Malattia di Alzheimer: differenze tra le versioni

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Si possono invece usare gli inibitori della [[colinesterasi]], l'enzima che catabolizza l'acetilcolina: inibendo tale [[enzima]], si aumenta la quantità di acetilcolina presente nello [[spazio intersinaptico]].
Si possono invece usare gli inibitori della [[colinesterasi]], l'enzima che catabolizza l'acetilcolina: inibendo tale [[enzima]], si aumenta la quantità di acetilcolina presente nello [[spazio intersinaptico]].


Sono a disposizione farmaci inibitori dell'[[acetilcolinesterasi]], che hanno una bassa affinità per l'enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la [[Barriera emato-encefalica]] (BEE), e agire quindi di preferenza sul [[sistema nervoso centrale]]. Tra questi, la [[Fisostigmina]], la [[Galantamina]] e la [[Neostigmina]] sono stati i capostipiti, ma l'interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato sugli inibitori reversibili della acetilcolinesterasi, quali la [[Rivastigmina]] e la [[Galantamina]] stessa.
Sono a disposizione farmaci inibitori dell'[[acetilcolinesterasi]], che hanno una bassa affinità per l'enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la [[barriera emato-encefalica]] (BEE), e agire quindi di preferenza sul [[sistema nervoso centrale]]. Tra questi la [[tacrina]], il [[donepezil]], la [[fisostigmina]], la [[galantamina]] e la [[neostigmina]] sono stati i capostipiti, ma l'interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato sugli inibitori reversibili della acetilcolinesterasi, quali la [[rivastigmina]] e la [[galantamina]] stessa.


Un'altra, più recente, linea d'azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema [[Acido glutammico|glutamatergico]], come la [[Memantina]]. La Memantina ha dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave<ref name=Areosa2005>{{Cita pubblicazione |autore=Areosa SA, Sherriff F, McShane R |titolo=Memantine for dementia |rivista=Cochrane Database Syst Rev |volume= |numero=3 |pagine=CD003154 |anno=2005 |id=PMID 16034889 |doi=10.1002/14651858.CD003154.pub4 }}</ref>.
Un'altra, più recente, linea d'azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema [[Acido glutammico|glutamatergico]], come la [[memantina]]. La memantina ha dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave<ref name=Areosa2005>{{Cita pubblicazione |autore=Areosa SA, Sherriff F, McShane R |titolo=Memantine for dementia |rivista=Cochrane Database Syst Rev |volume= |numero=3 |pagine=CD003154 |anno=2005 |id=PMID 16034889 |doi=10.1002/14651858.CD003154.pub4 }}</ref>.


La [[Tacrina]] non è più utilizzata perché epatotossica, mentre il [[Donepezil]], inibitore non competitivo dell'acetilcolinesterasi, sembrerebbe più efficace perché, con una emivita di circa 70 ore, permette una sola somministrazione al giorno (mentre la Galantamina ha una emivita di 7 ore). Ovviamente però il Donepezil è più soggetto a manifestare effetti collaterali dovuti ad un aumento del tono colinergico (quali insonnia, aritmie, bradicardia, nausea, diarrea). Di contro, la Galantamina e la Rivastigmina possono causare gli stessi effetti, ma in misura molto minore.
La [[tacrina]] non è più utilizzata perché epatotossica, mentre il [[donepezil]], inibitore non competitivo dell'acetilcolinesterasi, sembrerebbe più efficace<ref name="BirksBirks2006">{{cita pubblicazione
| titolo = Cholinesterase inhibitors for Alzheimer's disease
| anno = 2006
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| autore = Jacqueline Birks
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==== Altre ipotesi di approccio farmacoterapico ====
==== Altre ipotesi di approccio farmacoterapico ====

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Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Morbo di Alzheimer
Comparazione tra un cervello sano (a sinistra) e un cervello di una persona affetta da Morbo di Alzheimer (a destra)
Specialitàneurologia
Eziologiaignoto
Classificazione e risorse esterne (EN)
ICD-9-CM331.0, 290.1
ICD-10G30, F00
OMIM104300
MeSHD000544
MedlinePlus000760
eMedicine1134817
GeneReviewsPanoramica
Eponimi
Alois Alzheimer

Il morbo di Alzheimer, detta anche demenza senile di tipo Alzheimer, demenza degenerativa primaria di tipo Alzheimer o semplicemente di Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa invalidante ad esordio prevalentemente senile (oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche in epoca presenile - prima dei 65 anni)[1].

Caratteristiche generali

Essa è stata descritta per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer.[2] Nel 2006 vi erano 26,6 milioni malati di tutto il mondo, e si stima che ne sarà affetta 1 persona su 85 a livello mondiale entro il 2050.[3]

La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, la limitata e comunque non risolutiva efficacia delle terapie disponibili, e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche), che ricadono in gran parte sui familiari dei malati, la rendono una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.[4][5]

Anche se il decorso clinico della malattia di Alzheimer è in parte specifico per ogni individuo, la patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei pazienti.[6] I primi sintomi osservabili sono spesso erroneamente considerati problematiche "legate all'età", o manifestazioni di stress.[7] Nelle prime fasi, il sintomo più comune è l'incapacità di acquisire nuovi ricordi e la difficoltà nel ricordare eventi osservati recentemente. Quando si ipotizza la presenza di un possibile morbo di Alzheimer, la diagnosi viene di solito confermata tramite specifiche valutazioni comportamentali e test cognitivi, spesso seguiti dall'imaging a risonanza magnetica[8]

Con l'avanzare della malattia, il quadro clinico può prevedere confusione, irritabilità e aggressività, sbalzi di umore, difficoltà nel linguaggio, perdita della memoria a lungo termine e progressive disfunzioni sensoriali.[7][9]

La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben compresi. La ricerca indica che la malattia è associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari nel cervello.[10] Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono piccoli benefici sintomatici, e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l'identificazione di un possibile trattamento per l'Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso.[11] A livello preventivo, sono state proposte diverse modificazioni degli stili di vita personali come potenziali fattori protettivi nei confronti della patologia, ma non vi sono adeguate prove di una correlazione certa tra queste raccomandazioni e la riduzione effettiva della degenerazione. Stimolazione mentale, esercizio fisico e una dieta equilibrata sono state proposte sia come modalità di possibile prevenzione, che come modalità complementari di gestione della malattia.[12]

Poiché per il morbo di Alzheimer non sono attualmente disponibili terapie risolutive ed il suo decorso è progressivo, la gestione dei bisogni dei pazienti diviene essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto a prendersi in carico il malato (caregiver)[13], compito che comporta notevoli difficoltà e oneri. Chi si occupa del paziente può sperimentare pesanti carichi personali, che possono coinvolgere aspetti sociali, psicologici, fisici ed economici.[14][15][16]

Descrizione clinica

Epidemiologia

Incidenza nelle persone sopra i 65 anni
Età Nuovi casi per migliaia
di persone all'anno
65–69  3
70–74  6
75–79  9
80–84 23
85–89 40
90–     69

La malattia (o morbo) di Alzheimer è definibile come un processo degenerativo che pregiudica progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco l'individuo che ne è affetto incapace di una vita normale e provocandone alla fine la morte. In Italia ne soffrono circa 800.000 persone, e 26.6 milioni nel mondo secondo uno studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, USA, con una netta prevalenza di donne (per via della maggior vita media delle donne rispetto agli uomini[17]).

Definita anche "demenza di Alzheimer", viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la più comune, rappresentando, a seconda della casistica, l'80-85% di tutti i casi di demenza.

A livello epidemiologico, tranne che in rare forme genetiche famigliari "early-onset" (cioè ad esordio giovanile), il fattore maggiormente correlato all'incidenza della patologia è l'età. Molto rara sotto i 65 anni, la sua incidenza aumenta progressivamente con l'aumentare dell'età, per raggiungere una diffusione significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.

Da rilevazioni europee, nella popolazione generale l'incidenza (cioè il numero di nuovi casi all'anno) è di 2,5 casi ogni 1.000 persone per la fascia di età tra i 65 ed i 69 anni; sale a 9 casi su 1.000 persone tra i 75 ed i 79 anni, ed a 40,2 casi su 1.000 persone tra gli 85 e gli 89 anni[18].

Costi economico-sociali

La crescente incidenza di questa patologia nella popolazione generale in tutto il mondo è accompagnata da una crescita equivalente del suo enorme costo economico e sociale: allo stato, secondo Lancet, il costo economico per la cura dei pazienti affetti da demenza a livello mondiale è di circa 600 miliardi di dollari all'anno[19], con un trend di crescita che lo porterà nel 2030 ad aumentare dell'85% (e con un carico crescente anche per i Paesi in via di sviluppo), facendolo divenire uno degli oneri con maggior impatto economico per i sistemi sanitari nazionali e le comunità sociali dell'intero pianeta[20].

Nonostante questo, la ricerca scientifica e clinica sulla demenza è ancora gravemente sottofinanziata: in Inghilterra, ad esempio, si calcola che il costo economico complessivo della cura dei pazienti affetti da demenza superi quello per i tumori e per le malattie cardiovascolari messe insieme, ma la ricerca sulle demenze riceve solo un dodicesimo dei finanziamenti di quella per i tumori[20].

Storia

La signora Auguste D, paziente del dottor Alois Alzheimer, il primo caso documentato della malattia.

Nel 1901, il dottor Alois Alzheimer, uno psichiatra tedesco, intervistò una sua paziente, la signora Auguste D., di 51 anni. Le mostrò parecchi oggetti e successivamente le chiese che cosa le era stato indicato. Lei non poteva però ricordare. Inizialmente registrò il suo comportamento come "disordine da amnesia di scrittura", ma la signora Auguste D. fu la prima paziente a cui venne diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come malattia di Alzheimer.

Negli anni successivi vennero registrati in letteratura scientifica undici altri casi simili; nel 1910 la patologia venne inserita per la prima volta dal grande psichiatra tedesco Emil Kraepelin nel suo classico Manuale di Psichiatria, venendo da lui definita come "Malattia di Alzheimer", o "Demenza Presenile". Il termine, inizialmente utilizzato solo per le rare forme "early-onset" (ovvero, con esordio clinico prima dei 65 anni), dopo il 1977 è stato ufficialmente esteso a tutte le forme di Alzheimer[2][21][22].

Clinica

Immagine PET del cervello di una persona con morbo di Alzheimer che mostra la perdita di funzione del lobo temporale.

Il decorso della malattia può essere diverso, nei tempi e nelle modalità sintomatologiche, per ogni singolo paziente; esistono comunque una serie di sintomi comuni, che si trovano frequentemente associati nelle varie fasi con cui, clinicamente, si suddivide per convenzione il decorso della malattia. Ad una prima fase lieve, fa seguito la fase intermedia, e quindi la fase avanzata/severa; il tempo di permanenza in ciascuna di queste fasi è variabile da soggetto a soggetto, e può in certi casi durare anche diversi anni.

La malattia viene spesso anticipata dal cosiddetto mild cognitive impairment (MCI), un leggero calo di prestazioni in diverse funzioni cognitive in particolare legate alla memoria, all'orientamento o alle capacità verbali. Tale calo cognitivo, che è comunque frequente nella popolazione anziana,non è necessariamente indicativo di demenza incipiente, può in alcuni casi essere seguito dall'avvio delle fasi iniziali dell'Alzheimer.

La malattia si manifesta spesso inizialmente come demenza caratterizzata da amnesia progressiva ed altri deficit cognitivi. Il deficit di memoria è prima circoscritto a sporadici episodi nella vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il giorno) e della memoria prospettica (che riguarda l'organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare a un appuntamento); poi man mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda l'esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi intermedio-avanzate della malattia.

A partire dalle fasi lievi e intermedie possono poi manifestarsi crescenti difficoltà di produzione del linguaggio, con incapacità nella definizione di nomi di persone od oggetti, e frustranti tentativi di "trovare le parole", seguiti poi nelle fasi più avanzate da disorganizzazione nella produzione di frasi ed uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui significati delle parole, etc.). Sempre nelle fasi lievi-intermedie, la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di documenti, attività lavorative di concetto, gestione del denaro, guida dell'automobile, cucinare, etc.) iniziano a diventare progressivamente più impegnative e difficili, fino a richiedere assistenza continuativa o divenire impossibili.

Nelle fasi intermedie ed avanzate, inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali (vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni comportamentali incoerenti) o psichiatriche (confusione, ansia, depressione, ed occasionalmente deliri e allucinazioni). Il disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero la mancata o confusa consapevolezza di dove si è situati nel tempo, nei luoghi e/o nelle identità personali, proprie o di altri - comprese le difficoltà di riconoscimento degli altri significativi) è sintomo frequente a partire dalle fasi intermedie-avanzate. In tali fasi si aggiungono difficoltà progressive anche nella cura della persona (lavarsi, vestirsi, assumere farmaci, etc.).

Ai deficit cognitivi e comportamentali, nelle fasi più avanzate si aggiungono infine complicanze mediche internistiche, che portano a una compromissione progressiva della salute. Una persona colpita dal morbo può vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi clinica di malattia conclamata.

Come sottolineato, col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa, e possono pertanto presentare afasia e aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici; pertanto i pazienti, nelle fasi intermedie ed avanzate, necessitano di continua assistenza personale (solitamente erogata da famigliari e badanti, i cosiddetti caregivers, che sono a loro volta sottoposti ai forti stress tipici di chi assiste i malati di Alzheimer).

Prevenzione

Compiere attività intellettive, come giocare a scacchi o mantenere regolari rapporti sociali, è considerato un modo per prevenire la malattia di Alzheimer

Al momento non ci sono prove definitive per sostenere l'efficacia di una qualsiasi misura preventiva per la malattia di Alzheimer.[23] Studi per identificarle hanno spesso prodotto risultati inconsistenti. Tuttavia, studi epidemiologici hanno proposto le relazioni tra alcuni fattori modificabili, come la dieta, il rischio cardiovascolare, l'utilizzo di prodotti farmaceutici, o lo svolgimento di attività intellettuali e la probabilità di una popolazione di sviluppare il la malattia. Solo ulteriori ricerche, tra cui gli studi clinici, riveleranno se questi fattori possono aiutare a prevenire o ritardale l'insorgenza del morbo di Alzheimer.[24]

Sebbene i fattori di rischio cardiovascolari, come l'ipercolesterolemia, l'ipertensione, il diabete e il fumo, sono associati con un rischio maggiore di insorgenza della malattia,[25][26] le statine, che sono farmaci per l'abbassamento del colesterolo, non si sono verificate efficaci nel prevenire o migliorare il decorso.[27][28] I componenti di una dieta mediterranea, che comprendono frutta e verdura, pane, grano e altri cereali, olio d'oliva, pesce e vino rosso, possono singolarmente o tutti insieme ridurre il rischio e ritardare il decorso della malattia di Alzheimer.[29] I loro benefici effetti cardiovascolari sono stati proposti come il meccanismo di azione.[29] Ci sono prove limitate che un consumo, da lieve a moderato, di alcool, soprattutto vino rosso, sia associato a un minor rischio di Alzheimer.[30]

Ipotesi sull'uso di vitamine non hanno trovato prove sufficienti di efficacia per raccomandare la vitamina C,[31] E[31][32] o acido folico, con o senza vitamina B12,[33] come agenti di prevenzione o per il trattamento dell'Alzheimer. Inoltre, la vitamina E, è associata a rischi per la salute.[34] Studi compiuti esaminando la somministrazione di acido folico (B9) e di altre vitamine B non hanno mostrato alcuna correlazione significativa con il declino cognitivo.[35]

L'utilizzo a lungo termine di farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) è associato ad una ridotta probabilità di sviluppare Alzheimer.[36] Studi post-mortem umani, in modelli animali, o in studi in vitro supportano il l'ipotesi che i FANS possano ridurre l'infiammazione correlata alle placche amiloidi.[36] Tuttavia, studi riguardanti il ​​loro uso come trattamento palliativo non sono riusciti a dimostrare risultati positivi, mentre nessun processo di prevenzione è stato realizzato.[36] La curcumina del curry ha mostrato una certa efficacia nel prevenire i danni cerebrali, nei modelli di topo, in virtù delle sue proprietà anti-infiammatorie.[37][38] La terapia ormonale sostitutiva, anche se utilizzata in precedenza, non è più ritenuta efficace per prevenire la demenza e in alcuni casi può anche essere ritenuta responsabile.[39][40]

Le persone che si impegnano in attività intellettuali, come la lettura, i giochi da tavolo, i cruciverba, suonare strumenti musicali o che hanno una regolare interazione sociale, mostrano una riduzione del rischio di sviluppo della malattia di Alzheimer.[41] Questo è compatibile con la teoria della riserva cognitiva, in cui si afferma che alcune esperienze di vita forniscono all'individuo una riserva cognitiva che ritarda l'insorgenza di manifestazioni di demenza.[41] L'apprendimento di una seconda lingua, anche in tarda età, sembra ritardare la malattia di Alzheimer.[42] L'attività fisica è anche associata ad un ridotto rischio di Alzheimer.[43]

Alcuni studi hanno mostrato un aumentato rischio di sviluppare la malattia nel caso di assunzione di metalli ed in particolare alluminio,[44][45] o se espositi a particolari solventi.[46] La qualità di alcuni di questi studi è stata però criticata,[47] e altri studi hanno concluso che non vi è alcuna relazione tra questi fattori ambientali e lo sviluppo di Alzheimer.[48][49][50][51]

Mentre alcuni studi suggeriscono che l'esposizione a campi elettromagnetici a bassa frequenza può aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, i revisori hanno rilevato che ulteriori indagini epidemiologiche e di laboratorio sono necessari prima di avvalorare questa ipotesi.[52] Il fumo è un importante fattore di rischio per l'Alzheimer.[53]

Alcun studi (National Institute on Ageing di Baltimora) ipotizzano come il digiuno ad intervalli regolari (1 o 2 giorni a settimana) possa risultare come un palliativo alle forme più gravi della malattia[54].

Patogenesi

Immagine istopatologica di placche senili nella corteccia cerebrale di una persona affetta da Morbo di Alzheimer.

La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di neuroni, principalmente attribuita alla betamiloide, una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli "neurofibrillari". La malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello (si tratta di un neurotrasmettitore, ovvero di una molecola fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e dunque per la memoria e ogni altra facoltà intellettiva). La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l'impossibilità per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi, e quindi la morte dello stesso, con conseguente atrofia progressiva del cervello nel suo complesso.

A livello neurologico macroscopico, la malattia è caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad atrofia corticale, visibile anche in un allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni.

A livello microscopico e cellulare, sono riscontrabili depauperamento neuronale, placche senili (dette anche placche amiloidi), ammassi neurofibrillari, angiopatia congofila (amiloidea).

Dall'analisi post-mortem di tessuti cerebrali di pazienti affetti da Alzheimer (solo in tale momento si può confermare la diagnosi clinica da un punto di vista anatomo-patologico), si è potuto riscontrare un accumulo extracellulare di una proteina, chiamata Beta-amiloide.

Nei soggetti sani la APP (Amyloid precursor protein, Proteina Progenitrice dell'Amiloide), attraverso una reazione biologica catalizzata dall'alfa-secretasi, produce un peptide innocuo chiamato p3. Per motivi non totalmente chiariti, nei soggetti malati l'enzima che interviene sull'APP non è l'alfa-secretasi ma una sua variante, la beta-secretasi, che porta alla produzione di un peptide di 40-42 aminoacidi: la beta-amiloide.

Tale beta-amiloide non presenta le caratteristiche biologiche della forma naturale, ma tende a depositarsi in aggregati extracellulari sulla membrana dei neuroni. Tali placche neuronali innescano un processo infiammatorio che attiva una risposta immunitaria richiamando macrofagi e neutrofili, i quali produrranno citochine, interleuchine e TNF-alfa che danneggiano irreversibilmente i neuroni.

Ulteriori studi mettono in evidenza che nei malati di Alzheimer interviene un ulteriore meccanismo patologico: all'interno dei neuroni una Proteina Tau, fosforilata in maniera anomala, si accumula nei cosiddetti "aggregati neurofibrillari" (o ammassi neurofibrillari).

Particolarmente colpiti da questo processo patologico sono i neuroni colinergici, specialmente quelli delle aree corticali, sottocorticali e, tra queste ultime, le aree ippocampali.

In particolare, l'ippocampo è una struttura encefalica che svolge un ruolo fondamentale nell'apprendimento e nei processi di memorizzazione; perciò la distruzione dei neuroni di queste zone è ritenuta essere la causa principale della perdita di memoria dei malati.

Diagnosi

Immagine PET del cervello di una persona con morbo di Alzheimer che mostra la perdita di funzione del lobo temporale.

La malattia di Alzheimer è di solito diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da osservazioni cliniche, dalla presenza di peculiari caratteristiche neurologiche e neuropsicologiche e per l'assenza di condizioni alternative.[55][56]

Sistemi avanzati di imaging biomedico, come la tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica (MRI), la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) o la tomografia ad emissione di positroni (PET) possono essere utilizzate per aiutare ad escludere altre patologie cerebrali o altri tipi di demenza.[25] Inoltre, si possono prevedere il passaggio da fasi prodromiche (decadimento cognitivo lieve) al morbo di Alzheimer.[57][58]

Gli assessment neuropsicologici e cognitivi, inclusi i test di memoria ed esecutivi, possono ulteriormente caratterizzare lo stato della malattia.[7] Diverse organizzazioni mediche hanno creato i criteri diagnostici per facilitare e standardizzare il processo diagnostico. La diagnosi clinica viene confermata a livello patologico solo con l'analisi istologica del cervello post-mortem.[59]

Criteri diagnostici

Lo statunitense National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINCDS) e l'Associazione dei Malati di Alzheimer ha istituito il criterio diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984, in seguito aggiornato nel 2007.[60] Questo criterio richiede che la presenza di deficit cognitivi e una sospetta sindrome di demenza debbano essere confermati da test neuropsicologici per porre la diagnosi clinica di Alzheimer. Una conferma istopatologica, tra cui un esame al microscopio del tessuto cerebrale (eseguibile solo post-mortem) è necessaria per una conferma della diagnosi definitiva a posteriori.[61]

Sono otto gli ambiti funzionali cognitivi più comunemente compromessi: memoria, linguaggio, abilità percettiva, attenzione, abilità costruttiva, orientamento, risoluzione dei problemi e capacità funzionali. Questi ambiti cognitivi sono equivalenti ai criteri della NINCDS ADRDA, come elencati nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) pubblicato dalla American Psychiatric Association.[62][63]

Tecniche diagnostiche

Alcuni test di screening neuropsicologico possono essere utili nella diagnosi di Alzheimer

Diversi test di screening neuropsicologico vengono utilizzati per la diagnostica nei casi di Alzheimer. I test valutano diverse funzioni e competenze cognitive, come il saper copiare disegni simili a quelli mostrati nella foto, ricordare parole, leggere e sottrarre numeri in serie.

Test neuropsicologici come il Mini Mental State Examination (MMSE), sono ampiamente utilizzati per valutare i disturbi cognitivi che vengono considerati per la formulazione della diagnosi. Una batteria di test più completa è necessaria per garantire la massima affidabilità dei risultati, in particolare nelle prime fasi della malattia.[64][65] L'esame neurologico nelle prime fasi della malattia solitamente presenta risultati normali, fatta eccezione per evidenti deficit cognitivi che non differiscono però da quello derivanti da altre malattie di tipo demenziale.

Ulteriori esami neurologici sono cruciali nella diagnosi differenziale di Alzheimer dalle altre malattie. Colloqui con gli altri membri della famiglia sono inoltre utilizzate nella valutazione funzionale della malattia. I caregiver possono infatti fornire importanti informazioni sulla capacità di vita quotidiana, così come la diminuzione, nel tempo, della funzione mentale della persona.[58]

Il punto di vista di chi assiste il malato è particolarmente importante, dato che una persona con Alzheimer è spesso inconsapevole del suo deficit.[66]

A volte le famiglie hanno difficoltà nella rilevazione esatta dei primi sintomi di demenza nelle sue fasi iniziali, e per questo non riescono sempre a comunicare informazioni accurate al medico.[67]

Un altro indicatore oggettivo delle prime fasi della malattia è l'analisi del liquido cerebrospinale per la ricerca di beta-amiloide o di proteine ​​tau.[68] La ricerca di queste proteine è in grado di prevedere l'insorgenza del morbo di Alzheimer con una sensibilità compresa tra il 94% ed il 100%. Quando è utilizzata in combinazione con le tecniche di neuroimaging esistenti, i medici sono grado di identificare i pazienti che stanno già sviluppando la malattia.[69] Gli esami del liquido cerebrospinale sono disponibili più facilmente, a differenza delle tecnologie di neuroimmaging più moderne.Gli esami del liquido spinale sono disponibili più facilmente, a differenza delle tecnologie di neuroimmaging più moderne.[70]

Altri test clinici supplementari forniscono informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche della malattia, o venogono utilizzati per escludere altre diagnosi. E' comune eseguire test di funzionalità tiroidea, valutare i livelli di vitamina B12, escludere la sifilide, escludere problemi metabolici (tra cui test per la funzione renale, i livelli di elettroliti e per il diabete), valutare i livelli di metalli pesanti (ad esempio il piombo e il mercurio), e l'anemia. E' anche necessario escludere la presenza di sintomatologia psichiatrica, quali deliri, disturbi dell'umore, disturbi del pensiero di natura psichiatrica, o pseudodemenze depressive.

In particolare vengono utilizzati test psicologici per la rilevazione della depressione, dal momento che la depressione può essere concomitante con l'Alzheimer, essere un segno precoce di deficit cognitivo[71], o esserne addirittura la causa.[72][73]

Imaging diagnostico

Questa immagine mostra una scansione PiB-PET di un paziente con malattia di Alzheimer a sinistra, e di una persona anziana con memoria normale sulla destra. Le aree di rosso e giallo mostrano alte concentrazioni di PiB, nel cervello che suggeriscono quantità maggiori di depositi di Betamiloide

Se sono disponibili, la Tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) e la Tomografia a emissione di positroni (PET), possono essere utilizzati per la conferma di una diagnosi di Alzheimer in associazione con le valutazioni dello stato mentale.[74] In una persona già affetta da demenza, la SPECT sembra essere superiore nel differenziare la malattia di Alzheimer da altre possibili cause, rispetto all'analisi della storia famigliare e all'osservazione del paziente.[75] I progressi hanno portato alla proposta di nuovi criteri diagnostici di imaging biomedico.[7][28]

Una nuova tecnica nota come PiB PET è stata sviluppata per visualizzare direttamente e chiaramente immagini di depositi di beta-amiloide in vivo, utilizzando un radiotracciante che si lega selettivamente ai depositi A-beta.[76]

La PiB-PET utilizza il carbonio-11 per la scansione PET. Studi recenti suggeriscono che la PiB-PET è precisa all'86% nel predire quali persone, già affette da decadimento cognitivo lieve, svilupperanno la malattia di Alzheimer entro due anni, e al 92% in grado di escludere la probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer.[77]

Un radiofarmaco per PET chiamato (E)-4-(2-(6-(2-(2-(2-([18F]-fluoroethoxy)ethoxy)ethoxy)pyridin-3-yl)vinyl)-N-methyl benzenamine, o 18F AV-45, o florbetapir-fluorine-18, o semplicemente florbetapir, contenente il più duraturo radionuclide fluoro-18, è stato recentemente realizzato e testato come possibile supporto diagnostico nella malattia di Alzheimer. Il florbetapir, come il PiB, si lega alla beta-amiloide, ma grazie all'uso del fluoro-18 ha una emivita di 110 minuti, in rapporto al tempo di dimezzamento radioattivo PiB che è di 20 minuti. La maggior durata permette di accumulare maggior tracciante nel cervello di persone con malattia di Alzheimer, in particolare nelle regioni note per essere associate a depositi di beta-amiloide.[78][79][80][81]

La risonanza magnetica volumetrica è in grado di rilevare cambiamenti nella dimensione delle regioni del cervello. L'atrofia di queste regioni si sta mostrando come un indicatore diagnostico della malattia. Essa può risultare meno costosa di altre tecniche di immaging attualmente in fase di studio.[82]

Prognosi

Disabilità per Alzheimer e altre forme di demenza per 100.000  abitanti nel 2004.

     nessun dato

     ≤ 50

     50–70

     70–90

     90–110

     110–130

     130–150

     150–170

     170–190

     190–210

     210–230

     230–250

     ≥ 250

Le fasi iniziali della malattia di Alzheimer sono difficili da diagnosticare. Una diagnosi definitiva è posta solitamente una volta che si verifica una significativa compromissione cognitiva e una percepibile riduzione di capacità di svolgere le attività della vita quotidiana, anche se la persona è ancora in grado di gestirsi autonomamente. Il deterioramento della memoria e il peggioramento dei disturbi cognitivi e non cognitivi, associati alla malattia, riducono progressivamente l'autonomia nella vita quotidiana.[83]

Terapia

Anche se al momento non esiste una cura efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per tentare di influenzare clinicamente il decorso del morbo di Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. È inoltre opportuno integrare interventi psicosociali, cognitivi e comportamentali, che hanno dimostrato effetti positivi, sinergicamente all'uso dei presidi farmacologici, nel rallentamento dell'evoluzione dei sintomi e nella qualità della vita dei pazienti e dei caregivers[84].

Intervento farmacologico

In primo luogo, basandosi sul fatto che nell'Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, un'ipotesi terapeutica è stata quella di provare a ripristinarne i livelli fisiologici. L'acetilcolina pura non può però essere usata, in quanto troppo instabile e con un effetto limitato. Gli agonisti colinergici invece avrebbero effetti sistemici e produrrebbero troppi effetti collaterali, e non sono quindi utilizzabili. Si possono invece usare gli inibitori della colinesterasi, l'enzima che catabolizza l'acetilcolina: inibendo tale enzima, si aumenta la quantità di acetilcolina presente nello spazio intersinaptico.

Sono a disposizione farmaci inibitori dell'acetilcolinesterasi, che hanno una bassa affinità per l'enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la barriera emato-encefalica (BEE), e agire quindi di preferenza sul sistema nervoso centrale. Tra questi la tacrina, il donepezil, la fisostigmina, la galantamina e la neostigmina sono stati i capostipiti, ma l'interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato sugli inibitori reversibili della acetilcolinesterasi, quali la rivastigmina e la galantamina stessa.

Un'altra, più recente, linea d'azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema glutamatergico, come la memantina. La memantina ha dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave[85].

La tacrina non è più utilizzata perché epatotossica, mentre il donepezil, inibitore non competitivo dell'acetilcolinesterasi, sembrerebbe più efficace[86] perché, con una emivita di circa 70 ore, permette una sola somministrazione al giorno (mentre la galantamina ha una emivita di 7 ore). Ovviamente però il donepezil è più soggetto a manifestare effetti collaterali dovuti ad un aumento del tono colinergico (quali insonnia, aritmie, bradicardia, nausea, diarrea). Di contro, la galantamina e la rivastigmina possono causare gli stessi effetti, ma in misura molto minore.

Altre ipotesi di approccio farmacoterapico

Oltre alle molecole e strategie di intervento già delineate, sono state variamente proposte altre ipotesi di intervento farmacologico, con evidenze cliniche di efficacia però insufficienti o non confermate.

Tra esse, un'altra ipotesi complementare di approccio alla patologia è legata alla proposta d'uso di FANS (anti-infiammatori non steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una dinamica infiammatoria che danneggia i neuroni. L'uso di antiinfiammatori è stato quindi ipotizzato che potrebbe migliorare la condizione clinica dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia (infatti gli estrogeni bloccano la morte neuronale indotta dalla proteina beta-amiloide)[87] Alcuni ricercatori avrebbero messo in evidenza anche la potenziale azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che sembrerebbe prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio; ma ricerche più recenti non hanno confermato l'utilità della vitamina E (né della vitamina C) nella prevenzione primaria e secondaria della patologia[88], sottolineando anzi i potenziali rischi sanitari legati all'eccessiva e prolungata assunzione di vitamina E.

Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l'eccitotossicità, ossia un'eccessiva liberazione di acidi Glutammico ed Aspartico, entrambi neurotrasmettitori eccitatori, che inducono un aumento del calcio libero intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti del glutammato e dell'aspartato, ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali.

Sono presenti in commercio farmaci definiti Nootropi ("stimolanti del pensiero"), come il Piracetam e l'Aniracetam: questi farmaci aumentano il rilascio di Acido glutammico; anche se questo parrebbe in netta contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di apprendimento. Aumentandone la quantità, è stato ipotizzato di poter contribuire a migliorare i processi cognitivi. Anche in questo caso, l'evidenza clinica di efficacia è scarsa.

Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina (sembra che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale, ed un conseguente miglioramento delle performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko biloba, ma l'evidenza scientifica a supporto di questa tesi è negativa[89].

Intervento psicosociale e cognitivo

Una stanza speciale progettata per la terapia di riabilitazione sensoriale.

Le forme di trattamento non-farmacologico consistono prevalentemente in interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo[90]. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico, ed hanno dimostrato una loro efficacia positiva nella gestione clinica complessiva del paziente[84][91][92].

I training cognitivi (di diverse tipologie, e con diversi obbiettivi funzionali: Reality-Orientation Therapy, Validation Therapy, Reminescence Therapy, i vari programmi di stimolazione cognitiva - Cognitive Stimulation Therapy, etc.), hanno dimostrato risultati positivi sia nella stimolazione e rinforzo delle capacità neurocognitive, che nel miglioramento dell'esecuzione dei compiti di vita quotidiana[93][94]. I diversi tipi di intervento si possono rivolgere prevalentemente alla sfera cognitiva (ad es., Cognitive Stimulation Therapy), comportamentale (Gentlecare, programmi di attività motoria), sociale ed emotivo-motivazionale (ad es., Reminescence Therapy, Validation Therapy, etc.).

La Reality-Orientation Therapy, focalizzata su attività formali ed informali di orientamento spaziale, temporale e sull'identità personale, ha dimostrato in diversi studi clinici di poter facilitare la riduzione del disorientamento soggettivo, e contribuire a rallentare il declino cognitivo, soprattutto se effettuata con regolarità nelle fasi iniziali e intermedie della patologia[95][96].

I vari programmi di stimolazione cognitiva (Cognitive Stimulation), sia eseguiti a livello individuale (eseguibili anche presso il domicilio dai caregivers, opportunamente formati), che in sessioni di gruppo, possono rivestire una significativa utilità nel rallentamento dei sintomi cognitivi della malattia[93], e, a livello di economia sanitaria, presentano un ottimo rapporto tra costi e benefici[97]. La stimolazione cognitiva, oltre a rinforzare direttamente le competenze cognitive di tipo mnestico, attentivo e di pianificazione, facilita anche lo sviluppo di "strategie di compensazione" per i processi cognitivi lesi, e sostiene indirettamente la "riserva cognitiva" dell'individuo[98].

La Reminescence Therapy (fondata sul recupero e la socializzazione di ricordi di vita personale positivi, con l'assistenza di personale qualificato e materiali audiovisivi), ha dimostrato risultati interessanti sul miglioramento dell'umore, dell'autostima e delle competenze cognitive, anche se ulteriori ricerche sono ritenute necessarie per una sua completa validazione[99].

Forme specifiche di musicoterapia ed arteterapia, attuate da personale qualificato, possono essere utilizzate per sostenere il tono dell'umore e forme di socializzazione nelle fasi intermedio-avanzate della patologia, basandosi su canali di comunicazione non verbali[98].

Positivo sembra essere anche l'effetto di una moderata attività fisica e motoria, soprattutto nelle fasi intermedie della malattia, sul tono dell'umore, sul benessere fisico e sulla regolarizzazione dei disturbi comportamentali, del sonno e alimentari[98].

Fondamentale è inoltre la preparazione ed il supporto, informativo e psicologico, rivolto ai "caregivers" (parenti e personale assistenziale) del paziente, che sono sottoposti a stress fisici ed emotivi significativi, in particolare con l'evoluzione della malattia[91][100].

Una chiara informazione ai famigliari, una buona alleanza di lavoro con il personale sanitario, e la partecipazione a forme di supporto psicologico diretto (spesso tramite specifici gruppi di auto-mutuo-aiuto tra pari), oltre all'eventuale coinvolgimento in associazioni di famigliari, rappresentano essenziali forme di sostegno per l'attività di cura[90].

Sempre nello stesso senso appare di particolare utilità, solitamente a partire dalle fasi intermedie della patologia, l'inserimento del paziente per alcune ore al giorno nei Centri Diurni, presenti in molte città (attività che può portare benefici sia per la stimolazione cognitiva e sociale diretta del paziente, che per il supporto sociale indiretto ai caregivers)[90].

La cura dell'Alzheimer è però ai primi passi: al momento non esistono ancora farmaci o interventi psicosociali che guariscano o blocchino la malattia. Si può migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e provare a rallentarne il decorso nelle fasi iniziali e intermedie.

Progetti di calcolo distribuito

Esistono alcuni progetti di calcolo distribuito in Rete nel campo della proteomica che si propongono di contribuire alla ricerca scientifica sul Morbo di Alzheimer, migliorando la conoscenza delle proteine coinvolte nei suoi processi etiopatogenetici, attraverso lo sfruttamento in parallelo della potenza di calcolo inutilizzata dei microprocessori di centinaia di migliaia di PC ed altri dispositivi di elaborazione dati normalmente utilizzati dai volontari, che si collegano tramite Internet, ed emulano informaticamente i meccanismi di ripiegamento delle proteine.

A tali progetti chiunque può liberamente partecipare scaricando, e lasciando eseguire in background, il software necessario, progettato in modo da essere compatibile con le normali attività dell'utente.

I principali sono:

Esiste anche un progetto internazionale finanziato dall'Unione Europea e denominato neuGRID. Questo prevede lo sviluppo di un'infrastruttura digitale per la ricerca scientifica, basata sul sistema Grid e dotata di un'interfaccia user-friendly, che permetterà alla comunità di neuroscienziati europei l'avanzamento della ricerca per lo studio del morbo di Alzheimer e di altre malattie neurodegenerative.

Note

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Bibliografia

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