scene sono state girate internamente ad alcune sale del palazzo Manganelli a Catania.

Gli interni di Palazzo Valguarnera-Gangi

Il ballo[modifica | modifica wikitesto]

Ottimo era invece lo stato di manutenzione di palazzo Valguarnera-Gangi, a Palermo, in cui fu ambientato il ballo finale, la cui coreografia venne affidata ad Alberto Testa. In questo caso, il problema da affrontare era l'arredamento degli ampi spazi interni. Contribuirono generosamente all'opera gli Hercolani e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi con mobili, arazzi, suppellettili. Alcuni quadri (la stessa Morte del giusto) e altre opere artigianali furono commissionate dalla produzione. Il risultato finale valse uno scontato Nastro d'argento alla migliore scenografia.

Un altro Nastro d'argento andò alla fotografia a colori[8] di Giuseppe Rotunno (che lo aveva vinto anche l'anno precedente con Cronaca familiare). Degna di note, in particolare, l'illuminazione dei locali cui, per volontà del regista che voleva ridurre al minimo l'uso delle luci elettriche, contribuivano migliaia di candele, che costituirono un ulteriore problema logistico, poiché dovevano essere riaccese all'inizio di ogni sessione di riprese e frequentemente sostituite; inoltre non di rado la cera fusa colava addosso alle persone presenti in scena. La preparazione del set, la necessità di vestire centinaia di comparse[9] richiesero per queste scene turni estenuanti.[10] La scena del ballo (oltre 44 minuti) a Palazzo Gangi-Valguarnera è diventata famosa per la sua durata e opulenza.

Distribuzione[modifica | modifica wikitesto]

Accoglienza[modifica | modifica wikitesto]

Il film registrò un ottimo successo al botteghino in Italia, risultando campione d'incassi assoluto nella stagione 1962-1963 con un ricavato di 2.323.000.000 di lire dell'epoca;[11] detiene a oggi il nono posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre con 12 850 375 spettatori paganti.[12] Tuttavia il mancato successo negli Stati Uniti non permise alla pellicola di rientrare nelle ingenti spese di produzione, decretando il fallimento finanziario della Titanus.

Al momento della sua uscita nelle sale, la maggior parte della critica americana stroncò il film, complice soprattutto uno sciagurato montaggio che venne realizzato senza il consenso del regista, con un taglio di quasi mezz'ora di pellicola dall'edizione definitiva.[13] Lo stesso Lancaster s'impegnò, con scarso esito, nel montaggio della versione americana, illudendosi di poter salvare quello che considerava, a ragione, un capolavoro.[14]

Il film fu osteggiato anche dal Partito Comunista Italiano (al quale era legato Visconti) che non vedeva di buon occhio il romanzo di Lampedusa, ritenuto "espressione di un'ideologia reazionaria" e "politicamente conservatore".[15] Per questo motivo il regista montò una versione alternativa per la critica cinematografica della sinistra di area comunista, che includeva alcune scene del tutto estranee al romanzo originale ma molto conformi alla sua salda fede marxista, come conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina[16], poi tagliate nella versione definitiva presentata al Festival di Cannes. Questo non bastò a risparmiare le critiche di alcuni intellettuali di sinistra che bollarono il film di anti-storicismo.[17]

Con il passare degli anni, il film è stato rivalutato in maniera positiva dalla critica di tutto il mondo. Sul sito aggregatore Rotten Tomatoes registra il 98% delle recensioni professionali positive, con un consenso che recita, "sontuoso e malinconico, Il gattopardo presenta battaglie epiche, ricchi costumi e un valzer da ballo che si candida per la più bella sequenza trasposta in cinema".[18] Su Metacritic ha invece un punteggio di 100 basato su 12 recensioni.[19]

Martin Scorsese lo ha inserito nella lista dei suoi dodici film preferiti di tutti i tempi.[20] Il film è stato inoltre selezionato tra i 100 film italiani da salvare[21].

Riconoscimenti[modifica | modifica wikitesto]

Commento[modifica | modifica wikitesto]

Il Gattopardo rappresenta nel percorso artistico di Luchino Visconti un cruciale momento di svolta in cui l'impegno nel dibattito politico-sociale del militante comunista si attenua in un ripiegamento nostalgico dell'aristocratico milanese, in una ricerca del mondo perduto, che caratterizzerà i successivi film di ambientazione storica.

Palazzo Filangeri di Cutò, a Santa Margherita di Belìce dimora estiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa descritta, col suo giardino, nel romanzo.

Il regista stesso, a proposito del film, indicò come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust.[22]

Sotto il profilo della critica, è stato notato che «Visconti traduce le pagine di Lampedusa in termini puramente cinematografici, sia a livello drammaturgico (larghe ellissi, sintesi, analogie temporali e tre flashback dedicati al principe), sia come regia: l’uso del tempo antinaturalistico, la pausa, il silenzio, la reiterazione, l’alternarsi di totali e scene più raccolte, di protagonisti e comprimari, la funzione narrativa del paesaggio, la disposizione dei corpi e degli oggetti, la scenografia»[23].

La rivoluzione mancata[modifica | modifica wikitesto]

Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da Burt Lancaster.

La pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all'interno della sinistra italiana un dibattito sul Risorgimento come "rivoluzione senza rivoluzione", a partire dalla definizione utilizzata da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere. A chi accusava il romanzo di aver vituperato il Risorgimento si opponeva un gruppo di intellettuali che ne apprezzava la lucidità nell'analizzarne la natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed emergente classe borghese.[24]

Visconti, che già aveva affrontato la questione risorgimentale in Senso (1954) e che era stato profondamente colpito dalla lettura del romanzo, non esitò ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito offertagli da Goffredo Lombardo, che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinematografici del libro.

Nel film, la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo del Principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati "come in un inedito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del personaggio, dell'opera letteraria, del testo filmico che la visualizza".[25]. Lo sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Burt Lancaster, per il quale questa esperienza di "doppio" del regista "varrà... una profonda trasformazione interiore, anche sul piano personale".[26]

È qui che si può cogliere la cesura rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui nella sua opera "... nessuna forza positiva della storia... si profila come alternativa all'epos della decadenza cantato con struggente nostalgia".[27]

È determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Visconti assegnò, rispetto al romanzo, un ruolo più importante sia per la durata (da solo occupa circa un terzo del film) sia per la collocazione (ponendolo come evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre il 1862, sino a comprendere la morte del principe nel 1883 e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo). In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di Greuze. Ma soprattutto la morte di una classe sociale, di un mondo di "leoni e gattopardi", sostituiti da "sciacalli e iene".[28]

I sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti all'irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi, meschini. Così il vanesio e millantatore colonnello Pallavicini (Ivo Garrani). Così lo scaltro don Calogero Sedara (Paolo Stoppa), rappresentante di una nuova borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l'incertezza dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per portare nuova linfa economica nelle proprie esauste casse.

Ma è soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell'adorato nipote Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo Aspromonte, a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori, che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo mondo.[29]

Differenze rispetto al romanzo[modifica | modifica wikitesto]

Per quanto il film sia stato spesso recepito come una perfetta trasposizione del romanzo, sono da segnalare alcune significative modifiche che il regista e gli sceneggiatori apportarono al testo, sia per ragioni narrative che ideologiche.

Struttura[modifica | modifica wikitesto]

Nel film non compaiono accenni a tre capitoli del romanzo. Venne eliminato dalla sceneggiatura il capitolo quinto, sul ritorno di Padre Pirrone nel proprio paese natale, che risultava divergente rispetto alla trama principale, incentrata sulle vicende di Don Fabrizio, di Tancredi e di Angelica. Fin dalle prime versioni della sceneggiatura, fu eliminato l’ottavo e ultimo capitolo, epilogo che narra le vicende delle figlie del principe ormai anziane, e anche il settimo, sulla morte del principe, venne infine accantonato: il presentimento di morte, del principe e della propria classe, fu poi trasferito nella sequenza del ballo.

Ideologia[modifica | modifica wikitesto]

In quanto sostenitori di un'ideologia progressista e di ispirazione marxista, il regista e gli sceneggiatori rielaborarono il contenuto del romanzo per trasformarlo dall'amara rievocazione della fine di un regno «preso a tradimento e sconfitto dalla pusillanimità dei principi prima che dalla rivoluzione»  in una condanna del trasformismo anti-rivoluzionario. Tuttavia, durante la lavorazione del film, Visconti procedette ad un ridimensionamento dei cambiamenti inizialmente previsti dalla sceneggiatura, e ulteriori tagli vennero fatti in vista della proiezione a Cannes.

I cambiamenti di senso “ideologico” si focalizzarono in due direzioni. Innanzitutto, si cercò di aggiungere una sorta di “trama parallela” in cui si mostrassero le lotte popolari e le rivendicazioni dei contadini che avevano tentato di emergere nel clima di cambiamento che il Risorgimento sembrava annunciare. Il secondo obiettivo era di rendere centrale il tema del trasformismo opportunistico della classe dirigente, incarnata dal personaggio di Tancredi e, in una certa misura, anche da don Fabrizio.

Per realizzare il primo obiettivo, Visconti voleva ispirarsi alla novella di Verga Libertà, incentrata sui fatti di Bronte e sulle repressioni delle rivolte contadine. L’intenzione era quella di ambientare degli eventi analoghi nel paesino in cui, nel romanzo di Lampedusa, Padre Pirrone va a far visita ai parenti. Tuttavia, Visconti e gli sceneggiatori si resero conto che un tale stravolgimento rischiava di stridere con il resto della storia, che non ha toni né eroici né tragici. Nel film, la contrapposizione tra la miseria del popolo e l’agio noncurante di nobili si ridurrà al succedersi di due inquadrature: una che mostra dei contadini che zappano e l’altra che introduce i festeggiamenti al ballo di palazzo Ponteleone.

Visconti cercò allora di sviluppare il tema “sociale” attraverso il personaggio di don Calogero Sedara, ispirandosi a Mastro don Gesualdo di Verga, immagine del borghese arricchito e avido. Se nel romanzo don Calogero manifesta la propria rapacità solo nei confronti dei nobili, che considera degli sprovveduti “uomini-pecore” che si lasciano “tosare” delle proprie ricchezze, nella sceneggiatura egli diventa anche un manipolatore degli umili, che illude con false promesse di miglioramento delle loro misere condizioni. Don Calogero è un personaggio che Visconti odia doppiamente: come aristocratico e come uomo di sinistra. In quest’ottica venne quindi realizzata una scena in cui Sedara viene fermato da alcuni contadini che gli chiedono la ragione dell’esclusione dei nullatenenti come loro dalle votazioni per il plebiscito per l’Unità, aggiungendo poi la richiesta di poter prendere parte alla distribuzione delle terre. Sedara risponde loro che prima dovranno aspettare che «si faccia l’Italia» e che «si facciano le leggi», e con esse i contadini avranno le terre.

In realtà, questa sarà una delle scene che Visconti deciderà di togliere in vista della proiezione a Cannes, che coincide con la versione che oggi possiamo vedere, mentre la versione iniziale, più lunga di circa dieci minuti, non è più visibile. Le scene tagliate, tutte inesistenti nel romanzo, erano accomunate dall’essere troppo didascaliche e apertamente ideologiche. In particolare, però, a spingere Visconti ad eliminare la scena di Sedara e dei contadini fu forse anche la scoperta che si trattava di un errore storico: durante il plebiscito le votazioni avvennero a suffragio universale maschile, mentre fu la successiva legge elettorale del 1860 a porre limiti di censo al diritto di voto .

Un’altra scena tagliata, vedeva don Calogero manifestare la propria preoccupazione per le agitazioni dei contadini, che si profilavano dopo che erano state fatte loro troppe promesse; Tancredi lo esortava quindi a non esitare a servirsi dell’esercito regolare, e i due scoppiavano a ridere con aria d’intesa. Visconti evidenziava così la loro comune natura di nuovi padroni, i nobili trasformisti e i borghesi avidi che avrebbero preso il posto della vecchia aristocrazia, “iene e sciacalli” che avrebbero rimpiazzato i “gattopardi”, rendendo il futuro della Sicilia tutt’altro che migliore. Di questa intesa tra don Calogero e Tancredi rimarrà solo un accenno, in particolare in una delle ultime scene, quando, seduti entrambi in carrozza con Angelica, udiranno gli spari con cui l’esercito regolare sta giustiziando i garibaldini ribelli, e don Calogero commenterà: «Bell’esercito, fa sul serio. È proprio quello che ci voleva per la Sicilia. Ora si potrà stare tranquilli».

Personaggi[modifica | modifica wikitesto]

Tancredi è uno dei personaggi più modificati dal regista, che ne accentua l’opportunismo e l’astuzia machiavellica, rendendolo ben più cinico e sicuro di sé di quello che la sua giovane età farebbe immaginare. In una delle scene del ballo, Tancredi arriverà a congratularsi per la fucilazione dei garibaldini ribelli, fatto che nel romanzo non avviene: nella sua apologia all’uso della forza contro gli oppositori, Visconti voleva farne un “fascista” ante litteram.

Anche il don Fabrizio del film risulta molto più spregiudicato e opportunista, nonché più deciso e drastico nelle proprie decisioni. Fin dall’inizio, don Fabrizio sembra accettare senza troppi indugi la massima del nipote, «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»: senza esitazione, vota “sì” al plebiscito per l’unità e acconsente alle nozze fra Tancredi e Angelica come strategia per rafforzare le finanze e il potere della famiglia. Nel libro invece don Fabrizio sarà agitato da un lungo rovello interiore e voterà “sì” al plebiscito a denti stretti.

Esemplare è il confronto del dialogo tra don Fabrizio e don Ciccio Tumeo nel libro e nel film. Nel romanzo, don Ciccio confida al principe il proprio risentimento per i risultati del plebiscito, che sono stati dichiarati favorevoli all’unanimità, quando invece don Ciccio aveva votato “no”, incurante dei consigli di don Fabrizio e deciso a dare un ultimo segno di riconoscente fedeltà alla monarchia borbonica. Nel romanzo, tra sé e sé don Fabrizio "provava anche una specie di ammirazione per lui e nel fondo, proprio nel fondo, della sua altera coscienza una voce chiedeva se per caso don Ciccio non si fosse comportato più signorilmente del principe di Salina".  Nel film, invece, don Fabrizio oppone con sicurezza a don Ciccio le ragioni dell’opportunità del “tradimento” dei borboni, affermando che «il plebiscito era il solo e urgente rimedio per l’anarchia, credetemi, e per noi non è che il male minore. I Savoia, in fondo, una monarchia sono», concludendo con una variante dello slogan di Tancredi «qualcosa doveva cambiare, perché tutto rimanesse com’era prima».

Il neologismo "gattopardismo" discende infatti dalla fama del film, che fa di Tancredi, ma anche di don Fabrizio, gli esponenti di una nobiltà che passa dalla fedeltà ai Borbone ai Savoia, cavalcando la "rivoluzione" per rimanere al potere. Nel romanzo, invece, don Fabrizio non solo condannerà tra se e se il trasformismo, rifiutando la proposta di far parte del nuovo governo unitario, ma si renderà conto anche del fallimento politico di questa scelta, che non impedirà la decadenza della propria famiglia. Nel libro, i "gattopardi" sono la nobiltà sconfitta, che verrà rimpiazzata dagli "sciacalli e dalle iene", ossia i borghesi abili ma arrivisti come Sedara. Di questa concezione rimane una traccia anche nel film, quando la frase verrà pronunciata da don Fabrizio alla partenza di Chevalley, poiché sempre di più avrà il presentimento dell’inevitabile caduta della propria classe.

Il personaggio che fu modificato più drasticamente fu Concetta, la cui importanza rispetto al romanzo è decisamente minore, anche a causa dell'eliminazione dell'ultimo capitolo, in cui Concetta è una figura centrale. Ad incidere su questa scelta fu forse anche il cambio dell'attrice.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ (EN) Awards 1963, su festival-cannes.fr. URL consultato l'11 giugno 2011 (archiviato dall'url originale il 25 dicembre 2013).
  2. ^ Il Gattopardo di Giannini che non vide mai la luce, in la Repubblica, 25 maggio 2013.
  3. ^ a b c Il cinema coraggioso dell'ultimo Gattopardo, su osservatoreromano.va. URL consultato il 4 novembre 2018 (archiviato dall'url originale il 4 novembre 2018).
  4. ^ a b Alessandro Boschi, La valigia dei sogni, LA7, 1º gennaio 2012.
  5. ^ Caterina D'Amico, La bottega de "Il Gattopardo", Marsilio.Edizioni di Bianco e Nero, 2001, pag.456
  6. ^ "Ancora a distanza di anni, Lombardo attribuisce la crisi al costo eccessivo di due film i quali, nonostante il successo di pubblico, non sono riusciti a coprire il costo di produzione: Sodoma e Gomorra di Robert Aldrich e Il Gattopardo di Luchino Visconti". Callisto Cosulich, L'"operazione Titanus", in "Storia del cinema italiano", Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, 2001, pag.145
  7. ^ a b Caterina D'Amico, op.cit.
  8. ^ All'epoca il premio veniva aggiudicato separatamente per la fotografia a colori e quella in bianco/nero
  9. ^ "...i costumi approntati (oltre agli otto per gli attori principali) furono 393: gli abiti femminili erano tutti diversi tra di loro e per almeno cento di questi si prevedevano cappotti e sorties varie". Ibid.
  10. ^ "La vestizione iniziava alle due del pomeriggio, alle otto di sera cominciavano le riprese, che duravano fino alle quattro del mattino, talora alle sei". Ibid
  11. ^ Stagione 1962-63: i 100 film di maggior incasso, su hitparadeitalia.it. URL consultato il 27 dicembre 2016.
  12. ^ I 50 film più visti al cinema in Italia dal 1950 ad oggi, su movieplayer.it. URL consultato il 27 dicembre 2016.
  13. ^ Quando gli Usa bocciarono 'Il Gattopardo' di Visconti, in la Repubblica, 27 settembre 2013.
  14. ^ Tony Thomas, Burt Lancaster, Milano Libri Edizioni, 1981.
  15. ^ E il Pci cercò di levare gli artigli al «Gattopardo», in il Giornale, 20 luglio 2013.
  16. ^ Torna in sala «Il Gattopardo» con i 12 minuti mai visti tra rivolte e conflitti di classe, in Corriere della Sera, 23 ottobre 2013.
  17. ^ Visconti e il Pci quel tira e molla sul Gattopardo, in La Stampa, 28 ottobre 2013.
  18. ^ (EN) MirrorOfThePast/Sandbox/2, su Rotten Tomatoes, Fandango Media, LLC. URL consultato il 26 ottobre 2018.
  19. ^ (EN) MirrorOfThePast/Sandbox/2, su Metacritic, Fandom, Inc. URL consultato il 26 ottobre 2018.
  20. ^ (EN) Scorsese’s 12 favorite films, su miramax.com. URL consultato il 25 dicembre 2013 (archiviato dall'url originale il 26 dicembre 2013).
  21. ^ Rete degli Spettatori
  22. ^ Luchino Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p.29
  23. ^ Piero Spila, Quell'Ossessione che piacque anche a Togliatti, in "Bianco e nero" 2-3/2013, pp. 58-69, doi: 10.7371/75533.
  24. ^ Antonello Trombadori (a cura di), Dialogo con Visconti, Cappelli, Bologna, 1963
  25. ^ Luciano De Giusti, La transizione di Visconti, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, 2001, p. 76
  26. ^ Giorgio Gosetti, Il Gattopardo, Milano, 2004
  27. ^ Luciano De Giusti, op.cit.
  28. ^ Così nel film, il principe di Salina a Chevalley
  29. ^ Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Ed. L'Unità/Il Castoro, Milano, 1995, pp. 58-60

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Suso Cecchi D'Amico, Renzo Renzi, Il Gattopardo di Luchino Visconti, collana Dal soggetto al film, vol. 29, Cappelli editore, Bologna (1963)
  • Alberto Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Le Mani editore, Genova (2013); seconda edizione aggiornata, Feltrinelli, Milano (2014).

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