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==== Difesa dell'Italia e della cristianità dai Saraceni ====
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{{Vedi anche|Battaglia del Garigliano (915)}}
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Se fino alla morte di Berengario la situazione all'interno del ''[[Regnum Italiae]]'' poteva dirsi sotto controllo, non era così al di là dei suoi confini. L'[[Europa orientale]] era devastata dalle incursioni degli [[Magiari|Ungari]], mentre il [[Europa settentrionale|Nord]] era dilaniato dalle scorrerie dei [[Vichinghi]]. Tuttavia il pericolo maggiore per la [[Penisola italiana]] era costituito dai [[Saraceni]], che con i loro continui assalti alle coste erano progressivamente penetrati anche nell'interno, giungendo già nell'846, sotto il pontificato di [[Papa Sergio II|Sergio II]], a saccheggiare le Basiliche di San Pietro e [[Basilica di San Paolo fuori le mura|San Paolo fuori le mura]]<ref>{{Cita|Bihlmeyer - Tuechle|p. 51}}</ref>. Già [[papa Giovanni VIII]] (872-882) aveva cercato di eliminare alla radice il problema, ma la scarsa collaborazione dei governanti dell'Italia meridionale, più interessati ad intrattenere rapporti commerciali con i [[Saraceni]] che eliminare il timore di loro scorribande, aveva mandato a monte il progetto del pontefice<ref>{{Cita|Rendina|p. 292}}</ref>. Solo all'epoca di [[papa Stefano V]] (885-891) [[Guido da Spoleto]] aveva inflitto loro una pesante (ma non definitiva) sconfitta nei pressi del [[Garigliano|fiume Garigliano]]<ref>{{Cita|Di Carpegna Falconieri}}</ref>, al confine tra Lazio e Campania, dove intorno all'880 i Saraceni avevano fondato una colonia, vero e proprio avamposto militare da cui facevano partire gli assalti contro le città italiane<ref name=":4">{{Cita web|autore = Giuseppe Cossutto|url = http://www.italiamedievale.org/sito_acim/contributi/arabi_lazio.html|titolo = Gli arabi nel Lazio nei secoli nono e decimo|accesso = 8/1/2015|editore = Associazione Culturale Italia Medievale|data = }}</ref>:
Se fino alla morte di Berengario la situazione all'interno del ''[[Regnum Italiae]]'' poteva dirsi sotto controllo, non era così al di là dei suoi confini. L'[[Europa orientale]] era devastata dalle incursioni degli [[Magiari|Ungari]], mentre il [[Europa settentrionale|Nord]] era dilaniato dalle scorrerie dei [[Vichinghi]]. Tuttavia il pericolo maggiore per la [[Penisola italiana]] era costituito dai [[Saraceni]], che con i loro continui assalti alle coste erano progressivamente penetrati anche nell'interno, giungendo già nell'846, sotto il pontificato di [[Papa Sergio II|Sergio II]], a saccheggiare le Basiliche di San Pietro e [[Basilica di San Paolo fuori le mura|San Paolo fuori le mura]]<ref>{{Cita|Bihlmeyer - Tuechle|p. 51}}</ref>. Già [[papa Giovanni VIII]] (872-882) aveva cercato di eliminare alla radice il problema, ma la scarsa collaborazione dei governanti dell'Italia meridionale, più interessati a intrattenere rapporti commerciali con i [[Saraceni]] che a eliminare il timore di loro scorribande, aveva mandato a monte il progetto del pontefice<ref>{{Cita|Rendina|p. 292}}</ref>. Solo all'epoca di [[papa Stefano V]] (885-891) [[Guido da Spoleto]] aveva inflitto loro una pesante (ma non definitiva) sconfitta nei pressi del [[Garigliano|fiume Garigliano]]<ref>{{Cita|Di Carpegna Falconieri}}</ref>, al confine tra Lazio e Campania, dove intorno all'880 i Saraceni avevano fondato una colonia, vero e proprio avamposto militare da cui facevano partire gli assalti contro le città italiane<ref name=":4">{{Cita web|autore = Giuseppe Cossutto|url = http://www.italiamedievale.org/sito_acim/contributi/arabi_lazio.html|titolo = Gli arabi nel Lazio nei secoli nono e decimo|accesso = 8/1/2015|editore = Associazione Culturale Italia Medievale|data = }}</ref>:
{{Citazione|Infatti avevano fondato una colonia fortificata sul monte Garigliano, ove custodivano abbastanza al sicuro le mogli, i bambini prigionieri e ogni suppellettile.|{{Cita|Liutprando|p. 826, cap. 44}}|In monte quippe Gareliano munitionem constituerant, in quo uxores, parvulos captivos, omnemque suppellectilem satis tuto servabant|lingua = Latino|lingua2 = Italiano}}
{{Citazione|Infatti avevano fondato una colonia fortificata sul monte Garigliano, ove custodivano abbastanza al sicuro le mogli, i bambini prigionieri e ogni suppellettile.|{{Cita|Liutprando|p. 826, cap. 44}}|In monte quippe Gareliano munitionem constituerant, in quo uxores, parvulos captivos, omnemque suppellectilem satis tuto servabant|lingua = Latino|lingua2 = Italiano}}


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Per concentrare il nemico in un'unica posizione la Lega cristiana attaccò gli insediamenti saraceni in [[Sabina]] e in [[Campania]], costringendoli a confluire lungo le rive del [[Garigliano]], dove nel giugno del 915 furono sconfitti definitivamente in una [[Battaglia del Garigliano (915)|violenta battaglia]] dalla coalizione guidata da Alberico e dallo stesso Giovanni X<ref name=":6">{{Cita|Gregorovius|p. 884}}</ref>. La Lega cristiana ottenne una vittoria talmente netta<ref>{{Cita libro|autore = Liutprando da Cremona|titolo = Antapodosis|anno = |editore = |città = |posizione = Libro II|capitolo = 54}}</ref> da scongiurare definitivamente nuove mire dei musulmani sulla Penisola<ref name=":4" />. Gregorovius narra, in toni enfatici, l'impresa del pontefice e il suo ritorno a Roma:
Per concentrare il nemico in un'unica posizione la Lega cristiana attaccò gli insediamenti saraceni in [[Sabina]] e in [[Campania]], costringendoli a confluire lungo le rive del [[Garigliano]], dove nel giugno del 915 furono sconfitti definitivamente in una [[Battaglia del Garigliano (915)|violenta battaglia]] dalla coalizione guidata da Alberico e dallo stesso Giovanni X<ref name=":6">{{Cita|Gregorovius|p. 884}}</ref>. La Lega cristiana ottenne una vittoria talmente netta<ref>{{Cita libro|autore = Liutprando da Cremona|titolo = Antapodosis|anno = |editore = |città = |posizione = Libro II|capitolo = 54}}</ref> da scongiurare definitivamente nuove mire dei musulmani sulla Penisola<ref name=":4" />. Gregorovius narra, in toni enfatici, l'impresa del pontefice e il suo ritorno a Roma:
{{Citazione|Adorno di gloriosa onoranza, per questa vittoria ottenuta sugli Africani [i Saraceni], Giovanni X tornò a Roma, pari a trionfatore reduce da una guerra punica. I cronisti tacciono di feste che celebrasse la Città in segno di gratitudine e di letizia [...] ma noi possiamo credere che egli entrasse a cavallo da una delle porte che guarda a mezzodì, tenendosi al fianco Alberico margravio...lo avranno accolto le acclamazioni del popolo, il quale plaudiva a lui [al Papa], capitano diplomatico della guerra, e ad Alberico rendeva venerazione come ad uno Scipione novello.|{{Cita|Gregorovius|p. 886}}}}
{{Citazione|Adorno di gloriosa onoranza, per questa vittoria ottenuta sugli Africani [i Saraceni], Giovanni X tornò a Roma, pari a trionfatore reduce da una guerra punica. I cronisti tacciono di feste che celebrasse la Città in segno di gratitudine e di letizia [...] ma noi possiamo credere che egli entrasse a cavallo da una delle porte che guarda a mezzodì, tenendosi al fianco Alberico margravio...lo avranno accolto le acclamazioni del popolo, il quale plaudiva a lui [al Papa], capitano diplomatico della guerra, e ad Alberico rendeva venerazione come ad uno Scipione novello.|{{Cita|Gregorovius|p. 886}}}}
Rassicurato dalla presenza di un imperatore italiano, dall'amicizia con Alberico e Teofilatto e dalla rete di alleanze che si era costruito, Giovanni poté governare la sede apostolica per un periodo insolitamente lungo in quegli anni (dal 915 al 925), dedicandosi al governo della città<ref>{{Cita|Gregorovius|p. 886}}{{Citazione|Finché durò la potenza di Berengario, e fino a tanto che Roma obbedì chetamente all'energico regime del papa che gli era amico, nessuna opportunità si offerse ad Alberico di condurre a compimento quei disegni ambiziosi che per certo coltivava nell'animo: anzi, per alcuni anni, fu egli sostenitore del pontefice in Roma.}}</ref>.
Rassicurato dalla presenza di un imperatore italiano, dall'amicizia con Alberico e Teofilatto e dalla rete di alleanze che si era costruito, Giovanni poté governare la sede apostolica per un periodo insolitamente lungo in quegli anni (dal 915 al 925), dedicandosi al governo della città<ref>{{Cita|Gregorovius|p. 886}}{{Citazione|Finché durò la potenza di Berengario, e fino a tanto che Roma obbedì chetamente all'energico regime del papa che gli era amico, nessuna opportunità si offerse ad Alberico di condurre a compimento quei disegni ambiziosi che per certo coltivava nell'animo: anzi, per alcuni anni, fu egli sostenitore del pontefice in Roma.}}</ref>.


==== Governo della Chiesa e relazioni esterne ====
==== Governo della Chiesa e relazioni esterne ====

Versione delle 19:02, 29 mar 2016

Biografia

Carriera ecclesiastica

Secondo le Memorie storiche intorno alla terra di Tossignano, Giovanni, della nobile famiglia dei Cenci, nacque in questa località sita nelle colline sopra Imola, intorno alll'860[1][2]. Intrapresa la carriera ecclesiastica, completò il diaconato a Bologna (ove fu ordinato dal vescovo Pietro[1]) per poi diventare procuratore dell'arcivescovo di Ravenna Cailone[1][3]. Giovanni soggiornò spesso a Roma come legato arcivescovile e fu in queste circostanze che strinse rapporti con l'aristocrazia romana, in particolare con Teofilatto dei Conti di Tuscolo (ca. 860 - ca. 924) e con sua moglie Teodora[1].

La svolta per la carriera ecclesiastica di Giovanni avvenne proprio grazie ai Conti di Tuscolo, quando Teodora (secondo Liutprando di Cremona divenuta amante dello stesso Giovanni) spinse papa Sergio III (904-911) a nominarlo vescovo di Bologna, sede che però Giovanni non governò mai[4]. Verso la fine del 904 Cailone morì[5], permettendo a Giovanni di occupare la ben più prestigiosa sede di Ravenna, diocesi che guidò dal 905[3] fino all'elezione papale[6]. Questa versione dei fatti fu poi ripresa e fatta propria dal Baronio nei suoi Annales Ecclesiastici, ove si riporta che:

(LA)

«Quod ad res pertinet Occidentales ipsamque Romanam Ecclesiam, hoc anno (quod Liutprandus enarrat) Theodora potentissimo scorto ac impudentissimo agente, Lando papa Joannem quem illa turpissime deperibat ex Ravennate presbyter creatum episcopum Bononiensem, defuncto tunc Petro episcopo Ravennate, in eius Ecclesiae archiepiscopatum transtulit.»

(IT)

«Per quanto riguarda gli abitanti dell'Europa occidentale e la stessa Chiesa Romana, in questo anno Teodora (per quanto Liutprando narra), comportandosi da potentissima e svergognata prostituta, (spinse) Papa Lando a nominare Giovanni, che lei amava in modo estremamente turpe, vescovo di Bologna da presbitero ravennate qual era; morto allora Pietro vescovo di Ravenna, lo trasferì alla sede arcivescovile di quella Chiesa.»

La notizia, però, non può essere esatta: Papa Lando regnò tra il 913 e il 914, e quindi fu necessariamente papa Sergio a consacrare Giovanni arcivescovo di Ravenna.

Giovanni X, disegno tratto da Franco Cesati, I Misteri del Vaticano o la Roma dei Papi, vol.1, 1861

L'elezione al Soglio

Tra fine marzo e inizio aprile[3][7] del 914, sempre per volere di Teodora e della sua famiglia, Giovanni salì al soglio pontificio:

(LA)

«Quo facto eumdem Landonem, modico interlapso tempore, ex hac vita migrasse testatur. Porro Theodora non quievit, donec eumdem Joannem ex archiepiscopo Ravennate in Cathedram Petri violenter intrusit.»

(IT)

«Compiuto ciò, (Liutprando, N.d.T) testimonia che lo stesso Lando, trascorso poco tempo, fosse passato a miglior vita. A sua volta, Teodora non trovò requie, finché non insediò violentemente il medesimo Giovanni, da arcivescovo di Ravenna, alla Cattedra di PIetro.»

La maldicenza di Liutprando, secondo cui Giovanni aveva una relazione con Teodora grazie alla quale riuscì a salire al soglio pontificio, è però priva di fondamento. John Kelly, autorevole studioso della storia dei papi, pensa piuttosto che Teodora avesse scelto Giovanni per «dare a Roma un capo vigoroso e esperto»[8] dopo i due deboli predecessori[9].

Inoltre, all'epoca era ancora valido il decreto conciliare XV del Concilio di Nicea I, che proibiva a chi era già vescovo di diventare papa[10]. L'elezione irregolare parve ai più come tale anche per le turbolente diatribe tra le opposte fazioni che si erano scatenate verso gli ultimi anni del IX secolo, ma la volontà del console di Roma Teofilatto e della sua famiglia prevalse sulla forza della legge[11].

Il pontificato

Relazioni con l'aristocrazia e l'impero

Nonostante l'appoggio dell'aristocrazia fosse risultato determinante per la sua elezione, Giovanni X non fu un pontefice fantoccio, ma anzi, fu l'ultimo papa a far valere il suo potere anche sulla nobiltà romana, prima di una lunga serie di pontefici "cortigiani"[6]. Giovanni fu infatti un convinto sostenitore della necessità che l'autorità spirituale (il papa) e quella temporale (l'imperatore) si potessero sostenere reciprocamente contro l'anarchia feudale che dilagava nell'Europa del IX secolo, e quindi anche nel Regnum Italiae. La sua posizione si riscontra in una serie di epistole indirizzate a Berengario I del Friuli:

«Nelle lettere quinta e sesta, dirette l'una allo stesso Berengario [del Friuli]), l'altra ai vescovi Adalberto di Bergamo ed Ardingo di Brescia, Giovanni (X), mentre lamenta le difficoltà di ogni genere in cui versava la sua Chiesa, espone una sua dottrina dei rapporti fra regno e sacerdozio, basata sulla separazione e sulla collaborazione, di là da ogni pretesa di subordinare il primo al secondo, che è la coerente risposta di un uomo di chiesa ai problemi connessi con la crisi di autorità che si era abbattuta sull'Europa occidentale dopo la fine dell'impero carolingio...»

Ioanne Palatio, Berengario I imperatore, incisione in Aquila Saxonica Sub Qua Imperatores Saxones, 1673.

Nonostante la sua scelta di autonomia dal potere politico, Giovanni mantenne l'alleanza con i suoi "elettori", Teofilatto e Teodora, estendendo ben presto tale rapporto di buon vicinato al loro genero Alberico I, Marchese di Camerino, allora dominus del Ducato di Spoleto e dell'intera Italia centrale[12]. Già forte dell'alleanza con l'aristocrazia romana, Giovanni portava così dalla sua parte anche uno dei nobili più potenti della Penisola.

Ma d'altra parte, per affermare l'indipendenza della Santa Sede dall'aristocrazia Giovanni volle ripristinare l'autorità imperiale. Formalmente il titolo apparteneva al provenzale Ludovico III (887-928), che però, sconfitto e accecato (da cui il soprannome di Ludovico il Cieco) da Berengario del Friuli nel corso della guerra per la corona d'Italia, a causa della sua menomazione non era più in grado di mantenere la sua autorità sull'Italia e sulla Chiesa[6]. Il papa dunque, per proteggere la propria posizione da eventuali colpi di mano dell'aristocrazia locale, offrì la corona imperiale ad un feudatario italiano, proprio quel Berengario I (ca. 850-924), Re d'Italia dall'888, che puntava alla corona imperiale sin dagli ultimi anni del IX secolo. Nonostante la sua posizione non fosse di primo piano[13], Berengario rappresentava l'unico feudatario italiano che avesse qualche pretesa valida al trono imperiale. Invitato dunque a Roma, l'incoronazione dell'ormai sessantenne re d'Italia avvenne nei primi giorni di dicembre del 915 in San Pietro[14][15], dopodiché Berengario rinnovò tutte le promesse di protezione e difesa da parte sua nei confronti della Chiesa[16].

In una tale situazione politica Giovanni X riuscì a mantenere la pace interna per quasi dieci anni, fino a quando, il 7 aprile 924[15], Berengario fu assassinato a Verona dalla fazione che sosteneva Rodolfo di Borgogna quale imperatore. Il potere imperiale, che si era mantenuto saldo negli anni e che aveva garantito a Giovanni X di mantenere il controllo su Roma, esercitando liberamente il suo potere spirituale e politico, veniva ora meno. La scomparsa di Berengario e la mancanza di un pretendente potente che potesse succedere in tutta tranquillità all'imperatore assassinato rigettò nel caos più completo il Regno d'Italia, e permise all'aristocrazia romana di riprendere il sopravvento sul pontefice.

Ferdinand Gregorovius e Liutprando da Cremona sostengono che Alberico di Spoleto (unico leader di Roma, dopo la morte dei suoceri Teofilatto (924 ca.) e Teodora (916)), che da tempo covava un sentimento di rivalsa sul papa, animosità favorita dalla moglie Marozia[17][18], riuscì ad impadronirsi di Roma e ad imporre la sua autorità, ma in breve tempo Giovanni X si riorganizzò e lo costrinse alla fuga. Alberico si rifugiò a Orte[18], dove però fu assalito e ucciso dagli Ungari da lui stesso chiamati in aiuto per la riconquista di Roma[19], oppure dalle stesse milizie romane "a lui fedeli", che l'avevano seguito nella fuga[20].

Difesa dell'Italia e della cristianità dai Saraceni

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia del Garigliano (915).

Se fino alla morte di Berengario la situazione all'interno del Regnum Italiae poteva dirsi sotto controllo, non era così al di là dei suoi confini. L'Europa orientale era devastata dalle incursioni degli Ungari, mentre il Nord era dilaniato dalle scorrerie dei Vichinghi. Tuttavia il pericolo maggiore per la Penisola italiana era costituito dai Saraceni, che con i loro continui assalti alle coste erano progressivamente penetrati anche nell'interno, giungendo già nell'846, sotto il pontificato di Sergio II, a saccheggiare le Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura[21]. Già papa Giovanni VIII (872-882) aveva cercato di eliminare alla radice il problema, ma la scarsa collaborazione dei governanti dell'Italia meridionale, più interessati a intrattenere rapporti commerciali con i Saraceni che a eliminare il timore di loro scorribande, aveva mandato a monte il progetto del pontefice[22]. Solo all'epoca di papa Stefano V (885-891) Guido da Spoleto aveva inflitto loro una pesante (ma non definitiva) sconfitta nei pressi del fiume Garigliano[23], al confine tra Lazio e Campania, dove intorno all'880 i Saraceni avevano fondato una colonia, vero e proprio avamposto militare da cui facevano partire gli assalti contro le città italiane[24]:

(LA)

«In monte quippe Gareliano munitionem constituerant, in quo uxores, parvulos captivos, omnemque suppellectilem satis tuto servabant»

(IT)

«Infatti avevano fondato una colonia fortificata sul monte Garigliano, ove custodivano abbastanza al sicuro le mogli, i bambini prigionieri e ogni suppellettile.»

Giovanni X era dunque deciso a stroncare una volta per tutte la minaccia saracena nel Meridione. Con un felice sforzo diplomatico l'energico pontefice riuscì a riunire le forze dei vari principati italiani contro il nemico comune, coalizzando le truppe pontificie con le milizie dei Ducati del Centro-Sud (Spoleto, Gaeta, Napoli, Salerno e Benevento[25]), la flotta bizantina guidata dallo strategòs Nicolò Picingli[26] e i contingenti dell'esercito imperiale guidati da Adalberto di Toscana, luogotenente per conto di Berengario[25]. I ducati bizantini della Campania, legati da tempo ai Saraceni da rapporti di natura commerciale[25][24], furono attratti nell'alleanza in cambio di concessioni di titoli e di terre da parte di Giovanni X[25][3].

Per concentrare il nemico in un'unica posizione la Lega cristiana attaccò gli insediamenti saraceni in Sabina e in Campania, costringendoli a confluire lungo le rive del Garigliano, dove nel giugno del 915 furono sconfitti definitivamente in una violenta battaglia dalla coalizione guidata da Alberico e dallo stesso Giovanni X[26]. La Lega cristiana ottenne una vittoria talmente netta[27] da scongiurare definitivamente nuove mire dei musulmani sulla Penisola[24]. Gregorovius narra, in toni enfatici, l'impresa del pontefice e il suo ritorno a Roma:

«Adorno di gloriosa onoranza, per questa vittoria ottenuta sugli Africani [i Saraceni], Giovanni X tornò a Roma, pari a trionfatore reduce da una guerra punica. I cronisti tacciono di feste che celebrasse la Città in segno di gratitudine e di letizia [...] ma noi possiamo credere che egli entrasse a cavallo da una delle porte che guarda a mezzodì, tenendosi al fianco Alberico margravio...lo avranno accolto le acclamazioni del popolo, il quale plaudiva a lui [al Papa], capitano diplomatico della guerra, e ad Alberico rendeva venerazione come ad uno Scipione novello.»

Rassicurato dalla presenza di un imperatore italiano, dall'amicizia con Alberico e Teofilatto e dalla rete di alleanze che si era costruito, Giovanni poté governare la sede apostolica per un periodo insolitamente lungo in quegli anni (dal 915 al 925), dedicandosi al governo della città[28].

Governo della Chiesa e relazioni esterne

Passato il pericolo esterno, Giovanni si poté concentrare sul governo della Chiesa. Oltre ad intervenire in seno a diatribe sorte nella Chiesa franca[3], il pontefice dovette prendere posizione anche nelle questioni matrimoniali dell'imperatore bizantino Leone VI (886-912)[29] il quale, pur di avere un erede maschio, si era sposato per la quarta volta, contraendo un matrimonio considerato alla stregua di concubinaggio da parte del clero bizantino. Entrato dunque in contrasto con il patriarca Nicola il Mistico, Leone VI lo depose ma, dopo la morte dell'imperatore (912), Nicola entrò a far parte del consiglio di reggenza in nome di Costantino VII Porfirogenito, il figlio avuto da quel quarto matrimonio. Nicola, per salvare l'unità dell'Impero e mantenere la concordia con la Chiesa bizantina, giunse ad una formula di compromesso, che condannava, come principio generale, il quarto matrimonio, ma convalidava in via eccezionale quello di Leone VI che aveva consentito di dare un erede al trono. Il Patriarca scrisse dunque tra il 920 e il 921[3] a Giovanni X, chiedendogli un parere in merito; Non si conosce la risposta del papa[3] (in Occidente, comunque, si era più tolleranti che in Oriente riguardo alla tetragamia), che però non dovette essere negativa se è vero che dopo quello scambio epistolare ripresero buoni rapporti tra Roma e Costantinopoli[3].

Nel periodo di maggior potenza politica, Giovanni si adoperò per rafforzare la propria posizione nei territori dell'ex impero carolingio, presiedendo sinodi tramite legati, oppure intrattenendo relazioni con i vescovi d'oltralpe. Ne sono esempio le lettere che inviò ai vescovi di Rouen e di Reims sul modo di trattare i Normanni convertiti al cristianesimo, nonché la presidenza assunta nel sinodo di Hohenaltheim sulla riforma dei costumi ecclesiastici[30].

Negli anni di tranquillità seguiti alla sconfitta dei Saraceni Giovanni X poté tra l'altro procedere al completamento della ricostruzione della Basilica del Laterano, in parte distrutta da un terremoto verificatosi negli ultimi anni del secolo precedente e non ancora interamente restaurata, e al potenziamento della schola cantorum[31].

File:Marozia.pdf
Marozia, disegno tratto da Franco Cesati, I Misteri del Vaticano o la Roma dei Papi, vol.1, 1861

Fine del pontificato e morte

Quando furono venute a mancare tutte le principali amicizie e alleanze che la politica di Giovanni aveva faticosamente costruito, la debolezza politica in cui il papa versava Giovanni X si evidenziò nettamente: senza il supporto militare di qualche potente, il controllo su Roma non era più sicuro. Per correre ai ripari affidandosi ad una persona fidata, Giovanni nominò il fratello Pietro console e nuovo duca di Spoleto[3], mentre sul fronte esterno cercò di trovare un accordo con il nuovo re d'Italia Ugo di Provenza, fratello di Guido. Ugo, che era stato scelto dai principi elettori a Pavia nel luglio del 926 senza chiedere l'assenso papale[19], era l'unica speranza effettiva a cui Giovanni poteva ricorrere per contrastare il potere di Marozia, che aveva assunto in Roma quel ruolo di guida politica che era stato della madre Teodora e del padre Teofilatto. Pertanto nel 926, dopo l'elezione di Pavia, il pontefice inviò a Pisa dei legati i quali, in nome di Giovanni, attestarono il riconoscimento dell'elezione[3]. Re e papa s'incontrarono poi personalmente a Mantova[16], per discutere della situazione politica italiana e della più che possibile incoronazione di Ugo quale nuovo imperatore[32][33].

Ma Marozia e Guido si premunirono da un colpo di mano di Giovanni: nell'estate del 927, approfittando del fatto che il papa e suo fratello Pietro erano al seguito di Ugo, chiusero le porte di Roma in faccia al pontefice e al Re d'Italia[33] il quale, in questa situazione, preferì non intervenire e ritornare a Pavia, lasciando soli i due fratelli soli[33]. Nel dicembre dello stesso 927 Marzoia e Guido passarono alla fase successiva del loro piano, occupando il Palazzo del Laterano[3]. Pietro, privo delle forze militari necessarie, si rifugiò a Orte, dove chiamò in aiuto gli Ungari[3]. L'iniziativa però gli costò cara in quanto, rientrato a Roma nel maggio 928, fu ucciso dal popolo e dall'aristocrazia sotto gli occhi del fratello[19]: i Romani perché spinti dal legame con Marozia, gli altri perché irritati dall'arrivo di quelle famigerate orde barbariche[34]. Giovanni, a questo punto, rimase senza più alleati: anche Ugo re d'Italia, infatti, preferì rimanere a guardare l'evolvere degli eventi, senza agire. Nel maggio 928 Giovanni X fu arrestato per ordine di Marozia, venne deposto e rinchiuso in carcere in Castel Sant'Angelo, dove morì tra maggio e luglio del 929[7], quando già si erano succeduti due papi al suo posto: Leone VI (maggio 928) e Stefano VII (dicembre 928).

Non si conosce esattamente la data della morte di Giovanni X. Marozia e Guido di Toscana, quasi sicuramente, lo eliminarono in un arco di tempo che va dal maggio del 928 e i primi mesi del 929[19]. Sulle cause della sua morte, sono state proposte varie ipotesi: nelle Memorie storiche intorno alla terra di Tossignano è scritto che Giovanni fu soffocato con un guanciale dallo stesso Guido[19][35], mentre Gregorovius (basandosi su Liutprando) ritiene che il deposto pontefice fosse morto per inedia o per strangolamento[36].

La storiografia del XX secolo esclude in queste vicende il ruolo di Alberico: sia Girolamo Arnaldi che Claudia Gnocchi, biografi rispettivamente di Alberico e di Giovanni X, negano infatti il suo ruolo nella congiura contro il papa. Il primo ricorda che non c'è alcun documento che attesti la data di morte del duca spoletino, anzi, precisa l'Arnaldi che:

«Non sappiamo quando A. sia morto; il suo nome compare per l'ultima volta in un documento databile 917»

La Gnocchi, ancor più esplicitamente, precisa come Marozia fosse vedova di Alberico già nel 925, e che anzi a quell'epoca aveva già contratto matrimonio con Guido di Toscana al fine di poter avere una forza militare capace di abbattere il potere di Giovanni X su Roma[19]:

«Intanto a Roma erano scomparsi i vecchi alleati di G., Teofilatto e Alberico [...] Marozia, figlia di Teofilatto e vedova di Alberico, sposò tra il 925 e il 927 Guido di Toscana.»

Note

  1. ^ a b c d Rendina, p. 314
  2. ^ Benacci, pp. 9-10
  3. ^ a b c d e f g h i j k l Gnocchi
  4. ^ Liutprando, p. 828
  5. ^ Cronotassi dei Vescovi di Ravenna, file pdf sul sito della diocesi (PDF), su webdiocesi.chiesacattolica.it. URL consultato il 7/1/2015.
  6. ^ a b c Rendina, p. 315
  7. ^ a b Giovanni X, su w2.vatican.va, vatican.va. URL consultato l'8/1/2015.
  8. ^ Kelly, p. 212
  9. ^ Papa Anastasio III e Papa Lando
  10. ^ Canoni del Concilio di Nicea I, su intratext.com, Intratext. URL consultato il 7/1/2015.
  11. ^ Gnocchi:

    «Le cause del trasferimento di G. da Ravenna a Roma sono sconosciute. Nonostante i trasferimenti avvenuti dopo la polemica antiformosiana, quello di Stefano VI e di Sergio III, i canoni che proibivano tale pratica erano tuttora in vigore (Giovanni IX aveva ribadito la validità della norma al concilio di Ravenna, nell'898). D'altra parte anche prima dell'elezione di Formoso c'erano stati dei trasferimenti di vescovi da una sede ad un'altra, e più in particolare da altre sedi alla Sede romana; ma la polemica antiformosiana, in cui si scontravano interessi di ben più ampia portata, e che aveva preso spunto da questa infrazione per invalidare tutti gli atti di quel papa, nel 914 si era ormai esaurita. Teofilatto e la sua famiglia avevano ottenuto il potere, e ormai in difesa di Formoso scriverà - proprio negli anni del pontificato di G. - soltanto l'autore anonimo dell'Invectiva. G. non dovette dunque preoccuparsi di giustificare il suo trasferimento presso la Sede romana, dove si suppone che sia stato chiamato proprio dagli esponenti dell'aristocrazia locale.»

  12. ^ In quanto marito di Marozia, figlia di Teofilatto e Teodora. Si veda: Arnaldi 1
  13. ^ Berengario aveva in realtà sconfitto Ludovico III, ma è pur vero che il 24 settembre 899 il suo esercito era stato annientato dagli Ungari nella battaglia del Brenta, e quella posizione di debolezza gli impedì, fino a tutto il pontificato di Sergio III (904-911), di aspirare alla corona imperiale)
  14. ^ Sestan-Bosisio, p. 201
  15. ^ a b Arnaldi 2
  16. ^ a b Moroni, p. 51
  17. ^ Gregorovius, pp. 887-888
  18. ^ a b Rendina, p. 317
  19. ^ a b c d e f Rendina, p. 318
  20. ^ Gregorovius, p. 888
  21. ^ Bihlmeyer - Tuechle, p. 51
  22. ^ Rendina, p. 292
  23. ^ Di Carpegna Falconieri
  24. ^ a b c Giuseppe Cossutto, Gli arabi nel Lazio nei secoli nono e decimo, su italiamedievale.org, Associazione Culturale Italia Medievale. URL consultato l'8/1/2015.
  25. ^ a b c d Rendina, p. 316
  26. ^ a b Gregorovius, p. 884
  27. ^ Liutprando da Cremona, 54, in Antapodosis, Libro II.
  28. ^ Gregorovius, p. 886

    «Finché durò la potenza di Berengario, e fino a tanto che Roma obbedì chetamente all'energico regime del papa che gli era amico, nessuna opportunità si offerse ad Alberico di condurre a compimento quei disegni ambiziosi che per certo coltivava nell'animo: anzi, per alcuni anni, fu egli sostenitore del pontefice in Roma.»

  29. ^ Cfr. Leone VI di Bisanzio
  30. ^ Kelly, p. 212
  31. ^ Kelly, p. 213
  32. ^ Liutprando, p. 842, par. 17:
    (LA)

    «Post paululum Mantuam abiit, ubi et Johannes papa ei occurrens, foedus cum eo percussit.»

    (IT)

    «Poco dopo [Ugo] si diresse a Mantova, dove papa Giovanni, venendogli incontro, stipulò con lui un'alleanza.»

  33. ^ a b c Sestan-Bosisio, p. 209
  34. ^ Gregorovius, p. 890
  35. ^ Benacci, p. 160
  36. ^ Gregorovius, p. 890

Bibliografia

Antica
Moderna