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Rerum Novarum

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Rerum novarum
Lettera enciclica
Stemma di Papa Leone XIII
Stemma di Papa Leone XIII
PonteficePapa Leone XIII
Data15 maggio 1891
Anno di pontificatoXIV
Traduzione del titoloDelle cose nuove
Argomenti trattatiQuestioni sociali
Enciclica papale nºXXXVIII di LXXXVI
Enciclica precedenteIn Ipso
Enciclica successivaPastoralis Vigilantiae

Rerum novarum (in italiano "Delle cose nuove") è un'enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1891 da papa Leone XIII con la quale per la prima volta la Chiesa cattolica prese posizione sulle questioni sociali e fondò la moderna dottrina sociale della Chiesa.

Dottrina sociale della Chiesa

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Il movimento cattolico era diviso in varie correnti riguardo all'atteggiamento da tenere nei confronti del capitalismo avanzante: a coloro che prospettavano un avvicinamento al movimento socialista per tentare di mediare in considerazione del radicale ateismo marxista, si opponevano i convinti sostenitori del progresso, del commercio e del laissez faire, concetti rispetto ai quali chiedevano una sostanziale benedizione.

Una corrente significativa era inoltre rappresentata dai corporativisti, che indicavano un ritorno alle istituzioni economiche medievali, al fine di ricomporre la tensione sociale.

L'originalità dell'enciclica risiede quindi nella sua mediazione: il Pontefice, ponendosi esattamente a metà strada fra le parti, ammonisce la classe operaia affinché non dia sfogo alla propria rabbia attraverso inefficaci idee di rivoluzione, di invidia e odio verso i ricchi, e chiede ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti, da non trattare come schiavi. L'auspicio è che fra le parti sociali vi siano accordi e collaborazioni nella questione sociale, ammettendo associazioni «sia di soli operai sia miste di operai e padroni» per la reciproca tutela dei diritti [1].

Viene persino rivolto un invito ai lavoratori cristiani a formare proprie società, piuttosto che aderire a un'«organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico»[2].

L'enciclica contiene infine una condanna ferma nei confronti del socialismo, della teoria della lotta di classe e della massoneria, preferendo che la questione sociale venga affrontata e risolta dall'azione combinata di Chiesa, Stato, impiegati e datori di retribuzione.

Motivo dell'enciclica: la questione operaia

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L'enciclica si apre riconoscendo che, dopo un lungo periodo di fermento politico, l'attenzione si è spostata verso le questioni economiche e sociali. Le cause principali del conflitto sociale sono identificate in:

  • il rapido sviluppo industriale e tecnologico;
  • il mutamento dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro;
  • l'estrema concentrazione della ricchezza in poche mani, a fronte della crescente povertà delle masse;
  • il rafforzamento della coscienza collettiva degli operai, accompagnata da un deterioramento morale in alcuni ambienti.[3]

La Chiesa, preoccupata per le gravi ingiustizie e l'instabilità sociale, si sente chiamata a intervenire. Pur riconoscendo la difficoltà e i rischi della questione – specialmente nell'equilibrare i diritti e doveri di ricchi e poveri – Papa Leone XIII afferma che è doveroso occuparsi con urgenza delle condizioni dei lavoratori, spesso ridotti a una situazione indegna e disumana.[3]

Con la scomparsa delle antiche corporazioni di arti e mestieri, e in assenza di nuove forme di tutela, i lavoratori sono diventati vulnerabili di fronte alla durezza dei padroni e all'avidità della concorrenza. A peggiorare la situazione contribuiscono:

  • l'usura, più volte condannata dalla Chiesa, ma ancora praticata sotto nuove forme;
  • la concentrazione della proprietà dei mezzi produttivi e dei commerci nelle mani di pochi.

In questo contesto, l'enciclica si propone di offrire principi morali e religiosi per guidare una riforma sociale che ristabilisca la giustizia e promuova la dignità del lavoro umano.[3]

Parte prima: il Socialismo, falso rimedio

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La soluzione socialista inaccettabile dagli operai

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Il socialismo viene criticato per proporre, come rimedio alle ingiustizie sociali, l’abolizione della proprietà privata e la sua trasformazione in proprietà collettiva, gestita dallo Stato o dal municipio. Secondo questa visione, l’eguaglianza forzata e la redistribuzione uniforme dei beni non risolvono i problemi, ma li aggravano, danneggiando in particolare gli stessi lavoratori, privati della libertà di investire i propri guadagni e migliorare la propria condizione.[3]

La proprietà privata è presentata come scopo naturale del lavoro: il salario, frutto legittimo dell’attività dell’operaio, può essere trasformato in beni durevoli (come la terra), che diventano così estensione del diritto al lavoro stesso. Togliere questo diritto significa privare l’individuo della possibilità di autonomia e progresso.[3]

Infine, la proprietà è considerata un diritto di natura, che distingue l’uomo dall’animale. A differenza del bruto, guidato solo da istinti, l’essere umano possiede ragione e libertà, e quindi ha diritto non solo all’uso dei beni, ma anche al possesso stabile di essi, condizione essenziale per vivere secondo la propria dignità razionale.[3]

La proprietà privata è di diritto naturale

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Il diritto alla proprietà privata è radicato nella natura razionale e libera dell’uomo, che, essendo dotato di capacità previsionali e autonomia, deve poter provvedere non solo ai bisogni presenti ma anche a quelli futuri. Per questo ha diritto non solo all’uso dei frutti della terra, ma anche alla possessione stabile del suolo, quale fonte durevole di sostentamento.[3]

L’origine divina del dono della terra all’umanità non esclude la proprietà privata, poiché Dio ha lasciato all’iniziativa umana la suddivisione concreta dei beni. Pur divisa tra i privati, la terra rimane al servizio di tutti: chi non possiede, partecipa mediante il lavoro, che è via universale alla sussistenza.[3]

Inoltre, coltivando e trasformando la terra con intelletto e fatica, l’uomo vi imprime la sua personalità, rendendola un’estensione di sé. Questo giustifica il possesso privato come un diritto naturale fondato sull’unione tra lavoro e persona, e quindi meritevole di tutela.[3]

La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine

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Il diritto alla proprietà privata trova giustificazione nella legge naturale, nella ragione e nella tradizione storica. È ingiusto negare la proprietà del suolo a chi lo ha trasformato con il proprio lavoro, rendendolo fruttuoso e produttivo. Il lavoro umano imprime un valore aggiunto ai beni naturali, rendendoli inseparabili dall’opera dell’uomo stesso.[3]

Pertanto, il frutto del lavoro deve appartenere al lavoratore, come l’effetto alla sua causa. La divisione dei beni e la loro appropriazione privata sono riconosciute dal genere umano come conformi alla natura e fondamentali per la convivenza sociale pacifica. Le leggi civili giuste non fanno che confermare e tutelare questo diritto, che è già radicato nella legge divina, la quale proibisce anche solo il desiderio dei beni altrui.[3]

La libertà dell'uomo

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Il diritto al matrimonio è presentato come un diritto naturale e primordiale, che nessuna legge umana può sopprimere o alterare nei suoi fini divini, stabiliti da Dio con il comando «Crescete e moltiplicatevi» (Gen 1,28). L’uomo è libero di scegliere il proprio stato di vita, ma, una volta costituita, la famiglia è riconosciuta come una società reale e anteriore allo Stato, dotata di diritti e doveri autonomi.[3]

Il diritto di proprietà, già valido per l’individuo, si rafforza ulteriormente quando riferito all’uomo come capo della famiglia, poiché in lui la personalità sociale si esprime in modo più pieno, rendendo più profondo e legittimo il suo ruolo e i suoi diritti all'interno del consorzio domestico.[3]

Famiglia e Stato

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La famiglia è descritta come una società naturale fondata sul diritto e dovere inviolabile del padre di mantenere e proteggere la prole. Per impulso naturale, il padre riconosce nei figli un’estensione di sé stesso, il che lo spinge a provvedere al loro futuro tramite il possesso e la trasmissione di beni produttivi in eredità.[3]

La famiglia, dotata di autorità propria (potere paterno), ha diritti pari, se non superiori, a quelli dello Stato, poiché è anteriormente e logicamente precedente alla società civile. Di conseguenza, i diritti familiari sono considerati più naturali e fondamentali.[3]

Qualora lo Stato non tutelasse questi diritti ma li ostacolasse, cesserebbe di essere uno strumento di giustizia, rendendo la convivenza civile non auspicabile, ma da respingere.[3]

Lo Stato e il suo intervento nella famiglia

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È considerato un errore grave attribuire allo Stato un potere illimitato sulla famiglia, la quale è un'istituzione naturale e originaria rispetto alla società civile. L’intervento statale è legittimo solo in casi eccezionali, come gravi difficoltà economiche o conflitti familiari, e ha lo scopo di ristabilire la giustizia, non di sostituirsi ai genitori.[3]

La patria potestà deriva direttamente dalla natura umana e dal legame vitale tra genitori e figli, che sono visti come un’estensione della personalità paterna. Lo Stato, quindi, non può né assorbirla né annullarla, poiché i figli entrano nel corpo sociale attraverso la famiglia.[3]

L’ideologia socialista, che propone di sostituire la cura parentale con quella dello Stato, è accusata di violare la giustizia naturale e di minare l’unità e l’autonomia della famiglia, dissolvendone i fondamenti morali e sociali.[3]

La soluzione socialista è nociva alla stessa società

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La proposta socialista di comunanza dei beni è rifiutata in quanto ingiusta e foriera di disordine sociale, conflitti, impoverimento generale e soppressione della libertà individuale. L'abolizione della proprietà privata eliminerebbe gli stimoli all'ingegno e al lavoro, causando una crisi della produzione e una falsa uguaglianza basata sulla misera collettiva.[3]

Tale sistema, secondo la critica, danneggia proprio le classi che pretende di aiutare, viola i diritti naturali, altera il ruolo legittimo dello Stato e compromette la pace sociale. Per questo motivo, ogni progetto di miglioramento delle condizioni dei lavoratori deve avere come fondamento imprescindibile il riconoscimento e la tutela del diritto alla proprietà privata.[3]

Tutela dei ceti deboli

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«Se con il lavoro eccessivo o non conveniente al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle leggi.»
«Nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.»

Avendo a cuore la tutela dei diritti delle donne e dei fanciulli, che sovente erano i lavoratori maggiormente sfruttati, l'enciclica propone anche di riservare alle donne mansioni a loro consone, anche dal punto di vista morale e del loro ruolo nell'educazione della prole.

«Un lavoro proporzionato all'uomo alto e robusto, non è ragionevole che s'imponga a una donna o a un fanciullo. […] Certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere della casa.»

Preparazione, sviluppi e contesto

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L'enciclica fu resa possibile dagli scritti dei precursori del personalismo economico, in particolare dei padri gesuiti Luigi Taparelli D'Azeglio e Matteo Liberatore. Il secondo fu uno degli estensori del documento insieme al domenicano cardinale Zigliara. Nel redigere l'enciclica, il Papa richiese la collaborazione di Vincenzo Tarozzi, segretario per le lettere latine.[4]

Le idee della Rerum novarum furono riprese, integrate e aggiornate nel corso del Novecento dalla Quadragesimo anno di papa Pio XI, dalla Mater et magistra di papa Giovanni XXIII, dalla Populorum progressio di papa Paolo VI e dalla Centesimus annus di papa Giovanni Paolo II.

L'enciclica è considerato un testo importantissimo dell'Ottocento, che insieme al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e al Saggio sulla libertà di Mill può fornire un quadro completo delle posizioni sociali risalenti alla nascita della borghesia.

Per onorare il centenario della Rerum novarum, fra il 16 novembre 1991 e il 1º marzo 1992 fu organizzata nel Braccio di Carlo Magno (il corridoio che connette la metà meridionale del colonnato di Piazza San Pietro con la basilica) una grande esposizione di dipinti, visitata da decine di migliaia di persone, che comprendeva opere di Mosè Bianchi, Giovanni Fattori, Plinio Nomellini, Vincenzo Cabianca, Camille Corot, Giuseppe De Nittis, Jean François Millet e altri[5].

In occasione del centesimo anniversario della pubblicazione della Rerum novarum, papa Giovanni Paolo II promulgò l'enciclica Centesimus annus, che aggiorna la dottrina sociale della Chiesa alla luce dei cambiamenti economici avvenuti con la dissoluzione del sistema comunista e l'avvio della globalizzazione.[6]

  1. ^ Rerum novarum, 36
  2. ^ Rerum novarum, 40
  3. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u Rerum Novarum
  4. ^ Maria Vittoria Melchioni, Castelfranco commemora monsignor Tarozzi a cento anni dalla morte, in Gazzetta di Modena, 16 dicembre 2018. URL consultato il 18 dicembre 2023.
  5. ^ Catalogo: A cura di Giuseppe Morello, Il lavoro dell'uomo da Goya a Kandinskij, Milano, Fabbri Editori, 1991.
  6. ^ Centesimus annus (1º maggio 1991) | Giovanni Paolo II, su www.vatican.va. URL consultato il 26 maggio 2023.

Voci correlate

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Altri progetti

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Collegamenti esterni

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