Shintoismo di Stato

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Veduta del Grande Santuario di Ise

Lo shintoismo di Stato (国家神道?, Kokka Shintō) fu un'ideologia sostenuta dal governo dell'Impero del Giappone a partire dall'epoca del Rinnovamento Meiji, fino alla sconfitta nella Seconda guerra mondiale, che causò l'occupzione militare da parte degli Alleati, i quali imposero il laicismo nel Paese. Prima infatti lo shintoismo era a tutti gli effetti la religione di Stato vigente in Giappone.[1]

Il governo di Tokyo vedeva nella confessione shintoista il mezzo ideale per mantenere l'ordine sociale del Paese e preservare il potere della classe dirigente. Il culto ruotava attorno alla figura chiave di Sua Maestà l'Imperatore, la cui sovranità era legittimata dal fatto di essere considerato discendente della dea del sole Amaterasu, principale kami della mitologia giapponese.[2]

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Contesto[modifica | modifica wikitesto]

Lo shintoismo fece la sua comparsa nell'arcipelago nipponico in tempi remoti, presentandosi come una forma di spiritualità politeista e animista che attingeva dal culto della natura, dal culto degli antenati, dalla divinazione e dallo sciamanesimo. Non avendo un fondatore è considerato frutto delle antiche tradizioni orali del popolo giapponese[3], poi trasposte nelle cronache del Kojiki e del Nihon Shoki, i quali pur non svolgendo la funzione di un vero e proprio testo sacro, costituiscono comunque il fondamento del culto shintoista.[4] La pratica religiosa si intreccia con le autorità del Paese sin dal 660 a.C, quando Jimmu il primo e leggendario imperatore salì al Trono. Da quel momento secondo la tradizione si sono susseguiti ben 126 imperatori nella storia del Giappone. Si ha testimonianza che già due millenni fa durante il regno dell'Imperatore Sujin, fosse una principessa appartenente alla Casa imperiale giapponese a svolgere il ruolo di sacerdotessa presso l'antico sito sacro, fondato secoli prima dall'imperatore Suinin, dove ormai da circa milletrecento anni sorge oggi il Grande Santuario di Ise. Tale luogo di culto è considerato il principale tempio dello shintoismo, poiché esso ospita una delle tre insegne imperiali del Giappone, ovvero il Sacro Specchio che funge da shintai per la dea Amaterasu. La mitologia giapponese ritiene inoltre che Amaterasu sia antenata diretta della dinastia imperiale, la quale perciò poteva vantare un'origine divina. Nei secoli successivi gli imperatori che si susseguirono dovettero cedere il proprio potere politico ai signori della guerra, cosicché i membri della casata monarchica furono confinati all'interno del Palazzo imperiale di Kyōto, dove si limitavano a svolgere un compito esclusivamente cerimoniale e religioso. In seguito si registrarono numerosi tentativi di ripristinare il totale controllo imperiale sul Giappone, come la restaurazione Kenmu, che ebbe però breve durata in quanto nuovamente interrotta dal bakufu, una dittatura militare di stampo feudale.

Amaterasu circondata da altre divinità in un'immagine di Shunsai Toshimasa del 1889

Nel VI secolo monaci provenienti da Cina e Corea, introdussero in Giappone il buddhismo, il quale si diffuse rapidamente nel Paese. In seguito nel corso della storia, le due religioni si sono influenzate vicendevolmente, arrivando addirittura a fondersi in culti sincretici come nel caso dello shugendo e dello Shinbutsu shūgō.[5] Durante il XVII secolo le potenze occidentali stavano iniziando a esercitare una crescente influenza nei confronti del Giappone, quindi nel tentativo di difendere la propria cultura, la propria indipendenza e le sue due principali correnti spirituali, le autorità nipponiche optarono per il bando della fede cristiana dalla nazione. A tal fine fu attuata un'autentica persecuzione religiosa, che costrinse i fedeli del cattolicesimo a commettere apostasia, mentre alcuni continuarono a professare la propria fede clandestinamente, diventando i cosiddetti kakure kirishitan. Visti gli infelici primi contatti con la società occidentale, il Giappone entrò così nel Sakoku, lungo periodo che vide il Paese mantenersi isolato dal resto del mondo. Così facendo i nipponici riuscirono a preservare shintoismo e buddhismo dall'avanzata cristiana. Tale isolazionismo non risparmiava nessuno, tranne il Regno dei Paesi Bassi, gli olandesi protestanti erano di fatto più interessati a commerciare piuttosto che convertire e ciò permise loro di essere risparmiati dal provvedimento.

Religione di Stato[modifica | modifica wikitesto]

A partire dal 1869, in seguito alla vittoria della fazione Kangun nella Guerra Boshin, con conseguente caduta dello Shogunato Tokugawa e il ripristino dell'autorità imperiale, il nuovo governo Meiji reintegrò formalmente la libertà religiosa in Giappone, tuttavia la nuova classe dirigente necessitava di un pretesto per legittimare la propria sovranità sul Sol Levante e incrementare il patriottismo del popolo giapponese. Dopo secoli di isolamento infatti il Giappone si apriva al resto del mondo, con l'intenzione di affermarsi nei decenni successivi come potenza commerciale e militare. Fu per questo che venne istituita la politica dello shintoismo di Stato. I santuari vennero nazionalizzati, mentre ai sacerdoti shintoisti venne quindi concesso di esercitare il ruolo di insegnanti e funzionari statali. Il culto dell'imperatore divenne di carattere popolare; la fervente riverenza che durante il periodo feudale veniva destinata ai daimyo e allo shogun, fu perciò confluita verso il monarca, il quale era considerato oltretutto come la massima incarnazione dello spirito nazionale giapponese e del suo popolo. I rituali religiosi furono codificati dalla legge ed erano strettamente supervisionati da un ufficio competente. La dottrina shinto veniva divulgata nelle scuole, mentre tutte le autorità governative pubblicizzavano la sacralità dell'imperatore. Considerata la cruciale funzione di proselitismo ideologico che svolgevano le associazioni shintoiste, lo Stato attuò una politica atta a sostenere i santuari, elargendo cospicui finanziamenti pubblici nei loro confronti. Così mentre il tradizionale culto shintoista veniva rigorosamente tutelato dalla legge, il buddhismo in quanto religione di antica origine straniera, interessata esclusivamente alla venerazione del Buddha e alla ricerca spirituale dell'illuminazione, perse rapidamente i privilegi di cui godeva in passato.[6]

Fu il periodo di edificazione del Santuario Yasukuni, in cui tutt'oggi si venerano ancora le anime dei militari che nel corso della storia hanno dato la vita per il Giappone e il suo imperatore. Mentre fu proprio per commemorare il defunto Imperatore Mutsuhito e sua moglie l'Imperatrice Shōken, che nel 1920 venne inaugurato il Santuario Meiji. Durante la dittatura militare malgrado la libertà di culto fosse ancora ufficialmente in vigore in quanto "garantita" dalla Costituzione Meiji, si intensificò la repressione poliziesca nei confronti delle altre religioni. L'oppressione non era limitata soltanto ai culti di origine straniera, ma anche le sette shintoiste non ufficiali come Konkokyo e Tenrikyō, oppure le nuove religioni giapponesi come l'Ōmoto, furono duramente osteggiate.[7] Il governo sfruttò il sentimento religioso del popolo, per propagandare il nazionalismo e il bellicismo. I cittadini venivano educati alla xenofobia e ad essere pronti a sacrificare la propria vita per la causa imperiale. Soventi erano gli eventi scolastici e le cerimonie statali di carattere religioso, alle quali tutta la popolazione era tenuta a partecipare. Nel 1937 il Ministero dell'Educazione pubblicò un testo intitolato Kokutai no Hongi. Il libro aveva la funzione di mettere in risalto il Kokutai, traducibile come "identità/sentimento nazionale" e di giustificare l'imperialismo nipponico in Asia Orientale; tutto ciò avveniva pochi mesi prima che si consumasse il Massacro di Nanchino, commesso dall'Esercito imperiale giapponese.[8] Tale propaganda è ritenuta essere all'origine dell'ostinata tenacia del soldato giapponese, che trova la sua massima espressione nel pilota kamikaze, il quale integrandolo con i principi del Bushido, faceva dello shintoismo di Stato il suo fondamento ideologico.[9]

L'imperatore Hirohito (al centro) circondato dai membri della famiglia imperiale nel 1937

Come anticipato lo shintoismo di stato cessò di esistere quando nel 1945, l'Imperatore Hirohito si vide costretto a dichiarare la resa del Giappone, come conseguenza dei Bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Da lì a poco le forze Alleate agli ordini del generale Douglas McArthur occuparono l'arcipelago, obbligando le autorità locali ad accettare e varare la nuova Costituzione del Giappone, la quale impose il principio di laicità dello stato su tutto il territorio nipponico. Per far si che ciò fosse possibile, fu prima necessario promulgare la Dichiarazione della natura umana dell'imperatore, atto formale con cui il Trono del Crisantemo rinunciava a qualsivoglia origine divina.[10] L'imperatore perciò fu obbligato ad abbandonare lo status di "dio vivente", limitandosi a svolgere la figura di capo di stato, la quale rimane principalmente rituale e priva di un vero potere politico. Pur non essendo formalmente ritenuto di origine divina, oggi il sovrano è comunque considerato emblema dell'unità nazionale e gode della riverenza del suo popolo.

Nel dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]

Il Giappone post-bellico andò quindi incontro a un processo di secolarizzazione, il quale tuttavia non fu visto di buon occhio dai principali esponenti dello shintoismo, che reputavano tali cambiamenti come un tentativo dell'Occidente di attentare alla millenaria cultura giapponese. Così nel 1946 si arrivò alla fondazione del Jinja Honchō (Associazione dei santuari shintoisti), si tratta di un ente non-governativo che riunisce tutti i santuari shintoisti ufficialmente riconosciuti. L'organizzazione si è impegnata sin da subito nel salvaguardare la propria fede, temendo che gli occupanti volessero cancellarla in quanto parte del Kokutai.[11] In realtà l'occupazione aveva lo scopo di assoggettare il Paese per prenderne il controllo, estirpandone la componente aggressiva e belligerante, ma non intendeva minare la fede tradizionale del popolo, perché così facendo avrebbe solo rischiato di inimicarsi ulteriormente i giapponesi. Tuttavia era chiaro proposito degli Alleati, la ferrea volontà di sradicare la religione shintoista dalla sfera pubblica, confinandola all'ambito privato e personale del singolo cittadino. Era infatti evidente quanto lo shintoismo di Stato fosse in grado di influenzare l'opinione pubblica giapponese, fungendo da efficace mezzo di propaganda per movimenti politici di stampo reazionario. Per convertire il Giappone in una nazione affidabile e amica dell'Occidente liberale si riteneva pertanto necessario separare religione e politica una volta per tutte. Indubbiamente nei decenni che seguono, si è comunque assistito a un netto calo di religiosità da parte dei cittadini dell'arcipelago e ciò è senz'altro dovuto a una diminuzione dell'ingerenza sacerdotale, facente parte di quel fenomeno di modernizzazione a cui il Paese è andato incontro dopo aver abbracciato suo malgrado la democrazia. Senza più sovvenzioni pubbliche ebbe inizio una nuova fase nella storia dello shintoismo, in cui i santuari sopravvivono soltanto grazie alle donazioni dei fedeli e alla vendita di amuleti o altri manufatti oggetto di venerazione, oppure per mezzo dell'organizzazione di cerimonie sia pubbliche che private, come matrimoni, funerali o le classiche festività nazionali giapponesi.

Negli ultimi decenni si è tuttavia assistito a un nuovo incremento dell'ingerenza religiosa nella società giapponese. Ciò è dovuto principalmente all'emergere di gruppi tradizionalisti e ultranazionalisti come il Nippon Kaigi, le Uyoku dantai o il Partito Nazionalsocialista Giapponese dei Lavoratori. Queste organizzazioni guardano al vecchio Giappone imperiale con ammirazione, ispirandosi ai suoi valori e utilizzandoli come colonna portante della propria ideologia. Per questi fervidi nazionalisti, il culto dell'imperatore e la venerazione dei caduti di guerra presso Yasukuni, costituiscono la base per riportare il Paese all'apice. Ciò è all'origine di numerose controversie internazionali, giacché le nazioni colpite dall'espansionismo giapponese chiedono a gran voce che il governo di Tokyo esprima ufficialmente le proprie scuse per i crimini di guerra giapponesi commessi ai danni dei loro cittadini, tuttavia buona parte delle istituzione nipponiche sono ancora schierate per il negazionismo.[12]

Torii del Santuario di San Marino

L'interpretazione di uno shintoismo tradizionalista e conservatore che si identifica come forma di nazionalismo religioso in quanto culto etnico esclusivo del popolo giapponese, si scontra con lo shintoismo contemporaneo dedito alla protezione della natura, all'ecologia e alla fratellanza tra i popoli. Oggi alcune associazioni shintoiste come la Shintō Bunkakai e la Shasō Gakkai, appoggiano l'ambientalismo e lo considerano uno dei pilastri della dottrina. Mentre sempre più spesso i santuari si adoperano per diffondere l'idea di uno shintoismo pacifista e globalista, intenzionato a ritornare ai suoi valori più puri e ancestrali, lontani da quelli di una religione di Stato, strumento di controllo dei governanti sulle masse.[13] Ciò ha convinto di recente diversi stranieri ad avvicinarsi a questo culto antichissimo e perciò attualmente si può annoverare un crescente numero di templi dislocati in tutto il mondo, come il Grande Santuario Americano di Tsubaki e il Santuario shintoista di San Marino, quest'ultimo è il primo tempio del suo genere ufficialmente riconosciuto in Europa ed è gestito dal sacerdote shintoista italiano Francesco Brigante.[14]

Note[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

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