Nota ai capi dei popoli belligeranti

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Ritratto di Benedetto XV, 1916 Antonio Fabrés, Museo del Prado

La Nota ai capi dei popoli belligeranti fu un documento pontificio emanato da papa Benedetto XV il 1º agosto 1917 - nel pieno svolgimento della prima guerra mondiale - per stigmatizzare il conflitto ed esortare i contendenti a risolvere diplomaticamente le loro controversie. Il documento è passato alla storia per aver introdotto la locuzione «inutile strage» per descrivere il conflitto in corso. Fu la prima volta durante la guerra in cui il pontefice andava oltre la generica deplorazione della violenza, proponendo condizioni concrete per l'avvio dei negoziati di pace e gettando sullo scontro l'ombra della delegittimazione religiosa. La locuzione sembrava infatti mettere in discussione quell'alleanza tra autorità politica e autorità religiosa che aveva portato le varie confessioni religiose, compresa quella cattolica, a sostenere e talora a sacralizzare la causa dei rispettivi paesi.

Contesto storico[modifica | modifica wikitesto]

Tra il gennaio-febbraio 1916, dopo la nota del 12 dicembre in cui Theobald von Bethmann-Hollweg propose l'inizio di trattative di pace e il poco successivo appello del presidente Thomas Woodrow Wilson che il 23 dicembre chiedeva ai belligeranti di manifestare le rispettive vedute sulla pace[1], nella speranza potessero trovare un terreno comune di discussione, anche la Santa Sede diede inizio a una più vitale attività diplomatica mirante a ottenere dalle due parti in lotta l'inizio di negoziati[2]. I risultati furono negativi, soprattutto perché fallita la gigantesca offensiva Nivelle e ancor lontana la possibilità di un efficace intervento statunitense nel conflitto, la situazione appariva pesantemente statica. Gli stati d'animo degli eserciti e dei popoli dell'Intesa iniziavano a dare segni di cedimento, mentre in Germania lo stato maggiore prese de facto il sopravvento sul potere civile. Il capo di stato maggiore tedesco Erich Ludendorff estromise il cancelliere Bethmann-Hollweg, e con la Russia ormai paralizzata militarmente in seguito alla rivoluzione, l'esercito degli Stati Uniti ancora lontano e la guerra sottomarina indiscriminata in piena efficienza, la gerarchia militare tedesca confidava come non mai nella vittoria finale. A luglio il nunzio apostolico in Germania, monsignor Pacelli, comunicò alla Santa Sede che ormai ogni richiesta di pace del Vaticano sarebbe dovuta rivolgersi solamente all'Intesa[3].

Fin dall'inizio del suo pontificato, di poco successivo allo scoppio delle ostilità, Benedetto XV aveva inteso prendere le distanze dai due blocchi dei belligeranti, al fine di poter riaffermare la funzione soprannazionale (e, dunque super partes) della Chiesa, anche in vista di una possibile azione di pace nel nome della paternità universale[4]. Il Papa scelse quindi una politica rigidamente neutrale, cercando di accreditarsi come mediatore tra l'Intesa e gli Imperi Centrali. Sconvolto dagli effetti devastanti del conflitto industriale, egli non si limitò all'azione caritatevole e diplomatica ma cominciò a prendere le distanze dalla dottrina tradizionale della guerra giusta. Si trattò di prese di posizione nette, per molti versi innovative, rispetto alle quali fondamentale risultò la personalità di papa Benedetto XV. La condanna della guerra come tale (ripetutamente definita come «incomparabile sciagura», «immane flagello»), che si poneva in netta antitesi con l’esaltazione del conflitto da parte degli Stati, compreso quello italiano, divenne, in particolare, un leit motiv del magistero del Pontefice negli anni 1914-1918, trovandosi espressa in numerosi testi: dalla esortazione apostolica Ubi primum dell'8 settembre 1914, alla già ricordata enciclica Ad Beatissimi Apostolorum del 1º novembre 1914, sino alla Nota ai belligeranti dell'agosto 1917, in cui la guerra venne definita «inutile strage»[5].

Decisi a perseguire i loro obiettivi bellici, i governi rigettarono la proposta, e la pubblicazione della Nota da parte del The Times di Londra e la vasta eco suscitata in tutto il mondo dalle parole del papa fecero sì che la questione si spostasse dal piano diplomatico a quello mediatico, alimentando le attese per la fine del conflitto e le inquietudini per la tenuta del fronte interno[6]. La realtà della guerra totale e dei suoi immensi sacrifici non consentiva più alcuna pace di compromesso; la guerra da semplice lotta per l'equilibrio balcanico era divenuta una guerra di carattere ideologico, e accanto alle voci di pace si elevavano sempre più alte le voci reclamanti che tanto sangue e tanti sacrifici non fossero invani[7].

La Nota[modifica | modifica wikitesto]

L'appello papale del 1º agosto invitava i capi dei paesi belligeranti a presentare proposte concrete, e proponeva, come base per una pace giusta e duratura: disarmo e arbitrato; libertà dei mari; condono reciproco, salvo casi specifici, dei danni di guerra; restituzione dei territori occupati; esame delle questioni territoriali precedenti tra Francia e Germania, Italia e Austria-Ungheria, e altre relative agli stati balcanici, Polonia e Armenia. La Nota terminava quindi con un appello affinché proposte venissero accolte e si potesse giungere al più presto alla cessazione della tremenda lotta:

«[...] la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage»

Il testo della Nota si articola in tre parti che affrontano i precedenti appelli alla pace, che Benedetto XV enunciò fin dal 1915, gli strumenti come disarmo e arbitrato imprescindibili per garantire una pace duratura, e comprende, nella terza parte, l'accorato appello ad accogliere il suo invito e dove si legge la frase sull'inutilità della guerra in corso[8].

Il nuovo tentativo di mediazione papale mirava a saggiare la volontà dei governi concentrandosi su basi concrete e non più in base a principî astratti; ma la Nota non avrebbe dovuto essere di dominio pubblico. Essa infatti si risolse con un insuccesso diplomatico[7], ma colpi profondamente l'immaginario collettivo grazie alla locuzione «inutile strage». Durante la preparazione del documento la segreteria di Stato consigliò al pontefice di eliminare quelle due parole, giudicate percolose, ma Benedetto XV le mantenne assumendosi la responsabilità del suo rifiuto a modificare il testo e resistendo alle insistenze dei collaboratori che ne sollecitavano la cancellazione[9]. Come scrisse lo storico Piero Melograni: «l'inutile strage rimase, e sollevò una tempesta»[10].

Reazioni immediate[modifica | modifica wikitesto]

Il comunicato del Papa provocò sconcerto e indignazione in seno al comando supremo a Udine; Cadorna la giudicò «una pugnalata nella schiena dell'esercito»[11], mentre alcuni generali pronunciarono parole roventi e minacce nei confronti di Benedetto XV, si disse che bisognava «impiccare» il Papa. Il maggior timore dei comandi fu quello che le parole di Benedetto XV demoralizzassero le truppe, proprio mentre l'esercito si stava preparando per l'undicesima "spallata" sull'Isonzo, e perciò si tentò di censurare la notizia, eliminando l'arrivo dei giornali al fronte. La Nota però si diffuse ugualmente lungo l'intero fronte nel giro di pochi giorni[12].

A livello mediatico la Nota venne accolta con indifferenza - e in alcuni casi con ostilità - dalla stampa italiana, perché avrebbe inficiato sul morale e avrebbe minato lo spirito della truppa combattente con la prospettiva inverosimile di una pace cercata a livello diplomatico[11]. I socialisti dell'Avanti! parlarono di una «bella nota idealistica»; i democratici de Il Messaggero definirono la Nota come un documento con frasi «vaghe ed elastiche» che avrebbero potuto generare equivoci; i liberali de Il Giornale d'Italia affermarono che la Nota nella pratica era irrealizzabile, e i nazionalisti de L'Idea Nazionale scrissero che la Nota - come qualunque altro intervento esterno - non avrebbe potuto in alcun modo fermare la guerra vittoriosa dell'Italia[13]. Nonostante la diversità di opinioni, nella maggior parte dei casi la stampa accolse la Nota con indifferenza, ma due celebri interventisti come il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini e il direttore de Il Popolo d'Italia Benito Mussolini reagirono con violenza alle parole del Papa. Albertini definì la Nota come una «frase dolorosa», ribadendo il carattere di «crociata» del conflitto, definendo i clericali «pseudo-italiani» e invitando i connazionali a guardarsi dalla «serpe neutralista». Mussolini usò un linguaggio anche più violento, parlando di «cintura di salvataggio gettata [...] agli Imperi centrali», di «manifestazione di propaganda banale e criminosa contro la guerra» e di «colpo di traverso» da parte del Vaticano al Regno d'Italia. Molto dura fu anche la reazione dei socialisti riformisti, Leonida Bissolati su L'Azione Socialista, giudicò il documento una «manifestazione di propaganda banale e criminosa contro la guerra», e contro quello che giudicava il «pacifismo disfattista» di Claudio Treves e Costantino Lazzari, Bissolati invocava una repressione dovuta alle esigenze del momento storico[13].

A parte i casi di Albertini e Mussolini, la stampa riservò scarsa attenzione alla Nota, e nemmeno i cattolici le dedicarono molto spazio. Alcuni casi rilevanti furono probabilmente quello di Filippo Crispolti, secondo cui l'«inutile strage» era solo un tassello all'interno di un ragionamento del Papa più ampio e complesso, volto a dimostrare che «i cittadini devono continuare a compiere il proprio dovere verso le loro civili autorità, qualunque decisione, di negoziati di pace o di continuazione di guerra, esse abbiano a prendere»[14], mentre il gesuita Enrico Rosa, direttore de La Civiltà Cattolica, biasimò l'atteggiamento dei giornali come il Corriere della Sera, i quali secondo lui avevano frainteso la «frase scultoria e nel senso del papa verissima, per chi non è accecato dalla passione»[14].

All'estero, il silenzio in cui cadde la Nota papale fu secondo lo storico Angelo d'Orsi «inquietante», un vero e proprio smacco per Benedetto XV reso evidente dal distacco e dalla freddezza con cui il maggior foglio cattolico a livello continentale, La Croix, commentò la Nota. Il giornale finì addirittura per giustificare le mancate risposte dei governi dell'Intesa sostenendo che l'accogliere l'invito del papa significherebbe per gli alleati sminuire una vittoria data per sicura[15]. Le diplomazie europee interpretarono la Nota come un tentativo della Santa Sede di affermare il proprio ruolo di mediatore nella scena internazionale, e secondo lo storico d'Orsi, questo fu uno dei motivi per cui la Nota rimase sostanzialmente inascoltata, e il suo messaggio di riconciliazione non riuscì a «tradursi in un'effettiva incrinatura della dottrina della guerra giusta». Dopo l'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto in aprile e Wilson che diventava il punto di riferimento per un futuro assetto di un pianeta pacificato, il tentativo di Benedetto XV può rappresentare un tentativo di riproporre il ruolo del papato come suprema autorità morale, e nonostante l'insensibilità delle classi dirigenti a cui la Nota era rivolta, il messaggio rimane un importante documento di denuncia della follia di una qualsivoglia vittoria militare, che avrebbe significato solo «una pace cartaginese, una pace imposta sul filo della spada»[16].

Dopo Caporetto[modifica | modifica wikitesto]

Le parole di Benedetto XV assunsero ben diversa risonanza nei giorni successivi alla disfatta di Caporetto, sia perché in quel momento erano molti più numerosi gli uomini disposti ad ascoltare l'ammonimento papale dopo oltre due anni di guerra infruttuosa, sia perché la sconfitta sull'alto Isonzo le prospettive di vittoria si erano fatte più fosche e lontane, e si discuteva sempre più attivamente di pace[17]. Il corrispondente del Corriere Luigi Barzini - uno dei principali artefici della costruzione mediatica della figura di Cadorna - riferì ai familiari di soldati «incoscienti, allegri» che in fuga gridavano «Viva il papa! Viva Giolitti! La pace è fatta!»[11]. Questi episodi convinsero ancor di più i vertici militari e politici, che alla negativa influenza dei socialisti, dei neutralisti e anche della Nota si doveva larga parte del crollo del fronte. Caporetto dunque mise in moto un meccanismo molto indicativo della percezione del disastro e delle dinamiche auto-assolutorie da esso attivate. Un vero e proprio «sciopero militare», dovuto alla propaganda rossa e nera (dove "nera" stava ad indicare quella cattolica) permessa colpevolmente dal governo che non agiva abbastanza duramente contro i pacifisti, e contro chi con opuscoli e lettere parlava di guerra iniqua e «inutile»[11].

Quando Caporetto mise a nudo i limiti e le debolezze di fondo della guerra italiana i vertici militari rispolverarono l'interpretazione disfattista della Nota per celare le proprie responsabilità. Nello spiegare il comportamento dei soldati nell'ottobre 1917, i generali risposero spostando l'attenzione sul piano politico e non su quello militare, dando la colpa ai neutralisti, ai "rossi" e appunto al papa e a quei cattolici che avevano cercato di sostenere e diffondere, per quanto potevano, le ragioni della Nota[18]. Alcuni se la presero con i cappellani militari, altri con i preti nelle città che non aiutavano i militari al fronte, altri con la Chiesa Cattolica in generale e chi in particolare con il papa e la sua Nota. Il generale Raimondo Scintu affermò che «Le preghiere del pontefice per la pace e la Nota alle potenze [...] ebbero indubbiamente influenza non poca nell'animo dei fedeli, per lo meno provocatrice di incertezze [...] potevano far sorgere il dubbio terribile dell'inutilità di tanti sacrifici e di tanto sangue sparso»[19].

Dopo Caporetto la locuzione «inutile strage» fu ufficialmente citata dal Comitato di resistenza di Livorno, che raccoglieva numerosi gruppi di sentimenti patriottici e anticlericali, dai massoni, ai socialisti, ai garibaldini, che il 12 settembre invitò il governo ad agire con durezza contro i «visibili nemici della patria, l'opera dei quali si è rivelata nella sua piena malvagità demagogica col discorso Giolitti a Cuneo, con la insidiosa nota proclamante la nostra santa guerra una inutile strage e infine con i torbidi di Torino». Nella visione dei promotori vi era una congiura tra clericali, "sovversivi" e neutralisti per favorire la vittoria nemica, idea che trasse nuova linfa dalla sconfitta di Caporetto e dal discorso con cui, il 25 ottobre 1917, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino ribadì gli obiettivi della guerra italiana e rigettò la Nota, a suo dire contraddistinta da «quella medesima indeterminatezza che caratterizza le comunicazioni da parte nemica, e che rende impossibile o inutile qualsiasi conseguente scambio di vedute»[20].

L'immagine del papa "disfattista" penetrò rapidamente anche in parlamento, dove gli interventisti vi ricorsero in varie occasioni, come il 19 dicembre 1917, quando l'ex pacifista torinese Edoardo Giretti assicurò che la «frase sulla strage inutile produsse molto effetto e servì di mezzo per diffondere dal paese alla fronte lo svigorimento morale dei soldati». Similmente il radicale Raffaele Cotugno, affermò che non poteva «dirsi inutile strage quella che affretta di secoli l’evoluzione degli spiriti e getta negli animi i semi e le propaggini di sempre nuovi, più fecondi, più decisivi rivolgimenti»[21]. Sidney Sonnino nei suoi diari fu ancora più duro con la Nota, definita «una macchinazione preordinata per disgregare e scuotere l'opinione pubblica nei paesi alleati in un momento difficile e critico»[15].

Ma a distinguersi nel processo di autoassoluzione dei comandi fu il tenente generale Luigi Cadorna, che fin dal 28 ottobre con il Bollettino di guerra n. 887 attribuì la colpa degli accadimenti di Caporetto alla mancata resistenza di alcuni reparti della 2ª Armata e al governo, quest'ultimo reo di aver ignorato i suoi moniti sulla presunta propaganda socialista e disfattista tra le file dell'esercito. Una volta destituito dal comando, Cadorna arricchì la sua teoria di nuovi elementi; nel novembre 1917 confidò all'ex-docente dell'Apollinare Giovanni Genocchi che Benedetto XV aveva «reso un pessimo servizio all'Italia». Secondo Cadorna i socialisti si erano appropriati della Nota per i loro fini e « [...] la Nota ebbe realmente un'influenza notevole sull'animo di molti soldati. I contadini, diffidenti dei socialisti, aprivano il cuore alla parola del papa e ne accettavano le interpretazioni anche false. La gran massa dei nostri soldati si è arresa o è fuggita dopo aver gettato le armi al grido di viva Giolitti, viva il Papa»[22]. Queste parole sarebbero poi state ripetute dal comandante supremo davanti alla Commissione d'inchiesta su Caporetto nel gennaio 1918, e anche se Cadorna avrebbe continuato ad arricchire la sua versione negli anni seguenti, la sua difesa si basava sostanzialmente su un concetto molto semplice: il cedimento fu causato dal crollo morale dovuto alla propaganda interna pacifista e disfattista. Le cause di Caporetto dunque non erano militari, ma morali: il cedimento del sistema difensivo italiano sull'Isonzo nell'ottobre 1917, e il caos che ne era seguito, avevano a che fare naturalmente anche con precise responsabilità di ordine tecnico dovute alla mancata applicazione dei suoi ordini e da condizioni oggettive imprevedibili quali la stanchezza delle truppe e l'efficacia delle nuove tattiche importate dai tedeschi. Ma tutto ciò si poteva fondamentalmente ricondurre all'effetto deleterio che sulla tenuta disciplinare e sulla volontà combattiva dei soldati aveva avuto la «propaganda disfattista» e pacifista, alimentata dalla sinistra parlamentare, dai movimenti extraparlamentari e sindacati, e corroborata dalla nefasta influenza che la nota di Benedetto XV sull'«inutile strage» aveva avuto sulla massa dei coscritti cattolici[23].

Nei mesi successivi si rafforzò in Cadorna la convinzione che il papa avesse fatto involontariamente il gioco dei disfattisti socialisti: «era naturale che, date le condizioni e il morale delle truppe [...] , l'appello del S. Padre per la pace facesse sui soldati una grande impressione e non li animasse a combattere. Dire però che la nota pontificia sia stata la causa determinante del disastro è un'assurdità» . Perfino il principale fautore della tesi (rivelatasi poi infondata) dello «sciopero militare» ridimensionò insomma la portata locuzione, che in effetti non pare emergere nelle lettere censurate o anonime né durante le manifestazioni, animate soprattutto dalle donne, contro la guerra e il caro viveri. Nel complesso, non sembra che l'«inutile strage» ebbe la circolazione né gli effetti paventati dagli ambienti conservatori e nazionalisti all'indomani della pubblicazione della Nota; ciò detto, essa sarebbe rimasta nel discorso pubblico anche dopo la resa di Vienna, nel travagliato periodo compreso tra la fine dei combattimenti e l'avvento del fascismo[24].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Andrea Saccoman, Proposta di Pace della Germania, su alpinimilanocentro.it. URL consultato il 29 settembre 2022.
  2. ^ Pieri, p. 148.
  3. ^ Pieri, pp. 148-149.
  4. ^ Fabio Franceschi, Benedetto XV e la questione romana negli anni della Grande Guerra, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 1, 2020, p. 61, ISSN 1971-8543 (WC · ACNP).
  5. ^ Fabio Franceschi, Benedetto XV e la questione romana negli anni della Grande Guerra, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 1, 2020, p. 63, ISSN 1971-8543 (WC · ACNP).
  6. ^ Cavagnini, p. 38.
  7. ^ a b Pieri, p. 149.
  8. ^ d'Orsi, pp. 128-129.
  9. ^ d'Orsi, p. 129.
  10. ^ Melograni, p. 351.
  11. ^ a b c d Gabriele Paolini, «La colpa è del Papa». Le accuse alla Santa Sede e ai cattolici prima e dopo Caporetto., su books.openedition.org. URL consultato l'8 ottobre 2022.
  12. ^ Melograni, pp. 351-352.
  13. ^ a b Cavagnini, p. 39.
  14. ^ a b Cavagnini, p. 40.
  15. ^ a b d'Orsi, p. 127.
  16. ^ d'Orsi, pp. 130-131.
  17. ^ Melograni, pp. 352-353.
  18. ^ Labanca, pp. 70-71.
  19. ^ Labanca, p. 71.
  20. ^ Cavagnini, p. 41.
  21. ^ Cavagnini, p. 42.
  22. ^ Cavagnini, p. 46.
  23. ^ Mondini, Cap. 8, sottocap. 2 - "Processo a Cadorna".
  24. ^ Cavagnini, pp. 46-47.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]