Neutralità italiana (1914-1915)

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«Se, movendo da questo tracciato ideale, il solo che il senno politico poteva proporre a risolvere il problema messo innanzi all'Italia … si passa a considerare l’azione degli uomini di stato italiani nei dieci mesi che corsero tra lo scoppio della guerra e la partecipazione dell’Italia, si vede che essi vi si attennero esattamente»

La neutralità italiana (1914-1915) consistette nella politica condotta dal governo italiano, guidato da Antonio Salandra, nel periodo fra l'ultimatum austriaco del 23 luglio 1914 alla Serbia e la dichiarazione di guerra italiana all'Austria-Ungheria, il 23 maggio 1915.

Il governo Salandra

A Roma, dal 21 marzo 1914, il governo era guidato da Antonio Salandra. Salandra non aveva alcuna esperienza di politica estera; essendone consapevole, prese con sé come ministro degli Esteri uno dei più esperti diplomatici italiani, il marchese di San Giuliano. Vittorio Emanuele III, per parte sua, sin dall’incoronazione aveva seguito con scrupolo la pratica di lasciare che gli affari di Stato venissero gestiti dai governi: il marchese di San Giuliano fu quindi l’effettivo artefice della politica estera italiana in tutti i mesi successivi.

Il governo Salandra era succeduto al governo Giolitti per reazione alla crescente forza della sinistra rivoluzionaria: per marcare il centro dei suoi interessi, Salandra tenne per sé il ministero degli Interni. La situazione era ben rappresentata dal giovane Benito Mussolini che, da direttore dell'Avanti!, benediva le azioni delle leghe dei contadini di Emilia e Romagna, che sarebbero sfociate, di lì a poco, nella cosiddetta "Settimana Rossa" del giugno 1914. Salandra svolse con fermezza e prudenza il suo compito di mantenimento dell'ordine, che ebbe suggello nella sconfitta dei socialisti alle elezioni amministrative del giugno-luglio.

Il 28 giugno, mentre il mondo politico italiano si divideva attorno a tali questioni, giunse da Sarajevo la notizia dell’attentato all'erede alla corona austriaca: essa venne accolta senza particolare apprensione, anzi con un certo sollievo, visto che l'arciduca Francesco Ferdinando (nipote dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe) era considerato ostile all’Italia e la sua prossima successione al trono austriaco era vissuto come una potenziale minaccia per gli interessi nazionali.

In realtà lo sventurato Francesco Ferdinando era ostile alla avventura bellica e fu, semmai, la sua prematura scomparsa ad incoraggiare i “decisionisti” di Vienna a risolvere, una volta per tutte, la spina nel fianco rappresentata dal governo manifestamente ostile di Belgrado.

L’ultimatum austriaco alla Serbia

Roma fu quindi sorpresa, il 23 luglio, dalla notizia che l’Austria-Ungheria aveva inviato un perentorio ultimatum alla Serbia, che sorprese tutta l'Europa per una durezza che non ammetteva repliche e la cui accettazione avrebbe significato, per la Serbia, una capitolazione senza combattere.

Salandra, e soprattutto San Giuliano, sapevano bene che la Russia e l'Austria-Ungheria coltivavano entrambe delle ambizioni verso i Balcani e ben prima dell’attentato di Sarajevo: nel 1909 Vienna aveva colto di sorpresa San Pietroburgo, uscita stremata dalla guerra russo-giapponese, con la consegna di un primo ultimatum a Belgrado, ottenendone il riconoscimento dell’annessione della Bosnia-Erzegovina alla corona austriaca (cui la Serbia si era,sino ad allora, negata). Nell’aprile del 1913, nel corso della prima guerra balcanica, aveva consegnato un secondo ultimatum per impedire l'invasione dei territori nominalmente turchi, destinati, di lì a breve, a costituire il Regno d'Albania. Nel luglio dello stesso 1913 (durante la seconda guerra balcanica) aveva progettato di intervenire a sostegno della Bulgaria, al fine di impedire a Belgrado di strapparle la Macedonia.

L'Italia e l'Austria-Ungheria erano vincolate da un trattato, la Triplice Alleanza che prevedeva, tra l'altro, anche un obbligo di reciproca informazione circa le rispettive iniziative diplomatiche. Ciò che aveva permesso all'Italia, come ricorda Benedetto Croce di opporsi, per ben due volte, ad azioni militari austriache contro la Serbia. Ma, alla terza occasione, Vienna aveva agito senza consultare e nemmeno informare il governo italiano e, con ciò stesso, aveva violato lo spirito e la lettera del patto.
Non è, quindi, che Vienna non avesse informato Roma perché la sottovalutasse (o volesse offenderne la dignità di potenza europea) ma, anzi, perché ne prevedeva una reazione negativa. Vienna aveva deciso di gettarsi in una pericolosa avventura e (ottenuto il consenso dell'Impero tedesco, il terzo alleato) non aveva alcuna intenzione di essere ostacolata da chicchessia.

A Francesco Giuseppe ed ai suoi ministri era evidente che l’azione contro la Serbia era contraria agli interessi italiani (non tanto con riguardo a Trento e Trieste, per il momento, quanto ad equilibri e compensazioni nei Balcani). Se invece in queste prime fasi che preludevano allo scontro militare il governo italiano avesse espresso il proprio sostegno, Vienna avrebbe, prima o poi, dimostrato, o per lo meno sostenuto, di aver ottenuto un preventivo consenso dal governo italiano, dall’ambasciatore o da qualunque altra autorità dotata di rappresentanza. E, quindi, non sarebbe stata tenuta a negoziare con Roma alcuna compensazione territoriale.
Ma Roma se ne guardò bene. L'Austria-Ungheria, non potendo sostenere nemmeno una diversa interpretazione della Triplice, non cercò il consenso dell'Italia e tirò dritto. Si limitò, dopo l'entrata in guerra dell'Italia a fianco Francia e Gran Bretagna (maggio 1915), ad accusare l'Italia di un assai generico “tradimento”.

Semmai, il fatto che Vienna avesse rinunciato ad assicurarsi l’appoggio di Roma (o, perlomeno, la "benevola neutralità") prima di aggredire la Serbia, dimostrò che sperava ancora nella neutralità della Russia. La stessa cosa che ci si augurava a Berlino. Belgrado, d’altra parte, nei precedenti cinque anni aveva già accettato due ultimatum austriaci e non si vedeva, quindi, perché non avrebbe potuto accettarne un terzo.
A sigillo di questo drammatico errore strategico, vennero subito inviate diverse centinaia di migliaia di uomini contro la Serbia, salvo rapidamente ritirarne una cospicua parte e ridirigerla verso la Russia, alla cui entrata in guerra, manifestamente, non si volle credere sino all’ultimo giorno. Tanto che la Serbia venne effettivamente occupata solo l’anno successivo e con il contributo determinante della Bulgaria.

L’allargamento del conflitto a Russia, Germania e Francia

Le speranze austriache per un conflitto locale si infransero assai presto, il 30 luglio 1914 con la mobilitazione generale in Russia e, il 31 luglio, con la mobilitazione generale in Austria-Ungheria. Il 1° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia, il 3 agosto alla Francia. Seguirono il 3 agosto l'invasione tedesca del Belgio neutrale, e la conseguente entrata in guerra della Gran Bretagna.

San Pietroburgo era intervenuta in difesa della Serbia della quale l'Austria-Ungheria era, oggettivamente, l'aggressore. L’Italia, quindi, non era affatto tenuta ad intervenire nel conflitto, dal momento che la Triplice Alleanza vincolava l’Italia ad intervenire a fianco dell'alleato austriaco unicamente nel caso di una guerra difensiva, non provocata da un membro dell’alleanza.
Salandra ed il marchese di San Giuliano si comportarono di conseguenza e, il 2 agosto 1914, dichiararono la neutralità del Regno d’Italia: il giorno prima la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia, il giorno dopo l'avrebbe dichiarata alla Francia.

Vienna e Berlino si trovavano quindi a combattere senza l'alleato italiano.

Il dilemma strategico italiano

All’inizio di agosto, quindi, Roma assisteva agli eventi, e valutava le alternative disponibili.

Le quattro alternative

  1. La prima consisteva in un ingresso nel conflitto a fianco di Vienna e Berlino. Era tuttavia chiaro che, dopo un'eventuale vittoria, l'Italia difficilmente avrebbe ottenuto adeguati compensi. Salandra disse che sarebbe divenuta, al meglio, «il primo vassallo dell’Impero». Il Re, con espressione meno colorita, scrisse (il 2 agosto agli ambasciatori a Vienna e Berlino) che «non ci sarebbe né il desiderio né l’interesse di attribuirci compensazioni adeguate per il sacrificio che sarebbe stato necessario sostenere». Il mancato preavviso circa l’ultimatum austriaco alla Serbia era lì a dimostrarlo. La questione dell’atteggiamento collaborativo dei due alleati era tanto più importante considerando che l’Italia dipendeva interamente da importazioni di materie prime dall’estero (sino al 90% del carbone, ad esempio, era importato dalla Gran Bretagna) e sarebbe stato necessario ottenere adeguate garanzie di rifornimento da Vienna e Berlino.[1]
  2. La seconda alternativa consisteva nel mantenimento della neutralità: tale atteggiamento era soggetto ad un rischio determinante, ovvero una decisiva vittoria tedesca sul fronte francese. Eventualità, in effetti, alla quale l’avanzata di von Moltke si avvicinò moltissimo (battaglia della Marna, 6-9 settembre). San Giuliano, in ogni caso, la riteneva probabile. Il rischio era enorme in quanto, al meglio, Vienna avrebbe conservato Trento e Trieste per decenni ed imposto la propria egemonia su tutti i Balcani, chiudendo all'Italia ogni possibilità di espansione commerciale e militare. Nel caso peggiore, l'Italia avrebbe dovuto subire la «vendetta» austriaca (così si esprimeva Cadorna).
  3. La terza alternativa consisteva in una neutralità negoziata con Vienna: le conseguenza pratiche non differivano da quelle di una neutralità non negoziata ma, per lo meno, si sarebbe ottenuto il Trentino, forse qualcosa di più e, in ogni caso, un trattato da far valere in caso di vittoria tedesca.
  4. La quarta, infine, sarebbe consistita nel rivolgimento delle alleanze e nell'entrata in guerra a fianco della Triplice intesa. Tuttavia essa era subordinata al totale insuccesso di una negoziazione con Vienna: se quest’ultima non le avesse concesso nemmeno il Trentino, allora, caduto il trattato di alleanza, sarebbe occorso perseguire unicamente gli interessi nazionali. E valutare cosa potessero offrire Francia, Russia ed Gran Bretagna.

Prima di assumere qualsiasi decisione, quindi, occorreva passare per i negoziati che andavano faticosamente cominciando con Vienna, riguardo le compensazioni per l'occupazione austriaca della Serbia.

La reazione italiana all’invasione austriaca della Serbia

Comportandosi conseguentemente, San Giuliano non denunciò la Triplice e, pur lamentando la violazione ai patti appena subita, si limitò a richiamare Vienna e Berlino all’Articolo 7: esso specificava che qualora L'Austria o l'Italia avessero occupato territorio nei Balcani, tale occupazione non doveva avere luogo se non dopo un preventivo accordo con l'altra potenza, così da compensarla. E ciò, nonostante che il ricevimento di tale compensazione non desse effetto a un casus foederis, ovvero non obbligasse la potenza compensata dall'accordo a partecipare al conflitto.
Tale articolo non era presente nella prima negoziazione del trattato (20 febbraio 1887), ma fu inserito successivamente su esplicita richiesta del ministro degli esteri italiano di Robilant, proprio al fine di evitare che l’Italia subisse ulteriori ingrandimenti austriaci nei Balcani. Ed era ben chiaro a tutti come esso avesse sempre costituito una delle ragioni fondamentali che avevano permesso a Roma, nei decenni, di rinnovare la Triplice Alleanza.

Per comprendere la determinazione del governo italiano, occorre considerare che in quel 1914 venivano, finalmente, al pettine tutte le principali questioni diplomatiche che avevano occupato i due Paesi dal 1866 in avanti: già nel 1875 Francesco Giuseppe, venuto a colloquio a Venezia con Vittorio Emanuele II, aveva escluso ogni discussione circa Trieste ma ammesso che, quanto a Trento, poteva venire il momento che l’Austria, in seguito all'ampliamento dei suoi domini in un'altra direzione, fosse in grado di cederla amichevolmente (nel 1910 i sudditi italiani del resto erano, ufficialmente, solo 768 422, ovvero appena l’1,5% dei 51 390 223 austro-ungarici). Fra il 29 luglio e il 20 ottobre 1878, però, Vienna aveva iniziato l’occupazione della Bosnia-Erzegovina e nel 1909 (come abbiamo visto) l’aveva annessa senza che Roma ottenesse alcuna compensazione. Gli Austriaci si erano anche concessi il gusto di beffare gli Italiani, sostenendo che «l’occupazione fatta nei Balcani era semplicemente un peso che l’Austria si era addossato a servigio della pace europea».
Roma, nel 1914, godeva di tutt’altra posizione di forza ed intendeva, comprensibilmente, trarne vantaggio.

Tutt’altra questione riguarda la sincerità delle intenzioni italiane, nei sette mesi che vanno dall’ultimatum austriaco alla Serbia al Patto di Londra. Un segnale importante è rappresentato dal fatto che quando San Giuliano morì il 16 ottobre 1914, egli venne sostituito da Sidney Sonnino, praticamente l’unico politico italiano che si fosse espresso, nell’agosto-settembre, a favore di un intervento al fianco di Vienna e Berlino, dicendo che «le cambiali bisogna pagarle». Della serietà delle intenzioni italiane era convinto anche Benedetto Croce, il quale scriveva che: «i negoziati per l’eventuale accordo bisognava condurli ... per accertarsi col fatto che la guerra fosse proprio ineluttabile» ammettendo, quindi, anzi ricercando un accordo con Vienna che consentisse il mantenimento della neutralità italiana.

I due movimenti di opposizione, inoltre, assai rappresentativi ancorché minoritari, erano decisamente contrari all’intervento: i socialisti perché ormai appiattiti sulle posizioni della sinistra massimalista (al contrario degli omologhi tedeschi), i cattolici perché appiattiti sulla posizione del Vaticano, il quale non poteva certo incoraggiare alcuna azione ostile nei confronti dell'ultima grande potenza cattolica, l'Austria-Ungheria, che sempre aveva offerto grandi servigi alla difesa ed alla diffusione della fede (per quegli anni basti pensare alla Bosnia-Erzegovina).
Ma i militari andarono anche più in là, come dimostra la nota con cui, il 31 luglio, il capo di Stato Maggiore italiano Luigi Cadorna annunciò ad Salandra l’intenzione di inviare non già tre (come previsto dalla lettera della Triplice), ma cinque corpi d’armata sul fronte del Reno a sostegno dell’offensiva tedesca contro la Francia, mentre il generale Garrioni a Tripoli aveva predisposto i suoi piani per l’invasione della Tunisia.

Il primo round di negoziati

San Giuliano presentò la propria posizione a Vienna e Berlino sin dall’agosto. Non risultano proposte formali, anche perché Vienna rispose che non avrebbe accettato alcuna discussione su qualsiasi compensazione se l'Italia non fosse prima entrata nel conflitto. Quindi Roma doveva considerare la dichiarazione di guerra russa all'Austria-Ungheria come un casus foederis.
Ma tale posizione era contraria al trattato, irrealistica e controproducente, rispetto al vantaggio (per Vienna talmente evidente) di tenere l'Italia fuori dal conflitto, che esso può essere spiegato unicamente con la speranza di Vienna di chiudere rapidamente, e con vantaggio, il conflitto.

Non si trattava di un calcolo errato, come dimostrarono le grandiose vittorie tedesche sui russi a Tannenberg (26-30 agosto 1914) ed ai laghi Masuri (6-15 settembre 1914), e il successo dell'avanzata tedesca attraverso il Belgio e la Francia settentrionale. Ma poi venne la vittoria francese alla battaglia della Marna (6-9 settembre), che salvò Parigi e fece retrocedere gli invasori di parecchie decine di chilometri e il fallimento della "Corsa al mare" tedesca (Prima battaglia di Ypres 10-11 novembre).

San Giuliano ne concluse che la guerra sarebbe durata ancora a lungo e che Roma godeva del tempo necessario per ottenere da Vienna quanto le spettava ai sensi della Triplice, e per preparare l’esercito alla bisogna.

La cattiva preparazione dell’esercito

Al momento l’Esercito Italiano non era in grado di entrare nel conflitto in tempi brevi, indipendentemente da quale decisione il governo avesse preso fra le alternative disponibili.

L’Italia aveva combattuto la Terza guerra di indipendenza in condizioni di superiorità sull’esercito austriaco, unicamente perché più di metà di esso era impegnato in Boemia contro i prussiani.

Almeno dal 1910, tuttavia, l’Austria-Ungheria aveva dato avvio ad un massiccio programma di riarmo, che rendeva evidente la condizione di inferiorità italiana (+ 78% per l’Italia contro + 180% per Vienna); inferiorità che risultava aggravata dalla sfavorevole conformazione dei confini veneti, che lasciavano agli austriaci il controllo di gran parte delle prealpi italiane affacciate sulla pianura veneta. Ad essa aveva cercato di rimediare il programma di fortificazione avviato, ma mai completato, dai generali che si erano succeduti a capo dello Stato Maggiore (Enrico Cosenz e Alberto Pollio principalmente).
A ciò si aggiunga che, dal 1912, non si erano risparmiati mezzi per la guerra italo-turca e la successiva campagna di “pacificazione” della Libia, ove la guerriglia arabo-turca era ben lontana dall’essere sedata. Colà erano ancora stanziati circa 60 000 uomini, oltre ai 20 000 in Eritrea e Somalia.

Il nuovo capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, nominato solo il 27 luglio 1914, un mese dopo la morte per infarto del predecessore Pollio, denunciava l’assoluta mancanza degli equipaggiamenti invernali, la mancanza di un parco d’assedio e di bombe a mano, la carenza di mezzi di trasporto, mitragliatrici, artiglieria campale e cesoie per i reticolati. La mobilitazione generale avrebbe richiesto la formazione di almeno 14 000 ufficiali, tutti ancora da reclutare. Assai migliore appariva la situazione della flotta, ma solo in caso di conflitto con l’Austria-Ungheria, dal momento che, in quegli anni, nessuna potenza marittima poteva rivaleggiare con la flotta inglese.

La situazione era ben nota al ceto dirigente. Tanto che Giolitti espresse sino alla vigilia dell’entrata in guerra il proprio suggerimento di perseguire ad limitum negoziati con Vienna e Berlino, utili o inutili che fossero. Il suo principale punto di obiezione era, appunto, costituito dallo stato di preparazione dell’esercito, che riteneva decisamente insufficiente. Egli aveva, inoltre, maturato un profondo scetticismo nel corso della guerra italo-turca per la quale il suo governo non aveva certo lesinato i mezzi. In quei giorni egli ebbe a dichiarare «ma quale guerra! Se non abbiamo nemmeno un generale che valga una lira!».
Salandra e Cadorna, nel frattempo, si peritavano di provvedere gli approvvigionamenti necessari e fecero sicuramente tutto il possibile ma, come i primi anni di guerra dimostrarono, non fu abbastanza.

L’ingresso in guerra della Turchia e l’occupazione italiana di Valona

Nel frattempo gli avvenimenti precipitavano: il 29 ottobre la Turchia entrava in guerra a fianco di Germania ed Austria-Ungheria. Si trattò di un passaggio decisivo per chiarire i reali margini di negoziazione dell'Italia, ai sensi del famoso Articolo 7: negli anni precedenti, infatti, Vienna aveva, a volte, immaginato di compensare le pretese italiane riguardo a Trento e Trieste con vaghe proposte in Medio Oriente.
Un po' come Bismarck aveva compensato le pretese francesi sull’Alsazia-Lorena, appoggiandone l’espansione in Africa: si trattava, come sempre, di «offrire quel che non gli apparteneva e che stimava indifferente per gli interessi tedeschi». Già Benedetto Croce diceva che si trattava di una «astuzia troppo grossolana da dovervi cader dentro, se proprio la necessità non vi ci avesse spinto». Ed in effetti Roma aveva ripetutamente rifiutato tali abboccamenti, la prima volta già nel 1877, quando Bismarck offrì a Crispi, in compensazione della occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina, guadagni in Albania. Ma Roma chiese, sempre e solo, Trento e Trieste, che considerava sue per diritto di nazionalità. La scena si ripeté un anno più tardi, al Congresso di Berlino del giugno-luglio 1878.

Ora, con la Turchia alleata di Berlino e Vienna e tutta l’Africa già spartita fra le potenze europee, null’altro restava da offrire all'Italia se non territori francesi (Nizza, la Corsica o Tunisi) o inglesi (Malta) che, per definizione, non costituivano compensazioni bensì eventuali prede di guerra e, comunque, avrebbero richiesto la rinuncia alla neutralità. L’eventuale negoziato circa le compensazioni si riduceva, ora e finalmente, ai territori austriaci e le carte andavano scoperte.

In tale contesto va interpretato l’intervento che Salandra condusse, sei giorni prima dell’ingresso nel conflitto della Turchia, nel porto di Valona: l’Albania, infatti, era precipitata nell’anarchia dopo la fuga in Italia del principe di Wied, il 3 settembre, venuto a contrasto con Esad Pascià; il principe era il primo sovrano del nuovo stato albanese, indipendente solo dalla pace di Bucarest dell’agosto 1913 che aveva messo fine alla seconda guerra balcanica. Lo stato albanese era nato proprio per la volontà dell'Italia di impedire alla Serbia l’accesso all'Adriatico, concorde, per una volta, con Vienna.

La caduta del fragile sovrano, quindi, esponeva il piccolo stato alle rinnovate mire dei vicini: principalmente Grecia e Serbia. Salandra reagì inviando a Valona una “missione sanitaria”, sbarcata il 23 ottobre protetta da fanti di marina, e da una squadra navale che rimase ad incrociare nelle acque albanesi. Lo sbarco era stato preceduto, il 21 ottobre, dalla occupazione dell’isola di Saseno, che domina l’imboccatura del porto. Stante la precedente volontà austriaca di garantire la indipendenza del piccolo Stato, Salandra poté agevolmente sostenere che non si trattava di un'azione ostile nei confronti degli interessi asburgici[2].

Gli accordi con la Romania

L’ultimo atto del ministero San Giuliano fu la sottoscrizione di un accordo con la Romania che impegnava i due Paesi ad un preavviso di almeno otto giorni prima di un eventuale abbandono della neutralità.
Bucarest si trovava, infatti, in una posizione simile a quella italiana, in quanto nazione latina, neutrale ma interessata a territori appartenenti all'Austria-Ungheria, associata alla Triplice sin dal 1883, un anno dopo l’Italia. Le sue ambizioni erano, infine, potenzialmente in conflitto con le rivendicazioni della Serbia, proprio come era per l'Italia.

La Romania, tuttavia, sarebbe entrata in guerra dalla parte dell'Intesa solo il 27 agosto 1916: agli effetti pratici, quindi, tale accordo ebbe come unico effetto quello di accrescere il potere negoziale italiano alle trattative con l'Intesa.

Il rafforzamento del governo Salandra

San Giuliano morì il 16 ottobre 1914 e il portafoglio passò ad interim a Salandra.

Alla fine di ottobre, Salandra predispose uno stanziamento straordinario di 600 milioni, per accelerare la preparazione di esercito e marina. Il ministro del Tesoro Rubini, neutralista, chiese (tra l’ingenuo e lo strumentale) nuove imposte per compensare quello stanziamento e ne ottenne un invito a dimettersi, cosa che fece il 30 ottobre. Il ministro della guerra Grandi si era dimesso per disaccordi con il capo di Stato Maggiore Cadorna, e venne sostituito il 10 ottobre dal generale Zupelli. Il ministro della Marina Millo si era dimesso per motivo di salute, e fu sostituito il 13 luglio dal viceammiraglio Viale.

Tutto ciò impose un rimpasto di governo: Sonnino divenne ministro degli esteri e Carcano ministro del Tesoro. Salandra disponeva, adesso, di un gabinetto più disposto ai preparativi bellici.

Salandra ricevette l'incarico il 2 novembre, e venne presentato alla Camera il 3 dicembre. Quivi dichiarò che «l'Italia deve organizzarsi e munirsi, quanto più le sia consentito e col massimo vigore possibile, per non rimanere essa stessa prima o poi sopraffatta», e venne messo in votazione un conseguente ordine del giorno. La Camera approvò con 433 voti a favore e 49 contro; il Senato, il 15 dicembre, all'unanimità.

Le negoziazioni con l'Austria-Ungheria

Nel frattempo, i russi avevano iniziato una “offensiva d'inverno” in Galizia, con gli austriaci che riuscivano solo ad arrestarne le avanguardie con una battaglia di contenimento a Limanova il 17 dicembre, ma non a sgombrare le vaste zone perdute.

L'11 dicembre, Sonnino ritenne maturi i tempi per tornare a far presente al conte Berchtold (ministro degli esteri austro-ungarico dal 1912), il disposto dell'Articolo 7 dei patti della Triplice Alleanza ed il conseguente diritto italiano a compensi. Chiedeva, quindi, il sollecito avvio di negoziati. Berchtold aveva risposto che l’avanzata in Serbia non costituiva ancora, formalmente, un'occupazione e che solo la sua stabilizzazione avrebbe portato all’avvio di negoziati.

Si trattava, chiaramente, di argomenti di lana caprina e come tali vennero accolti a Roma e, soprattutto, a Berlino, da dove, peraltro, il 16 dicembre era giunto a Roma come ambasciatore un pezzo da novanta come l'ex cancelliere von Bülow. Berlino non contava certo su un intervento italiano, ma intendeva garantirsi del mantenimento della neutralità italiana, al fine di salvaguardare i cospicui interessi economici e finanziari tedeschi nella penisola e il rifornimento di generi alimentari e bellici.

Berchtold fu, quindi, indotto ad ammorbidirsi, proponendo, verso il 20 dicembre, di riconoscere l’occupazione italiana del Dodecaneso (risalente al 1912), di rendere permanente quella di Valona e di rinunciare ad ogni ulteriore offensiva nei Balcani. Ma rifiutò ogni discussione circa il Trentino, pure in presenza di una generica proposta tedesca di contro-compensare Vienna con un pezzetto di Slesia.

Sonnino concluse questo round di negoziati rendendo chiaro che tali concessioni erano insufficienti e che, senza il Trentino, Roma non si sarebbe ritenuta soddisfatta. Le proposte austriache erano tali, tuttavia, da convincere Salandra a sostituire la “missione sanitaria” a Valona con reparti dell’esercito, sbarcati il 29 dicembre (dai 300 fanti di marina di ottobre si passò a circa 6 800 soldati a gennaio). Ma quello che l’Italia voleva era Trento, non Tirana e, il 7 gennaio Sonnino fece ribadire a Vienna che l’Italia avrebbe accettato unicamente territori austriaci.

L'arrivo di von Bülow e le pressioni tedesche

Lo stesso argomento in dettaglio: Missione von Bülow (1914-1915).
Palazzo della Ballhausplatz, già sede del Congresso di Vienna e oggi sede del ministero degli esteri austriaco

In questo periodo, il principale referente di Salandra e del Re fu Bülow, il quale era ben conscio che le aspirazioni italiane su Trento e Trieste rappresentavano la base indispensabile di ogni negoziato. Non occorreva, tuttavia, accettarle tutte: Trieste, in particolare, era non solo il primo porto dell’Austria-Ungheria, ma anche uno sbocco capitale per la Germania. L'ambasciatore tedesco suggeriva, quindi, che l'Italia doveva accontentarsi del Trentino e pretendere, per Trieste, «una certa autonomia e l'incremento del suo carattere nazionale» (è probabile che la cosa si sarebbe risolta nella costituzione di una, già assai agognata, Università Italiana).

Von Bülow ebbe la possibilità di presentare le proprie proposte presso tutte le persone necessarie: vide Giolitti il 20 dicembre, Sonnino il 29 dicembre, il Re il 30 dicembre. L'ambasciatore tedesco ripeté le proprie rassicurazioni anche pochi giorni dopo, quando giunse notizia che al ministero degli esteri di Vienna (soprannominata la "Ballhausplatz") Berchtold era stato sostituito dall’ungherese István Burian, il 13 gennaio 1915.

Von Bülow, in definitiva, aveva ben svolto il proprio compito, tanto da spingere, lo stesso Giolitti a procurare la pubblicazione sulla Tribuna di Roma, di una lettera redatta il 24 gennaio 1915, nella quale affermava: «potrebbe essere, e non apparirebbe improbabile, che, nelle attuali condizioni dell'Europa, parecchio - Giolitti aveva scritto “molto” - possa ottenersi senza una guerra; ma su questo, chi non è al Governo, non ha elementi per un giudizio completo». Si trattava, in pratica, della ratifica della linea von Bülow.

Il rifiuto austriaco a seri negoziati

Infatti, il 12 febbraio, Roma e Vienna ripresero le trattative, ma Burian assunse una posizione assai rigida, rifiutò ogni discussione preliminare circa il Trentino, giungendo a rinnegare le concessioni del suo predecessore, circa l'occupazione italiana di Valona e del Dodecaneso.

Tutto ciò indebolì fortemente la credibilità della posizione mediatrice tedesca, e dei politici italiani che si erano spesi per una (utile e compensata) neutralità. Ad esempio Giolitti venne largamente irriso per il suo “parecchio” della lettera del 24 gennaio. L’Italia aveva concesso moltissimo: Vienna avrebbe ottenuto Belgrado, mentre Roma si sarebbe contentata della sola Trento, restando insoluta la questione delle province, parzialmente italiane, della Venezia-Giulia e della Dalmazia. E ciò nonostante che tale compromesso avrebbe scontentato vaste fasce della popolazione, rappresentando la pietra tombale sulla carriera dei politici coinvolti.

A peggiorare le cose v’era la risolutezza del voltafaccia austriaco: determinato al punto da contraddire i pressanti suggerimenti di Berlino e sostenuto dallo stato maggiore e dall'imperatore in prima persona. La principale preoccupazione di Salandra e del Re divenne, improvvisamente, una possibile guerra preventiva da parte dell’Austria-Ungheria, la quale teneva, da sempre, ben presidiati i propri confini.

Che lo stato maggiore austriaco brulicasse di “italofobi” era ben chiaro a tutti: nel 1909 il generale Conrad, capo di Stato Maggiore generale austriaco dal 18 novembre 1906, aveva proposto di profittare del terremoto di Messina per condurre una facile “guerra preventiva” contro l’Italia e, nel dicembre 1911, nel corso della guerra italo-turca, per un simile suggerimento dovette essere temporaneamente destituito. Ma, in quel 1914, Conrad era ben saldo in sella come capo di Stato Maggiore e le sue sparate avevano sempre espresso gli umori profondi di larga parte della classe politica austro-ungherese. Come, d’altra parte, dimostrava proprio in quei mesi l’atteggiamento assai rigido dell’Imperatore.

Un estremo tentativo di accordo si ebbe solo a partire dall’8 marzo 1915: l’inizio delle operazioni che avrebbero portato allo sbarco franco-inglese a Gallipoli e la continuazione dell’avanzata russa in Galizia (due settimane più tardi sarebbe caduta Przemysl, l’ultima fortezza austriaca in Galizia) avevano, infine, indotto il Burian a concedere una parte del Trentino, compresa Trento, ma non prima della fine della guerra: tali condizioni erano, chiaramente, inaccettabili per l’Italia.

Si trattava, ormai e per entrambe le parti, solo di guadagnare tempo.

Il Patto di Londra

Sonnino rispose alle provocatorie profferte austriache con una uguale provocazione: egli richiese oltre all’intero Trentino anche Trieste ed il basso Isonzo.

Si sentiva, infatti, le spalle coperte: l’avanzata russa in Galizia proseguiva e, il 4 marzo 1915, l’Italia aveva presentato le proprie richieste alle potenze dell’Intesa: la difficoltà maggiore era rappresentata dalle pretese circa il controllo della Dalmazia e lo status di Valona, oggetto, anche, delle richieste della Serbia, sostenuta dalla Russia per solidarietà etnica, e della Gran Bretagna per questioni di controllo navale.

Sin dal settembre 1914 l’Intesa aveva offerto a San Giuliano Trento, Trieste (ma non la Venezia Giulia) e Valona. Il ministro italiano richiese Trentino, Venezia Giulia, l'internazionalizzazione di Valona (ovvero l’autonomia dell’Albania), il disarmo della flotta austriaca, una parte dei possedimenti turchi e, in generale, un'equa ripartizione di qualsivoglia indennità di guerra fosse stato possibile ottenere al termine del conflitto.

Le discussioni accelerarono con l’inizio delle operazioni che avrebbero portato allo sbarco franco-inglese a Gallipoli; il 4 marzo l’Italia presentò le proprie nuove richieste all’Intesa: Trento, Bolzano, Trieste e l’Isonzo, tutta la Dalmazia e Valona.

Nelle settimane successive la posizione italiana fu prima indebolita dalla caduta di Przemysl poi rafforzata dalle difficoltà incontrate nel corso delle operazioni a Gallipoli.

Le trattative proseguirono, quindi, celermente ed il 16 aprile venne raggiunto un accordo circa le compensazioni territoriali: l’Italia si contentò di Zara e Sebenico, rinunciando a Spalato e Fiume, ma ebbe promesso non solo Trento, Trieste e l'Isonzo, ma pure Bolzano, con i “confini naturali”. Si aggiungevano Valona e vaghe promesse riguardo a concessioni a sud di Smirne, di fronte al Dodecaneso. Restava da regolare la data dell’entrata in guerra, che venne poi fissata entro un mese dalla firma dell’alleanza, ciò che permise la sottoscrizione del trattato: il Patto di Londra venne sottoscritto il 26 aprile.

Conseguentemente, e non banalmente, il 4 maggio Sonnino comunicò a Vienna la nullità dell’alleanza. Ciò ancorché la esistenza del patto rimanesse segreta.

Il nuovo governo Salandra e l’entrata in guerra

A quel punto Giolitti si recò a Roma ed espresse a Salandra ed al re il proprio suggerimento di continuare i negoziati con Vienna e Berlino. Il principale punto di obiezione era costituito dallo stato di preparazione dell’esercito.

Nel frattempo von Bülow, del tutto indipendentemente dal Giolitti tentava di influenzare l’opinione pubblica.

Il prestigio di Giolitti era enorme, assai superiore a quello di Salandra, e quest’ultimo si sentì obbligato a presentare, il 13 maggio, le dimissioni del governo, contando di riottenere un incarico. Vittorio Emanuele III si rivolse a Giolitti, che rifiutò, poiché finalmente informato del Patto di Londra (inizialmente non ne fu informato nemmeno Cadorna) ma, soprattutto e da politico di razza, per evitare che «il suo avvento facesse cadere, almeno per il momento, la minaccia di guerra e imbaldanzisse l’Austria». Si disse anche che il Re avesse pure minacciato di abdicare a favore del cugino, il duca d'Aosta, ma la cosa è appare assai improbabile ed assomiglia, piuttosto, ad un pettegolezzo o, al massimo, ad uno sfogo umorale.

Il Re si rivolse, quindi, a Marcora, a Boselli e a Carcano. Tutti e tre erano a favore dell’intervento e il comasco Carcano aveva addirittura sostituito Rubini. Ma nessuno aveva un ascendente politico maggiore di quello di Salandra e tutti rifiutarono, suggerendo un reincarico, intervenuto, in effetti, il 16 maggio. Nel frattempo si assisteva a grandi manifestazioni interventiste nelle città del nord, che avevano fortemente rinforzato il partito della guerra.

I risultati non tardarono a manifestarsi: il 20 maggio il parlamento approvò facilmente i crediti di guerra, con Giolitti assente al momento della votazione.

Il 23 maggio venne presentata la dichiarazione di guerra alla sola Austria-Ungheria, con effetto dal 24 maggio successivo.

Le polemiche del dopoguerra

Quattro sono le questioni principalmente dibattute in storiografia riguardo alla condotta del governo Salandra nel corso dei mesi della neutralità:

  • L'intervento come tradimento: sin dal 24 maggio 1915, Francesco Giuseppe aveva emesso un proclama in cui parlava di «tradimento quale la storia non conosceva pari» e di «nuovo perfido nemico». Si tratta, quindi, di un antico motivo della propaganda bellica austriaca e, più in generale, germanica. L’accusa di tradimento, continuamente ripetuta, ebbe certo un salutare effetto sul morale delle truppe imperiali, tanto che esse conservarono, sino a Vittorio Veneto, un genuino disprezzo nei confronti dei nemici italiani. La guerra contro l'Italia, in generale, fu assai più popolare della guerra contro la Russia.
Il motivo del “tradimento italiano” venne poi ripreso da Hitler nel 1943, con la tamburellante efficacia del miglior Goebbels ed è ancor oggi assai popolare presso buona parte della storiografia anglo-sassone.
Nonostante i molteplici sforzi, tuttavia, non risultano contributi efficaci che abbiano saputo spiegare come mai Salandra avrebbe dovuto gettare il Paese in un conflitto terribile, determinato nell’esclusivo interesse di un alleato che agiva a svantaggio dell'Italia, senza informarla e, anzi, sbeffeggiandola. E rifiutandosi, poi, di onorare gli impegni formalmente sottoscritti, mentre pretendeva che Roma ne sostenesse di nuovi, mai nemmeno informalmente assunti. Né perché Salandra avrebbe dovuto tener fede ad un patto che l'Austria-Ungheria aveva, per prima e lungo il corso di ben dieci mesi, trattato come carta straccia.
  • La cattiva scelta del momento per entrare nel conflitto: si è molto discusso dell’impazienza mostrata da Salandra e Sonnino: il momento scelto per l’entrata in guerra coincise, in effetti con il fallimento dello sbarco franco-inglese a Gallipoli e con una riuscita controffensiva austriaca (battaglie di Tarnow e Gorlice, il 1 e 3 maggio 1915) contro la Russia, che fu costretta a sgombrare, entro la fine di giugno, l’intera Galizia. Tuttavia alla data della sottoscrizione del Patto di Londra tale esito era tutt’altro che scontato, come dimostrano le ultime proposte austriache, negoziate a partire dall’8 marzo e Salandra non può essere reso colpevole delle sorprese della guerra. Né alcuno può seriamente affermare se il marchese di San Giuliano, fosse vissuto, avrebbe goduto di un timing migliore.
  • La mancata richiesta di colonie: uno dei principali motivi di scontento, al tempo della conferenza di pace di Versailles e largamente amplificato, nei decenni che seguirono, dalla propaganda fascista, fu il mancato accesso dell'Italia alla spartizione delle colonie tedesche e dell’impero turco. Salandra e soprattutto Sonnino vennero accusati di incapacità, per non aver pattuito tali compensi sin dal 1915.
    A tal fine occorre ricordare che i guadagni ottenuti con il Patto di Londra, agli effetti pratici, avrebbero permesso di escludere definitivamente l’Austria-Ungheria dall’Italia, dai Balcani centro-meridionali e dall’Adriatico, lasciandole solo il piccolo porto di Fiume, ancorché abitato da italiani. Si trattava, in pratica, di tutto ciò che l’Italia aveva tradizionalmente richiesto sin dal 1870, e di molto altro ancora. Salandra aveva ottenuto un decisivo miglioramento della posizione strategica italiana, rispetto alle limitazioni sofferte in tutto il cinquantennio precedente.
    Solo l’imprevista implosione dell’Impero austro-ungarico, dopo il trionfo italiano a Vittorio Veneto può, in parte, spiegare il successo di così miopi critiche.
  • Le manifestazioni come forzatura delle decisioni governative: si insiste spesso sulla circostanza che siano state le grandi manifestazioni interventiste a costringere il Parlamento e la sua maggioranza neutralista a votare il reincarico a Salandra il 16 maggio 1915 e, in ispecie, i crediti di guerra del 20 maggio. Taluni adducono, addirittura, che una delle ragioni principali sia stata la minaccia di violenza fisica di cui furono oggetti taluni deputati.
    Secondo codesti storici, gli eventi del maggio diedero prova che, in Italia, pochi uomini risoluti potessero sovrapporsi alla volontà del parlamento e che «il popolo o quei gruppi di uomini avessero provveduto all’onore e alla fortuna d’Italia con l’intelligenza e la volontà che la sua Camera ed il suo Senato non possedevano». In pratica, tali manifestazioni avrebbero rappresentato un anticipo della marcia su Roma[senza fonte]. Tesi questa, che fece la gioia di polemisti e storici fascisti, interessati a demolire la residua credibilità della sconfitta classe dirigente liberale.
    Ma anche nei decenni successivi, tale interpretazione ha avuto ulteriore e duraturo successo, in quanto venne fatta propria dai partiti cattolici e social-comunisti che hanno dominato la cultura e la politica italiana dal 1943-45: significativamente, essi misero sempre in discussione che gli interventisti rappresentassero la reale volontà popolare, ma non contestarono mai che il parlamento liberale avesse effettivamente ceduto alla prova di forza imposta dai capetti di piazza.

Sin dal 1927 Benedetto Croce si preoccupava di ricordarci che la realtà fu ben diversa: Camera e Senato del Regno si convinsero al voto favorevole poiché messi a conoscenza del Patto di Londra: Giolitti, che non negava la guerra ma suggeriva la opportunità di rimandarla, quando si avvide che i tempi erano scaduti si comportò di conseguenza.

Prima vennero le decisioni dei leader politici e solo poi le invettive degli agitatori di piazza, i quali vennero vezzeggiati solo perché le loro vanterie servivano a coprire un consenso alla guerra che nel popolo tanto diffuso non era.

Note

  1. ^ Mussolini, nel 1940 scelse di intervenire a fianco della Germania: la sua sudditanza rispetto a Hitler e la cronica carenza di rifornimenti di cui soffrirono l'esercito e la flotta italiane dimostrarono la giustezza delle considerazioni di Salandra.
  2. ^ Le ragioni dello sbarco, in effetti, erano curiosamente simili a quelle poi addotte da Romano Prodi più di ottant’anni dopo, nel 1997. Il successivo rimpatrio delle truppe italiane, avvenuto senza che alcuna potenza estera dovesse forzarle, provano la buona fede di entrambe.

Fonti

  • GianPaolo Ferraioli,Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1871-1914), Rubbettino, 2007
  • Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Adelphi, 1991
  • Istvan Deak, Gli ufficiali della monarchia asburgica, Libreria Editrice Goriziana, 1990

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