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La politica economica fascista si riferisce alla politica del fascismo in ambito economico e finanziario.

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Origini del fascismo in Europa[modifica | modifica wikitesto]

Il fascismo in Italia, e il nazionalsocialismo in Germania nacquero e raggiunsero il potere tra gli anni 1910 e 1920. Altri movimenti sociali e politici con alcune caratteristiche simili si affermarono successivamente anche in Spagna con il Movimiento Nacional del generale Franco, in Portogallo con l'Estado Novo di Salazar, e in Grecia col Metaxismo. Questi movimenti e regimi politici, anche se talora accomunati in una definizione generale di fascismo, ebbero in realtà significative differenze.[1]

Il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco sorsero tra simili tensioni sociali e politiche che si diffusero in Europa dopo la prima guerra mondiale. Nel periodo precedente la guerra, le società europee erano state profondamente trasformate dalla seconda rivoluzione industriale, dalla diffusione delle idee e dei movimenti socialisti, dall'attesa di una maggiore partecipazione pubblica nella politica, dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche e della tecnologia, dall'estensione dell'istruzione pubblica, e dalla nascita dello stato sociale. Queste trasformazioni minacciarono gli equilibri del sistema politico liberale di molti paesi europei, che era espressione di elite. La prima guerra mondiale lacerò le società e le loro economie: le tensioni preesistenti aumentarono e generarono conflitti tra le generazioni e tra le classi sociali, dando origine a profonde divisioni ideologiche.[2] Nuovi movimenti, alcuni ispirati dalla rivoluzione bolscevica, molti galvanizzati dall'esperienza della guerra, sia a destra che a sinistra, divennero protagonisti della lotta politica, attaccarono le idee liberali e le fondamenta del sistema parlamentare.[3]

Nati in questo simile contesto generale, il nazionalsocialismo tedesco e il fascismo italiano avevano alcuni tratti comuni: rigettavano le idee sociali e politiche fino ad allora più diffuse, ovvero il razionalismo illuminista, il liberismo e il socialismo, che consideravano cause di una decadenza sociale; vedevano la politica come una competizione darwiniana che premia il più forte; crearono potenti miti nazionali e razziali per stimolare il consenso politico e il sostegno a obiettivi di crescita, espansione territoriale e eventualmente alla preparazione della guerra; sulla base di questi miti, propugnavano un rinnovamento della società nei rispettivi paesi; trovavano il più vasto consenso nella classe media; una volta arrivati al potere marginalizzarono le idee e i propri affiliati più radicali, estesero l'apparato statale ed il suo controllo sulla popolazione, che era chiamata ad identificarsi nello stato totalitario; e stabilirono dittature personali.[2]

Interpretazioni delle politiche economiche[modifica | modifica wikitesto]

Le interpretazioni del fascismo in generale, e delle sue politiche economiche in particolare, sono state molto diverse. Una parte degli storici, specie di ispirazione marxista, ha visto nel fascismo un sistema politico sostenuto dai capitalisti per controllare efficacemente i lavoratori, in un'epoca storica che vide l'impetuosa diffusione dei movimenti socialisti e comunisti.[4][5][6] Alcuni storici marxisti hanno proposto una stretta connessione tra capitalismo e fascismo; altri hanno parlato di una convergenza di interessi. Storici liberali hanno spiegato il fascismo con la diffusone di idee irrazionali e di una cultura che sminuiva la libertà e esaltava l'imperialismo, la violenza e la volontà di potenza.[3]

La storiografia più recente tende a superare le interpretazioni ideologiche e a condurre una analisi più dettagliata e fattuale del fascismo.[3] Attualmente, molti storici ed economisti non pensano che ci sia stata una politica economica coerente e simile tra Germania e Italia in quel periodo, sebbene ci furono aspetti generali di fondo simili.[1]

Secondo Berend, il loro tratto comune essenziale era il dirigismo economico, basato sulla supremazia statale nel'economia, che indirizzava le imprese e controllava le masse. I due regimi avevano una base ideologica (che subì mutamenti una volta preso il potere), ma non avevano inizialmente una teoria economica generale o un chiaro programma economico. La politica economica venne pragmaticamente asservita agli obiettivi politici di grandezza nazionale. Un programma economico venne stabilito gradualmente, centrato sull'intervento statale nell'economia.[1]

Payne considera che la politica economica era l'elemento meno chiaro dell'ideologia fascista. Fascismo italiano e nazionalsocialismo mettevano al centro gli obiettivi politici di grandezza nazionale. Essi intendevano perseguire una rapida modernizzazione economica, e costituire un nuovo ordine sociale, basato sul controllo statale, per limitare l'autonomia del capitalismo e stabilire nuove relazioni sociali di reciprocità nei sistemi produttivi.[7] Paxton similmente considera che le scelte economiche non erano basate su una teoria economica, ma sugli obiettivi politici: le idee sociali dei primi movimenti furono rapidamente messe da parte. I regimi, sia in Italia sia in Germania, consolidarono il proprio potere con misure opportunistiche sempre più autoritarie, introdotte in risposta a crisi ( esterne, interne o generate da loro stessi con le politiche di conquista).[4]

Gentile sostiene che ci fu una base ideologica originaria del fascismo italiano, ma non fu una teoria logica e coerente. Essa non va ricercata nei libri di dottrina fascista, ma piuttosto in un insieme di idee e valori a proposito della società e della vita, che motivarono azioni pratiche e ispirarono quei gruppi che si riconobbero nel fascismo. Il nucleo di fondo era fatto di aspirazioni di un rinnovamento spirituale per superare la perdita di fiducia nella razionalità della storia; il desiderio di umanizzare il capitalismo che stava trasformando radicalmente la società; e la subordinazione dei valori individuali a quelli collettivi, incarnati nello Stato. Secondo Gentile, non è possibile interpretare il fascismo con una singola teoria generale, ma si può analizzarne i tratti comuni studiandone molteplici dimensioni. In campo economico, l'elemento essenziale era "una organizzazione corporativa dell’economia, che sopprime la libertà sindacale, amplia la sfera di intervento dello Stato e mira a realizzare, secondo principi tecnocratici e solidaristici, la collaborazione dei ceti produttori sotto il controllo del regime, per il conseguimento dei suoi fini di potenza, ma preservando la proprietà privata e la divisione delle classi."[8]

Baker sostiene che la politica economica del fascismo ebbe una base teorica, ma questa fu confinata alle esplorazioni teoriche di piccoli gruppi di intellettuali, soprattutto in Italia e Francia, che rimasero piuttosto marginali, ispirati dal corporativismo e dal sindacalismo anarchico. Nella pratica dei regimi fascisti, le teorie economiche furono soprattutto un mito, e usate come espediente retorico per cercare il consenso nel pubblico. L'ideologia ebbe poca influenza sulle scelte concrete di politica economica. Queste ivece si evolsero nel tempo e furono determinate dagli obiettivi politici nazionalisti e di preparazione alla guerra. I regimi eventualmente usarono idee generali di darwinismo sociale e anti-materialismo per giustificare il dirigismo statale e la conquista e lo sfruttamento economico di altri paesi, considerati civiltà inferiori.[6]

Tratti comuni delle politiche economiche[modifica | modifica wikitesto]

Teorie economiche dei primi movimenti fascisti[modifica | modifica wikitesto]

In Italia, durante il primo dopoguerra forti tensioni sociali, alimentati anche dall'esempio della rivoluzione russa, diedero vita ad una stagione di rivendicazioni sociali e scontri che ha poi preso il nome di biennio rosso (1919-1920). Il fascismo amalgamò resistenze alle spinte socialiste e assorbì movimenti ed idee che vi opponevano. Tra di essi erano diffuse idee di nazionalismo economico, sindacalismo e opposizione sia al socialismo, sia al liberismo. Uno dei maggiori ideologi dell'Associazione Nazionalista Italiana e futuro ministro fascista, Alfredo Rocco, propugnava la fondazione di organizzazioni statali (le corporazioni) capaci di riconciliare i contrapposti interessi di capitale e lavoratori per obiettivi nazionali. Nel 1922 Mussolini non aveva né una precisa visione ideologica, né un chiaro programma economico: propugnava misure di ispirazione socialista, quali la tassazione progressiva e quella sui profitti di guerra, il salario minimo, la nazionalizzazione delle industrie di armi e la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese.[1]

In Germania, i movimenti da cui sorse il nazionalsocialismo, come il Partito Tedesco dei Lavoratori, esprimevano un forte nazionalismo: erano espansionisti prima del conflitto mondiale, e dopo di esso veicolarono la frustrazione e il desiderio di rivincita contro le pesanti condizioni politiche ed economiche imposte dai vincitori sulla Germania. I movimenti di destra nazionalista erano frequentemente violenti, anti-semiti e repressivi. Il programma economico del Partito Tedesco dei Lavoratori nei primi anni 1920 era simile a quello fascista: enfatizzava principi generali (l'interesse generale doveva prevalere su quello particolare) e promuoveva analoghe misure fiscali e di partecipazione dei lavoratori ai profitti aziendali, vicine alle idee socialiste,[1]

Dirigismo statale[modifica | modifica wikitesto]

Dopo la prima guerra mondiale, molti paesi occidentali adottarono politiche di protezionismo commerciale e di diretto intervento statale nell'economia: il dirigismo statale si era rivelato molto efficace nel sostenere ed indirizzare l'economia di guerra. I paesi del'Europa meridionale, che erano solo parzialmente industrializzati, videro nel dirigismo statale un mezzo per accelerare la propria modernizzazione e avanzare lo sviluppo nazionale in un'epoca di forte competizione internazionale. Questo contribuisce a spiegare il dirigismo economico fascista in Italia negli anni 1930. In Germania, che nel 1933 aveva un PIL per abitante doppio di quello italiano, la motivazione fu piuttosto l'orgoglio nazionale ferito dall'esito del conflitto mondiale: c'era un diffuso desiderio di rivalsa contro i vincitori e di riprendere le politiche espansionistiche nazionali.[1]

Dirigismo e statalismo in Italia[modifica | modifica wikitesto]

La politica economica del fascismo italiano non fu immediatamente statalista. Mussolini sviluppò le proprie idee economiche gradualmente. Dal 1922 al 1925 le prime misure economiche furono in linea con il liberismo precedente. Nel 1925 il governo decise il rientro della lira nel sistema dei pagamenti internazionali ad un tasso fortemente rivalutato: questa operazione, cosiddetta quota 90, favorì i settori economici più avanzati che dipendevano da importazioni (le industrie metallurgiche, meccaniche e chimiche) e sfavorì i settori esportatori tradizionali (tessile e alimentare).[9] L'intervento statale nell'economia si accentuò tramite grandi lavori pubblici, come le bonifiche, lo sviluppo della rete stradale, e della produzione energetica e, in chiave di autosufficienza e mitigazione di squilibri commerciali, l'intensificazione della produzione di cereali, con la molto propagandata battaglia del grano. Nel 1926 Mussolini diede una svolta autoritaria al regime e accentuò progressivamente la centralizzazione del potere.[1]

Nel 1929 l’Italia venne travolta dalle conseguenze della crisi di Wall Street che causò una grave crisi economica e una forte disoccupazione. Come reazione, in assenza di istruzioni globali che potessero gestire gli schock finanziari, tutti i paesi occidentali rafforzarono il protezionismo commerciale ed il nazionalismo economico.[10] Anche il governo italiano prese misure per salvare le banche e proteggere le imprese nazionali. La caratteristica italiana fu la misura dell’intervento statale, che fu molto esteso ed efficace, salvò il sistema finanziario e portò gran parte dell’economia in mano allo stato. Il ruolo statale superò l'intervento di emergenza quando nel 1933 fu costituito l’Istituto per la Ricostruzione Industriale: esso acquisì il controllo di importanti banche detentrici di partecipazioni industriali. L’IRI si ritrovò a controllare, direttamente o indirettamente, il 42% delle società per azioni italiane, tra cui gran parte dei settori siderurgico, telecomunicazioni, meccanica; e fette cospicue della chimica e del tessile.[11][12] Inizialmente l'IRI era stato costituito come ente temporaneo per il risanamento. Divenne permanente quando ci si rese conto che il capitale disponibile sul mercato italiano non avrebbe consentito di privatizzare nuovamente le imprese partecipate.[13][14]

Nel 1935 l'Italia lanciò una guerra di conquista in Etiopia. La Lega delle Nazioni assoggettò l'Italia a sanzioni economiche, che durarono 8 mesi, fino al luglio del 1936. Le forti restrizioni commerciali diedero ulteriore impulso alla politica di autarchia. Il dirigismo statale, nato dunque come reazione alla crisi finanziaria, crebbe poi per indirizzare la produzione verso le necessità della guerra in Etiopia: la spesa pubblica aumentò fortemente e grandi commesse militari alimentarono l'industria. Crebbe anche il controllo statale sui cambi della valuta e sul commercio estero. Nell'ottobre del 1936 la lira, molto apprezzata sul dollaro, fu svalutata. Non si tornò, tuttavia, alla convertibilità della valuta, che rimase sotto crescenti controlli statali, così come vi rimase il commercio.[15]

Negli anni 1930, il dirigismo statale diede impulso allo sviluppo delle industrie di punta per la preparazione alla guerra, quali la siderurgia, l'energia e la chimica, anche se non riuscì a colmare il divario con gli altri paesi occidentali.[9] L'Italia non raggiunse il tasso di crescita della Germania: il dirigismo fascista non disponeva di un apparato statale altrettanto efficiente quanto quello tedesco e non mise in essere misure di controllo dell'economia di pari efficacia.[16]Tuttavia, il dirigismo statale creò un sistema di imprese pubbliche che, dopo la seconda guerra mondiale, in un mutato contesto globale, fornì trampolino di lancio del miracolo economico italiano.[15]

Sindacalismo[modifica | modifica wikitesto]

In Italia il fascismo sorse al potere sullonda Relazione col capitalismo

Corporativismo[modifica | modifica wikitesto]

Terza via[modifica | modifica wikitesto]

Effetti sull'economia e la società[modifica | modifica wikitesto]

Ma sarebbe sbagliato vedere il "fascismo" come una mera manovra difensiva da parte di

manovra difensiva da parte di una borghesia disperata e reazionariae erao

per scongiurare l'inevitabile rivoluzione. I movimenti fascista e nazista

sono stati espressione dell'espansione della borghesia e del suo desiderio di vedere la società organizzata

di vedere la società organizzata in modi che favorissero la sua continua ascesa sociale.

sociale.


Il fascismo sostiene di rappresentare una terza via rispetto al socialismo internazionale ed al capitalismo liberale, fornendo un'alternativa economica alle due ideologie precedentemente esistenti.[17]

I caratteri fondamentali delle dottrine economiche fasciste sono rappresentati da: corporativismo, socializzazione, dirigismo, autarchia, socialismo nazionale, sindacalismo nazionale. Queste caratteristiche possono essere ritrovate sia nelle politiche economiche dei fascismi di governo sia nei principi di tutti i movimenti fascisti senza incarichi dall'inizio del novecento ad ora, sebbene ognuno di essi abbia dato a queste caratteristiche un peso diverso, a seconda del luogo e del periodo storico.

Il corporativismo viene favorito in un'ottica di collaborazione di classe, in contrapposizione alla lotta di classe marxista ed all'individualismo capitalista, sostenendo che le disuguaglianze tra gli uomini sono feconde e positive (contrariamente a quanto sostenevano i socialisti),[18] ma anche la necessità di convogliare la forza delle singole classi sociali nell'alveo dell'interesse nazionale, conferendo allo Stato un ruolo di intermediario nelle relazioni tra esse (a differenza dei liberalcapitalisti).[19] Si ritiene infatti che la prosperità derivi dal raggiungimento di una rinascita spirituale e culturale dello Stato stesso e da tale capacità di intermediario e risolutore di divergenze classiste.[20] I governi fascisti offrirono infatti benefici alle imprese, tentando di incoraggiare i profitti e la crescita di una grande industria pesante (ancora assente in Italia al tempo), facendo però in modo che tutte le attività economiche prestassero servizio per l'interesse nazionale.[21]

Il dirigismo economico[22] identifica invece un'economia in cui il governo esercita una forte influenza direttiva controllando produzione ed allocazione di risorse. In generale, eccetto la nazionalizzazione di alcune industrie, le economie fasciste inizialmente sono sempre state basate su proprietà ed iniziativa privata condizionate al servizio nei confronti dello Stato.[23] Successivamente, in alcuni casi (Repubblica Sociale Italiana anche se rimase lettera morta e Argentina peronista ad esempio), si arrivò alla socializzazione della proprietà dei mezzi di produzione tra i lavoratori di ogni grado dell'impresa.

L'autarchia fu uno degli obiettivi principali dei governi e dei movimenti fascisti.[24] L'intenzione dei provvedimenti autarchici è quella di realizzare l'autosufficienza economica della nazione, eliminando il ricorso alle importazioni dall'estero e favorendo perciò lo sviluppo del lavoro e della produzione nazionale interna.

«Il fascismo scoraggiò o vietò il commercio estero: l'idea era che troppo commercio internazionale avrebbe reso l'economia nazionale dipendente dal capitale internazionale e quindi vulnerabile alle sanzioni economiche internazionali. [senza fonte]»

Altra base concettuale della dottrina fascista fu la visione delle relazioni umane influenzata dal darwinismo sociale di tipo nazionale, per il quale esiste nel susseguirsi della Storia una "lotta per la vita" tra le diverse comunità e stirpi, nella quale le nazioni decadenti soccombono di fronte a quelle più giovani e forti.[25] Secondo De Grand questo portò a promuovere gli interessi degli affaristi, distruggendo sindacati ed organizzazioni della classe lavoratrice.[26], in realtà furono le leggi fascistissime del 1926 a sciogliere le organizzazioni precedenti, riconoscendo giuridicamente il sindacato nazionale fascista, costituito poi nel 1934 in diversi sindacati all'interno delle varie corporazioni, in cui lavoratori e dirigenti erano inquadrati secondo le affinità professionali.

Italia fascista[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia dell'Italia fascista e Storia economica d'Italia.

La salita al potere[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Quota 90 e Riforme De Stefani.

Il movimento fascista diventò partito nel novembre del 1921.

Il fascismo storico italiano seguì nella sua politica economica linee guida diverse e drastici cambi di velocità nelle riforme: tratti maggiormente socialisti e rivoluzionari nel periodo movimentista (1919-1922), nel tardo regime e durante la Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), più lenti ed ingessati durante la prima parte del ventennio, ma seguenti un unico filo logico. Durante il regime fascista si scontrarono spesso due visioni differenti: una più rivoluzionaria ed una conservatrice (spesso dominante), che determinò dichiarazioni molto diverse tra loro da parte dei membri dello stesso Partito Nazionale Fascista.[27]

Nei decenni precedenti la Marcia su Roma si sviluppò un notevole attivismo in tutta la società, in special modo tra la classe lavoratrice, realizzatosi in molteplici movimenti di matrice diversa: sindacalismo rivoluzionario, anarchico e socialista, futurismo, nazionalismo, ecc. Il Partito Socialista Italiano guadagnò un crescente consenso elettorale, mentre nel 1919, a Milano in piazza Sansepolcro, vennero fondati i Fasci Italiani di Combattimento, nucleo originario del Fascismo, da parte di un movimento eterogeneo di nazionalisti, socialisti, futuristi, sindacalisti, interventisti reduci della Grande Guerra, ecc.

Dopo il biennio rosso – un periodo di scioperi, scontri e violenze ai limiti della guerra civile, principalmente tra socialisti, fascisti, repubblicani e forze dell'ordine –, e a seguito della Marcia su Roma, vista l'incapacità delle forze politiche tradizionali di gestire la situazione il Re Vittorio Emanuele III dette a Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo. Questo in quanto ritenne il Fascismo l'unica possibilità per concludere le violenze ed allontanare la paura diffusa tra gli industriali e la classe media, che ritenevano che la rivoluzione bolscevica fosse imminente. Poco dopo l'ascesa al potere, Mussolini definì la propria posizione economica dicendo: "Il governo fascista accorderà piena libertà all'impresa privata ed abbandonerà ogni intervento nell'economia privata."[28]

Regime fascista[modifica | modifica wikitesto]

Durante i primi quattro anni di governo, dal 1922 al 1926, Mussolini tenne una politica economica improntata al laissez-faire sotto il Ministero delle Finanze di Alberto de' Stefani: incoraggiò la libera concorrenza, ridusse le tasse, abbatté regolamentazioni economiche e restrizioni al commercio[29] e ridusse inoltre la spesa pubblica riequilibrando il bilancio, privatizzando alcuni monopoli governativi (come la Zecca di Stato). Alcune leggi introdotte precedentemente dai socialisti, come la tassa sulle eredità, furono abrogate.[30]

Nel 1925 si iniziò anche a distruggere la cartamoneta al fine di frenare l'inflazione. Complessivamente furono inceneriti 320 milioni di lire[31].

Alla presenza del ministro Alberto De Stefani vengono scaricati i sacchi pieni di cartamoneta destinati all'incenerimento
I sacchi contenenti cartamoneta prima di essere inceneriti vengono verificati

Durante questo periodo la ricchezza aumentò e la produzione industriale superò il picco raggiunto durante il periodo bellico alla metà degli anni venti, pur con un aumento dell'inflazione.[32] Complessivamente, in questo primo periodo, la politica economica fascista seguì principalmente le linee del liberalismo classico, con l'aggiunta di tentativi di stimolo della produzione domestica e di equilibrio di bilancio.[33]

In un discorso del maggio 1924, Mussolini dichiarò di appoggiare il diritto allo sciopero.[34]

«Una volta che Mussolini riuscì a guadagnarsi un potere più solido [...] il laissez-faire fu progressivamente abbandonato in favore dell'intervento governativo, il libero commercio fu rimpiazzato dal protezionismo e gli obiettivi economici furono espressi sempre più con esortazioni e terminologia militare."»

Ma nei fatti intraprese una lotta a questo diritto:

Con l'avvento del corporativismo fascista si ritornò alla repressione penale dello sciopero[25], attraverso la creazione di alcune figure di reato previste dalla L. n. 563/1926 (e dal relativo regolamento di esecuzione, il R.d. n. 1130/1926)[26], le quali saranno poi trasfuse nel codice penale del 1930 (Codice Rocco).

Difatti, il Codice Rocco, agli articoli da 502 a 508, sanzionava come «delitti contro l'economia pubblica» tutte le forme di lotta sindacale, dallo sciopero alla serrata, fino al boicottaggio, al sabotaggio e all'occupazione d'azienda. Agli articoli 330 e 333 – ora abrogati dalla L. n. 146 del 12 giugno 1990 –, invece, considerava «delitti contro la Pubblica Amministrazione» l'interruzione di un pubblico servizio o l'abbandono individuale di un pubblico servizio.

La ratio legis[27] delle nuove fattispecie penali differisce, però, da quella del codice penale sardo d'ispirazione liberale, giacché il Codice Rocco si proponeva di garantire il funzionamento delle controversie attraverso la Magistratura del lavoro.

L'art.502 del codice penale, che vietava lo sciopero e la serrata per fini contrattuali, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza 4 maggio 1960, n. 29). Con successive sentenze la Corte costituzionale ha poi dichiarato la parziale illegittimità degli artt. 503 (serrata e sciopero per fini non contrattuali) e 504 (coazione alla pubblica autorità mediante serata o sciopero), stabilendo che, in base a tali norme, sono punibili i soli scioperi che siano diretti "a sovvertire l'ordinamento costituzionale ovvero ad impedire od ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la volontà popolare" (sentenze del 27 dicembre 1974, n. 290, e del 2 giugno 1983, n. 165). La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948, all'articolo 40, fa assurgere lo sciopero a diritto, e si deve all'incessante lavorio della Corte costituzionale la modifica dei dettati contrari al diritto costituzionale dell'astensione dal lavoro.[28]

Il ministro De Stefani si dimise nel 1925: la sua politica di libero commercio lo aveva reso inviso ad ampi settori dell'industria pesante italiana e della proprietà terriera, inclini al protezionismo e contrari alle sue aperture doganali, fino ad alienargli il consenso dello stesso Mussolini[36]. Dissonante con il costume economico nazionale era anche la sua avversità ai salvataggi bancari e industriali per mano statale, a cui pure si era dovuto inizialmente adeguare[36]. Fu la stessa Confindustria a invocarne la rimozione, quando, nella primavera del 1925, la politica deflattiva messa in atto per fronteggiare un rialzo innaturale dei titoli di borsa aveva causato un crollo improvviso degli stessi valori di borsa[36].

Nel 1926, in un suo discorso, Mussolini chiese politiche monetarie che fermassero l'inflazione e stabilizzassero la valuta italiana mentre, con le leggi fascistissime, proibì gli scioperi creando una speciale magistratura che si occupasse del lavoro e della sua difesa e dette riconoscimento giuridico al sindacato nazionale fascista, che venne poi ristrutturato con la riforma corporativista. Dal 1925 al 1928, con il nuovo ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, le politiche monetarie del governo determinarono un periodo di deflazione per l'economia italiana.[37][38]

Il 2 luglio 1926 venne creato il Ministero delle corporazioni, che ebbe competenze sul controllo e sulla regolamentazione dei salari e delle condizioni del lavoro, ma anche sull'alta direzione dell'intera economia nazionale. Mussolini si dichiarò convinto di poter realizzare, attraverso il meccanismo corporativo, la mobilitazione civile ed economica di tutti gli italiani.

«"Il corporativismo è la pietra angolare dello Stato fascista, anzi lo Stato fascista o è corporativo o non è fascista"»

Nell'aprile del 1927 fu pubblicata la Carta del lavoro, uno dei documenti fondamentali del fascismo. Con essa fu istituito il tribunale del lavoro, col compito di giudicare i conflitti fra capitale e lavoro al di fuori delle rivendicazioni violente di tutte le classi sociali, in quanto non tollerando lo Stato nessuna forma di giustizia privata, sia in campo civile che penale, questa sarebbe stata vietata anche sul luogo di lavoro (decisione in cui rientrano i divieti di scioperi e serrate del 1926).

Nel 1929 l'Italia subì gli effetti della crisi del '29, i prezzi diminuirono, la produzione rallentò e la disoccupazione salì dai 300.787 individui del 1929 a 1.018.953 nel 1933.[40] Gli effetti furono, in un paese già in crisi per la politica della rivalutazione, seppur negativi in termini di produzione meno devastanti che nel resto del mondo, dal punto di vista dell'occupazione e degli effetti sociali, grazie ad un forte intervento statale. [41]

Fu in questo frangente che il Fascismo operò una svolta economica in senso nazionalistico e protezionista: nazionalizzò le holding delle grandi banche, che avevano accumulato notevoli quantità di titoli industriali approfittando della crisi,[42] emise nuovi titoli per garantire un credito alle banche e si garantì il controllo dei prezzi in conformità con l'interesse nazionale.[43]

Vennero costituiti enti pubblici, tra i quali il più importante fu l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) (1933). Questo andò a raccogliere tutte le partecipazioni statali in banche ed imprese private, divenendo proprietario delle maggiori banche italiane (tra cui il Banco di Roma, la Banca Commerciale, il Credito Italiano, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia)[44], e del 20% dell'intero capitale azionario nazionale (detenendo tra l'altro la proprietà di Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell'Adriatico, SIP, SME, Terni, Edison,...), tra cui il 75% della produzione di ghisa e il 90% dell'industria cantieristica navale.[45] Tanto che nel 1935 Mussolini si vantò del fatto che tre quarti delle imprese italiane dipendessero dallo Stato.[46] Una delle prime azioni in questo senso fu il salvataggio del complesso metallurgico Ansaldo con un finanziamento di 400 milioni di Lire.

«"Mentre in ogni altra parte del mondo o quasi la proprietà privata stava facendosi carico delle sofferenze causate dalla depressione, in Italia, grazie alle azioni di questo governo fascista, la proprietà privata non è stata solo salvata, ma anche rafforzata."»

Dal 1934 tra gli obiettivi principali della politica economica venne posta l'autarchia, ossia l'autosufficienza agricola, industriale e nel reperimento di risorse e, più in generale, l'indipendenza economica nazionale. Vennero imposte significative tariffe doganali e barriere commerciali[48], in ottica di aumento della competitività dei prodotti italiani sul mercato interno.

Il Fascismo italiano adottò inoltre una politica di spesa pubblica keynesiana per stimolare l'economia attraverso il settore pubblico. Tra il 1929 ed il 1934 la spesa per i lavori pubblici triplicò e superò la spesa per la difesa, diventando l'elemento di maggiore rilevanza del bilancio governativo.[49]

Nel 1935, in seguito all'invasione dell'Etiopia, la Società delle Nazioni decretò l'applicazione di sanzioni commerciali nei confronti dell'Italia. Questo spinse Mussolini a raggiungere l'autarchia economica più rapidamente, rafforzando l'idea che l'autosufficienza fosse essenziale per la sicurezza nazionale, riducendo l'impatto delle sanzioni. In particolare, l'Italia proibì severamente la maggior parte delle importazioni e il governo cercò di persuadere i consumatori a comprare prodotti fatti in Italia. Ad esempio, fu lanciato lo slogan “Preferite il Prodotto Italiano”.[50] Nel maggio dello stesso anno, il governo obbligò individui e imprese a consegnare tutti i titoli esteri alla Banca d'Italia. Il 15 luglio 1936 le sanzioni economiche sull'Italia furono rimosse, ma la politica di indipendenza economica non subì mutamenti.

Il 19 gennaio 1939 venne istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni, che sostituiva la Camera dei deputati, e tenne la sua seduta inaugurale il 23 marzo dello stesso anno.

Il governo Mussolini[modifica | modifica wikitesto]

In una visione politicamente orientata all'interventismo economico e all'organicità ed inclusività nelle strutture dello Stato, furono varati numerosi provvedimenti in termini di legislazione sociale. I più importanti furono:

  • nel 1923 le leggi per la tutela del lavoro delle donne[51], l'assistenza ospedaliera per i poveri[52], l'assicurazione contro la disoccupazione[53], l'assicurazione contro l'invalidità e la vecchiaia[54], la Riforma “Gentile” della scuola pubblica[55];
  • nel 1925 la legge per l'assistenza alla maternità e all'infanzia[56];
  • nel 1927 le leggi per l'assistenza agli illegittimi e abbandonati[57], l'assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi[58] e la sistematizzazione ed organizzazione dell'attività lavorativa e sindacale nella Carta del Lavoro;
  • nel 1928 l'esenzione tributaria per le famiglie numerose[59];
  • nel 1929 l'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali[60] e la costituzione dell'Opera nazionale orfani di guerra[61];
  • nel 1933 rinomina la Cassa Nazionale Infortuni sul Lavoro accorpandola a altri enti assicuratii privati Istituto nazionale fascista per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INFAIL, poi divenuto INAIL)[62] e similmente rinomina la cassa nazionale di Previdenza per linvalidità e la vecchiaia in Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (INFPS, poi divenuto INPS)[63]
  • nel 1935 l'istituzione libretto di lavoro[64];
  • nel 1937 la riduzione settimana lavorativa a 40 ore, ma con proporzionale riduzione del salario[65], la costituzione degli enti comunali di assistenza E.C.A.[66], l'introduzione degli assegni familiari[67] e il sostegno alle casse rurali ed artigiane[68];
  • nel 1939 l'estensione della tessera sanitaria per gli addetti ai servizi domestici[69];
  • nel 1943 la creazione dell'Istituto nazionale per le assicurazioni contro le malattie I.N.A.M.[70].

Il coinvolgimento dell'Italia nella seconda guerra mondiale, come membro dell'Asse, richiese la trasformazione dell'economia nazionale in un'economia di guerra. Questo causò tensioni nel modello corporativo, per il negativo svolgimento della guerra stessa e la difficile opera di persuasione del governo nei confronti delle grandi imprese, renitenti a finanziare quella che veniva vista come una sconfitta certa[senza fonte].L'invasione degli Alleati nel 1943 portò al collasso della struttura politica ed economica italiana, con la divisione tra Repubblica Sociale Italiana (RSI) al nord ed un sud amministrato dagli Alleati.

Repubblica Sociale Italiana[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Repubblica Sociale Italiana.

Tra il 1943 ed il 1945, nella Repubblica Sociale Italiana, si ebbero nuovi tentativi di rivoluzionare il sistema economico per il posizionamento della componente capitalista ed internazionalista con il governo alleato al sud. Il corporativismo venne inserito in un sistema economico aziendale socializzato, in cui lavoratori e dirigenti possiedono medesimi diritti e doveri. In questo caso il corporativismo funge da organo facente le funzioni del padrone, non più esistente questo come soggetto privato, sostituito adesso da un'assemblea di tutti i lavoratori che, al tempo stesso, possiedono e lavorano nell'azienda stessa.

Il 20 dicembre 1943 viene costituita la Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti (C.G.L.T.A.), come la base del sistema corporativo della RSI.[71] Suo scopo era di essere un contenitore organizzativo di tutte le singole corporazioni, rifondate sulla base delle nuove regole stabilite nel Congresso di Verona. Secondo queste regole le corporazioni avrebbero rappresentato ognuna un settore produttivo, secondo lo schema già esistente, e avrebbero rappresentato ogni ambito produttivo e, indirettamente, ogni lavoratore secondo una logica organicistica, in previsione della creazione della democrazia organica.

Il reddito pro capite nel 1944, principalmente a causa della guerra, si trovava ad uno dei punti più bassi del XX secolo.[72]

Germania nazionalsocialista[modifica | modifica wikitesto]

La Repubblica di Weimar[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Repubblica di Weimar.

Il nazionalsocialismo inizia la sua ascesa durante la repubblica di Weimar e lo shock della crisi del 1929.

I problemi economici (e non solo) tedeschi derivavano direttamente dalla sconfitta nella prima guerra mondiale: il Trattato di Versailles, considerato dalla popolazione come punitivo e umiliante, costrinse la Germania a cedere tutte le sue colonie, copiose aree del proprio territorio (a vantaggio di Francia, Belgio, Danimarca e Polonia) ricche di risorse (come la Ruhr), a quasi azzerare il proprio esercito e a pagare enormi somme in riparazioni di guerra (pari a 6,6 miliardi di sterline). Queste misure sanzionatorie danneggiarono pesantemente l'economia tedesca, creando anche un forte spirito di risentimento.

Il regime costituito in Germania nel 1919 non era stato accettato con benevolenza né dalle formazioni conservatrici né dal partito comunista, mostrando l'inadeguatezza dei socialdemocratici e cattolici.

Tra il 1930 ed il 1933 il Cancelliere Heinrich Brüning tentò il risanamento delle disastrose condizioni economiche dello Stato, senza maggioranza parlamentare e governando con il solo strumento dei decreti presidenziali d'emergenza. La Repubblica si trovava in stato di iperinflazione rampante, massiccia disoccupazione e notevole abbassamento della qualità della vita. Brüning, esperto di finanza, tentò di superare la crisi applicando le teorie economiche liberali, tagliando drasticamente le spese statali, cancellando le commesse pubbliche e molte concessioni sociali, tra cui l'assicurazione obbligatoria sulla disoccupazione (introdotta solamente nel 1927.

Questa situazione di instabilità totale e di crisi economica e sociale favorì la conquista del potere da parte del NSDAP il 30 gennaio 1933, tramite le elezioni di due mesi prima.

Il programma del nazionalsocialismo[modifica | modifica wikitesto]

«La storia mondiale ci insegna che nessun popolo è diventato grande attraverso la propria economia ma che un popolo può deteriorarsi molto bene in tal modo [...] l'economia è una questione di importanza secondaria.»

Il nazionalsocialismo aveva una concezione della storia idealista, sostenendo che gli eventi umani fossero controllati da pochi individui eccezionali che seguono un alto ideale e conferendo perciò alle questioni economiche un valore minore. Hitler criticò tutti i precedenti governanti tedeschi, a partire da Bismarck, per aver "sottomesso la nazione al materialismo" e facendo affidamento all'espansione economico-finanziaria piuttosto che quella territoriale dello spazio vitale tedesco.[74]

Il "Programma dei venticinque punti" del partito, realizzato nel 1920, elencava anche richieste economiche, tra cui:

  • l'impegno dello Stato a procurare al cittadino la possibilità di vivere a guadagnare col lavoro (punto 7)
  • l'eliminazione dei guadagni ottenuti senza lavoro e senza fatica, l'eliminazione della schiavitù dell'interesse (punto 11)
  • la totale confisca dei profitti di guerra (punto 12)
  • la statalizzazione di tutte le imprese di carattere monopolistico (punto 13)
  • la partecipazione ai profitti delle grandi imprese (punto 14)
  • la riforma del commercio, a sostegno del ceto medio (punto 16)
  • la proibizione della speculazione fondiaria e una vasta riforma agraria (punto 17)[75][76]

Negli anni venti ci furono alcune proposte di modifiche e cambiamenti al programma, come quello di Gottfried Feder che, nel 1924, propose un nuovo programma composto di trentanove punti.[77] Dopo il 1925 Hitler rifiutò di prendere in considerazione modifiche del programma del partito, in quanto esso era considerato inviolabile, pur non menzionandolo mai apertamente nei discorsi o negli scritti, se non riferendosi ad esso come "il programma del movimento".[78]

I programmi economici nazionalsocialisti sono ancora oggi oggetto di dibattito.

La collocazione nazionalsocialista rispecchia comunque quella degli altri fascismi europei e mondiali, come traspare dalle affermazioni del suo fondatore. Hitler diceva infatti che "siamo socialisti, siamo nemici del sistema economico capitalistico odierno",[79], puntualizzando che la sua interpretazione del socialismo “non ha nulla a che fare con il socialismo marxista [...] il marxismo è contro la proprietà; il vero socialismo no."[80] e "Socialismo! Una parola del tutto infelice... Cosa significa davvero socialismo? Se le persone hanno qualcosa da mangiare e le proprie soddisfazioni, allora hanno il loro socialismo."[81] Fu anche citato per aver detto: "Dovevo solo sviluppare logicamente ciò che la socialdemocrazia aveva fallito [...] Il nazionalsocialismo è ciò che il marxismo sarebbe potuto essere se avesse rotto i propri assurdi legami con l'ordinamento democratico [...] Perché dobbiamo preoccuparci di socializzare banche ed industrie? Noi socializziamo gli esseri umani [...]".[82] In privato, Hitler disse anche: "Insisto assolutamente nel proteggere la proprietà privata [...] dobbiamo incoraggiare l'iniziativa privata ".[83], precisando in un'altra occasione che il governo avrebbe dovuto avere il potere di regolare l'uso della proprietà privata per il bene della nazione[84]. Un fondamento teorico di questo approccio eclettico al concetto di proprietà privata è nell'approccio filosofico mutuato da Fichte, che nel saggio Lo Stato Commerciale Chiuso ritiene la proprietà privata non come un diritto al possesso materiale di un bene quanto, piuttosto, un diritto esclusivo ad una determinata libera attività, di fatto vincolando il diritto di proprietà agli effetti positivi che questo può generare all'interno di un sistema economico.[85]

«La caratteristica basilare della nostra teoria economica è che non abbiamo alcuna teoria.»

Come gli altri fascismi, il nazionalsocialismo si rifaceva al darwinismo sociale, ossia l'idea che la selezione naturale si applichi alla società umana nella stessa misura degli organismi biologici[87]: riteneva che la storia prendesse forma da una lotta violenta tra nazioni e razze (allo stesso modo in cui avviene per le varie specie animali) e che soltanto le nazioni più sane e vitali, guidate da leader forti, fossero capaci di sopravvivere e svilupparsi[88]

Prima della guerra: 1933-1939[modifica | modifica wikitesto]

«Se non abbiamo oro, abbiamo, in cambio, la forza lavoro, e la forza del lavoro germanico è il nostro oro. Solo il lavoro crea nuovo lavoro.»

Nel 1933 Hitler nominò Hjalmar Schacht, ex membro del Partito Socialdemocratico di Germania, presidente della Reichsbank e, nel 1934, ministro dell'Economia.

Inizialmente Schacht proseguì la politica economica introdotta dal governo di Kurt von Schleicher per combattere gli effetti della grande depressione attraverso provvedimenti keynesiani ante litteram (l'opera principale di Keynes uscirà solo tre anni più tardi, nel 1936)[90], che facevano affidamento su grandi programmi di opere pubbliche, supportati da una forte spesa pubblica per stimolare l'economia e ridurre la disoccupazione (pari a 6 milioni di disoccupati nel 1933 e azzerata nel 1938). Un esempio di queste opere fu la costruzione dell'Autobahn, il sistema autostradale nazionale tedesco completamente gratuito e tuttora esistente. Negli anni successivi il controllo dei prezzi impedì la ricomparsa dell'inflazione.

Una particolarità dell'azione schachtiana fu l'introduzione dei cosiddetti "effetti-MEFO" (da Metallurgische Forschungsgesellschaft, il nome della ditta fittizia usata per quest'operazione): cambiali di pagamento, garantite dallo Stato, emesse dalle aziende a fronte di lavoro compiuto (ad esempio per pagare i propri fornitori). Si trattava di una moneta-«certificato di lavoro compiuto» parallela al reichsmark, utilizzata come veicolo per mobilitare capitali rimasti improduttivi durante il periodo recessivo, che poteva essere scontata presso la banca centrale stessa in qualsiasi momento in cambio della divisa corrente[91]. Come per i depositi, il passaggio simultaneo all'incasso da parte tutti i suoi detentori avrebbe significato una rovinosa spirale inflativa che, tuttavia, non si verificò. Analogamente ad una situazione economica di equilibrio è ipotizzabile che il mancato passaggio allo sconto sia da imputarsi ad un clima di tendenziale fiducia, nel quale le aziende stesse utilizzavano gli 'effetti-MEFO' come strumento di pagamento inter-industriale.[92]

Nel giugno del 1933 fu introdotto il Reinhardt Program: un esteso progetto di sviluppo delle infrastrutture che combinava incentivi indiretti, come riduzioni delle tasse, con investimenti pubblici diretti in canali, ferrovie ed autostrade.[93] Tra il 1933 ed il 1936 il Reinhardt Program fu seguito da altre iniziative simili, favorendo una grande espansione del settore edilizio. Nel 1933 solo 666.000 tedeschi lavoravano nelle costruzioni, mentre nel 1936 il numero era salito a 2.000.000.[94] Il settore stradale in particolare si stava espandendo a grande velocità, favorendo collateralmente l'espansione del mercato automobilistico e dei trasporti in generale, decretando un boom per tutti gli anni trenta.[95]

Anche il comparto militare venne sviluppato notevolmente: lo stralcio unilaterale dell'umiliante clausola di riduzione ai minimi termini dell'esercito tedesco dopo il Trattato di Versailles (solo centomila uomini, sei navi e nessuna aeronautica erano possibili) dette la possibilità alla Germania di ricostruire forze armate moderne che pareggiassero quelle delle altre potenze. Le commesse statali in tal senso ottennero il risultato di spingere ancor più la disoccupazione e lo sviluppo economico, aiutando la nazione a riprendersi più velocemente dalla grave crisi. Nel 1936 la spesa militare superò il 10% del PIL, superando gli investimenti in infrastrutture ed opere sociali operati in massa negli anni precedenti.[96] Diversi economisti, come Michał Kalecki, hanno definito la ripresa tedesca un esempio di keynesianismo militare, tuttavia altri hanno evidenziato il fatto che la maggior parte della crescita militare tedesca si verificò dopo il 1936, quando la ripresa economica era già ben avviata e la disoccupazione azzerata. La ripresa viene quindi spiegata come un esempio dell'efficace implementazione di moneta legale priva di debito emessa direttamente dal Tesoro, senza ricorrere ad un prestito della banca centrale, che avrebbe altrimenti richiesto riserve in oro come garanzia.[97]

Il 1936 rappresentò inoltre un punto di svolta per la politica commerciale tedesca. I prezzi mondiali delle materie prime (la maggioranza delle importazioni tedesche) stavano aumentando, al contrario si assisteva al crollo dei prezzi dei prodotti finiti (che dominavano le loro esportazioni). Ciò provocò uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti della Germania, aumentando il rischio di deficit, prospettiva considerata inaccettabile da parte di Hitler.

Seguendo l'esempio italiano la Germania iniziò a prendere le distanze dal libero commercio, favorendo un sistema incentrato sull'autosufficienza economica.[98] Tuttavia la Germania, diversamente dall'Italia, non cercò di raggiungere un'autarchia completa, impossibile a causa della mancanza di materie prime sul territorio nazionale. Il governo nazionalsocialista limitò perciò il numero dei propri partner commerciali, privilegiando quelli con nazioni di etnia germanica e dell'area italico-balcanica, firmando numerosi accordi bilaterali[99] ed ampliando la sfera d'influenza economica e politica tedesca.

Tali accordi commerciali vennero realizzati uscendo dal sistema di scambi finanziari internazionali e dando luogo ad un nuovo sistema basato sullo scambio paritario tra prodotti lavorati finiti (da parte della Germania) e materie prime (da parte delle controparti).

Nel 1938 Jugoslavia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia rivolgevano il 50% di tutto il loro commercio estero verso la Germania.[100]

Schacht introdusse per determinate nazioni (soprattutto gli Stati Uniti) l'obbligo di commerciare con banche speciali, nelle quali era depositata la valuta estera acquisita grazie agli acquisti fatti in Germania e tramite le quali si pagavano i beni delle controparti (in primis materie prime) con prodotti lavorati e finiti tedeschi o con scrips (molto utilizzati dai turisti in Germania), ossia note riscattabili in cambio di prodotti tedeschi. Così la Germania fu in grado di accumulare riserve di valuta estera da utilizzare in futuro.[101]

Durante la guerra: 1939-1945[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Piano Hunger.

Inizialmente lo scoppio della seconda guerra mondiale non portò grandi cambiamenti all'economia tedesca: i tre precedenti anni di preparazione bellica avevano reso possibile la conversione di parte dell'industria in senso militare senza grandi sforzi.

Diversamente dalla maggioranza degli altri governi, quello tedesco non aumentò significativamente le tasse dirette per finanziare la guerra: nel 1941 l'aliquota d'imposta per i redditi più alti era del 13,7% in Germania, mentre in Gran Bretagna vi era una differenza di dieci punti percentuali (23,7%).[102]

L'espansione militare durante la guerra (sia con annessione diretta che con l'installazione di governi fantoccio), obbligava gli sconfitti a vendere materie prime e prodotti agricoli ai compratori tedeschi a prezzi estremamente bassi per rendere possibile la competizione con le nazioni nemiche. La politica dello spazio vitale poneva un forte accento sulla conquista di nuove terre ad est e sullo sfruttamento delle stesse per fornire risorse agricole ed energetiche alla Germania, che restarono però limitate dall'intensità dello scontro sul Fronte Orientale e dalla politica sovietica della terra bruciata. Al contrario i territori occidentali e settentrionali inviarono notevoli quantità di beni e prodotti: nel 1941 due terzi dei treni francesi erano usati per portare materiali e prodotti in Germania ed al fronte orientale.[103]

La quota di spesa militare nell'economia tedesca iniziò a crescere rapidamente dopo il 1942, quando il governo nazista fu costretto a dedicare una parte sempre maggiore delle risorse della nazione per combattere una guerra che stava perdendo. Molte fabbriche civili furono convertite all'utilizzo bellico e messe sotto controllo militare. Alla fine del 1944, quasi l'intera economia tedesca era dedicata alla produzione militare, ma al contempo i bombardamenti Alleati stavano distruggendo fabbriche e città tedesche a gran velocità.

Fin da prima della guerra, ma soprattutto durante, crebbe la produzione industriale realizzata nei campi di lavoro da parte degli unzuverlässige elemente (indesiderabili: delinquenti comuni, omosessuali, dissidenti politici, ebrei). Nel 1944 i lavoratori dei campi costituivano un quarto del totale della forza lavoro tedesca e la maggioranza delle industrie nazionali avevano un contingente di prigionieri[104], come Thyssen, Krupp, IG Farben e anche Fordwerke, una filiale di Ford.[105]

Spagna franchista[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Franchismo.

Francisco Franco, capo di Stato spagnolo dal 1936 (guerra civile spagnola) al 1975 (anno della sua morte), basò le proprie politiche economiche sulle teorie del sindacalismo nazionale esposte dalla Falange spagnola: il partito fascista fondato nel 1933 da José Antonio Primo de Rivera, uno dei principali sostenitori di Franco durante la sua ascesa al potere.

Protezionismo e sindacalismo[modifica | modifica wikitesto]

Francisco Franco sostituì il precedente Stato liberale creando un sistema corporativo prendendo a modello quello italiano.

«Il corporativismo spagnolo fu meno efficace di quello italiano, a causa dei minori controlli e della minore coscienza politica creata. La corporazione degli agricoltori provocò ad esempio una carenza di pane e la creazione di un mercato nero per aver fissato prezzi troppo bassi (per rendere il pane accessibile a tutte le fasce sociali), cosa che provocò l'abbandono della coltivazione del grano a favore di beni più proficui.»

Le retribuzioni erano fissate dallo Stato, in veste di mediatore, durante negoziati tra sindacati nazionali dei lavoratori ed organizzazioni degli imprenditori.

«La maggior parte dei gruppi dei lavoratori prima della guerra civile faceva parte di sindacati comunisti ed anarchici, tuttavia il regime di Franco tendeva a favorire i capi nonostante la retorica sindacalista. In risposta, i lavoratori crearono sindacati illegali ed organizzarono scioperi, che vennero spesso repressi duramente dal governo franchista.»

«Il Fronte Popolare della Repubblica Spagnola dette il via ad un programma di redistribuzione della terra, obbligando i latifondisti a vendere i propri possedimenti allo Stato, che li avrebbe distribuiti agli agricoltori bisognosi in affitto. Dopo la guerra civile i proprietari originali riottennero le proprie terre, tuttavia, la Falange si concentrò principalmente nella ricostruzione ed il miglioramento dei centri urbani.»

Liberalizzazione ed Opus Dei[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1954 Franco abbandonò le politiche economiche fasciste per reintrodurre il libero mercato, implementando le riforme di tecnocrati spesso erano membri dell'organizzazione religiosa Opus Dei: un gruppo cattolico laico con posizioni rilevanti all'interno del Ministero delle Finanze e dell'Economia.[106] Gli organi corporativistici precedenti furono mantenuti, ma acquisirono un ruolo di secondo piano.

Commenti[modifica | modifica wikitesto]

Lo storico Gaetano Salvemini nel 1936 sostenne che il fascismo rendeva i contribuenti responsabili delle imprese private, poiché "lo Stato paga per gli errori dell'impresa privata... il profitto è privato ed individuale. La perdità è pubblica e sociale."[107]

Secondo Schweitzer le imprese tedesche furono incoraggiate a formare grandi concentrazioni industriali, sotto la protezione dello Stato, sconfiggendo il "socialismo della classe media" proibendo le contrattazioni collettive e mettendo fuorilegge i sindacati, ritenendo inoltre che "la fissazione monopolistica del prezzo divenne la regola nella maggior parte dei settori, i cartelli non si limitavano più alle industrie pesanti o di maggiori dimensioni. [...] Cartelli e quasi-cartelli (di grandi o piccole imprese) fissavano i prezzi, limitavano la produzione, dividevano i mercati e classificavano i consumatori così da realizzare profitti di monopolio.[108]" La crescita delle grandi imprese realizzò un sempre maggior legame con il governo, che seguiva politiche economiche che massimizzavano i profitti dei settori industriali strategici ed alleati, che supportavano gli obbiettivi nazionali.[109]

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Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia 2[modifica | modifica wikitesto]

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Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]