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Sultanato di Kilwa
Sultanato di Kilwa – Bandiera
Dati amministrativi
Lingue parlatearabo (testi religiosi), persiano, swahili (de facto)
CapitaleKilwa Kisiwani
Politica
Forma di governosultanato
Nascita957 con Ali ibn al-Hassan Shirazi
Causaacquisto dell'isola di Kilwa Kisiwani da parte di Ali ibn al-Hassan Shirazi
Fine1513 con Micante
Causaoccupazione portoghese, protettorato omanita
Territorio e popolazione
Bacino geograficocosta swahili
Economia
Risorsecocco
ProduzioniDau, fibra coir
Commerci conpopolazioni bantu, Arabia, India, Persia
Esportazionioro, avorio
Importazionibeni manufattorieri, miglio, riso, bestiame, pollame
Religione e società
Religione di StatoIslam
Territori controllati dal sultanato al 1310
Evoluzione storica
Preceduto daCultura swahili
Succeduto da Africa Orientale Portoghese
 Impero omanita
Ora parte diBandiera del Mozambico Mozambico
Bandiera del Kenya Kenya
Bandiera della Tanzania Tanzania

Il sultanato di Kilwa (in persiano پادشاهی کیلوا‎) è stato un sultanato dell'Africa orientale esistito dal 957 al 1513, che arrivò al suo apice a controllare l'interità della costa swahili.[1]

Con capitale a Kilwa Kisiwani, la leggenda narra che il sultanato fu fondato da Ali ibn al-Hassan Shirazi, principe persiano dello Shiraz,[2] la cui famiglia governò il Paese fino al 1277.[3] Al trono succedette la dinastia araba di Abu Moaheb, che durò fino al 1505, quando furono deposti dagli invasori portoghesi.[4] Nel 1513 il sultanato fu frammentato in piccoli stati, molti dei quali divennero protettorati sotto l'impero omanita agli inizi del XVIII secolo.[5]

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Origini[modifica | modifica wikitesto]

La fondazione del sultanato di Kilwa risale al 957, anno in cui l'isola venne acquistata dal principe shirazi Ali ibn al-Hassan Shirazi, uno dei sette figli di un sovrano di Shiraz, in Persia, mentre sua madre era una schiava abissina. Alla morte del padre, Ali fu escluso dall'eredità per mano dei fratelli. Salpò da Hormuz con la sua famiglia e un piccolo gruppo di seguaci verso Mogadiscio, la principale città commerciale della costa dell'Africa orientale. Tuttavia, Ali non fu visto di buon occhio dall'élite somala, e venne espulso anche da questa città.

Si diresse verso la costa africana, dove si crede abbia acquistato l'isola di Kilwa dai bantu locali. Secondo una cronaca,[6] l'isola era posseduta dal re bantu Almuli, collegata con un piccolo ponte di terra alla terraferma che emergeva con la bassa marea. Il re accettò di vendere l'isola ad Ali in cambio di una quantità di stoffa colorata che ricopriva la circonferenza dell'isola. Ma quando il re cambiò idea cercando di riprendersi l'isola, i persiani distrussero il ponte di terra, scollegando l'isola dalla terraferma.[7] Questa cronaca ci permette di legittimare la dinastia con i suoi legami con l'Islam. Secondo Mark Horton e John Middleton, «la discendenza da una nobile famiglia islamica e da una schiava abissina (etiope) "spiega" perché i governanti erano entrambi neri e di discendenza reale musulmana; la donazione di stoffa al sovrano lo rendeva "civilizzato", e sua figlia divenne sposabile».[8] Ali regnò per due anni, quando gli succedette al trono il figlio Muhammad ibn Ali, il cui regno durò per quarant'anni.[7]

Il successo commerciale[modifica | modifica wikitesto]

La posizione strategica dell'isola la rese un il centro commerciale migliore dell'Africa orientale, superando Mogadiscio. Iniziò rapidamente ad attrarre molti mercanti e immigrati dall'estremo nord, tra cui la Persia e l'Arabia. In pochi anni, la città divenne abbastanza grande da poter stabilire un insediamento satellite nella vicina isola di Mafia. La rivalità con Mogadiscio ebbe il suo apice quando Suleiman Hassan, nono successore di Ali e dodicesimo sultano di Kilwa (c. 1178–1195), strappò il controllo della città di Sofala ai mogadisciani. Sofala era il principale centro del commercio di oro e avorio con il Grande Zimbabwe e Monomatapa: la sua acquisizione portò grandi quantità di oro ai sultani del Kilwa, che permisero il finanziamento della loro espansione e dell'estensione del loro potere lungo l'interità della costa swahili. Il commercio con l'entroterra permise la diffusione dell'Islam e della lingua swahili nell'Africa orientale.[9]

All'apice del suo potere nel XV secolo, il sultanato possedeva o rivendicava le città continentali di Malindi, Inhambane e Sofala, sulle isole-stato di Mombasa, Pemba, Zanzibar, Mafia, Comore e Mozambico (oltre a numerose località minori). Kilwa rivendicò anche piccole stazioni commerciali sparse sulla costa del Madagascar, oltre al predominio sul canale del Mozambico. A nord, il potere del sultanato era controllato dalle città-stato somale indipendenti di Barawa (una repubblica aristocratica autogovernata) e Mogadiscio (la città un tempo dominante, la principale rivale di Kilwa). A sud, il raggio d'azione di Kilwa si estendeva fino a Capo Correntes, al di sotto del quale le navi mercantili non erano solite transitare.[10]

Al vertice della gerarchia si trovava il Sultano di Kilwa: tuttavia, lo Stato non era centralizzato, ma più una confederazione di città commerciali. Ciascuna di esse possedeva la propria élite, comunità mercantili e collegamenti commerciali. Il Sultano aveva il potere di nominare un governatore, ma anche la sua autorità non era coerente: in alcuni luoghi del sultanato (come ad esempio gli avamposti nell'Isola di Mozambico) egli governava in nome del Sultano, mentre in città più consolidate come Sofala i suoi poteri erano molto limitati, più simili a quelli di un ambasciatore che di un governatore.

Società ed economia[modifica | modifica wikitesto]

Nonostante la sua origine come colonia persiana, i numerosi matrimoni misti, la conversione degli abitanti bantu locali e la successiva immigrazione araba trasformarono il sultanato di Kilwa in un vero e proprio melting pot, etnicamente indistinguibile dalla terraferma. Acuni studi sul DNA antico hanno confermato che gli antenati asiatici nel periodo medievale provenivano originariamente dall'Iran, e che iniziarono a mescolarsi con gli antenati africani almeno 1 000 anni fa.[11][12]

Alla mescolanza delle culture perso-araba e bantu viene attribuito il merito di aver creato una cultura e una lingua distintive dell'Africa orientale, conosciute oggi come «swahili» (dall'arabo sawāḥili, pl. di «costa»[13]).[14] Nonostante ciò, le persone di credo musulmano, indipendente dalla loro etnia, si riferivano a sé stessi come «shirazi» o «arabi», e denominavano i popoli bantu non convertiti del continente «zanj» o «kāfir» (lett. "infedele").

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Zanzibar, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 4 febbraio 2023.
    «Tra le varie signorie da essi fondate, emerse il sultanato di Kilwa, che abbracciava, oltre la zona costiera, l’isola vera e propria […]»
  2. ^ (EN) James Hastings, Encyclopedia of Religion and Ethics Part 24, Kessinger Publishing, 24 gennaio 2003, ISBN 978-0766137042.
  3. ^ Kilwa, in Sapere.it, De Agostini. URL consultato il 4 febbraio 2023.
  4. ^ Andrea Michelotti, Antiche monete africane potrebbero riscrivere la storia d’Australia, su portaleaustralia.com. URL consultato il 4 febbraio 2023.
  5. ^ Nello Giuliano, Kilwa, la città africana che un tempo controllava il commercio dell’oro, su focustech.it, 9 settembre 2020. URL consultato il 4 febbraio 2023.
  6. ^ Strong, 1895
  7. ^ a b Strong, 1895, p. 388
  8. ^ (EN) Mark Horton e John Middleton, The Swahili: The Social Landscape of a Mercantile Society, Wiley-Blackwell, marzo 2001.
  9. ^ (FR) Abdul Sheriff, Les navigations et échanges dans l'aire swahilie, collana Aventuriers des mers, Museo delle civiltà dell'Europa e del Mediterraneo, Istituto del mondo arabo e Éditions Hazan, ISBN 978-2754109611.
  10. ^ Shillington, 1995, p. 128
  11. ^ (EN) Esther S. Brielle, Jeffrey Fleisher, Stephanie Wynne-Jones, Kendra Sirak, Nasreen Broomandkhoshbacht, Kim Callan, Elizabeth Curtis, Lora Iliev, Ann Marie Lawson, Jonas Oppenheimer, Lijun Qiu, Kristin Stewardson, J. Noah Workman, Fatma Zalzala, George Ayodo, Agness O. Gidna, Angela Kabiru, Amandus Kwekason, Audax Z. P. Mabulla, Fredrick K. Manthi, Emmanuel Ndiema, Christine Ogola, Elizabeth Sawchuk, Lihadh Al-Gazali, Bassam R. Ali, Salma Ben-Salem, Thierry Letellier, Denis Pierron, Chantal Radimilahy, Jean-Aimé Rakotoarisoa, Ryan L. Raaum, Brendan J. Culleton, Swapan Mallick, Nadin Rohland, Nick Patterson, Mohammed Ali Mwenje, Khalfan Bini Ahmed, Mohamed Mchulla Mohamed, Sloan R. Williams, Janet Monge, Sibel Kusimba, Mary E. Prendergast, David Reich, Chapurukha M. Kusimba, Entwined African and Asian genetic roots of medieval peoples of the Swahili coast, in Nature, vol. 615, n. 7954, marzo 2023, pp. 866-873, DOI:10.1038/s41586-023-05754-w, PMID 36991187.
  12. ^ (EN) Chapurukha Kusimba e David Reich, Ancient DNA is restoring the origin story of the Swahili people of the East African coast, su theconversation.com, 29 marzo 2023. URL consultato il 5 novembre 2023.
  13. ^ Swahili, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 5 novembre 2023.
  14. ^ (EN) Mark Horton e John Middleton, The Swahili: the social landscape of a mercantile society, Wiley-Blackwell, 2001, ISBN 978-06-31189-19-0.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]