Chiese scomparse di Forlì

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Le chiese scomparse di Forlì sono luoghi di culto cattolici che sorgevano in passato nella città.

Chiesa di San Pietro in Scotto[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa sorgeva presso l'incrocio degli attuali Corso Giuseppe Mazzini e Via Achille Cantoni.

La sua origine risale all'alto medio evo, ma non si sa con esattezza quando sia stata fondata; alcune fonti ne attribuiscono la nascita o quanto meno la denominazione "in Scotto" ad alcuni monaci scozzesi, o irlandesi (all'epoca si parlava anche di Scoti d'Irlanda). In ogni caso, la chiesa era un luogo di sosta per Scozzesi ed Irlandesi in pellegrinaggio verso Roma.

Già nel XIII secolo la sua fama era tale che l'asse viario più importante di quel quadrante cittadino era chiamato "Borgo San Pietro", così come il vicino ponte di epoca romana era detto Ponte di San Pietro in Scotto. Il quartiere stesso nonché la porta urbana corrispondente avevano uguale nome. Ancora oggi, quando il borgo si chiama ufficialmente "Via Giuseppe Mazzini", l'appellativo di "Borgo san Pietro" rimane in uso, benché la chiesa non sussista più[1].

Tra i più antichi documenti che ricordano la chiesa di San Pietro possiamo citare: un atto del notaio Gundio, dell'anno 893, contenuto nel cosiddetto Libro Biscia dell'Abbazia di San Mercuriale, una raccolta di documenti che copre un ampio periodo storico, nel quale atto compare un Teodorico, curato della basilica di San Pietro in Scottis; una conferma di donazione da parte di Alessandro, vescovo di Forlì, del 21 ottobre 1170, dove troviamo nominata la chiesa di Sanctus Petrus in Scottis.

Siccome, in un documento del 1360, tra i contribuenti dell'Abbazia di San Mercuriale troviamo elencato anche l'Ospedale di San Pietro, capiamo che nei pressi della chiesa vi era appunto anche un ospedale.

Il vescovo Giacomo Paladini soppresse la parrocchia il 4 aprile 1464, attribuendone il territorio a quella della cattedrale di Santa Croce. La chiesa rimase in qualità di oratorio e fu poi scelta come sede di una congregazione, prima detta dei Confratelli di Santa Maria, poi dei Santi Pietro e Paolo.

Le vicende storiche comportarono vari interventi sul piano edilizio ed artistico, così che andarono variando, nel tempo, le caratteristiche della chiesa. Le manomissioni più gravi, però, avvennero a seguito dell'invasione francese all'epoca di Napoleone Bonaparte: fu abolita la funzione cultuale, ed i locali vennero adibiti ad altre attività: magazzino e poi conceria. Dell'antica chiesa rimase solo il ricordo.

Chiesa di Santa Maria in Piazza[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa sorgeva nell'area dove oggi si trova la sede della Banca Nazionale del Lavoro. La chiesa è già citata come parrocchiale in un documento del 1231, ma esisteva certamente ancora prima ed è nominata, infatti, anche agli inizi del secolo, nel 1209, come attesta un altro documento presente nell'archivio vallombrosano.

Il vescovo di Forlì Giovanni Capparelli decretò la confluenza, nell'ottobre del 1433, della parrocchia di Santa Maria in Piazza in quella di San Tommaso Apostolo. La sede, però, rimaneva nella chiesa di Santa Maria: parrocchia di San Tommaso Apostolo in Santa Maria in Piazza.

Nel 1765 la chiesa era ancora di notevole importanza, dato che vi si trovavano ben cinque altari e che ospitava l'arca degli eredi del celebre Giovanni Battista Morgagni, qui voluta dal figlio gesuita Agostino Morgagni. Il campanile, inoltre, disponeva di due campane.

Durante il dominio napoleonico, in particolare fra il luglio e l'agosto del 1806, la chiesa venne sconsacrata e diventò un magazzino. Il territorio parrocchiale fu smembrato ed assegnato alla Cattedrale ed alla chiesa abbaziale di San Mercuriale: Parrocchia di San Tommaso Apostolo detta di Santa Maria in Piazza in San Mercuriale, ovvero Chiesa primiceriale di San Tommaso Apostolo in San Mercuriale. Poi, per semplificazione, con l'unità d'Italia, rimase solo il nome di Parrocchia di San Mercuriale.

Chiesa di San Guglielmo, poi di San Crispino[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa è citata come esistente già nel 1170, nell'atto di donazione da parte del vescovo Alessandro all'abate Enrico di San Mercuriale.

Si trovava nei pressi dell'attuale Palazzo comunale, attigua alla piazzetta San Crispino, alla quale appunto ha dato il nome. Nel 1466 è citata come chiesa parrocchiale. Tuttavia, i suoi beni confluirono nel bilancio per la costruzione della Cattedrale.

Con l'invasione napoleonica la chiesa fu sconsacrata ed i locali venduti a un tal Giuseppe Aguccioni che ne fece la propria abitazione e la sede della sua bottega di calzolaio. Poi appartennero alla famiglia Rinaldi ed infine furono adibiti ad abitazione del custode del palazzo comunale.

In seguito vi sorse l'Albergo del Commercio.

Chiesa di san Bernardo, poi Chiesa di sant'Antonio dei Battuti Turchini[modifica | modifica wikitesto]

Sorgeva non lontano dalla Chiesa della Santissima Trinità, vicino al palazzo Manzoni.

Lattanzio Biondini, nel suo Compendio dello Stato et governo Civile della città di Forlì del 1577 riferisce che la chiesa, col titolo di San Bernardo, era inizialmente priorato degli Umiliati, in particolare del terzo ordine. Poi appartenne ai Battuti Turchini.

Nel 1578 i Battuti Turchini cedettero la chiesa ai Gesuiti.

La dominazione napoleonica comportò la sconsacrazione della chiesa: lo stabile divenne proprietà dal conte Domenico Manzoni, che colse l'occasione per ingrandire le pertinenze del Palazzo di famiglia.

Chiesa di San Tommaso Apostolo[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa sorgeva nei pressi del Palazzo Comunale, prospiciente a quella che oggi è conosciuta come Piazzetta San Carlo.

Nel 1433, il vescovo di Forlì Giovanni Capparelli decretò la confluenza della parrocchia di Santa Maria in Piazza in quella di San Tommaso Apostolo, con sede però nella chiesa di Santa Maria (Parrocchia di San Tommaso Apostolo in Santa Maria in Piazza).

In seguito a ciò, la chiesa di San Tommaso, ormai trasformata in oratorio, conobbe un graduale abbandono. Restaurata nel 1661, ormai divenuta sede della Compagnia della Carità, prese il titolo di san Carlo Borromeo, protettore della Compagnia. Questa, nelle sue adiacenze, costruì anche un ospedale, detto "di San Carlo".

Come attesta Melchiorre Missirini, nel 1801 la chiesa era ancora officiata. Il culto vi cessò fra il luglio e l'agosto del 1806. In effetti, durante la dominazione francese, venne distrutto anche l'ospedale.

Chiesa di San Martino in Castello[modifica | modifica wikitesto]

Si tratta di una piccola chiesa, documentata fin dal 1267.

Fu soppressa, come molte altre, il 30 luglio 1806. Vi ebbe sede fino agli anni Trenta del Novecento la Cooperativa Sarti.

Chiesa di sant'Antonio da Padova detta anche Sant'Antonio Nuovo[modifica | modifica wikitesto]

Fu aperta al pubblico nel 1647, durante l'episcopato di Giacomo Teodoli: la chiesa sorgeva nell'attuale via Silvio Pellico, vicino all'angolo con via Molino Ripa e quindi vicino alla Chiesa di San Giovanni Battista del Canale. Vi ebbe sede la Confraternita di San Paolo dei Canapini.

Non lontano, lungo l'odierna via Maroncelli, esisteva, nell'alto Medio Evo, una Chiesa di San Matteo che ebbe titolo di parrocchia; nei locali ad essa adiacenti, ebbe sede il vescovado, fino all'anno 1776-77. Dopo il trasferimento del vescovo nell'attuale corso Garibaldi, e precisamente dove prima avevano sede i Gesuiti, la chiesa e gli immobili connessi decaddero e vennero venduti ed adibiti ad altri usi. La parrocchia fu così trasferita ed attribuita alla chiesa di Sant'Antonio da Padova.

La chiesa fu sconsacrata nel 1806, durante il dominio napoleonico. Il demanio francese poi vendette l'edificio ad un tal Luigi Belli che, distrutti il campanile e la cappella maggiore, ridusse la chiesa a magazzino. Lo stesso Belli fu acquirente anche della Chiesa di San Biagio e dei suoi annessi.

Monastero della Torre detto anche Santa Maria in Ripa[modifica | modifica wikitesto]

Forme attuali del Monastero della Torre, detto anche Santa Maria in Ripa

Si tratta di un convento tra i più importanti della città. Se ne può far risalire l'origine al 1438, quando alcune suore francescane si stabilirono in un piccolo alloggiamento davanti alla chiesa della Santissima Trinità. La nascita ufficiale del monastero, però, risale al 1474, per volontà del vescovo Alessandro Numai, il quale posò la prima pietra su un terreno donato da Pino III Ordelaffi, signore di Forlì. Successori dell'Ordelaffi, Girolamo Riario e sua moglie Caterina Sforza continuarono a considerarsi protettori del monastero.

Tutto il complesso venne confiscato dalle autorità francesi durante il dominio napoleonico e non tornò più all'uso originario.

Chiesa di Santa Maria della Grata[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa assunse tale nome per l'esistenza di una grata a protezione di un'immagine della Madonna col Bambino. Il fatto aveva evidentemente colpito l'immaginario popolare, dato che il luogo è tuttora ricordato dalla odonomastica: la strada dove sorgeva la chiesa si chiama infatti Via della Grata; inoltre, l'area dove tale via si allarga, presso l'incrocio con l'attuale Via San Giovanni Bosco (già Via del Macello), è ugualmente conosciuta come Piazzetta della Grata.

La Cronaca Albertiniana, che costituisce è documento fondamentale per l'antica cronografia della città di Forlì in quanto l'anonimo autore poté consultare un'ampia documentazione notarile oggi scomparsa, ci permette di sapere che l'atto più antico riguardante la chiesa risale al 1568.

L'interno della chiesa era decorato da varii e prestigiosi affreschi di Francesco Menzocchi.

Qui fu la sede della Congregazione dei 63 Sacerdoti, un istituto presente anche in altre città italiane, come ad esempio a Napoli, in cui appunto esisteva la Chiesa della Congregazione dei 63 sacerdoti. Nel 1772 furono date alle stampe le Regole della Congregazione.

A causa delle tensioni internazionali di quegli anni, nel 1774 truppe spagnole si trovarono a passare per Forlì: ne derivò il sequestro provvisorio della chiesa, che fu, sia pure per breve tempo, impiegata come deposito per la polvere da sparo dell'artiglieria. La chiusura definitiva avvenne, invece, durante la dominazione napoleonica, quando l'edificio fu venduto dal demanio francese ad un tal Giacomo Cicognani, che demolì la parte superiore del campanile e trasformò l'edificio: certamente, in un magazzino di legname, e forse, cogliendo l'occasione dell'essere la chiesa vicino al Canale di Ravaldino che qui si avvia ad uscire dalle mura cittadine, in un mulino. Se invece, come riferiscono altre fonti[2], la trasformazione in mulino non dipese già dal Cicognani, allora fu il nuovo proprietario, l'ingegnere Domenico Casamurata, a volerla, nel 1811. Il mulino era ovviamente noto come Mulino della Grata (o Molino della Grata).

Con successivi proprietarii, si ebbero ulteriori destinazioni d'uso, benché sempre nell'ambito economico: fabbrica di concimi, luogo di pilatura del riso, raffineria di zolfo.

Chiesa di San Biagio[modifica | modifica wikitesto]

Un'antica chiesa dedicata a San Biagio è documentata già nel 1101, ma il nuovo edificio risale al XVIII secolo.

La chiesa, con l'annesso edificio, che era sede della Compagnia di San Marino dei Muratori, venne confiscata dalle truppe napoleoniche e venduta ad un tal Luigi Belli che, per adibire l'antico locale di culto a magazzino, fece demolire il coro ed il presbiterio. Lo stesso Belli fu acquirente anche della Chiesa di sant'Antonio da Padova, ossia di Sant'Antonio Nuovo, e del Monastero di Santa Chiara.

Siccome si trattava di sede parrocchiale, la parrocchia fu trasferita (col titolo di Parrocchia di San Biagio in San Girolamo) nella vicina Chiesa di San Girolamo, voluta nel Quattrocento per i Minori Osservanti: il parroco vi si insediò il 1º novembre 1812.

Monastero di Santa Chiara[modifica | modifica wikitesto]

La più antica testimonianza conosciuta è un atto di donazione del 26 dicembre 1256, con il quale le monache Eremite di San Damiano consegnarono varii beni all'Ospedale di Santa Croce. Di poco posteriore (24 giugno 1258) è uno scritto di incoraggiamento da parte di papa Alessandro IV per il trasferimento in questa nuova sede forlivese.

Nel 1499, il Monastero fu danneggiato da un incendio e poi restaurato.

Nel 1653, furono iniziati i lavori per la nuova e più grande chiesa, che fu consacrata dal vescovo Giacomo Teodolo il 18 agosto 1660.

Durante il dominio napoleonico, il monastero fu soppresso e la chiesa sconsacrata. Gli edifici furono venduti ad un certo Luigi Belli, che ne distrusse una larga parte, chiesa compresa. Lo stesso Belli fu acquirente anche della Chiesa di sant'Antonio da Padova, ossia di Sant'Antonio Nuovo e della Chiesa di San Biagio e dei suoi annessi.

Gli eredi del Belli vendettero l'edificio ad Antonio e Nicola dei conti Savorelli, che vi avviarono una fabbrica di candele. Successivamente, ad opera di Oronzio De' Nova, vi furono impiantate altre lavorazioni: un molino a vapore, una filanda di seta e una pilatura del riso. L'attività cessò nel 1864. Nel 1908, subentrò la ditta Monti, che si occupava di esportazione di pollame e che fece installare un frigorifero per la produzione di ghiaccio.

Madonna del pianto, chiamata anche San Lazzaro o Celletta dello Zoppo[modifica | modifica wikitesto]

Fu fondata nel 1448 da Pietro Bianco da Durazzo, zoppo e già pirata sull'Adriatico, allora appena giunto a Forlì, dove poi visse in pentimento e devozione, abitando proprio nella cappella quando era in città. È noto soprattutto per aver voluto il santuario di Santa Maria delle Grazie di Fornò, dove si ritirò.

La celletta si trovava presso le mura urbane, dalla parte di quella che oggi è via Giorgio Regnoli. Presso di essa, alla fine del XVIII secolo, era attiva la Compagnia della beata Vergine del pianto denominata la celletta dello zoppo, che fu sciolta nel 1803[3].

La chiesa fu sconsacrata nel 1806 dagli occupanti francesi, che la vendettero ad un tal Francesco Romagnoli, il quale in seguito la demolì.

Chiesa di Santa Elisabetta[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa sorgeva in quello che oggi è il Corso della Repubblica, dallo stesso lato della Chiesa di Santa Lucia, verso l'attuale Piazzale della Vittoria. La chiesa era dedicata a Santa Elisabetta, regina del Portogallo.

Il 15 agosto 1652, su un terreno gratuitamente ceduto dal Dott. Marcello Merlini, fu posata, da parte del vescovo Giacomo Teodoli, la prima pietra del complesso comprendente la chiesa e il monastero delle Cappuccine. Le monache avevano una propria regola ed erano tutelate dalla magistratura cittadina dei Novanta Pacifici.

Nel 1670, il vescovo Claudio Ciccolini impose il regime di clausura.

Dopo il sequestro da parte delle autorità francesi di occupazione durante il dominio di Napoleone, gli edifici furono acquistati dal conte Domenico Matteucci, che procedette a demolire la chiesa ed a trasformare il monastero, destinando i locali ricavatine ad uso di civile abitazione popolare.

Chiesa di San Giovanni Battista del Canale[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa sorgeva nel territorio della parrocchia di San Matteo, che poi divenne parrocchia di Sant'Antonio da Padova. Si trovava all'angolo tra le attuali Via Silvio Pellico e Via Molino Ripa (o della Ripa): proprio vicino ad essa sorse la Chiesa di sant'Antonio da Padova detta anche Sant'Antonio Nuovo.

La Chiesa di San Giovanni Battista, già appartenente al Monastero della Ripa, fu da esso ceduta, nel 1489, alla confraternita di Santa Marta, detta anche dei Terziari francescani come oratorio. In seguito, dedicato ormai a Santa Marta, ebbe varie intestazioni: Santa Marta del Canale, Santa Marte della Ripa, Santa Marta delle Stimmate. Vi si ritrovavano i membri della Confraternita delle sacre Stimmate di San Francesco, no, e spesso abbreviato in Confraternita delle Stimmate. I membri, di norma dell'alta società, vestivano di sacco bigio, indossavano sandali, ma a piede nudo (come i frati scalzi) ed avevano il volto coperto: forse per questo erano popolarmente chiamati Babau.

Dopo la soppressione delle Confraternite (7 agosto 1798, la chiesa venne chiusa e rimase inutilizzata almeno fino al 1801. In tempi successivi, fu ridotta anche a magazzino. Infine, il cronista Pellegrino Baccarini, che scrive verso la metà del XIX secolo, testimonia che la sede della ex-Confraternita era ormai conosciuta anche come la Biscaccia[4].

Chiesa e Convento di San Francesco Grande[modifica | modifica wikitesto]

Si tratta di un importante complesso conventuale francescano con la relativa chiesa, edificato nel centro storico di Forlì, non lontano dalla Cattedrale. La costruzione ebbe inizio verso l'anno 1250, per trovare conclusione nel 1266.

La chiesa, lunga 75 metri e larga 20, in stile romanico, aveva forma di croce latina, con la facciata rivolta a sud. Occupava parte di quella che attualmente è piazza Cavour. Il convento era attiguo alla chiesa, sempre su parte della piazza, ma anche sull'area dove poi fu costruito il Foro Annonario.

La chiesa, magnifica secondo le cronache, era ricca di cappelle, sculture e pitture. Vi lavorarono Girolamo Genga, Timoteo Viti da Urbino, Baldassarre Carrari il Vecchio, Marco Palmezzano e Francesco Menzocchi.

Specialmente notevole vi era poi la Cappella Lombardini.

La Chiesa di San Francesco Grande divenne luogo di sepoltura per molte importanti famiglie di Forlì, fra cui gli Ordelaffi. Sinibaldo Ordelaffi, infatti, nell'anno 1381 fece traslare qui, da Venezia, le ossa dei genitori, ossia Francesco II Ordelaffi e Cia Ubaldini, dopo i funerali solenni nella poi scomparsa Chiesa di Sant'Agostino. Vi furono, tra gli altri, sepolti: Giorgio Ordelaffi e sua madre Venanzia, Antonio Ordelaffi e Cecco IV Ordfelaffi.

Nel 1488, Caterina Sforza vi fece celebrare i funerali di Girolamo Riario, che cinque anni prima vi aveva fatto costruire i chiostri; il corpo fu poi trasportato al Santuario della Beata Vergine del Piratello.

Non solo gli Ordelaffi riposarono qui, ma anche altre faglie nobili forlivesi, come gli Accarisi e gli Aspini.

Nel 1797, gli stessi francescani cominciarono a demolire la chiesa con l'intenzione di erigerne una nuova. L'invasione francese, però, mise fine al processo di ricostruzione: la chiesa divenne stalla per la cavalleria e le opere d'arte furono trafugate. Alcuni locali del convento divennero sede del Ginnasio. Infine, il 15 settembre 1815, un tal Luigi Belli, acquistata l'area, abbatté qualsiasi struttura, facendo scomparire una delle chiese più importanti e belle della città, allo scopo di costruire due nuovi fabbricati.

Chiesa e Convento di Santa Maria della Neve[modifica | modifica wikitesto]

Questa chiesa ha origini antiche e non certe. Nel XIII secolo, comunque, compare come sede delle Domenicane, le quali vi eseguirono lavori di ristrutturazione ed ampliamento nel 1663.

La chiesa venne chiusa durante il periodo napoleonico.

Dopo la Restaurazione, Pio VII assegnò i locali alle Clarisse che ne presero possesso nel 1824 rimanendovi fino al 1860, quando gli edifici furono nuovamente requisiti, stavolta dalle autorità del Regno d'Italia, per essere poi adibiti a distretto militare e caserma.

Chiesa di Santa Maria della Neve o dei Battuti Verdi[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa, della cui fondazione non si hanno notizie certe, si trovava nell'attuale Via Battuti Verdi; le sue origini risalgono al XIII secolo, quando venne appunto istituita la confraternita dei Battuti Verdi, che vi aveva sede e che gestiva un proprio ospedale per l'assistenza di pellegrini e viandanti.

La chiesa fu chiusa nel 1796.

Chiesa di San Giovanni Battista dei Maceri[modifica | modifica wikitesto]

Si tratta di una piccola chiesa di ignote origini che sorgeva presso l'attuale Via Maceri, o Via dei Maceri.

Vi ebbero sede le monache del Terzo ordine regolare di San Francesco.

Il 15 febbraio 1448, vi fu fondata, da parte di alcuni giovani, la Confraternita di Santa Marta detta dei Maceri, con lo scopo di praticare opere di pietà.

Chiesa di San Giacomo in Strada o di Santa Lucia[modifica | modifica wikitesto]

Sorgeva lungo l'attuale Corso della Repubblica, sul lato opposto della odierna Chiesa di Santa Lucia, all'altezza di quella che all'epoca era una piazzetta, o campetto, oggi non più esistente.

Le più antiche attestazioni della chiesa risalgono al 1215, quando si pensa ne vada datata la nascita. La fondazione dette luogo ad intense contese per la giurisdizione sulla nuova chiesa fra la Diocesi di Forlì ed i Vallombrosani, il cui abate di San Mercuriale disponeva di ampio potere ed influenza, anche grazie alle donazioni del vescovo Alessandro, di pochi decenni prima: evidentemente, il nuovo Vescovo, Alberto, non intendeva seguire la stessa politica.

Nel 1360, a seguito della crociata contro i Forlivesi, il cardinale Egidio Albornoz fu oggetto di un fallito attentato nella cittadina di Forlimpopoli: per rappresaglia, Forlimpopoli venne parzialmente distrutta, mentre la sede episcopale fu trasferita a Bertinoro e le reliquie di San Ruffillo vennero traslate, nel 1362, a Forlì, proprio nella Chiesa di San Giacomo in Strada, che, fino al 1465, rimase di pertinenza dell'Abbazia di San Ruffillo di Forlimpopoli. In quell'anno, il vescovo Tommaso dall'Aste, che era anche commendatario dell'Abbazia, dispose che la chiesa fosse incorporata nella diocesi di Forlì.

Nel 1506, Giulio II entrò vittorioso a Forlì attraverso la porta Cotogni, ossia la porta presso San Giacomo in Strada, già allora nota come Santa Lucia; così in questa chiesa venne riposto il ciborio del Santo Sacramento che precedeva il Papa.

Con l'avvento delle truppe napoleoniche, la chiesa fu chiusa, mentre la parrocchia fu trasferita, il 3 settembre 1797, nella chiesa di San Francesco di Paola. Il 15 settembre dello stesso anno l'urna di San Ruffillo venne traslata nella nuova chiesa.

La chiesa di San Giacomo in Strada fu acquistata, nel 1806, dall'amministrazione dell'ospedale per ricavarne alloggi per le inferme.

Nel 1847, su disegno di Giuseppe Cantoni, la struttura della chiesa venne ristrutturata per servire, dall'anno successivo, come ospedale delle esposte, ossia delle orfane, ad ampliamento dell'attiguo Palazzo del Merenda.

Chiesa di Santa Maria della Pace[modifica | modifica wikitesto]

Sorgeva lungo l'attuale Corso della Repubblica, sul lato dei numeri pari, all'altezza di un'attuale casa di abitazione nota anche come casa Serughi, da non confondere con il Palazzo Serughi.

L'origine della chiesa risulta ignota, ma Sigismondo Marchesi la data al 1507, quando un eremita l'avrebbe fatta costruire dove si trovava un'immagine chiamata La Madonna delle tre Colonne; proseguendo, il Marchesi spiega che il titolo della Pace risalirebbe ad una "pace" fra Guelfi e Ghibellini "che in essa solennemente si fece" nel 1534 per opera di monsignor Gregorio Magalotti, presidente di Romagna[5]. Però, in un atto di Bernardino Menghi, notaio, datato 23 maggio 1517, quindi redatto ben prima rispetto alla data indicata da Marchesi, la chiesa è già chiamata di Santa Maria della Pace: l'atto prevede la cessione, da parte della comunità di Forlì, di tale chiesa ai religiosi del santuario di Santa Maria delle Grazie, sulla base di due Brevi del papa Leone X, con i quali si affidava patronato ed amministrazione della chiesa al Comune di Forlì e gli si concedeva la facoltà di affidare la chiesa, anche qui detta di Santa Maria della Pace, ad una comunità religiosa[6]. A tali religiosi la chiesa appartenne fino al 14 novembre 1713, quando da essi don Lucio Carrari la comprò, divenendone patrono e rettore. Dal 1735 fino alla fine del secolo vi officiarono i Padri di San Camillo de Lellis, detti i Crociferi o Camilliani.

Soppressa durante la dominazione francese, fu acquistata in parte da un tal Francesco Ricci, che vi impiantò una fabbrica di salnitro. ed in parte da un tal Bartolomeo Pavia. Successivamente, l'edificio venne interamente adibito ad abitazioni private e poi trasformato nella casa detta Serughi.

Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo, detta di Valverde[modifica | modifica wikitesto]

Ubicata nell'attuale Via Caterina Sforza, se ne ha una presenza certa fin dal 1293 quando la chiesa e l'annesso convento appartenevano ad un gruppo di monache dette Santucce, dal nome della fondatrice dell'ordine, beata Santuccia da Gubbio. Nel 1453 il gruppo di suore ebbe fine ed i loro beni passarono al Capitolo di Santa Croce del Duomo e ai frati del Terzo ordine regolare di San Francesco, popolarmente detti Romiti di Valverde, in quanto avevano sede nella Chiesa di Santa Maria in Valverde (o di Valverde). Così la chiesa, prima conosciuta come Chiesa delle Santucce, divenne nota come Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo di Valverde.

Il 5 luglio 1452 vi fu fondata la Confraternita di Santa Maria dei Servi, la quale si trasferì poi, a causa delle precarie condizioni strutturali della chiesa, presso la Basilica di San Pellegrino Laziosi.

Dopo essere stato sede temporanea delle Suore terziarie francescane e delle Clarisse, una volta uscite queste ultime (nel 1886), l'edificio divenne sede delle scuole musicali, poi dell'orfanotrofio maschile, per essere infine trasformato in abitazione popolare.

Chiesa di Santa Maria in Valverde o di Valverde[modifica | modifica wikitesto]

Sorse sul luogo di un antico ospedale cittadino, nell'attuale Via Caterina Sforza. La via che affianca l'area si chiama ancora oggi Via Valverde. Secondo le cronache di Paolo Bonoli, la chiesa nel 1438 fu concessa da Lorenzo Fiorini, abate di San Mercuriale, ai frati del Terzo ordine regolare di San Francesco nella persona di Pietro Negri[7]. Nel 1472, per ordine dell'abate di San Mercuriale Giambattista Ponti da Tagliacozzo passò ad Ambrogio da Milano. Morto costui, la chiesa fu donata, con annessi, al Generale del Terzo ordine regolare di San Francesco, Giovanni da Verona.

Nel 1508, il beato Geremia Lambertenghi da Como, che, con l'appoggio di Caterina Sforza, fu il fondatore ed il primo Superiore del Santuario della Beata Vergine del Piratello, fu inviato alla chiesa di Santa Maria in Valverde. Vi morì nel 1513 e vi fu sepolto. Quando la chiesa venne sconsacrata, all'epoca dell'invasione francese, il corpo fu traslato nella Cappella della Vergine della Ferita, nella Cattedrale di Forlì[8], dove tuttora si conserva un'immagine del Beato. Le reliquie invece furono traslate ad Imola nel 1971: dal 13 giugno di quell'anno l'urna che le contiene è nel Santuario del Piratello[9].

Verso l'inizio del Cinquecento chiesa e convento furono ricostruiti. La consacrazione avvenne nel 1530 da parte del vescovo di Forlì, Bernardino de' Medici.

Con l'invasione napoleonica, la chiesa fu sconsacrata, ma nel 1818 fu assegnata ai frati Minori osservanti e riconsacrata nel 1819 dal vescovo Andrea Bratti. Nel 1851 cominciarono lavori per l'abbellimento della chiesa, che conservava così opere di Giacomo Zampa e di Giuseppe Rambelli, nonché una copia di Guido Reni ed un quadro della scuola di Raffaello.

Con l'unità d'Italia, la chiesa fu soppressa nuovamente ed il convento espropriato per far posto all'asilo infantile Santarelli, fondato nel 1862.

Chiesa di San Salvatore in Vico[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa e l'annesso convento, siti in quella che oggi è Via Publio Fausto Andrelini, rappresentarono un importante centro religioso cittadino.

La fondazione risale al 1257, quando i frati Zibedeo di Berardo e Diomoldo di Ridolfo ottennero il permesso dal priore Martino dei monaci Camaldolesi di erigere un monastero consacrato a Cristo Salvatore, col titolo di San Salvatore de Vico o in Vico. Dopo la morte dei fondatori, il luogo passò ai monaci, sempre camaldolesi, della Badia di S. Maria di Camaldolino, che la cedettero alle monache del loro ordine. Esse però, agli inizi del XV secolo, essendo state decimate dalla peste, confluirono nel convento di Santa Caterina. In S. Salvatore subentrarono nel 1408 i monaci della Badia, gravemente danneggiata dalle guerre, i quali poi vi trasferirono, sempre dalla Badia, l'affresco della Vergine del Camaldolino e nel 1580 ristrutturarono la chiesa ormai pericolante. Altri lavori alla facciata ed al piazzale furono compiuti nel 1760. L'interno, ionico, conteneva tele di Filippo Pasquali, della scuola di Carlo Cignani e della scuola romana.

Nel 1797, a seguito dell'invasione francese, il monastero fu soppresso ed i suoi beni passarono al demanio. I locali servirono da deposito per gli arredi razziati dalle altre chiese soppresse.

Con la restaurazione i frati camaldolesi vi fecero ritorno restaurando chiesa e convento. Nel 1833 edificarono il campanile su spese di un ricco monaco, Zucchi di Fabriano su disegno dell'architetto Carlo Becchi. Con l'unità d'Italia avvenne una seconda soppressione ed i religiosi abbandonarono definitivamente lo stabile che venne in parte smembrato: una parte divenne casa di riposo intitolata a Vittorio Emanuele II, una parte divenne studio di Bernardino Boifava. Ad oggi l'intero complesso è sede della casa di riposo Pietro Zangheri.

Badia di S. Maria di Camaldolino[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa fu fondata nel 1203 dal patrizio forlivese Oliviero Migliocci, con l'aiuto del vescovo Giovanni. Fu chiamata Camaldolino per la presenza dei monaci Camaldolesi. Celebre era l'affresco chiamato della Vergine del Camaldolino. Nel 1408, danneggiata seriamente la chiesa da eventi bellici, i monaci passarono nella Chiesa di San Salvatore, trasferendovi poi anche l'affresco[10].

Chiesa di San Tommaso Cantuariense ossia di San Tommaso Becket[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa, di cui non si conosce l'origine, sorgeva vicino alla Chiesa di San Giacomo Apostolo dei Domenicani, nell'attuale Via Maurizio Bufalini, lato dispari, ed era sede di parrocchia fino al 1573, quando la parrocchia fu trasferita nella Cattedrale col titolo appunto di San Tommaso Cantuariense nella Cattedrale, o, popolarmente, Parrocchia della Cattedrale.

L'edificio fu declassato ad oratorio, detto Oratorio della Confraternita dei Disciplinati, che vi era sorta nel 1457, o anche Santa Marta dei Bianchi. Nel 1797, fu sciolta la Confraternita, ma la chiesa continuò ad essere officiata almeno fino al 1801, sotto il nome di Santa Marta dei Bianchi o di Santa Marta presso San Domenico.

Infine, don Francesco Cortini, arciprete di Ladino, comprato l'edificio, lo trasformò in abitazione.

Chiesa di Sant'Agostino[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa sorgeva nella odierna piazza Dante Alighieri. Fu costruita tra il 1301 ed il 1307 dagli Agostiniani, che qui si trasferirono dal loro precedente convento di Sant'Agostino in Padule, fuori Porta Schiavonia.

Proprio nel 1307, a quanto racconta Sigismondo Marchesi, vi fu traslato, da un vicino oratorio, il "corpo di San Sigismondo Re"[11].

Voluti da Sinibaldo Ordelaffi, nell'anno 1381, vi si tennero i funerali solenni dei genitori, ossia Francesco II Ordelaffi e Cia Ubaldini, i cui corpi, traslati qui da Venezia, vennero poi portati nella oggi scomparsa chiesa di San Francesco Grande.

Nel 1387, a spese del notaio Antonio di Muccolino, la chiesa fu abbellita con una imponente facciata. Il campanile fu invece portato a termine nel 1515.

Nel 1525, i frati ricevettero gli avanzi del palazzo Theodoli, residenza nobiliare andata distrutta durante violenti scontri fra alcune famiglie forlivesi, con i cui avanzi abbellirono la chiesa.

Il 17 luglio 1781, una forte scossa di terremoto danneggiò gravemente il campanile la chiesa. Peraltro, nel 1797, durante l'invasione francese, vennero espulsi gli Agostiniani. I resti di San Sigismondo vennero trasferiti in Cattedrale. I Francesi non pensarono a restaurare gli edifici, ma li usarono finché si poté farlo come ricovero per la cavalleria (la chiesa) e come uffici del tribunale (il convento). Infine, fra il giugno e l'agosto del 1802, si procedé alla demolizione di quanto rimaneva.

La chiesa conteneva le tombe di numerose famiglie illustre di Forlì, come i Teodoli, i Marchesi, i Laziosi, nonché il sepolcro di Alessandro Padovani.

Le opere d'arte che si poterono salvare furono trasferite: ad esempio, due arazzi fiamminghi, in Pinacoteca; due tele della scuola di Carlo Cignani, nella chiesa di Schiavonia.

Chiesa di Santa Caterina[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa è di origine incerta[12]: le notizia più antiche, però, vi vedono ospitate le Monache Agostiniane. Nella prima metà del XVI secolo vi si trasferirono le monache di San Giuliano, derivazione delle monache camaldolesi di San Barnaba.

Nel XVI secolo, suor Francesca Baldi vi promosse la devozione verso la Beata Vergine del Patrocinio, un'immagine appartenente alla sua famiglia paterna, che, nel 1614, venne donata al Monastero. Alla definitiva soppressione di esso, durante il Regno d'Italia, nel 1862, l'immagine fu portata a Faenza, dove tuttora è venerata[13].

La chiesa fu ricostruita ed abbellita nel 1642, e nuovamente consacrata il 26 aprile 1767 dal vescovo Francesco Piazza.

Nel 1797, vi fu una prima soppressione, ma poi vi venne trasferito l'altare maggiore dalla chiesa delle domenicane, dopo che le monache ebbero ottenuto di poter rimanere pagando un affitto.

La chiesa, dopo la definitiva sconsacrazione, divenne caserma, col nome di Caserma Caterina Sforza: come tale ospitò l'11º Reggimento di Fanteria, Brigata Casale, i celebri Gialli del Calvario. Oggi, invece, dopo un periodo di disuso, viene utilizzata come sala pubblica ed aula universitaria.

Chiesa di San Giovanni Battista in Faliceto[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa, di cui non si conoscono le origini, risale, secondo le cronache, al XIII secolo. Sorgeva in una porzione dell'area oggi compresa fra: Via Fausto Anderlini, Via Romanello da Forlì, Viale Livio Salinatore. La cupola, affrescata nel 1487 da Marco Palmezzano su un cartone di Melozzo da Forlì, fu atterrata nel 1651.

Nel 1541 vi si stabilirono i Cappuccini, introdotti a Forlì dal vescovo Pier Giovanni Aleotti, i quali vi edificarono il loro convento.

Nel 1571 vi morì il venerabile Antonio Torelli.

Tra il 1654 ed il 1655 i frati vi fecero eseguire dal Guercino la tela raffigurante San Giovanni nel deserto che nel 1883 passò alla Pinacoteca Comunale.

Con la dominazione napoleonica l'ordine fu soppresso: chiesa e convento allora furono acquistati da un tal Giuseppe Becci, che li trasformò in abitazioni.

Chiesa di santa Maria delle Grazie, detta anche Madonna del Ponte[modifica | modifica wikitesto]

La prima pietra di questa chiesa fu posta dal vescovo Antonio Giannotti il 30 aprile 1557. Sorgeva nella via allora detta del Ponte e che oggi è Via Tommaso Zauli Saiani.

Lattanzio Biondini, nel suo Compendio dello Stato e Governo di Forlì del 1578, riferisce che la chiesa fu edificata per ringraziare delle numerose grazie ricevute dai devoti di un'immagine dipinta sul muro esterno della casa di un tal Annibale Bruni, che donò il terreno per la costruzione. La chiesa fu a quel punto edificata da don Lodovico Caronti, già rettore della chiesa dei Romiti.

La chiesa venne chiusa durante il dominio napoleonico, nel 1797, per essere trasformata in abitazione.

Chiesa di Santa Febronia[modifica | modifica wikitesto]

La chiesa, di ignota origine, sorgeva lungo l'attuale Corso Giuseppe Garibaldi, verso Porta Schiavonia, lato numeri dispari.

Dapprima conosciuta come Chiesa dello Spirito Santo dei Celestini di Bologna, nella visita pastorale del 5 ottobre 1668 è citata come dedicata a santa Febronia e sede delle Paolotte. Alla chiesa fu poi affiancato il convento, sorto il 30 novembre 1692 per volere della bolognese suor Giovanna Antonia Cambri.

Soppressi sia chiesa sia convento durante l'invasione francese, gli edifici furono comprati dal conte Domenico Matteucci ed adibiti ad usi profani.

Divenne poi un'autofficina fino agli anni trenta, per diventare infine abitazioni.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Forlì. A spasso per Borgo San Pietro
  2. ^ * E. Casadei, Forlì e dintorni, Società Tipografica Forlivese, Forlì 1928, pp. 121-122.
  3. ^ FORLÌ: Compagnia della beata Vergine del pianto denominata la celletta dello zoppo
  4. ^ Cf. Ettore Casadei, Forlì e dintorni, Società Tipografica Forlivese, Forlì 1928, pp. 117-118.
  5. ^ Sigismondo Marchesi, Supplemento istorico dell'antica città di Forlì, Forlì, Giuseppe Selva, 1678, p. 632.
  6. ^ Cf. E. Casadei, Forlì e dintorni, Società Tipografica Forlivese, Forlì 1928, pp. 325-326.
  7. ^ Paolo Bonoli, Storia di Forlì, Bordandini, Forlì, 1826, vol. II, p. 157.
  8. ^ Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni..., vol. XXV, Tipografia Emiliana, Venezia 1844, p. 303.
  9. ^ Madonna del Piratello Archiviato il 24 settembre 2015 in Internet Archive.
  10. ^ Cf. Gregorio Farulli, Istoria cronologica del nobile, ed antico Monastero degli Angioli di Firenze..., Pellegrino Frediani, Lucca 1710, pp. 208-209.
  11. ^ Sigismondo Marchesi, Supplemento istorico dell'antica città di Forlì, Forlì, Giuseppe Selva, 1678, p. 255.
  12. ^ Ex Chiesa di Santa Caterina
  13. ^ Beata Vergine del Patrocinio venerata nella Chiesa del Monastero Camaldolese di S. Caterina in Faenza Archiviato il 15 giugno 2015 in Internet Archive.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Paolo Bonoli, Storia di Forlì, Bordandini, Forlì, 1826.
  • Egidio Calzini, Giuseppe Mazzantini, Guida di Forlì, Bordandini, Forlì, 1893.
  • Sigismondo Marchesi, Supplemento Istorico dell'antica Città di Forlì, Selva, Forlì, 1678.
  • E. Casadei, Forlì e dintorni, Società Tipografica Forlivese, Forlì 1928.
  • Arnaldo Mussolini, Forlì, Tiber, Roma, 1929.