Caduta del Regno d'Italia

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«Siate quel che volete ma non più dell'Austria; ciò basta alla Francia … Se non sapete, se non volete cogliere il momento d’essere liberi; allora si disporrà di voi dalla diplomazia e sarete quello che converrà agli interessi politici.»

«E quand sto bast ghe l’emm d’avè sui spall eternament, e senza remission, cossa ne importa a nun ch’el sia d’on gall d’on aquila, d’on occa o d’on cappon?»

«Nel 1814 la Francia era solamente vinta; l’Italia rimase conquistata.»

La Caduta del Regno d’Italia comprende le vicende che costrinsero Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno d'Italia, alla capitolazione, il 23 aprile 1814, nonostante la brillante vittoria sugli Austriaci del Bellegarde nella battaglia del Mincio l'8 febbraio. Con l’esercito del Regno d’Italia era al completo ed invitto. Ciò che consentì agli Austriaci, che pur non potevano vantare alcun diritto di conquista, di mettere fine alla indipendenza Regno d’Italia, sostituito con una provincia satellite, battezzata Regno Lombardo-Veneto.

L’Austria riprende la guerra con Napoleone

La ritirata di Russia e la battaglia di Lipsia

Nel dicembre 1812 Napoleone rientrò dalla Russia con un esercito assai ridotto e stremato.

Nello stesso dicembre la Prussia dichiarò la propria neutralità, per poi passare, il 28 febbraio 1813 alla alleanza aperta con la Russia e l’Inghilterra. L’Austria si univa solo il 20 agosto 1813, in tempo per la vittoriosa battaglia di Lipsia il 16-19 ottobre.

Napoleone poté ritirarsi ordinatamente oltre il Reno, lasciando dietro di sé alcune piazzeforti, ad ostacolare l’inseguimento.

Preparazione della campagna d’Italia

In agosto l’Austria aveva organizzato una armata per invadere l’Italia, affidandola al feldmaresciallo Hiller.

Egli aveva di fronte un esercito franco-italiano, guidato da Eugenio di Beauharnais, Viceré del Regno Italico. Quest’ultimo, su istruzione dell'Imperatore, era rientrato a Milano il 18 maggio 1813 e s’era impegnato a ricostituire l'esercito in previsione della probabile adesione dell'Austria alla coalizione antifrancese.

Nonostante le forti perdite subite alla campagna di Russia, Eugenio riuscì a mettere in armi un esercito ben organizzato, che arrivò, al gennaio successivo, a circa 45’000 uomini.

La prima linea difensiva sull’Isonzo

L’8 agosto 1813 Eugenio era uscito da Milano per raggiungere le unità schierate contro l’Austria, che sarebbe entrata in guerra circa dodici giorni più tardi.

Il grosso dell’esercito di Eugenio era ancora in preparazione, e il Viceré non poteva impedire che un esercito austriaco al comando del feldmaresciallo Radiovijevich, muovendo dall’interno dello sterminato Impero Austriaco, si portasse in Dalmazia, ponendo l’assedio alla piazzaforte di Ragusa. Il Viceré, anzi, si ritirò dietro il fiume Isonzo.

Ripiegamento di Eugenio sull’Adige

A seguito della battaglia di Lipsia e della conseguente defezione del Regno di Baviera, un secondo piccolo corpo austriaco, al comando del feldmaresciallo von Fenneberg, nel novembre, era penetrato, indisturbato, in Alto Adige e da lì minaccia Eugenio da tergo.

Ancora una volta il viceré arretrò, portandosi sulla linea dell'Adige.

Stallo delle operazioni in novembre-gennaio

Ricostituzione dell’esercito del Regno d’Italia

Le due successive ritirate avevano consentito ad Eugenio di guadagnare tempo per assorbire i rincalzi che giungevano, via via, in linea. Egli attendeva, inoltre, l’arrivo dell’esercito del Regno di Napoli, guidato da Murat, forse il migliore comandante di cavalleria dell’epoca. Quest’ultimo era stato rinviato a Napoli da Napoleone, all’indomani della battaglia di Lipsia per riorganizzare l'esercito napoletano e portarlo a congiungersi con quello di Eugenio sull’Adige.

Occorre ricordare che nel corso della campagna di Russia le divisioni del Regno Italico e del Regno di Napoli si erano comportate con particolare valore, ed ancora a Lipsia, mentre defezionavano le truppe degli stati tedeschi, a cominciare dai Bavaresi, le truppe italiane si mantennero salde. Spiccò fra tutte la divisione Fontanelli, che riuscì a conservare Lindenau, mantenendo così aperta l’unica via di ritirata a quel che restava della Grande Armata.

Napoleone doveva avere ben presente tale comportamento e, d’altra parte, ben sapeva che, a quel punto, solo l’Italia, oltre naturalmente alla Francia, non avevano defezionato. La sua unica speranza, a quel punto, era riformare un grande esercito in Francia ed un secondo in Italia, più modesto ma proporzionato all’entità della minaccia austriaca.

I piani difensivi di Napoleone

Si trattava di unire all'esercito di Eugenio altri 25'000 con Murat, appoggiandosi alle fortezze di Peschiera e Mantova, nonché ai circa 14'000 uomini lasciati indietro a presidiare Venezia-Mestre, Legnago, Palmanova ed Osoppo: Napoleone aveva la possibilità di tenere il nord Italia quasi indefinitamente.

I due generali erano, inoltre, da almeno dieci anni insediati nei due regni italiani, che sostanzialmente si identificavano con essi. Erano due suoi fedelissimi, rispettivamente cognato e figlio adottivo dell’Imperatore dei Francesi e, per soprannumero, avevano mostrato buone od eccellenti qualità militari.

I complimenti di Napoleone

Il programma dell’Imperatore divenne esplicito quando, il 1 novembre 1813, dalla Germania, inviò la divisione Fontanelli e gli altri italiani superstiti della Grande Armata, a raggiungere il Eugenio e li congedò con le seguenti parole:

«La loro fedeltà intemerata … la loro intrepida condotta, la costanza dimostrata fra i rovesci e le sventure di ogni specie, mi hanno grandemente commosso. Tutto ciò mi ha confermato che bolle sempre nelle vostre vene il sangue dei dominatori del mondo … io partecipavo al giudizio di disistima verso le truppe napoletane: esse mi hanno colmato di meraviglia a Lützen, a Bautzen, in Danzica, a Lipsia ed a Hanau. I famosi Sanniti, loro avi, non avrebbero combattuto con maggior valore.»

Evidentemente, aveva davvero bisogno di loro.

Quanto allo stato d’animo dell’esercito del Regno Italico e del Regno di Napoli, basti una battuta di Cesare Balbo: “non v’era indipendenza, è vero, ma non ne furono mai speranze più vicine”.

I punti di forza della linea difensiva

Il dispositivo concepito da Napoleone ed attuato da Eugenio era importante e si appoggiava alle importanti fortezze di Peschiera a nord, Mantova al centro e Legnago a sud-est, che sbarravano la via di Milano: si trattava, in pratica, alle future fortezze del Quadrilatero (benché Verona godesse di ridotte fortificazioni verso nord/nord-est, già largamente demolite nel 1801).

Al di là dell’Adige, inoltre, i franco-italiani erano asserragliati nelle fortezze di Palmanova, Osoppo e, soprattutto, Venezia-Mestre, con una forte guarnigione ed una piccola flotta (mentre gli Austriaci ne erano privi) appoggiata all’Arsenale (cui Napoleone avevano posto, negli anni precedenti, particolare cura).

Si trattava di posizioni estremamente forti, come i decenni seguenti avrebbero dimostrato: Venezia resistette più di un anno all’assedio austriaco del 1848-49; Palmanova ed Osoppo furono le ultime a cedere prima di Venezia; attorno alle fortezze del Quadrilatero (tenute, però, dagli Austriaci) si svolsero la prima la seconda ed anche la terza guerra di indipendenza italiana. Senza contare che Mantova, nel 1797, aveva resistito per nove mesi all’assedio del giovane generale Buonaparte.

La debolezza strategica austriaca

Conseguenza di tutto ciò fu che, una volta raggiunto l’Adige, gli Austriaci nemmeno cercarono di agganciare l’esercito franco-italiano.

Gli eventi, tuttavia, incalzavano sul fronte francese, ove si preparava una massiccia offensiva del prussiano Blücher e dell’austriaco Schwarzenberg, che il 1 gennaio avrebbero passato il Reno: gli Austriaci non potevano rischiare di fallire l’occupazione del Regno Italico prima della resa di Napoleone in Francia. In caso contrario, al termine delle ostilità, Eugenio avrebbe potuto negoziare condizioni non sfavorevoli che avrebbero, comunque, impedito la annessione di Milano e di Venezia all’Austria.

Vienna reagì, in un primo tempo, esonerando il comandante dell’armata in Italia, feldmaresciallo Hiller, a metà dicembre 1813 sostituito con il feldmaresciallo Bellegarde. Il quale si trovava in ottima posizione per ottenere il comando, in quanto (da agosto) presidente del consiglio aulico di guerra.

Contemporaneamente, Vienna cercava di conquistare consensi in Italia, con proclami tipo quello del generale Nugent, del 10 dicembre 1813, da Ravenna:

«AI POPOLI D’ITALIA.
Siete stati abbastanza oppressi; avete patito sotto un gioco ferreo! I nostri eserciti sono venuti in Italia per la vostra liberazione! Sta per sorgere un nuovo ordine di cose, che vi restituì la felicità pubblica. Cominciate a godere dei frutti della vostra liberazione, in seguito alle benefiche misure già applicate ovunque siano giunte le nostre armi liberatrici.
La dove ancora non siamo, sta a voi franchi e coraggiosi italiani, operare con le armi in pugno la restaurazione della vostra prosperità e della vostra patria. Voi lo farete tanto meglio, in quanto sarete aiutati per ricacciare chiunque si opponga a questo risultato.
Dovete diventare una nazione indipendente. Mostrate il vostro zelo per il bene pubblico e la vostra felicità dipenderà dalla vostra fedeltà a quelli che vi amano e vi difendono. In poco tempo la vostra sorte sarà oggetto d’invidia, il vostro nuovo Stato susciterà ammirazione.»

Ma tali false promesse mutavano gli equilibri sul campo: Eugenio era sempre lì ben schierato, si rafforzava di giorno in giorno con le sue reclute italiane, ed attendeva il ricongiungimento con le truppe napoletane guidate dal Murat. Mentre Vienna non poteva inviare in Italia tutte le truppe che avrebbe desiderato, dal momento che doveva sostenere anche lo sforzo strategico degli alleati della sesta coalizione contro Napoleone in Francia.

La defezione del Regno di Napoli di Gioacchino Murat

Vienna decise, quindi, di ottenere con il tradimento ciò che non poteva ottenere con le armi, comprando i due generali di Napoleone in Italia.

Gli emissari promisero che Murat avrebbe potuto conservare il Regno di Napoli, Eugenio il Regno Italico (ovvero Lombardia e Veneto unite ad Emilia-Romagna, Trentino e Marche).

Eugenio rimane fedele a Napoleone

Eugenio, pur genero del Re di Baviera, il 22 novembre 1813 rifiutò la profferta austriaca.

In genere tale decisione viene attribuita alla sua volontà di rimanere fedele fino all’ultimo a Napoleone, suo padre adottivo. Ma è probabile che su tale decisione abbia influito un esame realistico della situazione: solo sul piede di guerra il Regno Italico avrebbe potuto conservare la presente posizione di relativa forza. Mentre una defezione avrebbe richiesto una qualche rinuncia alla linea difensiva del Mincio: consentendo agli Austriaci di transitare per la Lombardia, ad esempio, ovvero, addirittura, impegnandosi a redispiegare l’esercito verso il Piemonte o la Francia.

Inoltre, l'esercito del Regno Italico era zeppo di ufficiali francesi, e non pare assolutamente possibile che essi potessero accettare di combattere contro la propria madrepatria.

Da considerare, infine, che l’Austria vantava diritti antichi sul Ducato di Milano ed altri sulla Repubblica di Venezia, anche se più recenti in quanto risalenti allo squallido Trattato di Campoformio. Ad entrambe aveva rinunciato, ma solo spinta dalla forza di Napoleone.

Murat accetta di passare al campo austriaco

Murat, invece, governava un Regno di Napoli non direttamente minacciato dalle mire espansionistiche austriache e sapeva che non necessariamente gli Asburgo avrebbero messo a rischio i propri interessi per sostenere il ramo cadetto dei Borbone che, dall’esilio di Palermo, vantava diritti su Napoli. In fondo i Borbone di Spagna avevano restaurato il proprio trono, quelli di Francia stavano per recuperarlo e non era indispensabile fare un’ulteriore favore ad una casata da sempre nemica degli stessi Asburgo.

Murat, dunque, accettò le proposte austriache e, l’11 gennaio 1814, firmò una alleanza segreta con l'Austria.

È difficile farne una colpa al Murat, ma si trattò, probabilmente, di un grave errore: il successivo 1 novembre, quando venne inaugurato il Congresso di Vienna, egli non venne invitato a parteciparvi, e si sentì obbligato ad un ultimo, disperato tentativo, iniziato con il Proclama di Rimini del 30 marzo 1815 e terminato dopo la battaglia di Tolentino del 2 maggio. Con certezza avrebbe fatto meglio a tentare la sorte con quindici mesi d'avanzo, ricongiungendosi all’esercito di Eugenio, ubbidendo ai piani di Napoleone.

Se consideriamo insieme la defezione e il tentativo del 1815, è difficile non considerare che egli abbia, in effetti, solo permesso a Vienna di dividere et imperare.

Effetti della defezione del Regno di Napoli

Alla fine di gennaio, dunque, Murat giunse a Bologna con le famose truppe organizzate secondo i piani di Napoleone. Mentre il suo generale Giuseppe Lechi prendeva il controllo della Toscana.

A Bologna, però, Murat annunciava la propria defezione e si univa agli austriaci della divisione Nugent (austro-sarda). Mentre Giuseppe Lechi cedeva Livorno alla flotta inglese.

Mancato ripiegamento di Eugenio in Francia

Il passaggio di campo, tuttavia, era dato per scontato, ormai da qualche settimana: il 21 gennaio il Melzi d'Eril vi faceva riferimento in una lettera a Napoleone, mentre quest’ultimo, già il 17 gennaio, ordinava ad Eugenio di portare l’esercito in Francia, lasciando dietro di sé solo truppe di guarnigione: esattamente come lo stesso Imperatore dei Francesi aveva fatto in Germania, nei mesi precedenti.

Per la prima volta in vita sua, tuttavia, Eugenio non obbedì: assunse un atteggiamento dilatorio, chiese nuovi ordini e, insomma, rimase sulle proprie posizioni.

Tale atteggiamento gli fruttò, in seguito, accuse di tradimento da parte di alcuni scrittori francesi di cose militari. Esso venne attribuito a ragioni squisitamente politiche, ovvero alle sue nascenti speranze di passare da viceré a sovrano titolare, sostituendo lo stesso Napoleone. Ciò era certamente vero, ma non pare assolutamente possibile che il Beauharnais potesse, realmente, costringere un esercito italiano a disertare la patria ed accorrere a difesa della potenza protettrice. Le diserzioni sarebbero state immediate, la rivolta probabile, con l’unico effetto di rinunciare ad un apparato militare che Eugenio sapeva a lui fedele e che riteneva degno di tentare la sorte in battaglia.

La marcia verso la Francia sarebbe, inoltre, stata assai lunga e, difficilmente, quanto fosse rimasto dell’esercito del Regno Italico avrebbe potuto ricongiungersi in tempo utile con i resti della Grande Armata. Mantenendo il fronte, Eugenio non tradiva affatto, ma anzi faceva gli interessi di Napoleone e, contemporaneamente, del Regno che avrebbe potuto essere suo.


La fallita offensiva austriaca

Ripiegamento di Eugenio sul Mincio

Il viceré, comunque, ebbe notizia dell'arrivo a Bologna del Re di Napoli, con relativo proclama, il 1 febbraio e, il 2 febbraio, gli ambasciatori napoletani notificarono la rottura delle relazione diplomatiche tra Regno Italico e Regno di Napoli.

Eugenio si trovava, adesso, minacciato di aggiramento da sud e ordinò il ripiegamento dall'Adige al Mincio. Il movimento iniziò il 3 febbraio e si concluse il 6 con le colonne franco-italiane riunite in formazione da combattimento dietro il Mincio.

Da notare che a quel punto Eugenio rinunciava al controllo di Verona,ove gli Austriaci entrarono, appunto, il 4 febbraio. Politicamente una rinuncia significativa, ma non militarmente, dalmomento che le poderose fortificazioni della città erano state demolite (almeno i salienti, i vertici e le spalle dei bastioni) sin dal 1801, su ordine di Napoleone, nel quadro degli accordi di Lunéville. Mentre restavano ben guarnite le altre fortezze, che simili distruzioni non avevano subite.

Bellegarde esce da Verona per dar battaglia

Bellegarde non aveva più scuse e dovette riprendere l’iniziativa. Vienna premeva, ricordandogli che gli eventi in Francia precipitavano (l’offensiva si sarebbe conclusa di lì a poco, il 31 marzo, con la presa di Parigi) e che era suo dovere occupare quanta più parte del Regno Italico gli fosse possibile, prima della resa di Napoleone.

Il 4 febbraio Bellegarde ricevette dalle guide rapporti che davano Eugenio in ritirata verso Cremona lasciando due divisioni lungo il Mincio per coprirsi le spalle e una guarnigione a Mantova.

Il 6 febbraio le sue colonne erano ancora impegnate ad attraversare l'Adige.

Mancata entrata in combattimento dell’esercito di Murat

Il 7 febbraio il feldmaresciallo si incontrava a Bologna con Murat e vi stabiliva una condotta comune delle operazioni.

Murat, significativamente, era ancora lì acquartierato e di lì scrisse ad Eugenio una lettera che lo confortò molto, asserendo di aver agito unicamente per salvare il proprio trono e garantendo di non volere lo scontro con l’esercito franco-italiano.

Confortava, in questo, anche Napoleone, che (mostrando la consueta lucidità) in una lettera del 1 febbraio alla moglie del viceré scriveva: io penso che i tedeschi non lasceranno entrare in Lombardia i napoletani … ci sono tutte le ragioni di credere che Bellegarde non vorrebbe assolutamente avere il re di Napoli tanto vicino.

Eugenio poté, quindi, continuare a preoccuparsi solo degli Austriaci.

Sconfitta austriaca sul Mincio

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia del Mincio (1814).

Eugenio avrebbe affrontato l’invasore, impedendogli di procedere. Al minimo Bellegarde sarebbe stato ricacciato nella medesima situazione di stallo nella quale si dibatteva ormai da ottobre. Se le cose fossero andate, poi, estremamente bene, il viceré e l’esercito del Regno Italico avrebbero avuto la loro grande giornata, riducendo in misura massiccia le velleità annessionistiche degli Asburgo.

Il due eserciti si incontrarono alla battaglia del Mincio, l’8 febbraio. Per effettivi i due eserciti, più o meno, si equivalevano, con circa 35'000 uomini a testa. feldmaresciallo aveva riposto molta fiducia nelle indicazioni raccolte dalle sue guide ed avanzò con colonne piuttosto frammentate. Al contrario Eugenio ebbe il vantaggio di concentrare il grosso dell’esercito su una unica linea di attacco, godendo pure dell’effetto sorpresa.

Al termine di una giornata di aspri combattimenti, Eugenio aveva inflitto al nemico perdite talmente ampie, da rifugiarsi dietro l’Adige e rinunciare ad ogni ulteriore offensiva, per i due mesi seguenti.

Il tentativo di fare sopravvivere il Regno d’Italia

La rafforzata posizione del viceré

Eugenio aveva raggiunto gli obiettivi strategici che si era prefisso: allontanando per un pezzo gli Austriaci dalla Lombardia, mentre teneva Venezia, Mantova, Legnago e Peschiera, aveva conservato a Napoleone l’Italia del nord.

Tenendo gli Austriaci inchiodati a Verona, il viceré faceva anche il gioco di Murat, che si guardava bene da condurre azioni seriamente offensive ed aveva solo da guadagnare dalla sopravvivenza di un forte esercito franco-italiano in armi: nell’immediato, perché teneva lontani i "tedeschi" e, in prospettiva, poiché la conservazione del Regno Italico era la miglior garanzia alla sopravvivenza dell’altro napoleonide a Napoli.

Insomma: se Napoleone avesse saputo respingere Blücher e Schwarzenberg, tanto meglio. Ma, anche in caso contrario, gli Austriaci non avrebbero potuto vantare alcun diritto di conquista e i due Regni (Italico e napoletano) conservavano le loro chances di indipendenza.

La convocazione del Senato

Così, in effetti, accadde: Bellegarde aveva subito una tale batosta che non osò più effettuare alcuna puntata offensiva, ma si limitò a seguire i movimenti di Eugenio.

Il 31 marzo 1814 gli austro-prussiani occuparono Parigi, costringendo, il 6 aprile Napoleone alla abdicazione ed alla successiva stipula del stipula del Trattato di Fontainebleau, l’11 aprile.

Al sopraggiungere delle notizie da Parigi, l’11 aprile, Melzi d'Eril scriveva ad Eugenio, incitandolo ad agire e suggerendogli di "procedere per via costituzionale". Il 14 il secondo inviava al primo il proprio segretario particolare, conte Mejan, che lo ricevette il 15. Non si è conservato nulla dei contenuti dei colloqui, ma il 16, alle sette di sera, Melzi scrisse al presidente del Senato conte Veneri, chiedendo la convocazione dell’assemblea per il successivo 17, in Milano, per l’approvazione di un progetto di risoluzione che eleggesse Eugenio sovrano titolare del Regno Italico, in sostituzione dell’abdicante Napoleone.

«le nuove che ci pervengono oggi dalla Francia sono di tale natura che il senato del Regno d’Italia si renderebbe infallibilmente colpevole verso la patria se differisse più lungamente di occuparsi del suo destino … un progetto si risoluzione che sottopongo al vostro patriottismo ed ai vostri lumi.»

La Convenzione di Schiarino-Rizzino

Lo stesso 16 aprile Eugenio guadagnò tempo, stipulando la Convenzione di Schiarino-Rizzino, presso Mantova, con la quale accettava l’inevitabile, ovvero di rimpatriare i reparti francesi, ma conservava le fortezze ed il proprio esercito in armi. In particolare, l’art. 6 della convenzione stabiliva che :”le truppe italiane agli ordini del viceré manterranno il territorio non ancora occupato dagli austriaci”, ovvero l’intera Lombardia.

Ciò comportava alcune gravi rinunce, a cominciare dalla consegna di Venezia, ceduta il 20 aprile dal francese generale Seras: la guarnigione, tuttavia, era composta, in gran parte, da militari francesi, per i quali si attendeva, da un giorno all’altro, l’arrivo di un ordine di rimpatrio (giunto, infatti, il 25) e la popolazione (che nel 1849 avrebbe resistito ad un anno di assedio) non mostrava segni di resistenza maggiori di quanto fosse avvenuto nel 1797: tanto valeva anticipare i tempi ed giocare la città al tavolo della pace. Solo il successivo svolgersi degli eventi ha impedito di considerare questo evento quale quello che era, ovvero una nuova Campoformio.

Il 17 aprile Eugenio indirizzò un proclama alle truppe francesi in partenza, pieno di speranze:

«altri doveri mi rimangono da compiere. Un popolo buono, generoso e fedele reclama il resto di un’esistenza che gli è consacrata già da quasi dieci anni. Io non pretendo più di disporre di me stesso infino a tanto che potrò occuparmi della sua felicità che è stata e sarà l’opera di tutta la mia vita»

Il 19 aprile il generale Teodoro Lechi stilò un proclama alla Guardia del Regno Italico, sotto il suo comando, favorevole al tentativo di Eugenio.

Indizio di screzi fra Melzi d'Eril ed il viceré

Una questione tutta particolare riguarda l’eventualità che il Melzi abbia agito di propria iniziativa. Tale eventualità si basa unicamente su una lettera del 20 aprile che il Mejan. scrisse a Gian Giacomo Trivulzio, ove, riferendosi al menzionato incontro del 15, il segretario di Eugenio definiva il duca di Lodi il più falso e il più spregevole degli uomini.

Ancor oggi appare impossibile dipanare la matassa, in quanto gli archivi del Melzi vennero sigillati dal governatore austriaco di Milano, conte Saurau, il 16 gennaio 1816, giorno della sua morte e sequestrati sette giorni dopo, mentre sulle carte di Eugenio non risultano adeguati studi.

Tuttavia, è difficile immaginare che i due protagonisti abbiano agito in disaccordo, data la contemporaneità della convocazione del Senato e della firma della Convenzione. L’una regge e spiega l’altra. E non si capisce quali altri vantaggi avrebbe mai potuto desiderare Eugenio, diversi dalla conservazione del trono.

La situazione politica a Milano

I piani del Melzi d'Eril dovevano, a questo punto, confrontarsi unicamente con i patrizi, soprattutto milanesi, che componevano il Senato (in numero di appena 41 senatori). Il duca di Lodi contava, sicuramente, su un minimo patriottismo o perlomeno, su un minimo di amor proprio. Le opinioni degli ottimati, tuttavia, erano profondamente divise.

Il partito degli ‘Italici puri’ ed il partito ‘murattiano’

Numerosi erano i cosiddetti italici puri, motivati da un sentimento anti-francese, che li spingeva a sostenere la velleitaria speranza di ‘fare da sé’. Essi contavano sull’improbabile appoggio inglese e sulle generiche promesse dei generali austriaci, i quali avevano pubblicato proclami che promettevano all’Italia il restauro delle libertà. Uno degli argomenti più in voga insisteva sulla concreta speranza di avere come sovrano indipendente un Asburgo, come era accaduto al Granducato di Toscana (si diceva che il regno guidato da Eugenio sarebbe stato più vicino all’Austria di quello guidato da un austriaco).

Un atteggiamento simile aveva assunto il partito murattiano, che, rispetto agli italici puri, aveva, almeno, il vantaggio di fare un nome per l’ipotetico successore di Eugenio.

Si trattava, in effetti, di posizioni interamente velleitarie: (i) la Gran Bretagna giudicava proprio interesse il consolidamento dell’alleanza anti-napoleonica e, alla luce della successiva campagna dei cento giorni, non è impossibile darle torto, (ii) gli Asburgo avevano accettato la soluzione dinastica per il Granducato di Toscana solo in quanto privi di alternative, ma è certo che, in favorevoli circostanze, avrebbero sempre preferito l’annessione diretta, (iii) ancor minori erano le chance che alcuno concedesse al re Gioacchino di aggiungere al re di Napoli pure il ricco Regno Italico, (iv) la generica propaganda che si accompagnava alla invasione austriaca non impegnava per nulla quella potenza, in assenza di impegni formali o, comunque, contro-garantiti.

In definitiva, il vacuum creato da un brusco abbattimento della presenza napoleonica rischiava, inevitabilmente, di essere colmato dalla più vicina potenza vittoriosa, l’Impero Austriaco, oltre tutto in armi e decisa a rivendicare i propri precedenti diritti su Milano e proprio Eugenio, ormai orfano del patrigno, rappresentava la miglior garanzia di indipendenza nazionale.

Il partito austriacante

In un simile quadro, solo due erano le posizioni realistiche: anzitutto quella del partito austriacante, che auspicava, semplicemente, il ripristino dell’antico regime ed era, ovviamente, sostenuto da parte della nobiltà e dall’alto clero. Per il successo delle proprie ambizioni esso poteva contare sull’esercito del, pur sconfitto, Bellegarde e sulla ferma volontà dell’Imperatore austriaco di non permettere la sopravvivenza di un Regno che era creazione politica nata dalla rivoluzione, su territori che le erano stati strappati. Il partito austriacante raccoglieva intorno ad tal avvocato Traversa, un personaggio presto dimenticato, sul quale non si è mai sufficientemente indagato.

Il ‘partito francese’

La seconda posizione realistica sulla piazza era rappresentata dal partito francese, raccolto intorno al Melzi d'Eril ed al ministro delle finanze Prina (ma godeva dell'appoggio dell'esercito e, per esempio, di Ugo Foscolo). Esso non poteva, certo, essere sicuro delle future intenzioni degli alleati, ma poteva contare sul vittorioso esercito di Mantova e sulla Convenzione con la quale Bellegarde si era impegnato a non passare in Lombardia. Eugenio, inoltre, godeva della stima dello zar di Russia e poteva garantire un governo conservatore gradito anche a Londra, tale da un poco contenere eventuali rimostranze viennesi circa la sopravvivenza di un governo ‘rivoluzionario’.

Non che i suoi esponenti si facessero soverchie illusioni, ma comprendevano la situazione. Nella lettera dell’11 aprile ad Eugenio, Melzi d'Eril scriveva che:

«Si potrebbe forse obiettare che qualsiasi misura presa da noi sarebbe, forse, senza frutto per la non adesione delle potenze coalizzate; ma supponendo anche che questo fosse possibile, noi non avremmo almeno perso niente, si sarebbe fatto quello che l’onore richiede e si sarebbe tentato tutto il possibile per dare alla nazione uno slancio il quale ben diretto potrebbe assumere una importanza reale.»

La vittoria del partito austriacante

La cattiva preparazione del tentativo del Melzi d’Eril

In quell’aprile 1814 era difficile individuare quale forza fosse prevalente, ma era risaputo che a Milano gli animi sono molto agitati … In generale il partito francese vi è molto debole, come il sempre ben informato e realista Napoleone scriveva alla consorte del viceré, già il 4 febbraio.

Tuttavia, non è possibile negare la forza della proposta di Eugenio, basata su due innegabili elementi: (i) il suo realismo, il suo essere l’unica reale alternativa alla annessione all’Impero Austriaco, (ii) il controllo degli apparati dello stato e delle forza armate e di polizia.

Sarebbe stato necessario che il Melzi d'Eril convincesse un sufficiente numero di ottimati meneghini, dissuadendoli dallo sperare in una speciale benevolenza da parte dell’Asburgo. Sarebbe stato indispensabile che Eugenio esercitasse un diretto controllo sulle truppe e la Guardia Civica schierate a Milano.

Entrambe fallirono: la piazza di Milano restò affidata al generale Pino, notorio esponente del ‘partito murattiano’ (ed erano passati ben due mesi dal tradimento del re di Napoli). Melzi d'Eril, addirittura, non si presentò alla seduta del Senato, causa un attacco di gotta. Si trattò di due ingenuità imperdonabili.

La prima riunione del Senato

Al Senato ciò che poteva andar male, andò peggio: la meglio nobiltà milanese (Carlo Verri, il Confalonieri, il generale Pino, il podestà di Milano Durini, Alessandro Manzoni, il Porro Lambertenghi, fra gli altri) firmò un appello che contestava la legittimità della convocazione del Senato e chiedeva la convocazione dei Collegi Elettorali, una assai più larga assemblea. Il che, nelle circostanze date, equivaleva a discutere del sesso degli angeli dal momento che ciò che avrebbe richiesto alcune settimane.

All’apertura del Senato, il 17 aprile, il presidente conte Venieri diede lettura del decreto del Melzi d'Eril. Molti senatori dichiararono di non saperne nulla. La maggioranza si decise per una inutile soluzione di compromesso: una prima delegazione venne inviata presso gli alleati vittoriosi a Parigi, mentre una seconda, guidata dal Verri, si recò immanente dal Melzi a firmare la domanda di convocazione dei Collegi Elettorali: il duca di Lodi ribatté ricordando i poteri che il legittimo sovrano in carica, Napoleone, gli aveva affidati in casi eccezionali ed in assenza del viceré. Ma è difficile immaginare che Verri ed i suoi sodali non contassero sull’inevitabile rifiuto.

La seconda riunione del Senato

La seduta del 17 era stata aggiornata alla mattina del successivo giorno 20. Mentre vi giungevano i Senatori, si radunava una turba, ove spiccavano "diversi uomini di truce aspetto", che poi si seppe essere teppaglia ingaggiata nelle campagne di alcuni ottimati dei partiti avversi ad Eugenio. Per la diffusa vergogna ed omertà che seguì queste giornate, mai si seppe se i mandanti fossero del partito ‘austriacante’, del ‘murattiano’ o degli ‘italici puri’, o di tutti un po'.

Dopo poco, il picchetto dei soldati di guardia venne sostituito dalla guardia civica. Pare che l’ordine fosse trasmesso direttamente dal comandante della piccola colonna della guardia civica, un tal Capitano Marini, Chi abbia mandato tale ordine rimane il secondo mistero della giornata. Il maggiore sospettato rimane il Pino, probabilmente per favorire il successivo assalto al palazzo, ma il picchetto era di soli dieci soldati e non si è in possesso di alcuna conferma.

Facile capitolazione dei Senatori ed assalto della folla

A questo punto entrò in gioco il principale sospettato: Federico Confalonieri, il quale, pur essendo senatore, si mischiò alla folla e prese ad aizzarla. La folla ruppe i cordoni, invase il cortile interno e montò il grande scalone che portava all’aula in seduta. Ne uscì Carlo Verri che ne trattenne l’impeto con l’invito a formulare le loro richieste. Presa la parola il Confalonieri, che pretendeva che il Senato richiamasse la delegazione inviata a Parigi, e convocasse i Collegi Elettorali. Una simile decisione venne sollecitata da due ufficiali della Guardia Civica lì presenti: un capo di battaglione Pietro Ballarbio ed un capitano Benigno Bossi. Cosa che gli ottimati si affrettarono ad approvare, nella forma di ordine del giorno, che recitava: il senato richiama la deputazione e riunisce i collegi.

Di fronte ad una tale manifestazione di pusillanimità, la folla, ormai eccitata, si ingrossò sullo scalone ed irruppe nell’aula, mentre i senatori fuggivano da una porta secondaria. Essa venne devastata. Mentre il Confalonieri si divertiva a sfregiare un ritratto di Napoleone, opera dell’Appiani, per poi gettarlo da una finestra.

Confalonieri era uno dei grandi magnati lombardi, di nobile ed antica casata, potente sotto gli Asburgo e sotto Napoleone. Egli passò i successivi anni a sostenere la propria innocenza: già nel 1815 pubblicava il pamphlet ‘Lettera ad un amico’, in risposta al precedente pamphlet del senatore Armaroli che lo accusava esplicitamente. Per esempio lo Hobhouse (che, nel 1816 trascorse ventitré giorni a Milano con Lord Byron), riferì di essere stato convocato dal Confalonieri: questi gli negò ogni coinvolgimento, disse di essere stato usato da Verri come uno scudo e che, ad ogni buon conto, la convocazione dei Collegi Elettorali era la unica cosa da fare. Affermazione vaga, a proposito della quale è ben difficile dargli ragione.

Protezione del Melzi d’Eril e condanna del Prina

Ad ogni buon conto, la situazione, a questo punto, precipitò: Verri si recò dal Melzi d'Eril per invitarlo a lasciare Milano. Mentre il generale Pino emetteva un proclama, ove affermava che il decreto proposto al Senato il 17 era opera di tutt’altre persone, e neppure firmate da Melzi ma da un amanuense, mentre egli non era in stato di scrivere né di sperare cosa alcuna. L’ultima frase sembra tradire la grande soddisfazione che il generale dovette provare nel vedere il duca di Lodi, alfine, impotente.

Il Melzi rifiutò di lasciare Milano, pur accettando di far circondare la casa da un drappello di guardie civiche e pretese che il Verri recasse un biglietto al Prina invitandolo a mettersi in salvo. Verri accettò, ma perse tempo, e fece in modo di giungere troppo tardi. La folla che aveva invaso il Senato, infatti, era passata a San Fedele ove aveva massacrato il ministro Prina, che aveva sostenuto sino all’ultimo il tentativo del Melzi d'Eril.

La Reggenza Provvisoria

Lo stesso giorno 20 erano riuniti i Collegi Elettorali, ma alla presenza di appena 170 elettori su 700: i soli milanesi, oltre a pochi altri di passaggio. Essa, sia pur riunita ben al di sotto del numero legale, votò la costituzione di una Reggenza Provvisoria, nominò Pino comandante in capo delle forze armate e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà a Napoleone. Si aggiunsero alcuni provvedimenti particolarmente favorevoli alla causa del ‘partito austriacante’: il ripudio della delegazione inviata a Parigi (la quale poteva ancora risentire dell’influenza del Melzi), la liberazione dei detenuti politici (comunque ostili al ‘partito francese’), la amnistia per i disertori (ciò che incentivava ulteriori diserzioni dai reparti concentrati a Mantova), la cessazione del Senato (ciò che cancellava l’unica istituzione legale riunita in seduta semi-permanente).

Il 21 aprile, infine, il Consiglio Comunale di Milano (non si capisce in base a quali poteri o rappresentatività), provvide a nominare il Comitato di Reggenza Provvisoria, composta da sette membri: il fior fiore dei cospiratori. Come primo atto il Comitato mandò delegati al Bellegarde perché mandasse truppe ad occupare la città.

L’inizio dell’occupazione austriaca

Il secondo armistizio

Il progetto di Eugenio era compromesso. L’indipendenza del Regno Italico finita: il 21 aprile 1814 il viceré scriveva al fido Melzi d'Eril:

«non posso credere, non credo, che l’odio verso i francesi sia la vera causa dei disordini e delle sciagure che hanno avuto luogo. Io non ho con me che pochissimi francesi e tutti sono dei galantuomini veramente affezionati all’Italia … Io non ho più ordini da dare.»

Il 23 aprile firmò a Mantova una nuova convenzione armistiziale nella quale poneva il proprio esercito agli ordini del Bellegarde. Con 45.000 uomini in armi e senza essere stato sconfitto dagli Austriaci. Il 27 aprile lasciò Mantova per Monaco di Baviera.

Bellegarde prese, quindi, possesso dell’esercito del Regno Italico, che lo aveva sconfitto.

Lo stato d’animo dell’esercito italiano

Per dare un’idea della situazione, vale la pena ricordare che tutti i generali ed ufficiali superiori erano dalla parte del viceré. Il 25 (ricordò il generale Teodoro Lechi) essi tentarono un pronunciamento militare: chiesero ad Eugenio di non cedere le fortezze di Mantova e Peschiera senza condizioni. Il Viceré rispose:

«Il principe ci rispose che se l’esercito italiano lo voleva per suo generale in capo egli avrebbe giurato con esso di farsi seppellire sotto le rovine di Mantova, ma che ci faceva riflettere che esisteva a Milano un governo formato da una reggenza ed un generale in capo nel generale Pino da essa nominato che il primo dovere di un sodato è l’obbedienza e che si avrebbe invece cominciato una ribellione.»

Tale stato d’animo generale venne confermato, alcuni giorni più tardi, dallo stesso Bellegarde, il quale descrisse l’esercito ostinato nei suoi propositi, mal contento, disperato … quei soldati erano stati condotti alla vittoria e, allo stesso tempo, alla demoralizzazione.

Il 25-26 partirono, da Mantova per Milano, in delegazione i generali Lechi, Palombini e Paolucci, a riferire che l’esercito era in condizione di resistere per più di un anno … animato dal miglior spirito per la nazionalità ed indipendenza. Pino rispose con lusinghe, anzi certezze, di indipendenza del regno con un buon principe di casa d’Austria, di floridezza e di felicità avvenire ecc.

Il secondo armistizio

Il 26 aprile 1814 lo sconfitto generale austriaco Sommariva, nelle vesti di commissario austriaco, prese possesso della Lombardia a nome del Bellegarde. Il 28 aprile 17'000 austriaci entrarono in Milano da Porta Romana, al comando del generale Neipperg: essi vennero accolti da tre reggimenti a cavallo dei cacciatori del Regno Italico, comandati dal Pino, che gli resero, ossequienti, gli onori militari. L’8 maggio, infine, giunse il Bellegarde, generale sconfitto in battaglia ma politico abile nei maneggi e nelle promesse vane: nei giorni precedenti, a Mantova, lo incontrò spesso il Teodoro Lechi che,a distanza di anni,loricordava pieno di furberia dissimulazione e doppiezza qualificandolo di vecchio diplomatico.

La consegna dell’esercito

Il 25 maggio 1814, Bellegarde sciolse la Reggenza Provvisoria e la sostituì con una Reggenza Provvisoria di Governo, il 12 giugno divenne governatore generale. Il 13 giugno impartì all’esercito il divieto di indossare coccarde tricolori. I rimanenti ufficiali francesi venivano senz’altro licenziati in massa e sostituiti da Austriaci.

A dicembre i reparti cominciarono ad essere trasferiti verso nuove guarnigioni al di là delle Alpi, sparse per lo sterminato Impero.

Il 30 marzo 1815 Bellegarde impose agli ufficiali dell’esercito del Regno d'Italia di giurare fedeltà all'Austria. Ciò che spinse, la notte del 31 marzo il Foscolo a fuggire in Svizzera e, di lì, a Londra.

Lechi riferisce che i soldati della Guardia Reale, al suo comando, prestarono giuramento "di non servire mai che la loro patria e di essere sempre pronti a riprendere le armi per la sua indipendenza". Riferisce, inoltre, come due battaglioni dei granatieri, giunti a Milano ed in procinto di sciogliersi, bruciassero i propri stendardi, li distribuirono nella zuppa e le ingoiarono "sembrandogli così di aver mantenuto il giuramento fatto... di non abbandonarle giammai", ed affidarono le aquile al Lechi medesimo. Con certezza egli le consegnò, nel 1848, a Carlo Alberto.

Nel frattempo, Pino, veniva ricompensato da Vienna con la nomina a tenente feldmaresciallo (maresciallo di campo), fuori servizio ma con i relativi emolumenti e si ritirava nella sua villa di Cernobbio.

Il dibattito degli anni successivi

La interpretazione auto-giustificativa del Confalonieri

Negli anni immediatamente successivi, quando le illusioni del ‘partito austriaco’ si infransero di fronte alla politica strettamente assolutistica e centralizzatrice dei nuovi signori austriaci e, dunque, gli avvenimenti del 17-28 aprile 1814 presero ad essere considerati quali il disastro nazionale che erano, i memorialisti e polemisti lombardi presero a dividersi circa quali circostanze avessero determinato il tracollo.

I due fronti possono essere identificati: (i) nel Federico Confalonieri, il quale datava il tradimento alla seconda convenzione armistiziale del 23 aprile e, quindi, ne attribuiva la responsabilità ad Eugenio, e (ii) nel Carlo Cattaneo, il quale, scrivendo due decenni più tardi, datava il tradimento alle due sedute del Senato del 17-20 aprile ed alla petizione del 19 aprile e, quindi, ne attribuiva la responsabilità agli ottimati.

Federico Confalonieri sembra dimenticare che, già il 21 aprile, il neonato Comitato di Reggenza Provvisoria, aveva inviato delegati al Bellegarde invitandolo ad occupare la città. Ciò che rendeva la Convenzione di Schiarino-Rizzino carta straccia.

Nel firmare la seconda convenzione, Eugenio non faceva altro che eseguire la volontà della autorità che gli era succeduta e che era espressione diretta del patriziato milanese. Agire altrimenti avrebbe significato condurre una doppia battaglia, contro gli invasori del Bellegarde e contro le (poche) truppe milanesi del Pino.

La interpretazione del Cattaneo

Cattaneo attribuiva ogni responsabilità ad

«una fazione retrograda, sopravvissuta a tutte le glorie di Napoleone la quale nel 1814 aveva demolita con giubilo quella nuova istituzione del regno d’Italia, il quale non era agli intelletti loro che un edificio di ribellione e di empietà… vedendo i loro battaglioni invadere le sue città, plaudiva dicendo: ecco i nostri soldati; essi ci salveranno dalla rivoluzione, vi sperò perfino uno strumento di dominio

Difficile dargli torto, dal momento che doveva apparire evidente a chiunque come, nelle circostanze date, la partenza di Eugenio avrebbe abbandonato il Regno Italico alla mercé di tutte le sorti possibili e farci trattare come un gregge di pecore dalla diplomazia straniera: non si capisce come mai un regno che basava le proprie chance di sopravvivenza esclusivamente sulla forza dell’esercito, avrebbe mai potuto sopravvivere alla mala cacciata del suo comandante militare. Senza contare che era pure legittimo capo di stato in carica e l'unico (eventualmente) titolato alla successione al monarca regnante.

La reazione del Melzi d’Eril

Lo stesso Confalonieri, appena un mese dopo il tradimento, mentre guidava una sfortunata delegazione milanese inviata a Parigi ad implorare l’indipendenza alle potenze alleate, scrisse una nota lettera alla moglie Teresa, con parole che costituiscono l’ammissione della propria insipienza:

«per arringar la causa di una nazione vogliosi baionette, non delegazioni»

Poi passò i successivi quattro anni a difendersi dalle accuse di aver organizzato l’assalto al Senato ed il massacro del Prina, il fatidico 20 aprile. Ad esempio, il 28 marzo 1815 scrisse una lettera al Melzi, protestando la propria innocenza. Questi gli rispose:

«le ire non s’infiammano senza grave danno della pubblica e privata causa. La discordia non è conciliabile con nessuna speranza di bene. Non si deve usurpare il dominio del tempo, perché non è mai senza compromettere l’avvenire.»

Difficile non vedere dove stesse la ragione.

Bibliografia

  • Emmanuel de Las Cases, Memoriale di Sant'Elena, BUR Rizzoli
  • Raffaele Ciampini, Napoleone Buonaparte, Utet, 1941
  • Nino del Bianco, Francesco Melzi D’Eril - la grande occasione perduta, Il Corbaccio, 2002
  • Piero Pieri, Storia militare del risorgimento, 1962, Einaudi, Torino