Gian Carlo Pajetta: differenze tra le versioni

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Template:Membro delle istituzioni italiane Gian Carlo Pajetta (Torino, 24 giugno 1911Roma, 13 settembre 1990) è stato un politico e partigiano italiano.

La vita e la politica

Gian Carlo Pajetta con Nicolae Ceaușescu

Nato in una famiglia benestante da genitori che, pur non essendo iscritti al partito, si dichiaravano comunisti (il padre Carlo era avvocato e la madre Elvira Berrini era maestra elementare), fin da giovane espresse le sue idee antifasciste, frequentando il Liceo Classico Massimo D'Azeglio di Torino e si iscrisse al Partito Comunista d'Italia. Per questo fu espulso per tre anni da tutte le scuole d'Italia nel 1927 e condannato a due anni di reclusione, che rappresentarono per lui, ancora minorenne, una prova durissima.

Pajetta, da giovane, si formò intellettualmente leggendo i classici del movimento operaio ed alcuni autori anarchici. Nei soggiorni di prigionia studiò le lingue, lesse Einaudi, Gaetano De Sanctis, Gentile, Croce, Volpe, oltre a Verga e ai romanzieri francesi e russi dell'Ottocento.[1]

Nel 1931 andò in esilio in Francia e con lo pseudonimo di "Nullo" divenne segretario della federazione giovanile comunista, direttore di Avanguardia e rappresentante italiano nell'organizzazione comunista internazionale.

Nel 1933 fu inviato in missione segreta a Parma con l'obiettivo di convincere alcuni membri del fascismo ad abbandonare il regime, ma fu scoperto dalla polizia fascista il 17 febbraio dello stesso anno: fu quindi condannato a ventun anni di carcere per "attività eversiva". Dopo alcuni trasferimenti carcerari (a Roma fu detenuto con l'amico Ercole Pace), venne liberato a seguito della caduta del fascismo il 23 agosto del 1943 e, successivamente, prese parte alla Resistenza partigiana, entrando a far parte, con Luigi Longo, Pietro Secchia, Giorgio Amendola e Antonio Carini, del Comando generale delle brigate d’assalto Garibaldi [2].

Nel 1944 fu nominato, insieme a Ferruccio Parri ed Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale dell'alta Italia: da questa posizione intavolò trattative diplomatiche con gli alleati anglo-americani e con il futuro Presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi. Divenne anche Capo di stato maggiore (ovvero vice-comandante nazionale) delle forze militari partigiane.

Nel 1947 fu il protagonista dell'occupazione della Prefettura di Milano in seguito alla rimozione del prefetto Ettore Troilo, da parte del ministro degli interni Mario Scelba.

Nel 1948 entrò nella segreteria nazionale del partito, del quale fu il responsabile esteri (membro, tra l'altro, del Consiglio di Presidenza del Comitato Italia-Vietnam), e ne fece parte fino al 1986, anno in cui fu destinato all'incarico, molto più defilato, di presidente della commissione di garanzia.

Fu deputato al Parlamento nazionale dal 1946 fino alla morte, e al Parlamento europeo dal 1984. Morigerato nella vita privata (viveva in un piccolo appartamento di un anonimo condominio di via Monteverde), in Parlamento e sui giornali dell'epoca, Pajetta era noto per la veemenza e la causticità dei suoi discorsi: fu lui che nella primavera del 1953 - durante la discussione della cosiddetta legge truffa - entrò a Montecitorio con una riga di sangue che scorreva dal capo, lamentando che un cordone di "celerini [3] di Scelba schierato davanti alla Standa di via del Corso" aveva impedito il passaggio di alcuni deputati socialisti e comunisti verso la Camera, e che alla sua esibizione del tesserino di parlamentare avevano risposto manganellandolo. Fino agli anni sessanta capitò spesso che alla Camera, nella foga della discussione, saltasse fuori dal suo banco per andare ad "invadere" le postazioni altrui ed era perciò considerato anche una figura "pittoresca" della politica italiana di allora. Grande era anche la sua capacità oratoria che gli permetteva, con una sola battuta, di mettere in ridicolo il discorso degli avversari politici. Per questo era l'uomo di punta del PCI durante le messe in onda di Tribuna Politica, alle quali parteciperà assiduamente, contribuendo a rendere celebri alcune puntate di quella storica trasmissione RAI.

Nel 1956 fu inviato dal partito a Mosca insieme a Celeste Negarville. Qui, come Negarville, rimase scosso dal racconto compiaciuto che Nikita Khruščёv fece loro riguardo alle modalità con cui Beria era stato eliminato fisicamente, dopo la morte di Stalin, dalla nuova dirigenza sovietica. [4]

Fu più volte direttore de l'Unità e, per breve tempo, del periodico politico-culturale Rinascita.

Esponente della corrente riformista rappresentata da Giorgio Amendola prima e Giorgio Napolitano poi, fu uomo di vivace intelligenza, di grande abilità dialettica e molto amato dai militanti (come si vide, da ultimo, nella grande partecipazione di popolo al suo funerale). Fu sempre assolutamente leale verso il partito, inteso come entità collettiva rappresentata dai suoi dirigenti, anche quando le sue opinioni personali divergevano dalla linea politica espressa dai segretari, prima Palmiro Togliatti e poi Enrico Berlinguer: di quest'ultimo tenne comunque l'orazione funebre, quando la sua morte improvvisa lasciò il partito stordito e in angoscia (i militanti erano allora milioni), proprio perché universalmente riconosciuto come l'uomo che in quel momento ne rappresentava meglio la storia e l'unità.

Pajetta fu tra gli intellettuali che firmarono la lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli, un manifesto con cui si accusava il commissario Calabresi di essere un torturatore e di essere responsabile della morte dell'anarchico Pinelli.

Enrico Berlinguer in primo piano; alle sue spalle Pajetta, Pietro Ingrao e Ugo Pecchioli (di profilo); in ultima fila, a sinistra Achille Occhetto, a destra Davide Lajolo, detto Ulisse

Nella sua veste di responsabile delle relazioni estere con i "partiti fratelli", fu inviato al congresso del PCUS del 1980 a Mosca ad esprimere il dissenso del PCI dalla politica di Breznev in Afghanistan ed in Polonia, ed in quella circostanza la sua allocuzione fu fatta tenere non nella sala del Congresso al Cremlino bensì nella Casa del Sindacato, dinanzi ad una gelida platea che non applaudì.

Fu lui ad accogliere il segretario del MSI Giorgio Almirante a Botteghe Oscure[5] quando il leader missino volle andare a rendere omaggio alla camera ardente di Berlinguer, provocando una certa sorpresa tra l'immensa folla che attendeva di entrare.

Quattro anni dopo, alla morte di Almirante nel 1988, fu lui stesso a rendere omaggio alla camera ardente dello storico avversario politico, suscitando anche in questo caso una certa sorpresa.

Al momento della scelta del successore di Berlinguer, Pajetta era considerato ormai troppo anziano per partecipare alla guerra di successione (ed inoltre egli era molto caro al popolo del PCI ma pochissimo al suo gruppo dirigente) ed inutile fu la sua opposizione al progetto di Achille Occhetto, ovvero la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra.

La firma di Pajetta era costantemente presente sulla stampa comunista, sia su l'Unità che su Rinascita. Ma fu solo negli anni ottanta, alla fine della sua carriera politica, che, liberato (pur controvoglia) dagli impegni politici pressanti, cominciò a scrivere libri, dalla forte caratterizzazione autobiografica.

Pajetta morì all'improvviso la notte del 13 settembre del 1990 nella sua casa di Roma, di ritorno da una Festa dell'Unità, prima di vedere la fine del suo partito. Il suo funerale fu accompagnato dalle note de L'Internazionale e di Bandiera Rossa e la sua bara fu seguita da una bandiera rossa con falce e martello, proprio come lui stesso aveva sempre immaginato. Alla cerimonia parteciparono circa 200.000 persone, tra cui pure il suo tradizionale rivale, anche nel campo della politica estera, Giulio Andreotti.

Miriam Mafai, giornalista e scrittrice, è stata per gran parte della sua vita la sua compagna, dal 1962 fino alla morte.

Opere

  • Lo scandalo dei mille miliardi in Parlamento, con Gennaro Miceli e Pietro Ingrao, Roma, Editori Riuniti, 1963.
  • Socialismo e mondo arabo. Rapporto presentato alla I commissione del Comitato centrale del PCI, febbraio 1970, Roma, Editori Riuniti, 1970.
  • I comunisti e i contadini, con Gerardo Chiaromonte, Roma, Editori Riuniti, 1970.
  • La lunga marcia dell'internazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1978.
  • I comunisti per la distensione e il disarmo, Roma, Editori Riuniti, 1979.
  • Le crisi che ho vissuto. Budapest, Praga, Varsavia, Roma, Editori Riuniti, 1982.
  • Il ragazzo rosso, Milano, A. Mondadori, 1983.
  • Il ragazzo rosso va alla guerra, Milano, A. Mondadori, 1986.

Note

  1. ^ Roberto Gervaso, La mosca al naso, Interviste famose, Rizzoli Editore, Milano 1980, p.71.
  2. ^ Vedi: Luigi Longo, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1973, pag. 38.
  3. ^ La "Celere", progettata come "squadra" o "compagnia", anche se poi cresciuta al rango di reparto, era la forza di pronto impiego per l'ordine pubblico della polizia (che allora si chiamava ancora "Pubblica Sicurezza"). Unità creata da Giuseppe Romita nel primo dopoguerra, fu dotata di mitragliatrici pesanti ed addirittura di mortai, e si distinse come un vero e proprio reparto di pronto impiego militare, idoneo a situazioni belliche, ed utilizzato soprattutto in occasione di manifestazioni politiche.
  4. ^ «Nel settembre di quell'anno [1956] il partito lo spedì [Pajetta] a Mosca insieme a Pellegrini e a Negarville per sentire direttamente da Kruscev come ci si doveva comportare nella crisi, ormai aperta, dell'antistalinismo. Kruscev li accolse affabilmente, li invitò a cena. E qui, trascinato da bocconi e libagioni ad una espansiva euforia come spesso gli capita, a un certo punto disse: "Beh, ora vi voglio raccontare come strangolammo Beria". E descrisse l'agguato che gli avevano teso al Cremlino, come gli erano saltati addosso e come gli avevano serrato la gola con le mani fino alla soffocazione. Lo descrisse ridendo allegramente, forse senz'accorgersi del pallore che soffondeva il volto dei suoi ospiti, o per lo meno quelli di Pajetta e di Negarville.
    L'indomani li convocò nuovamente e, come non ricordando affatto ciò che gli aveva raccontato la sera prima, disse loro in tono solenne: "Beh, ora vi farò sentire il processo di Beria registrato sul nastro". E glielo fece sentire davvero come lo avevano inventato post mortem, con la voce del defunto falsificata.
    Quando si ritrovarono fra loro, Negarville e Pajetta si guardarono con gli occhi pieni di lacrime. "Ma allora – dissero –. Ma allora...". E non aggiunsero altro.»
    (Indro Montanelli, I protagonisti, Rizzoli Editori, Milano 1976, pp. 66-67)
  5. ^ Al civico 5 di via delle Botteghe Oscure, vicino Piazza Venezia, nel centro di Roma, si trovava la sede centrale del Partito comunista italiano.

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Collegamenti esterni


Predecessore Direttore de l'Unità Successore
Maurizio Ferrara 1970 Aldo Tortorella
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