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Vincenzo Maria di Santa Caterina da Siena, al secolo Antonio Murchio (Bormio, 1626Roma, 5 novembre 1679), è stato un religioso e viaggiatore italiano. È considerato il più importante viaggiatore italiano del XVII secolo perché, grazie al suo resoconto di viaggio, informò circa usi, costumi e tradizioni dell'India che, fino a quel momento, erano sconosciute.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Pronunciò i voti il 25 settembre 1644 a Milano, diventando Padre carmelitano. Nel 1656 fu inviato in India dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide, insieme a Padre Giuseppe Maria Sebastiani, vicario apostolico del papa in India, per tenere sotto controllo le missioni cattoliche di Goa, del Kerala e del Malabar e contrastare lo scisma malankarese. Per raggiungere l'India, insieme ai suoi compagni di viaggio, passò per Napoli, Messina, Malta, Acri, Tripoli di Soria, Aleppo, le rovine di Ninive e Babilonia, Bassora e Combrù, fino ad arrivare a Surat a bordo di una nave olandese. Nel 1659 tornò a Roma e dal 1671 al 1674 fu nominato Procuratore generale dell'ordine religioso dei Carmelitani scalzi, per poi diventare Padre provincipale dal 1676 al 1674 e nuovamente Procuratore generale nel 1677.

Morì presso il convento di Santa Maria della Scala, all'età di 53 anni.

Fu un osservatore acuto e un viaggiatore curioso e riportò notizia di tutto ciò che incontrò nel corso del suo viaggio con una minuzia non usuale per l'epoca. Approfittò del soggiorno di quasi un anno nell'India meridionale per visitare le città portuali, dove risiedevano diversi europei e missionari, ma anche molte località dell'interno, alcune delle quali vennero descritte, all'epoca, solo da lui.

Fornì, inoltre, la descrizione di alcune iscrizioni in medio persiano presenti su diversi monumenti dell'India meridionale e attribuite a San Tommaso. Fu uno tra i primi a identificare le rovine di Hilleh, nei pressi di Baghdad, come luogo dell'antica Babilonia.

È da considerare il più importante viaggiatore italiano del XVII secolo perchè, prima di arrivare in India, viaggiò anche attraverso la Turchia, il Libano, la Siria e la Persia.

Missione in India[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1622 fu istituita la S. Congregazione de Propaganda Fide che aveva come scopo quello di attuare un programma di evangelizzazione nelle terre di missione. Un importante ostacolo al raggiungimento di quest'obiettivo arrivò dalle monarchie che esercitavano il diritto di Padroado, principalmente dal Portogallo che, a causa dell'unione con la Spagna, aveva perso molto prestigio nelle Indie orientali e lo difese per conservare un'influenza minima in quelle terre. Per superare simili difficoltà, la Congregazione, oltre ad appoggiarsi alla casa reale di Francia, che da tempo cercava di assicurarsi colonie in cambio della sua protezione, avviò nuove missioni fuori dai territori di patronato, affidandole a ordini religiosi che, fino a quel momento, avevano registrato poche presenze nell'azione missionaria: i cappuccini e i carmelitani scalzi. Così nacque l'azione dei carmelitani scalzi, soprattutto italiani, sulle coste del Malabar nel corso de XVII secolo, i quali, all'interno del mondo missionario in India, si guadagnarono un posto di rilievo.

La prima spedizione in India dei carmelitani scalzi, realizzata passando per l'Arabia e la Persia, fu ordinata da Papa Alessandro VII che, d'accordo con la Congregazione de Propaganda Fide, diede loro l’incarico di documentarsi direttamente sui problemi che, in quegli anni, sussistevano nel Malabar, principalmente a causa delle defezioni dell'arcidiacono Thomas Parampil e dei suoi seguaci: i Cristiani di San Tommaso.

La scelta ricadde su Padre Giacinto di San Vincenzo e sul confratello Giuseppe Maria Sebastiani. Padre Giacinto di San Vincenzo si imbarcò per primo, dal porto di Livorno; insieme a Padre Giuseppe Maria Sebastiani, invece, partirono anche Vincenzo Maria di Santa Caterina da Siena, Raffaele di Sant'Alessio della provincia di Roma e Luigi San Francesco, converso della provincia di Lione.

Dopo la prima missione del 1656 ne seguirono altre due, rispettivamente nel 1660 e nel 1675; nel 1698, infine, l'Ordine religioso si stabilì ufficialmente nella Serra malabarica. Vi sono due fattori principali che mettono in evidenza l'importanza di queste missioni. Il primo elemento da tenere in considerazione è che dal 1653 i gesuiti furono allontanati dal Malabar dai Cristiani di San Tommaso, mentre ai carmelitani scalzi fu ampiamente concesso di svolgere la propria missione. Il secondo elemento, invece, riguarda la spedizione del 1675, avvenuta undici anni dopo che gli olandesi, di religione protestante, subentrarono ai portoghesi nel dominio coloniale della Serra malabarica; nonostante i carmelitani scalzi fossero stati invitati ad abbandonare la zona, Padre Matteo di San Giuseppe, guadagnandosi il favore del governatore olandese Hendric Adrian van Rheede, vi rientrò nel 1667 per svolgere la sua opera di evangelizzazione.

Opera[modifica | modifica wikitesto]

L'opera che gli permise di ottenere molti riconoscimenti fu Il Viaggio all’Indie Orientali, un resoconto della prima missione dei carmelitani scalzi nell'India meridionale, condotta allo scopo di ricomporre l'unità dei cristiani della Serra malabarica, compromessa da divisioni e disordini.

Il titolo completo è Il Viaggio all'Indie Orientali del Padre F. Vincenzo Maria di S. Caterina da Siena Procurator Generale de' Carmelitani Scalzi, con le Osseruationi, e Successi del medesimo, i Costumi, e Riti di Varie Nationi, e Reconditissimi Arcani de' Gentili, cauati con somma diligenza da' loro scritti, con la descrittione degl'Animali Quadrupedi, Serpenti, Vccelli, e Piante di quel Mondo nuouo, con le loro Virtù singolari. Diuiso in cinque libri. Opera non meno utile, che curiosa.

L'opera è divisa in cinque libri e la prima edizione fu stampata a Roma nel 1672, presso la stamperia di Filippo Maria Mancini.
La seconda edizione fu pubblicata a Venezia, nel 1678, a cura di Giacomo Zattoni.
Esiste un'ulteriore edizione del 1983, curata da Antonio Tivani di Venezia, nella quale è inserita anche la relazione della Seconda speditione all'Indie Orientali di monsignor Sebastiani[1].
Gran parte dell'opera è occupata dalla cronaca degli sforzi esercitati dai carmelitani per mediare il conflitto sorto nella comunità cristiana del Malabar fra l'arcidiacono, di rito siriano, e il vescovo portoghese di Goa.

Il Viaggio all'Indie Orientali, 1672

La pubblicazione è molto più di un itinerario della missione carmelitana in India:

  • il libro I (Nel quale si descriuono molte Città, i Costumi, e Riti de' Tuichi, Persiani, Curdi, Drusi, e Sabbei, con altre Osseruazioni fatte nel medesimo) racconta del viaggio a Malabar;
  • il libro II (Dell'origine, Continuatione, Scisma, Riti, Costumi, e Gouerno delli Christiani di San Tomaso, con quello si fece nella presente missione, per la loro reduttione) parla dei Cristiani di San Tommaso, dei loro costumi e delle loro credenze;
  • il libro III (Dell'India. Massime, Riti, e Costumi ciuili, e morali dell'Indiani) parla della vita politica, religiosa e sociale di Malabar, con un'attenzione particolare ai riti e ai costumi indiani;
  • il libro IV (Delle piante fruttifere, Animali quadrupedi, volatili, e Serpenti dell'Indie Orientali), probabilmente redatto mediante una collaborazione con il padre Matteo, descrive minuziosamente la flora e la fauna di Malabar;
  • il libro V (Nel quale si descriue il ritorno dall'Indie fino à Roma, con le cose più notabili osseruate nel Viaggio) racconta il viaggio di ritorno in Europa, includendo una descrizione di Goa.

La descrizione di Malabar, dove visse per quasi un anno (da febbraio 1657 a gennaio 1658) è originale e percettiva e tutte le sue descrizioni rivelano un interesse particolare per i costumi e la storia naturale di tutti i Paesi. L'autore, impreparato ad affrontare il problema dell'esistenza di nuclei cristiani indipendenti dal papato, considera i confratelli del Malabar come apostati ma non sempre si dimostra ostile nei confronti del mondo orientale. Nelle pagine introduttive, infatti, aggiunge al racconto del viaggio alcuni riferimenti mitologici e si concentra sulla descrizione della natura e del paesaggio e, quando racconta del cammino da Mossul a Baghdad, scambia per compagni e amici anche i soldati turchi e i commercianti armeni della sua carovana.

Il racconto sembra ispirato dalle poesie barocche e gli scenari evocati mettono in luce la consapevolezza di Murchio di appartenere a una tradizione espressiva non occasionale, ricca di modelli illustri. La visita che egli compì, al luogo dove era morta Sitti Maani, eroina dei Viaggi di Pietro Della Valle, vuole essere un omaggio per quest'ultimo, così come le suggestive osservazioni sui frutti esotici dell'India sembrano essere un gesto dedicato al viaggiatore contemporaneo Francesco Carletti.

L'opera ha ricevuto favorevoli critiche da parte di diversi stimati indologi del XIX e XX secolo, che ne hanno apprezzato la ricchezza dei contenuti e la precisione tenuta nel corso della redazione.

A. De Gubernatis dichiara che:

«padre Vincenzo Maria Carmelitano Scalzo [...] si dimostra osservatore curioso, minuto, diligente e di ogni cosa veduta ci reca particolareggiata notizia; onde, per i luoghi da lui visitati, nessun viaggiatore ci istruisce più del padre Vincenzo Maria. [...] Il terzo e il quarto (libro) sono specialmente preziosi per la ricchezza e importanza delle informazioni; le descrizioni de' luoghi e quelle de' costumi vi appaiono fatte con ogni diligenza, avuto riguardo alla imperfetta conoscenza che, in quel tempo, si aveva dell'India; ed uno storico della geografia come uno storico speciale dell'India non le può trascurare.[2]»

A. Ballini commenta così:

«[...] Vincenzo S. Maria di S. Cristina descriverà "con tanta esattezza e spirito di osservazione gli aspetti geografici, etnografici, la flora e la fauna dell'India", che la sua relazione va considerata pur oggi la più importante di quante fossero state svolte nel secolo XVII.[3]»

P. L. Ambruzzi scrive:

«Quantunque la materia dell'opera sia la stessa del P. Sebastiani, il P. Vincenzo scrive molto più diffusamente, con maggiore perizia e con più acuto spirito d'osservazione. Le sue fonti sono generalmente ineccepibili: la sua testimonianza, cioè, quella di persone sicure, e i libri degli infedeli. [...] È stato giustamente osservato che "pochi moderni viaggiatori mostrano maggior diligenza, esattezza e spirito di osservazione" del P. Vincenzo.[4]»

L'interesse di Antonio Murchio per il Malabar e, più in generale, per l'India in tutti i suoi aspetti, è testimoniato dall'accuratezza e dalla minuziosità dell'opera, oltre che dalle 450 pagine di cui è composta, le quali contengono importantissime informazioni anche di carattere linguistico.

A partire dal terzo libro, l'attenzione è rivolta esclusivamente all'India, della quale vengono riportate indicazioni geografiche, riti, costumi civili e morali, descrizioni di piante, animali, quadrupedi, volatili e serpenti. L'autore, inoltre, fornisce informazioni circa la società indiana, riportando l'elemento della suddivisione in caste[5], e descrive le più importanti divinità del Paese, riportando la sintesi dei maggiori testi sacri della religione locale con brevi porzioni in lingua originale.
Per ciascuno dei temi trattati fornisce il relativo nome nella lingua locale, quasi sempre di origine dravidica anche se, in alcuni casi, si parla di sanscrito.
Per la maggior parte dei vocaboli esotici menzionati, inoltre, è riportata anche una glossa esplicativa.

Aspetto storico/linguistico[modifica | modifica wikitesto]

I vocaboli esotici citati dall'autore all'interno dell'opera testimoniano il ruolo del portoghese come lingua-tramite per la loro entrata nell'[Idioletto|idioletto] dell'autore stesso. Nel caso dei viaggiatori italiani del Cinquecento questa classe di parole esotiche ha indotto a presumere l'assenza di contatto linguistico diretto tra i vari narratori e le popolazioni locali: alcune forme locali, infatti, erano già la forma corrente di una lingua franca a base portoghese presente in diverse varietà nelle colonie portoghesi lungo la costa, soprattutto occidentale, dell'India. Il vocabolo "agape", per esempio, menzionato nell'opera di Murchio, deriva dal greco e, oltre al significato di carità e amore, indica il banchetto collettivo e fraterno dei cristiani dei primi tempi. Egli lo cita riferendosi alle comunità cristiane dell'India meridionale.

«In certi tempi dell'anno [...] pratticano di fare certi conuiti nelle Chiese. [...] Da questi niuno è escluso, tutti interuengono, poueri, mezzani, e ricchi. A tutti si ripartisce il medesimo, senza differenza, senza distintione di persona. [...] Prima di sedere aggiungono molte orationi, quali ripigliano finita la mensa, accomodandole alla qualità della festa. Questo, [...] fu vso antichissimo della Chiesa primitiva. Li chiamauano agape, che vuol dire carità, ò dilettione [...]. [6]»

Il termine è glossato allo stesso modo degli esotismi perché, all'epoca, era ancora raramente menzionato all'interno di testi in lingua italiana.

Nonostante la funzione più rilevante dei lusismi che si riscontrano nell'opera consista nella trasmissione di esotismi da lingue come il Malayalam e altre dell'India meridionale, è evidente l'influsso del portoghese sulla lingua dell'opera stessa; questo è confermato, inoltre, dalla presenza di prestiti di pura origine portoghese, ovvero prestiti portoghesi non riconducibili a lingue esotiche che, comunque, si trovano glossati all'interno del testo.

Un esempio di prestiti di pura origine portoghese contenuti nell'opera è l'uso, da parte dell'autore, del comune suffisso di derivazione portoghese "-era", per formare, dai nomi dei vari frutti, i nomi delle rispettive piante alle quali questi appartengono. Una considerevole parte di lusismi presenti nell'opera, soprattutto quelli di provenienza esotica, è stata presa in prestito da precedenti opere di altri viaggiatori italiani che, quindi, hanno esercitato un'importante influenza sull'opera di Murchio. Alcuni esempi di esotismi menzionati nell'opera e già ampiamente utilizzati nei resoconti di viaggio italiani del Cinquecento sono: "coccho/cocco", "olla", "palanchino", "almadia", "toni/tane/thones", "gioghi/giogui", "nairi", "pulias/poliar", "nipa/anippa", "cairo/cagiero", "bananio/bagnano/bagniano". Non è semplice stabilire in che misura abbiano influito altre fonti italiane sull'opera, soprattutto perché, nelle relazioni e nelle lettere di viaggiatori-mercanti italiani nelle Indie Orientali, sono assenti liste o glossari che consentano un agevole confronto tra i testi. Una conferma su questo fronte, però, è possibile grazie al confronto della descrizione di un'immagine della divinità induista Yama, presente sia nell'opera di Murchio che nell'Itinerario del viaggiatore italiano Ludovico de Varthema.

«In mezo de questa capella sta un diavolo facto de metallo a sedere in una sedia pur de metallo. El dicto diavolo si tiene una corona facta a modo del Regno Papale con tre corone, et tiene ancora quatro corna et quatro denti con una grandissima bocca, naso et occhi terribilissimi; le mani sonno facte ad modo de un rarpino, li piedi ad modo de un gallo, per modo che a vederlo è una cosa molto spaurosa. Intorno alla dicta capella le picture soe sonno tutte diavoli. Et per ogni quadro de essa sta uno satanas a sedere in una sedia. La qual sedia è posta in una fiamma de foco, in el quale sta gran quantità de anime longhe mezo dito et uno deto della mano. Et el dicto satanas con la man drieta tiene una anima in bocca et con l'altra mano se piglia una anima dalla banda de sotto. [7]»

«Il Simulacro è di metalli, collocato in vna sedia della medesima materia, che porta in capo vna corona simile al Triregno Papale, appogiata ò quatto corni torti, piantati sopra due orecchie di Porco, con il viso spauenteuole, li occhi terribili, il naso brutto, largo, la bocca grandissima, ed aperta, dalla quale escono quattro denti di Cinghiale, con la mano dritta torta, curuata, con la quale s'applica un'animetta picciola alla bocca per deuorarla, e con la sinistra ne piglia vn'altra dalle fiamme, che gli sono scolpite all'intorno del soglio. Il corpo è tutto nudo come d'vn Satiro, con li piedi di Gallo, in modo, che cosa più mostruosa non si puole vedere [...]. [8]»

Ulteriore similitudine tra le due narrazioni è riscontrabile nella descrizione concernente il momento del pranzo del re di Calicut.

«El re de Calicut, quando vol mangiare, [...] lo cibo [...] lo pigliano quattro Bramini delli principali et lo portano al diavolo [...]. Alzano le mani gionte sopra la testa sua et poi tirano le mani ad sé con la mano serrata et lo dito grosso de la mano levato in su [...] et poi li dicti Bramini portano quel cibo al re. [...] Fornito ch'el re ha de mangiare, li dicti Bramini pigliano quello cibo che è avanzato al re et lo portano in un cortile et lo posano in terra; et li dicti Bramini batteno tre volte le mane insieme et a questo sbattere viene una grandissima quantità de cornacchie negre a questo dicto cibo, poi sello mangiano. [9]»

«Quando il Rè vuol mangiare, li Brahmani pigliano il cibo, e lo presentano à questo Simolacro, quale prima adorano, alzando le mani gionte sopra la testa, e poi calandole sul petto con chiudere il palmo, sí che lasciano stesi solo li deti grossi. Fata poi l'oratione d'vn quarto di hora in circa, riportano il ciboo alla mensa, del quale satiato che sij il Rè, tutto ciò che gl'auanza si porta in vn Palmaro, doue battendo li Brahmani le mani, v'accorre grandissima quantità di Cornacchie negre, vsate a quest'effetto, che se lo diuorano. [10]»

A dimostrazione dell'influenza esercitata da altre opere italiane, ci sono le parole di Antonio Murchio stesso che, all'interno dell'opera, menziona autori come Ludovico de Varthema, Giovanni Battista Ramusio e altri.

«Sino dai primi secoli della legge di Gracia, li Brahamani dell'Indie, si guadagnarono tanto nome nel Mondo, che frà Gentili furono creduti li più dotti, e morali dell'Oriente. Di questi ne parla Eusebio [...], Santo Agostino [...] Plinio, Strabone, e molti altri Scrittori sacri, e profani [...] [11]»

Il Viaggio dell'Indie Orientali dimostra che parole come "palanchino", "areca", "pagoda", "manga", "cocco" e "casta" non fossero già completamente introdotte nel lessico italiano, nonostante fossero in circolazione in diversi testi italiani da quasi due secoli.

Il frequente uso di glosse esplicative, anche per vocaboli già utilizzati da altri autori, potrebbe far pensare all'uso di un lessico specialistico ma, in realtà, l'opera ha un taglio prevalentemente divulgativo, con un intento soprattutto descrittivo e didattico; è rivolta a persone con conoscenze minime o nulle dell'India.

Molti esotismi riportati nell'opera, e già ampiamente utilizzati da altri scrittori italiani, sono entrati nella lingua d'uso comune, tanto da essere, oggi, citati nella maggior parte dei dizionari di lingua italiana. Altri vocaboli esotici riportati, invece, non sono entrati nel lessico dell'italiano di uso comune e, tra questi, vi sono quelli correlati alla vita religiosa degli indiani, soprattutto relativi alla cultura brahmanica ortodossa vissuta nel Malabar che l'autore dell'opera, invece, ha considerato in quanto particolarmente attento verso tale cultura. Tali esotismi, inoltre, risultano quasi sempre assenti nei documenti italiani pubblicati dai maggiori viaggiatori-mercanti e missionari delle Indie Orientali in periodi precedenti a Padre Vincenzo Maria. È probabile che questi vocaboli derivino da un contatto diretto con gli indigeni ma, in realtà, l'autore dell'opera riferisce in prima persona di non conoscere le lingue locali e, anzi, specifica che a mediare tra lui e gli abitanti del posto era sempre presente un interprete, probabilmente di origine indiana, che gli riferiva il nome di origine dravidica o indo-aria dei vari oggetti incontrati che lui, di pari passo, annotava insieme alle relative descrizioni.

«Imbarcandomi dunque con il Padre, e due Preti, che ci seruirono d'Interpreti [...] [12]»

È probabile che Il Viaggio all'Indie Orientali si rifaccia a relazioni italiane o a relazioni portoghesi tradotte in italiano ma anche a vere e proprie relazioni e lettere portoghesi, ovvero a traduzioni portoghesi di testi indiani. Si tratta, per la maggior parte, di testi manoscritti circolanti solo fra i diversi ordini ecclesiastici o quasi esclusivamente all'interno dell'ordine dei carmelitani scalzi.

Un esempio di vocaboli esotici strettamente legati alla vita religiosa degli indiani e presente nel testo di Murchio è la parola "mantra" che, etimologicamente, deriva dalla radice verbale sanscrita "man-" (pensare) a cui è aggiunto il suffisso "-tra", usato in sanscrito per formare sostantivi che indicano strumenti o utensili. Questa parola è, oggi, sporadicamente utilizzata nell'italiano comune e si trova inserita in alcuni Dizionari come termine specialistico ma è presumibile che comparse per la prima volta in un testo italiano proprio nell'opera di Murchio; prima di allora, infatti, la parola è attestata esclusivamente nell'opera portoghese Décadas da Ásia di Diogo do Couto, risalente al 1612[13].

Nell'opera Il Viaggio all'Indie Orientali si trovano molti vocaboli indiani che, non riscontrabili negli scritti dei viaggiatori-mercanti o missionari antecedenti l'autore, non sono entrati nella lingua d'uso comune ma sono comparsi in un lessico specialistico che diversi indologi italiani hanno cominciato a utilizzare a partire dall'inizio del XIX secolo. Si tratta di nomi provenienti dalla cultura vedica e dai miti dei poemi epici. Tra questi vi sono i quattro "Yuga", o ere cosmiche ("Krta-yuga", "Treta-yuga", "Dvapara-yuga", "Kali-yuga"), i "Tirtha", o luoghi santi e i "Ṛṣi", o antichi saggi/veggenti.

Per quanto riguarda, invece, i nomi propri di divinità si riscontrano nomi propri come "Visnu", "Siva", "Brahma", "Kali" e "Hanuman", noti anche ai non specialisti e già menzionati da altri viaggiatori italiani. L'opera risulta particolarmente dettagliata in questo senso, perché, per esempio, l'autore riporta buona parte dei 60 nomi con i quali le popolazioni di Malabar denominavano Siva e circa 20 diverse denominazioni per la figura di Visnu.

Nell'opera sono presenti molti termini botanici, zoologici ed etnografici, non citati come semplici elenchi di parole esotiche ma accompagnati da puntuali definizioni; molti termini menzionati appaiono come citazioni occasionali o fanno parte, in italiano, del lessico specialistico di discipline come l’indologia, la botanica e la zoologia ma una buona parte di essi è citata nei più importanti dizionari italiani di riferimento i quali, pur avendo menzionato fra le loro fonti anche Il Viaggio all'Indie Orientali, non citano l'attestazione di tali vocaboli nell'opera.

Il suo resoconto è un'importante testimonianza dei primi tentativi di traslitterazione delle diverse grafie indiane e offre una prova concreta della persistente influenza del portoghese come lingua-tramite per la trasmissione di vocaboli simili dalle lingue indiane.

L'originalità dell'opera, rispetto alle relazioni precedentemente redatte da altri viaggiatori, risiede sia nella maggior accuratezza delle descrizioni relative agli esotismi citati, sia nell'estesa trattazione di argomenti legati alla religione oggi conosciuta come induismo. Il Viaggio all'Indie Orientali è il primo testo italiano pubblicato che affronta la tematica religiosa indiana e, quindi, cita vocaboli che, solo successivamente, saranno ampiamente citati da diversi studi indologici italiani.

Tra gli esotismi menzionati nell'opera anche quelli appartenenti al lessico religioso sembrano riconducibili a forme portoghesi che avrebbero agito da tramite per la trasmissione di tali esotismi dalle lingue indiane.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Giuseppe Maria Sebastiani, Seconda speditione all'Indie Orientali, Roma, 1672.
  2. ^ A. De Gubernatis, Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie Orientali, Livorno, Vigo, Seconda edizione, 1875, pp. 55-56.
  3. ^ A. Ballini, Il contributo delle missioni alla conoscenza delle lingue e della cultura dell'India in Le missioni cattoliche e la cultura dell'Oriente, Roma, Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, 1943, p. 241.
  4. ^ P. L. Ambruzzi, Il contributo dei missionari cattolici alla conoscenza delle religioni, dei costumi e della geografia dell'India in Le missioni cattoliche e la cultura dell'Oriente, Roma, Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, 1943, pp. 291-292.
  5. ^ Vincenzo Maria di Santa Caterina, Il Viaggio all'Indie Orientali, Libro III, Capitolo X, p. 264
  6. ^ Vincenzo Maria di Santa Caterina, I Viaggi all'Indie Orientali, Libro II, Capitolo VI, p. 158.
  7. ^ Ludovico de Varthema, Itinerario di Ludovico de Varthema bolognese nello Egypto, nella Surria, nella Arabia deserta et felice, nella Persia, nella India et nella Etiopia. La fede, el vivere et costumi de tutte le prefate provincie, a cura di P. Giudici, Alpes, Milano, 1928, pp. 207-209.
  8. ^ Vincenzo Maria di Santa Caterina, I Viaggi all'Indie Orientali, p. 443.
  9. ^ Ludovico de Varthema, Itinerario di Ludovico de Varthema bolognese nello Egypto, nella Surria, nella Arabia deserta et felice, nella Persia, nella India et nella Etiopia. La fede, el vivere et costumi de tutte le prefate provincie, a cura di P. Giudici, Alpes, Milano, 1928, pp. 210-211.
  10. ^ Vincenzo Maria di Santa Caterina, I Viaggi all'Indie Orientali, pp. 443-444.
  11. ^ Vincenzo Maria di Santa Caterina, I Viaggi all'Indie Orientali, p. 268.
  12. ^ Vincenzo Maria di Santa Caterina, I Viaggi all'Indie Orientali, p. 217.
  13. ^ Diogo do Couto, Décadas da Ásia, V, VI, 3, 1612.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Angelo De Gubernatis, Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie orientali, compilata da Angelo de Gubernatis: Con estratti d'alcune relazioni di viaggio a stampa ed alcuni documenti inediti, Livorno, F. Vigo, 1875.
  • Marziano Guglielmetti, Viaggiatori del Seicento, Novara, Utet Libri, 2013.
  • Rosa Maria Cimino, Civiltà indiana ed impatto europeo nei secoli 16-18: l’apporto dei viaggiatori e missionari italiani, a cura di Enrico Fasana e Giuseppe Sorge, Milano, Jaka Book, 1988.
  • Andrea Drocco, Osservazioni su "Il Viaggio all’Indie Orientali […]" del Padre F. Vincenzo Maria di S. Caterina da Siena, procuratore generale dei Carmelitani scalzi, in Lo spazio linguistico italiano e le "lingue esotiche", 2006, pp. 289-307.
  • Francesco Saverio Quadrio, Dissertazioni Critico-Storiche Intorno Alla Rezia Di Qua Dalle Alpi, Oggi Detta Valtellina, Milano, Società Palatina, 1756.
  • Graziella Acquaviva e Mauro Tosco, Il lessico botanico ne "Il Viaggio all'Indie Orientali" del Padre F. Vincenzo Maria di S. Caterina da Siena (1672), in Kervan – International Journal of Afro-Asiatic Studies, n. 20, 2016, pp. 155-180.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]