Utente:Giannidice/Sandbox9

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L'elusione fiscale è il comportamento messo in pratica dal contribuente che pone in essere un negozio giuridico o una concatenazione di atti giuridici di per sé leciti, al solo scopo di ridurre l'obbligazione tributaria.[1] A differenza dell'evasione fiscale, l'elusione non è perseguibile penalmente ma può costituire solo un illecito amministrativo.

In Italia, in presenza di alcune precise circostanze, essa può incontrare lo sfavore della normativa speciale in materia fiscale.

Cenni storici ed evoluzione del concetto di abuso del diritto[modifica | modifica wikitesto]

Premessa storica[modifica | modifica wikitesto]

L’ordinamento italiano è stato caratterizzato, sino alla fine degli anni ‘80, dall’assenza di una clausola antielusiva generale[2], il che ha portato la dottrina a chiedersi se fosse opportuno utilizzare in materia tributaria  le norme civilistiche, al fine di contrastare la condotta abusiva dell’elusione fiscale, richiamando in particolare l’articolo 1344 cc, rubricato “Contratto in frode alla legge”.[3][4] Tale articolo, che recita: "Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa."[5] , tuttavia, concentrava l’attenzione sull’illiceità della causa come conseguenza all’elusione di una norma imperativa, identificando l’elusione come aggiramento di una norma attraverso strumenti giuridici conformi alla legge[6], ma in contrasto con la ratio della norma stessa[7]. In contrasto con tale interpretazione si è posta, nel 2001, la Corte di Cassazione[8][9], che ha escluso l’illiceità del negozio giuridico derivante dal raggiro della norma, non riconoscendo di conseguenza alcun carattere imperativo alle norme fiscali, rifiutando l’applicazione degli artt. 1344[5] e 1418 c.c. e stabilendo che “Non è sufficiente infatti che una norma sia inderogabile perché possa essere qualificata come imperativa essendo a tal fine necessario che essa sia di carattere proibitivo e sia posta altresì a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico. Caratteri questi certamente non ravvisabili nelle norme tributarie in quanto esse sono poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e, in linea di massima, non pongono divieti ma assumono un dato di fatto quale indice di capacità contributiva.[10].

Una prima esplicazione specifica, inerente al concetto di elusione, è stata introdotta dal legislatore tramite l’art. 10 della l. 408/1990, sostituita nel 1997 dall’art 37 bis del precedente D.P.R. 600/1973[11], rimasto in vigore fino alla successiva riforma del 2015. L’articolo 10 definiva elusive tutte le operazioni “poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d'imposta"[12][13]. Risultava dunque necessario, per poter perfezionare la condotta elusiva, l’assenza di ragioni economiche valide e la natura fraudolenta della condotta stessa, volta proprio ad ottenere un risparmio d’imposta[14]. Tale requisito di fraudolenza viene meno con la sostituzione dell’articolo 10 con l’articolo 37 bis, nel quale rimane, come elemento necessario per poter parlare di elusione, il requisito della mancata logica economica alla base del comportamento elusivo[15]. Quindi, se da un lato scompare il riferimento alla fraudolenza, dall’altro, invece, viene richiesto che lo schema sia diretto ad “aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti[11]. Ciò risponde alla volontà di superare alcune perplessità sull'applicazione della fattispecie, in modo da circoscrivere al meglio il concetto di elusione. Infatti, proprio l’avverbio “fraudolentemente” era stato oggetto di disputa in quanto ritenuto “fonte di incertezza tra una concezione penalistica, sostanzialmente vanificatrice della norma, e diverse concezioni tributaristiche, su cui peraltro la norma non forniva sufficienti indicazioni[16].

Successivamente, la materia pullula di interventi e tentativi chiarificatori da parte della giurisprudenza di legittimità attraverso la funzione nomofilattica propria della Corte di Cassazione[17][18]. Dapprima con due sentenze del 2005: l’una in cui si obiettano operazioni di compravendita di titoli azionari, che consentivano alla società cedente di trasformare un dividendo imponibile in una plusvalenza esente, evitando quindi la tassazione tipica del dividendo[19] e l’altra in cui si critica il meccanismo elusivo creatosi con le operazioni di costituzione o cessione di usufrutto su azioni, per sottrarsi al regime di tassazione sui dividendi, più oneroso per le società estere titolari delle azioni o di diritto di usufrutto sulle stesse[20]; e successivamente con le sentenze gemelle del 2008[21][22][23], in cui la Corte stabilisce la regola della generale illiceità fiscale delle operazioni elusive, sulla base dei principi di capacità contributiva e di progressività fissati dalla Costituzione. Tuttavia, il dibattito intorno al concetto di elusione ed abuso del diritto, non era ancora definibile in maniera chiara ed univoca nel contenzioso tributario, nonostante le precedenti pronunce sia del legislatore sia della Cassazione, e si avvertiva sempre di più la necessità di un nuovo -ed esaustivo- intervento da parte del legislatore[24].

Si arriva, in seguito, all’intervento del legislatore attraverso la legge delega 11 marzo 2014 n.23[25], delegando il governo, nello specifico all’articolo 5[26], all’inserimento di una definizione di “condotta abusiva” a carattere generale, per contrastare la conseguente elusione fiscale e l’abuso del diritto, tramite una norma ad hoc[27][28].

La riforma del 2015 e la definizione di elusione fiscale[modifica | modifica wikitesto]

Il Governo, attuando la legge delega del 2014[25] e recependo la segnalazione della Commissione europea, 6 dicembre 2012[29], introduce il D.Lgs. 128/2015 intitolato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale” (divenuto poi l’articolo 10 bis, L. 212/2000, Statuto dei diritti dei contribuenti), prevedendo l’applicazione dell’istituto, diversamente da quanto avveniva nella versione precedente, in via generale, a tutti i tributi senza alcuna limitazione[30]. Il nuovo articolo 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente definisce dettagliatamente l’istituto, specificando che “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni[31]. Inoltre, specifica che per “operazioni prive di sostanza economica”, si intendano “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali[31], e che per “vantaggi fiscali indebiti” si intendono i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario[32][33]. Per completare la nuova definizione di elusione, il legislatore prevede, al terzo comma dell'articolo 10 bis, che non si considerino come abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, che rispondono ad un miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa, o all’attività professionale[34][35]. Dunque, alla luce dell'analisi normativa, con il termine di elusione fiscale si indica il comportamento di chi sfrutta, a proprio vantaggio, le lacune e i difetti dell’ordinamento nazionale, in modo da ottenere indebiti vantaggi d’imposta, ponendosi in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento tributario[36].

La riforma del 2015 ha anche portato all’equiparazione delle condotte elusive e abusive, che invece prima erano considerate due fattispecie distinte. Infatti, il nuovo articolo 10 bis ha sancito l’irrilevanza penale di entrambe e ha superato così il dibattito giurisprudenziale precedente sulla rilevanza penale dell'abuso del diritto. Prima del 2015 si riteneva che fossero penalmente rilevanti soltanto i comportamenti elusivi e non quelli abusivi. Si trattava, però, di una ricostruzione fondata su norme sì presenti nel nostro ordinamento, ma per fini diversi da quelli penali.

All’interno di questa stessa riforma si colloca anche il decreto legislativo 158/2015 che revisiona il sistema delle sanzioni penali ed amministrative per le violazioni della legge fiscale.  Esso si compone di tre titoli. Il titolo I riguarda la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, il titolo II la revisione del sistema sanzionatorio amministrativo e il titolo III la decorrenza degli effetti, abrogazioni e disposizioni finanziarie.[37]

Casistica[modifica | modifica wikitesto]

Ad esempio, se le aliquote fiscali sulla vendita di un bene immobile sono del 35% e quelle sulla vendita di azioni del 20%, il possessore dell'immobile può conferirlo in una società per azioni al solo scopo di vendere poi le azioni della società proprietaria dell'immobile con fortissimo risparmio fiscale. Qui l'elusione sta nell'utilizzazione dello strumento società per azioni non per svolgere un'attività d'impresa, ma solo per trasferire la proprietà sostanziale dell'immobile, infatti in questo caso l'acquirente delle azioni in realtà ha acquistato l'immobile, ma in questo modo il venditore ha beneficiato di un'aliquota impositiva fortemente ridotta.

Un'altra possibilità è quella di operare non come lavoratore autonomo "semplice" ma attraverso una società (unipersonale o a socio unico). L'imposizione fiscale e contributiva risulta così abbastanza agevolata e le possibilità di detrazione e deduzione di costi molto maggiori. Inoltre, vi sono altri vantaggi (redditometro, ganasce fiscali, multe per i veicoli intestati, la non proprietà (personale) degli immobili acquisti, ecc.). Tutto ciò è perfettamente legale e, comunque, occorre considerare i maggiori oneri di gestione di una società (seppur minimale) al posto di una mera partita iva individuale.

Le forme di elusione, specie nel campo delle imprese per non parlare dei gruppi, sono molte, alcune assai "tecniche" e quindi di difficile comprensione per i non addetti (ad esempio: l'imputazione delle rimanenze di magazzino, la patrimonializzazione delle spese, l'"interpretazione" delle immobilizzazioni, l'utilizzo di sedi o controllate estere, l'utilizzo della forma cooperativa, ecc.) in continua "evoluzione": pertanto, risulta complesso elencarle tutte.

Normativa fiscale italiana[modifica | modifica wikitesto]

In Italia, l'elusione fiscale è stata a lungo regolata da una norma a vocazione generale, contenuta nell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973,[38] introdotta nel 1997. Tale norma è stata abrogata dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (in G.U. 18/08/2015, n.190),[39] e sostituita con l'art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).[40] Tale modifica ha mantenuto nella sostanza la norma precedente, ma ha anche sancito l'esclusione dalla legge penale dell'elusione fiscale.[41]

Secondo la normativa italiana quindi, sono inopponibili all'amministrazione finanziaria gli atti, fatti e negozi, anche collegati tra di loro, che siano contemporaneamente: privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare norme tributarie e volti a ottenere una riduzione del carico fiscale altrimenti indebita.

La fattispecie prevista da tale norma giuridica fa riferimento a un fenomeno che deve necessariamente e contestualmente contenere le seguenti tre componenti previste:

  • l'assenza di valide ragioni economiche;
  • l'aggiramento di obblighi e divieti previsti dall'ordinamento;
  • il conseguimento di un risparmio fiscale altrimenti indebito.

Al verificarsi di tali condizioni, l'amministrazione finanziaria può disconoscere l'effetto fiscale riveniente da tali operazioni richiedendo al contribuente le maggiori imposte che avrebbe pagato compiendo l'operazione direttamente senza l'aggiramento elusivo.

L'amministrazione finanziaria, prima di emettere un avviso di accertamento al fine di applicare la fattispecie impositiva elusa, deve instaurare (a pena di nullità dell'atto impositivo) un contraddittorio con il contribuente, in modo tale che quest'ultimo possa fornire chiarimenti, sull'eventuale esistenza di valide ragioni economiche degli atti, fatti, negozi giuridici posti in essere, entro sessanta giorni dalla richiesta dell'amm. finanziaria. L'avviso di accertamento deve poi essere motivato tenendo conto anche delle spiegazioni fornite dal contribuente (art. 10-bis, commi 6, 7 e 8 della legge 27 luglio 2000, n. 212).

L'operazione viene riqualificata solo da un punto fiscale, mentre conserva però, tra le parti, la sua valenza contrattuale originaria.

Nell'esempio sopra riportato l'amministrazione finanziaria potrà applicare alla vendita delle azioni la stessa più elevata aliquota prevista per la vendita dell'immobile, ma tra le parti resta in essere l'operazione originaria di compravendita di azioni.

Confine tra lecita pianificazione e abuso del diritto[modifica | modifica wikitesto]

Il vero e proprio raggiro delle norme tributarie compiuto dal contribuente in maniera volontaria e consapevole è un fenomeno da distinguere dalla semplice possibilità di scegliere la via per lui meno gravosa, scelta, peraltro, totalmente lecita e consentita nell’ordinamento italiano[42]. Scegliere di cercare un minore sacrificio fiscale rappresenta, in realtà, un vero e proprio diritto del soggetto passivo e, come tale, è pienamente consentito, ed è anche considerato uno strumento utile per raggiungere gli obiettivi proposti dall’ordinamento[43]. Dunque, si distingue tra quella che è la pianificazione legittima, che si concretizza nella mera scelta di un regime fiscale più agevole e conveniente, dalla pianificazione illecita e ingannevole, avente come fine un risparmio d’imposta, che senza tale artifizio non sarebbe stato possibile e che integra propriamente l’istituto dell’elusione. Quindi, non è la forma che produce il fenomeno abusivo, in quanto lecita e tutelata dall’ordinamento, bensì l’utilizzo scorretto che ne viene fatto[44].  

I due concetti sono distinguibili sulla base della loro liceità: l’uno presenta connotati leciti, conformi alla legge, l’altro invece distorce, tramite artifizi, quegli istituti apparentemente leciti, in chiave scorretta e di conseguenza, illecita[45].

Tuttavia, sebbene la distinzione sembri a primo impatto di facile comprensione, in realtà, non è esente da complicazioni, dal momento che spesso è incerto il confine che distingue una semplice scelta di un regime fiscale più agevole, da un vero e proprio artificio ideato per raggirare le norme tributarie[46].

Per cercare di far fronte all’equivoco di cui sopra, il legislatore del 2015 ha individuato tre elementi tipici[47] dell’elusione, quali:

  • l’uso falsato e scorretto di strumenti giuridici leciti
  • il preordinamento, dell'uso degli strumenti apparentemente leciti, per ottenere vantaggi fiscali altrimenti non dovuti (presupposto soggettivo)
  • l’assenza di logiche economiche extrafiscali poste a giustificazione dello scopo delle operazioni attuate dal contribuente[48].

La prassi elusiva all'interno delle multinazionali[modifica | modifica wikitesto]

La fattispecie elusiva è assai frequente e in alcuni casi specifici diventa la prassi. All’interno di questo trend possiamo trovare, in prima posizione, le multinazionali e i cosiddetti tax ruling[49], definiti dal Tribunale Fiscale «un’approvazione anticipata da parte dell’autorità fiscale competente di un trattamento proposto dal contribuente in riferimento a un’operazione prevista per l’avvenire»[50]. Sono, dunque, accordi tra governo-impresa che possono essere sfruttati a vantaggio di entrambe le parti a scapito sia della libera concorrenza, sia delle imprese di minor dimensione e fatturato[51]. Gli Stati offrono quindi aliquote fiscali e gradi di tassazione notevolmente inferiori rispetto ai regimi presenti negli altri ordinamenti, in modo da attirare così le multinazionali. Ecco spiegato come nascono i c.d. “paradisi fiscali[52]”, paesi a fiscalità agevolata, in cui i gradi di tassazione sono pressappoco nulli[53]. Anche sul territorio europeo, a partire dall’ultimo ventennio, è ormai diffusa la prassi per cui alcuni Stati stipulano accordi di favore discreti, al fine di assicurare un trattamento privilegiato alle imprese che basino la propria sede in quello Stato[54]. Viene dunque menzionato a questo proposito il noto caso LuxLeaks[55], inchiesta giornalistica condotta da un gruppo di ottanta giornalisti appartenenti a circa trenta paesi diversi, che ha smascherato l’abuso di numerose agevolazioni concesse dal governo del Lussemburgo (da cui il deriva nome LuxLeaks), per il periodo tra il 2003 e il 2011, ad oltre 350 imprese, tra cui figurano anche Amazon, Apple, Starbucks, Pepsi, Volkswagen e Fiat[56], ma anche Unicredit e Intesa San Paolo e via discorrendo. Grazie a questi accordi, le multinazionali hanno potuto compiere movimenti strategici attraverso lo spostamento di sedi e profitti, beneficiando di notevoli risparmi d’imposta indebiti[57]. Uno studio[58] [59]reso pubblico dal Parlamento europeo ha calcolato, tramite una stima, che il valore di entrata evaso ogni anno dalle multinazionali con sede europea ammonti a circa 160-190 miliardi di euro. Proprio in seguito a tale studio, la Commissione europea ha presentato la direttiva anti-elusione[60], successivamente approvata dal Parlamento, ed entrata definitivamente in vigore nel maggio 2017, in cui si vieta espressamente agli Stati di contrarre accordi finalizzati all’ottenimento di vantaggi fiscali per le imprese, senza che vi figuri alcuna valida ragione commerciale[61][62].

Il Caso Apple[modifica | modifica wikitesto]

Uno dei casi di maggior rilievo è stato proprio quello legato al colosso della tecnologia, il caso Apple[63][64]. L’azienda americana, nel 2016, è stata sanzionata dalla Commissione europea[65] per 13 milioni di imposte non pagate per il periodo 2003-2014. L’azienda aveva costituito due società sussidiarie in Irlanda, la Apple Sales International e la Apple Operation Europe, le quali godevano di regimi fiscali vantaggiosi grazie al cost sharing agreement firmato con l’azienda madre, che prevedeva il pagamento del 60% dei costi di ricerca e sviluppo[53][66]. L’artificio consisteva nello sfruttare la mancata tassabilità delle sussidiarie sia per il Fisco americano, siccome registrate in Irlanda, sia per il Fisco irlandese, in quanto l’amministrazione era gestita dalla California e, secondo le norme irlandesi, una società è fiscalmente imputabile nel luogo in cui si trovi la sua attività amministrativa[67]. Inoltre, le sussidiarie irlandesi maturavano diritti di proprietà intellettuale nei confronti dei prodotti Apple. Grazie al suddetto accordo, i profitti derivanti dalle vendite in store nei paesi dell'UE, venivano automaticamente segnati a Dublino. Tali profitti venivano sottoposti a tassazione d’impresa solamente in minima parte, attribuendone la maggior parte ad una sede centrale priva, in realtà, di residenza fiscale[53]. Questo macchinoso intervento ha fatto sì che la tassazione sugli utili passasse dall’1% del 2003 allo 0,005% del 2014[63].  

Dividend washing[modifica | modifica wikitesto]

Il "dividend washing" è una operazione di “arbitraggio fiscale consistente nel realizzo di minusvalenze deducibili a fronte di dividendi esclusi dalla base imponibile[68]. Le società A e C effettuano conferimenti in misura equivalente in una società D, la quale chiude il primo esercizio fiscale con un utile. La società decide di dividere parte di questo utile in misura equivalente tra A e C. La società A, in prossimità della data di stacco dei dividendi, cede le proprie partecipazioni, comprese degli utili conseguiti, a una terza società B. Infine, la società B cede nuovamente le partecipazioni appena acquistate alla società A, senza però i dividendi, dunque ad un prezzo inferiore rispetto a quello della precedente cessione. In un primo momento, dunque, la società A realizza una plusvalenza, poiché alle quote cedute si somma il valore dei dividendi. In un secondo momento invece, la società B realizza una minusvalenza pari al valore dei dividendi.

La ratio dell'operazione è ridurre il carico impositivo: il dividendo non concorre alla formazione del reddito imponibile per il 95 per cento del suo ammontare (in caso di soggetto IRES[69]), mentre la minusvalenza realizzata a seguito della cessione delle partecipazioni è, in assenza di correttivi, interamente deducibile[68].

Evoluzione nella Giurisprudenza italiana[modifica | modifica wikitesto]

Le prime posizioni della Giurisprudenza: le sentenze Cass. n. 3979 del 3 aprile 2000 e n. 3345 del 7 marzo 2002.[modifica | modifica wikitesto]

Il Secit (Servizio centrale degli ispettori tributari[70]) considerava dubbia la natura di queste operazioni, poiché le riteneva riconducibili alle operazioni di interposizione fittizia[71] a causa di molti elementi quali la brevità dell’intervallo fra le due vendite, il percepimento del dividendo da parte della società in tale breve intervallo di tempo, l’incarico dato ad un intermediario per la vendita e per il successivo riacquisto, la totale assenza di apprezzabili ragioni economiche[72]. La Corte di Cassazione, con le sentenze n. 3979 del 3 aprile 2000 [73] e n. 3345 del 7 marzo 2002[74], sanciva la liceità, sotto il profilo del diritto tributario, di queste operazioni. In particolare, la sentenza n. 3979 del 3 aprile 2000 stabiliva che l’articolo 37 comma 3 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, fosse applicabile solo ai casi di interposizione fittizia e cioè simulata, nel possesso del reddito. Dunque, questa norma non poteva essere applicata nel caso in cui si fosse verificato un effettivo trasferimento della fonte produttiva del reddito, come accadeva nelle operazioni di dividend washing (dove si verifica un’interposizione non fittizia, bensì reale)[73]. Questa operazione non poteva essere nulla per devianza della causa (ex art. 1344 c.c.), anche qualora la stessa fosse stata realizzata con l’unica finalità di conseguire un risparmio sulle imposte dirette. Non sussisteva, infatti, alcuna violazione di legge, poiché affinché fosse configurabile un’operazione nulla ex art. 1344 c.c., era necessaria la violazione di una specifica norma antielusiva, mancante nel caso concreto[73].

La sentenza n. 3345 del 7 marzo 2002, insisteva ulteriormente riguardo alla liceità delle operazioni di dividend washing sotto un ulteriore profilo, cioè l’inapplicabilità dell’articolo 6.2 del d.P.R. n. 917/86[75].[74]

Le sentenze n. 20398 del 21 ottobre 2005 e seguenti: il cambio di rotta della Giurisprudenza in materia.[modifica | modifica wikitesto]

La sentenza n.20398 del 21 ottobre 2005[76]ha sancito un netto cambio di orientamento in materia. La Corte di Cassazione, nella vicenda in questione ha sancito la nullità delle operazioni di dividend washing, basando la propria decisione sul fatto che nessuna delle parti conseguiva alcun vantaggio economico da queste operazioni. Secondo la Corte, non era rilevante l'identificazione dell’operazione come interposizione fittizia o simulazione oggettiva, ma era sempre rilevabile in questi casi un “difetto di causa che origina ai sensi degli articoli 1418, comma 2, e 1325, n. 2, cod. civ., a nullità dei contratti collegati (tipici) di acquisto e rivendita di azioni,[76] dal momento che da questi contratti i singoli contraenti non raggiungono alcun vantaggio economico, escluso il risparmio fiscale. Questi contratti, dunque, sono a tutti gli effetti da considerare nulli per difetto di causa.

Un’altra importante sentenza è la n.22932 del 2005[77]. Oltre a sancire l’illiceità di un'altra categoria di operazioni, quelle cosiddette di “dividend stripping[78]”, la Corte ha ammesso anche la rilevabilità d’ufficio della nullità degli schemi negoziali posti in essere dal contribuente. Nonostante il giudice in ambito tributario abbia un ambito di accertamento ridotto alle deduzioni delle parti, se il ricorrente sostenesse l’esistenza di un contratto, il giudice potrebbe accertarne la nullità in ogni stato e grado del procedimento[77].

Gli ultimi interventi della Cassazione: la sentenza n. 30055 del 2 dicembre 2008 e il generale principio antielusivo.[modifica | modifica wikitesto]

Con la sentenza n.30055 del 2008[79] la Corte di Cassazione aderiva all’orientamento della giurisprudenza recente[80][81] riguardo all’esistenza di un generale principio antielusivo, rilevabile all'interno degli stessi principi costituzionali. In particolare, si fa riferimento ai principi di capacità contributiva[82] e di progressività dell’imposizione[83]. Deve dunque, sostiene la Corte, ritenersi insito nel nostro ordinamento il principio secondo cui “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”[79] . Se, inoltre, tali operazioni fossero considerate lecite, si andrebbe incontro a una palese violazione del principio di uguaglianza[84]. Questo principio, ripreso anche in altre sentenze della Cassazione stessa[85][86], è volto a contrastare le pratiche consistenti in abuso del diritto, secondo il quale “non è lecito utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso da quello per il quale sono state create, norme fiscali (lato sensu) di favore, essendo d'altro canto, nel caso di specie, in re ipsa la elusività dell'operazione[79]

Sanzioni[modifica | modifica wikitesto]

La rilevanza penale, in tema di elusione, è una questione piuttosto controversa nell’ordinamento nazionale italiano, in quanto è stata oggetto di numerosi interventi da parte della giurisprudenza di legittimità, nonché di modifiche legislative nel corso del tempo.

Fino al 2010 la giurisprudenza non aveva considerato centrale l’ambito della rilevanza penale in relazione all’elusione fiscale e di conseguenza erano pochi gli interventi proposti. Inizialmente si poteva quindi affermare che i giudici ritenessero che gli estremi tipici della condotta elusiva non fossero tali da integrare una sanzione penale e, in particolare, i reati tributari previsti dal D.Lgs 74/2000, agli articoli 3 e 4, in quanto i fatti posti in essere sono palesi all’amministrazione finanziaria[87].  

Il cambio di rotta avviene agli inizi nuovo del decennio quando, la giurisprudenza di legittimità[88][89], inizia a considerare l’ipotesi della rilevanza penale in ambito elusivo.

Conseguentemente, la cassazione in alcune sentenze del 2010[90] e del 2011[91][92], aveva previsto la possibilità che la condotta elusiva potesse integrare gli estremi del reato di dichiarazione infedele (previsto all’articolo 4 del d.lgs. 74/2000[93]) e di omessa dichiarazione.

Dopo le recenti pronunce della Corte di Cassazione l'elusione ex art. 37-bis D.P.R. 600/1973 poteva essere sanzionata sia amministrativamente sia penalmente[94] (si veda Cass. pen., 28 febbraio 2012, n. 7739 leading case D&G[95], la quale rappresenta un unicum in quanto attribuisce rilevanza penale ad una fattispecie non prevista dall’ordinamento come tale, non riscontrando, dunque, riferimento normativo penale, a condizione che si stia considerando una specifica ipotesi di elusione).

Qualche anno dopo, a seguito della riforma del 2015, la rotta viene nuovamente invertita partendo dalla smentita della sentenza del caso Mythos[96]. Il legislatore del 2015 interviene sulla definizione delle risposte sanzionatorie per il contribuente che ponga in essere un’operazione elusiva, stabilendo che simili operazioni “non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie[97], mantenendo, invece, l’applicazione delle eventuali sanzioni amministrative[98].

La norma antielusiva prevede come "sanzione" il solo disconoscimento dei vantaggi fiscali ottenuti in assenza di valide ragioni economiche (art. 10-bis, comma 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212). Dalla sentenza sopra citata la giurisprudenza aveva interpretato, anche se in forte contrasto con una parte della dottrina,[99] la normativa vigente come sanzionabile sul piano penale e amministrativo, sostenendo che il giudice in sede penale doveva valutare se applicabili gli articoli 4 e 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000 (rispettivamente dichiarazione infedele e omessa dichiarazione).[100]

In seguito alla riforma del 2015 invece restano applicabili solo le sanzioni amministrative tributarie (art. 10-bis, comma 13 della legge n. 212/2000),[40] ora espressamente previste dalla normativa. La sanzione applicata sarà quella collegata all'obbligo sottostante cui l'operazione è riconducibile.

Ecco che l’elusione fiscale viene privata di rilevanza penale-tributaria, pur riconoscendo una eventuale sovrapposizione tra le due aree, dall’altra viene accolto nell'ambito dei reati tributari il concetto di simulazione.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Elusione fiscale, su Il Sole 24 ORE. URL consultato il 28 dicembre 2015.
  2. ^ Camera dei deputati, L'abuso del diritto: un approfondimento, su temi.camera.it. URL consultato il 17 novembre 2021.
  3. ^ Gallo, Franco., Elusione, risparmio d' imposta e frode alla legge., [s.n.], OCLC 848475327. URL consultato il 15 novembre 2021.
  4. ^ Gallo, Franco., Limiti e caratteristiche degli acquisti con prevalente finalità fiscale., [s.n.], OCLC 848469100. URL consultato il 15 novembre 2021.
  5. ^ a b Disposto dell'articolo 1344, codice civile.
  6. ^ A. Marcheselli, Elusione, buona fede e principi del diritto punitivo, in Rassegna Tributaria, vol. 2, n. 401, 2009.
  7. ^ Alexander Bell, Giovanni Falsitta e Alfio Valsecchi, La linea di confine fra elusione fiscale e reati tributari (PDF), in Diritto Penale e Uomo, Fascicolo 7-8/2019, n. 42.
  8. ^ Si rimanda a Cassazione 8 novembre 1995, n. 11598; Cassazione 19 giugno 198, n.4024; Cassazione 5 novembre 1999, n.12327; Cassazione 3 aprile 2000, n.3979; Cassazione 7 marzo 2002, n.3345
  9. ^ Leo, Maurizio, author., Le imposte sui redditi nel testo unico, p. 11, ISBN 978-88-288-1632-4, OCLC 1164767936. URL consultato il 17 novembre 2021.
  10. ^ Cass. civ. Sez. V, 03/09/2001, n. 11351.
  11. ^ a b DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 29 settembre 1973, n. 600 - Normattiva, su www.normattiva.it. URL consultato il 15 novembre 2021.
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Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]