La pupilla

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La pupilla
Commedia in cinque atti
AutoreCarlo Goldoni
Composto nel1757
Personaggi
  • Messer Luca, tutore
  • Caterina, pupilla
  • Placida, serva
  • Orazio, giovane
  • Panfilo, servo
  • Quaglia, scrocco
  • Nutrice
 

La pupilla è una commedia teatrale in cinque atti in versi (endecasillabi sdruccioli) scritta da Carlo Goldoni nel 1757 per completare il decimo volume dell'edizione Paperini. Scrisse l'autore nei suoi Mémoires: è una composizione tutta quanta di fantasia, lavorata sulla maniera degli antichi e unicamente destinata alla stampa, affinché nel mio Teatro vi fossero produzioni di ogni genere e un’idea dello stile comico di tutti i tempi[1]. Imitando nella versificazione lo stile delle commedie di Ludovico Ariosto, Goldoni volle dimostrare le sue capacità ai letterati che lo trattavano da ignorante[2]. Dedicò l'opera alla poetessa Cornelia Barbaro Gritti[3].

Trama[modifica | modifica wikitesto]

La giovane Caterina è bramata in sposa dal suo stesso tutore, messer Luca, e dal giovane vicino di casa, Orazio. La vecchia nutrice riuscirà a sistemare tutto rivelando che in realtà Caterina è figlia naturale del tutore.

Poetica[modifica | modifica wikitesto]

Scrisse il commediografo: Procurai di ravvivare la sterilità dell’antica commedia con scene equivoche, allo scopo di aumentare l’effetto e sostenere maggiormente la sospensione[1]. In effetti, tra gli intrecci della trame e gli spassosi equivoci ingenerati dai due servi Placida e Panfilo, si fanno strada tematiche importanti come l’incesto e la condizione femminile.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Carlo Goldoni, Mémoires
  2. ^ G. Ortolani, Tutte le opere di C. Goldoni, Mondadori Editore, 1943
  3. ^ Carlo Goldoni, A Sua Eccellenza La Signora Cornelia Barbaro Gritti Tra le Arcadi Pastorelle Arisbe Tarsense, in Opere complete, Internet Archive, 1927, pp. 181-184.
    «sentirmi da voi lodato, veder le opere mie da voi, saggia, virtuosa donna, approvate, sentirmi dir da una sì graziosa bocca: sei bravo, mi solleva dal basso della disistima che ho di me stesso e mi lusinga di essere qualche cosa di più" (p. 183)»
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