Seconda guerra d'indipendenza italiana

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l'Italia nel Risorgimento

La seconda guerra di indipendenza italiana (26 aprile 1859 - 12 luglio 1859) vide confrontarsi l'esercito franco-piemontese e quello dell'Impero d'Austria. La sua conclusione permise il ricongiungimento della Lombardia al Regno di Sardegna e pose le basi per la costituzione del Regno d'Italia.

Antefatti

Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna dal 1852 avviò una serie di riforme e si avvicinò alla Francia e all'Inghilterra, al fine di guadagnarsi un posto tra le potenze d'Europa più progressiste. In questa prospettiva nel 1855 inviò un corpo di Bersaglieri nella Guerra di Crimea al fianco di Francia, Gran Bretagna e Turchia. Ciò gli consentì di sedersi al tavolo delle trattative del Congresso di Parigi nel 1856 e di allacciare i primi contatti con Napoleone III.

Fu così che nel luglio del 1858, a Plombières in Francia, Cavour e l'imperatore francese firmarono un trattato segreto (gli Accordi di Plombières) con cui la Francia si impegnava ad intervenire a fianco del Regno di Sardegna in caso di attacco austriaco. Contropartita per questo aiuto, in caso di annessione al Piemonte di Milano, Venezia e Bologna, sarebbe stata la cessione della Savoia e di Nizza alla Francia. Cavour si sarebbe peritato di non incoraggiare eventuali sollevazioni mazziniane, slegate dalla guerra reale.

Dall'inizio del 1859 il governo piemontese adottò un comportamento smaccatamente provocatorio nei confronti dell'Impero Impero Austriaco. Condizione necessaria dell'accordo, infatti, era che fosse l'Austria a dichiarare guerra. Erano tornati in Italia Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi: a quest'ultimo fu affidato il compito di organizzare un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, senza porre limiti all'arruolamento di fuoriusciti dal Lombardo-Veneto posto sotto il dominio dell'Impero Austriaco. Quest'ultimo, informato degli accordi di Plombières, decise di fare la prima mossa, con l'intento di replicare la operazione così ben riuscita al maresciallo Josef Radetzky contro Carlo Alberto, a Novara nel 1849. Il 26 aprile l'Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna: la Francia era impegnata a un'alleanza difensiva che Napoleone III, non senza resistenze interne, decise di onorare.

L'invasione austriaca del Piemonte

Già il 29 aprile l'esercito austriaco di Gyulai attraversò il Ticino nei pressi di Pavia ed invase il territorio piemontese, il 30 occupò Novara, Mortara e, più a nord, Gozzano, il 2 maggio Vercelli, il 7 Biella. L'azione non veniva ostacolata dall'esercito piemontese, accampato a sud fra Alessandria, Valenza e Casale. Gli austriaci arrivarono sino a 50 km da Torino.

A questo punto, tuttavia, Gyulai invertì ordine di marcia e si ritirò oltre il Sesia e poi verso la Lombardia: un ordine espresso da Vienna, infatti, gli aveva suggerito che "il miglior teatro di operazioni è il Mincio", lì dove gli Austriaci avevano, appena 11 anni prima, domato l'avanzata piemontese e salvato i propri domini in Italia. Così facendo, tuttavia, gli austriaci rinunciavano a battere separatamente piemontesi e francesi, e consentivano il ricongiungimento dei due eserciti. Il comando austriaco, inoltre, operava una totale inversione strategica, che difficilmente può essere spiegata senza ipotizzare una certa confusione. Certamente non ne fu responsabile Gyulai, al quale, semmai, può essere rimproverata una certa debolezza nell'azione.

La liberazione della Lombardia

Il 14 maggio 1859 Napoleone III, partito il 10 maggio da Parigi e sbarcato il 12 a Genova raggiunse il campo di Alessandria ed assunse sul campo il comando dell'esercito franco-piemontese. Con il grosso dell'esercito rientrato al di qua del Ticino e del Po, il 20 maggio 1859 Gyulai comandò una grande ricognizione a sud di Pavia. Essa venne fermata a Montebello (20-21 maggio) dai francesi del generale Forey, futuro maresciallo di Francia, con l'intervento determinante della cavalleria sarda del colonnello Morelli di Popolo.

Il 30 ed il 31 maggio i piemontesi di Enrico Cialdini e di Giacomo Durando riportarono una brillante vittoria alla battaglia di Palestro. Un contrattacco fu affidato al terzo reggimento degli zuavi del colonnello de Chabron, al quale prese parte lo stesso re Vittorio Emanuele II di Savoia, che fu gratificato del titolo di caporale degli zuavi.

Parallelamente avanzavano anche i francesi, che il 2 giugno varcarono il Ticino: essi assicurarono il passaggio battendo gli Austriaci alla battaglia di Turbigo. Gyulai aveva concentrato le proprie forze nei pressi della cittadina di Magenta dove venne assalito il 4 giugno dai francesi i quali riportarono una brillante vittoria. La vittoria è principalmente da attribuire a Patrice de Mac-Mahon e ad d'Angely, che in tal modo si guadagnarono sul campo la promozione a maresciallo di Francia, ma vi ebbero un ruolo primario anche il de Wimpffen e il generale Fanti, a capo dell'unico reparto sardo impegnato.

Il 5 giugno l'esercito sconfitto sgombrava Milano, dove entrava il 7 giugno Mac-Mahon (preceduto dalle truppe algerine dei Turcos), per preparare l'8 giugno l'ingresso trionfale di Napoleone III e di Vittorio Emanuele attraverso l'arco della Pace e la piazza d'armi (oggi Parco Sempione), dove era schierata la Guardia imperiale, fra le acclamazioni della popolazione. Il 9 giugno il consiglio comunale di Milano votò per acclamazione un indirizzo che, ribadendo la validità del plebiscito del 1848, sanciva l’annessione della Lombardia al Regno di Vittorio Emanuele II.

Garibaldi ed i cacciatori delle Alpi

Il 22 maggio i Cacciatori delle Alpi, passarono in Lombardia dal Lago Maggiore a Sesto Calende, con l'obiettivo di operare nella fascia prealpina in appoggio alla offensiva principale. Il 26 difesero Varese da un attacco di superiori forze austriache guidate dal generale Urban. Il 27 maggio batterono il nemico alla battaglia di San Fermo ed occuparono Como, allora la città maggiore dell'area. Dopo Magenta da lì seguì la ritirata austriaca: l'8 giugno era a Bergamo, il 13 a Brescia, entrambe già evacuate dagli Austriaci.

L'avanzata verso le fortezze del Quadrilatero

Nel frattempo gli Austriaci si raccolsero oltre l’Adda, tappa per le fortezze del Quadrilatero. La strada passava per Melegnano, cittadella fortificata che ospitava un ponte in pietra ad arcata unica sul fiume Lambro, adatto al passaggio di carriaggi e truppe. La sera del 6 giugno vi si sistemò una brigata di retroguardia forte di circa 8.000 uomini, oltre a due squadroni di dragoni ed ussari. La sera dell'8 giugno la città venne presa dai francesi dopo sanguinosissimi combattimenti (1.000 caduti fra gli attaccanti e 1.200 per i difensori) (battaglia di Melegnano). Il grosso dell'esercito austriaco aveva proseguito, indisturbato, la sua marcia ed era stato raggiunto a Verona dall'Imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo, che aveva rilevato il comando da Gyulai.

I franco-piemontesi ripresero la marcia il 12 giugno, il 13 passarono l'Adda, il 14 raggiunsero Bergamo e Brescia, il 16 passarono l'Oglio, il 21 erano oltre il Chiese. Essi erano giunti, infine, lì dove lo stato maggiore austriaco aveva desiderato di incontrarli.

Solferino e San Martino

Il 24 giugno i franco-piemontesi vinsero una grande battaglia (normalmente divisa in battaglia di Solferino e battaglia di San Martino), iniziata con un massiccio attacco austriaco. Al termine dello scontro gli Austriaci furono rigettati oltre il Mincio, ma lì ebbero la possibilità di appoggiarsi alle loro grandi fortezze, e ricevere rinforzi dalle varie parti del loro vasto impero. Napoleone III decise, quindi, di avviare colloqui di pace e prese contatto con Francesco Giuseppe. Le operazioni militari non vennero sostanzialmente più riprese. L'8 luglio fu sottoscritto un accordo di sospensione delle ostilità. L'11 luglio i due imperatori si incontrarono in località Villafranca di Verona. Il 12 luglio fu sottoscritto l'armistizio di Villafranca.

La pace di Zurigo

La pace di Zurigo fu negoziata e siglata fra il 10 e l'11 novembre 1859: gli Asburgo cedevano la Lombardia alla Francia, che l'avrebbe assegnata ai Savoia, mentre l'Austria conservava il Veneto e le fortezze di Mantova e Peschiera. I sovrani di Modena, Parma e Toscana avrebbero dovuto essere reintegrati nei loro Stati, così come i governanti papalini a Bologna. Tutti gli stati italiani, incluso il Veneto ancora austriaco, avrebbero dovuto unirsi in una confederazione italiana, presieduta dal papa.

Lo stesso argomento in dettaglio: Pace di Zurigo.

Conseguenze: l'annessione dei ducati

Il trattato era tanto lontano dalla realtà da presentare per gli Italiani almeno tre vantaggi: (1) la confederazione italiana non presentava alcun vantaggio per la causa nazionale ed anzi garantiva la continuazione di un ruolo austriaco nella penisola, risultando, quindi, sgradito anche ai francesi; (2) le popolazioni dell'Emilia e dell'Italia centrale provvidero a ribellarsi all'ipotesi di ritorno dei loro governanti, e Cavour seppe convincere le cancellerie europee dei rischi che si offrivano alla cospirazione mazziniana; (3) i guadagni del Piemonte erano decisamente inferiori a quanto pattuito a Plombières, e quindi il Piemonte non era più tenuto a cedere Nizza e la Savoia. Ma Napoleone III necessitava di tali compensazioni territoriali, per giustificare la guerra appena combattuta presso la propria opinione pubblica. Non mancavano, quindi, i margini di manovra e Cavour seppe metterli a frutto, compiendo quello che è, forse, il suo vero capolavoro da ex-primo ministro, fra l'11 luglio 1859 ed il 19 gennaio 1860, eppoi ancora al governo dal 20 gennaio.

Nei mesi successivi, infatti, il Piemonte annesse, oltre alla Lombardia, anche Parma, Modena, l'Emilia, la Romagna e la Toscana. Mancavano le Marche e l'Umbria, che venivano nel frattempo riprese dai papalini (massacro di Perugia). Solo a seguito di detti avvenimenti il 24 marzo 1860 il Piemonte accettò di firmare il Trattato di Torino, in base al quale venivano cedute la Savoia e Nizza (tranne Tenda, che la Francia poté pretendere solo nel 1947, a seguito del Trattato di Pace che chiuse la seconda guerra mondiale).

Conseguenze: la spedizione dei Mille

Nel Regno delle Due Sicilie, il giovane Francesco II succeduto al padre Ferdinando II, morto prematuramente, diventa facile preda di consiglieri interessati alla causa unitaria e non percepisce la gravità della situazione. In pratica, spera nella politica della moderazione, il che consente ai carbonari di infiltrarsi anche nei ranghi dell'esercito; ma, l'effetto di tale politica sarà di incoraggiare i nemici e scoraggiare i sudditi fedeli.

All'inizio di aprile del 1860 le rivolte a Messina e Palermo benché soppresse, costituiscono la prova generale per un intervento al sud, già tentato con precedenti sbarchi, nel 1844 (Fratelli Bandiera) e nel 1857 (Carlo Pisacane).

Il 5 maggio 1860 Giuseppe Garibaldi salpa su due vapori (il "Piemonte" e il "Lombardo") pagati dal governo sardo all'armatore Raffaele Rubattino da Quarto con 1.070 volontari (da cui il nome di Spedizione dei Mille) e, il 7 maggio sosta a Talamone, sulla costa toscana presso Grosseto, per rifornirsi di armi presso il presidio piemontese di Orbetello e per dirottare un gruppo di volontari in direzione dello Stato Pontificio con il fine di sviare l'attenzione sugli scopi effettivi della spedizione. L'11 maggio sbarca vicino Marsala alle ore 13 circa, fra due navi Inglesi preavvisate che, di fatto, coprono lo sbarco, mentre la diplomazia piemontese si unisce al coro europeo di protesta contro l'atto di pirateria del "bandito Garibaldi", (tale era lo stato giuridico di Garibaldi per il Piemonte).

A Marsala non ricevono l'accoglienza sperata. Le forze a disposizione di Garibaldi aumentano comunque grazie agli sbarchi successivi di soldati dell'esercito sardo, in borghese con regolare licenza, e successivamente con i carcerati liberati. Per sfuggire alle forze borboniche, i garibaldini si dirigono verso l'interno, protetti dalle bande di picciotti del barone Sant'Anna.

Mentre il generale borbonico Lanza, con una decisione disastrosa, frenava le truppe nella battaglia di Calatafimi, Garibaldi avanzò occupando Palermo e impossessandosi dell'oro del Banco di Sicilia. Intanto Alexandre Dumas accorse per organizzare la propaganda della spedizione dirigendo diversi giornali. La marcia dei garibaldini avanzerà sino Salerno. Solo a quel punto, il Re Francesco II, consapevole del tradimento dei suoi generali, si mise alla testa del suo esercito, che era ancora di 50.000 soldati, per una difesa estrema del Regno nella piana del Volturno.

Le truppe borboniche, ormai formate esclusivamente da reparti fedeli, guidate in battaglia dal generale Giosuè Ritucci si batterono con molto vigore ed eroismo, impegnando pesantemente i garibaldini ma non colsero il successo per il mancato coordinamento tra alcune colonne. Gli scontri, notevolmente cruenti e luttuosi per le due parti, si chiusero con un nulla di fatto che, in pratica, significava per i borbonici la sconfitta. Francesco II, che era uscito da Napoli con l'esercito per salvare la capitale dalla distruzione, lasciò le consegne all'ex ministro di polizia, ora primo ministro, Liborio Romano che, in accordo con i liberali, invitò Garibaldi in città. Garibaldi entrerà il 7 settembre 1860.

Cavour riuscì a convincere Napoleone III del pericolo costituito dall'impresa di Garibaldi perché nei territori occupati dalle camicie rosse rischiava di sorgere una repubblica rivoluzionaria che avrebbe potuto turbare l'equilibrio europeo; inoltre, se Garibaldi avesse proseguito, avrebbe potuto minacciare il papa. Napoleone III accettò, quindi, che il Piemonte si facesse garante dell'ordine costituito e che inviasse un esercito a contrastare l'avanzata dei mille (ormai divenuti oltre 50.000). Così, due contingenti piemontesi, comandati da Manfredo Fanti ed Enrico Cialdini entrarono da nord nello Stato Pontificio, scontrandosi con il generale Lamoricière a Castelfidardo, presso Ancona, il 18 settembre del 1860.

Il 9 ottobre il comando delle truppe piemontesi fu assunto direttamente da Vittorio Emanuele II. Dopo lo storico incontro con Giuseppe Garibaldi, passato alla storia come "incontro di Teano", il re di Sardegna sciolse l'esercito garibaldino, mentre Garibaldi si ritirava a Caprera. Superato l'ultimo ostacolo con il bombardamento di Capua, le truppe piemontesi si attestarono di fronte alla fortezza di Gaeta dove Francesco II, senza aiuto da parte di altre potenze europee, ancora resisteva.

Solo la Francia si schierò a protezione della fortezza dal mare, coprendo da quel lato i borbonici; infatti, Napoleone III contava di convincere Francesco II ad una resa, dopo una resistenza simbolica. Dopo che la Francia, convinta da Cavour, ebbe allontanato le sue navi, Cialdini poté completare l'assedio con l'intervento di Persano al comando della flotta, (in prevalenza formata da navi ex borboniche).

Negli ultimi giorni d'assedio, durante le trattative per la resa, (avvenuta il 14 febbraio 1861) non ci fu alcuna interruzione nel bombardamento della piazzaforte. Analoga condotta, anzi aggravata da minacce di esecuzioni di massa dei "ribelli", fu tenuta verso le piazzeforti di Messina (resa del 12 marzo 1861) e Civitella del Tronto (20 marzo, tre giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia). In quest'ultimo caso, anzi, le minacce furono attuate con la fucilazione degli Ufficiali e Graduati, considerati "briganti".

L'asprezza che caratterizzò la fase finale di questa campagna militare si può spiegare essenzialmente con la frustrazione dei vertici politici e militari del Regno Sardo, i quali sino all'ultimo avevano fatto grande affidamento su un sollevamento generale della popolazione, che, quando si verificò, non fu nel senso sperato ma in quello opposto e venne qualificato come "brigantaggio".

Conseguenze: la proclamazione del regno d'Italia

Con tali operazioni si compì di fatto la prima fase dell'unità d'Italia; rimanevano ancora separati dal Regno di Sardegna Roma, possesso del Papa, e il Veneto, in mano agli Austriaci.

È interessante notare come Cavour fosse consapevole dei problemi di tipo amministrativo che sarebbero sorti dall'annessione delle nuove province, tanto da far istituire tra il 10 e il 26 maggio 1859 la Commissione Giulini con il compito di elaborare progetti di legge che sarebbero entrati in vigore in Lombardia nel periodo immediatamente successivo alla guerra. Cavour voleva che il governo, nel sancire l’annessione dei nuovi territori al Piemonte di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli ordinamenti amministrativi delle due regioni, lasciando che in Lombardia continuasse a sussistere una parte delle istituzioni austriache esistenti. I lavori della Commissione Giulini sono stati pubblicati a cura di Gianfranco Miglio.

Il 18 febbraio 1861, Vittorio Emanuele II riunì a Torino i deputati di tutti gli Stati che riconoscevano la sua autorità, assumendo il 17 marzo il titolo di Re d'Italia per grazia di Dio e volontà della nazione, mantenendo però il numero che gli spettava come re del Regno di Sardegna. L'Italia fu governata sulla base della costituzione liberale adottata nel Regno di Sardegna nel 1848 (Statuto albertino).

Lo stesso argomento in dettaglio: Carabinieri nel Risorgimento.


Voci correlate