Indirizzi di fedeltà dei comuni trentini a Vittorio Emanuele II nel 1866

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Gli indirizzi di fedeltà dei comuni trentini liberati dalle truppe italiane a Vittorio Emanuele II nel 1866 furono un episodio della Terza guerra d'indipendenza italiana.

Consistettero in una petizione dei rappresentanti delle amministrazioni comunali e del clero dei comuni del Trentino indirizzata al re d'Italia Vittorio Emanuele II, al fine di ottenere il trasferimento dei loro territori dalla sovranità dell'Impero austriaco a quella del Regno d'Italia.

Presupposti[modifica | modifica wikitesto]

Dopo la vittoriose battaglie di Bezzecca di Giuseppe Garibaldi e di Levico di Giacomo Medici, la liberazione di Trento sembrava a tutti gli osservatori una questione di pochi giorni, ma la guerra ormai volgeva al termine. La Prussia, vincitrice a Sadowa, non volendo umiliare ulteriormente l'Austria e temendo un'offensiva francese sul Reno, il 26 luglio prorogava una sospensione d'armi con Vienna. La notizia giunse anche nella Valle del Chiese liberata, per cui un gruppo di patrioti, riuniti a Storo in casa del possidente Francesco Cortella e guidati dal capitano Ergisto Bezzi, temendo che i comuni trentini delle Giudicarie liberati rimanessero esclusi dall'annessione all'Italia si mobilitarono a redigere, tramite una prima lettera a Giuseppe Garibaldi, una petizione ufficiale di "fedeltà" a Vittorio Emanuele II, facendola poi sottoscrivere ai vari rappresentanti comunali e al clero locale.[1]

Il testo della petizione[modifica | modifica wikitesto]

A Giuseppe Garibaldi:

«Generale. Alle vostre frequenti vittorie ci vedevamo ormai uniti alla grande famiglia italiana, alla quale apparteniamo per sentimento, per lingua e per confini domandati dalla natura. Ma alla vigilia di vedere queste nostre speranze esaudite, intervenne la diplomazia, eterna nemica dei popoli. Essa vorrebbe ora che tanto sangue fosse sparso indarno, che l’Austria si rimettesse di forza e di baldanza a obbrobrio d’Italia e a danno degli alleati, che al nostro fianco combattono con tanta gloria il comune nemico. Voi oggi potete, o Generale, dare pieno corso alle vostre vittorie, rompendo una volta quei vincoli che troppe volte avete sopportato con ammirabile abnegazione. Noi a ciò vi offriamo l’appoggio delle braccia e delle nostre vite orgogliosi di spenderle a pro dell’Italia, anziché serbarle alle ritorte dell'Austria. Accogliete un saluto ed un voto. Storo, 27 luglio 1866.»

A Vittorio Emanuele II:

«A Sua Maestà Vittorio Emanuele II. All'annuncio della guerra che voi, in nome della Nazione Italiana, avete mosso all'Austria, l'animo nostro si offriva alla speranza di essere finalmente uniti alla grande famiglia italiana, alla quale sentiamo di appartenere, e per lingua, e per confini imposti dalla natura, e a noi contesi finora dalla diplomazia, nemica dei popoli. Furono in breve questi monti rallegrati da migliaia di volontari che la nazione al vostro appello offerse con ammirabile entusiasmo. E vinsero questi valorosi un nemico forte di posizioni e di armi, che a noi parevano insuperabili. Ma ora che i maggiori sacrifici sono consumati, ora che l'Austria crolla da tutte le parti, ecco che la diplomazia si pianta fra noi e i nostri diritti; le voci di pace prendono tuttodì maggiore consistenza, sicché temiamo di noi, mentre tanto avevamo sperato pochi giorni addietro. In queste angustie, noi volgiamo una parola a Voi, che non foste mai sordo alle grida di dolore mosse dai vostri popoli; e noi siamo vostri, perocché siamo parte della Nazione Italiana e pronti a dare per essa sostanza e vita. Impedite che l'Austria, temporeggiando, si rimetta, a scorno della nostra causa ed obbrobrio della Nazione ed a danno dei nostri veri alleati. Storo, 27 luglio 1866” .»

I comuni firmatari[modifica | modifica wikitesto]

Siglarono i due protocolli diversi comuni; i loro nominativi sono raccolti nella copia del telegramma che Garibaldi inviò da Cologna a Firenze, al Presidente del consiglio Bettino Ricasoli il 31 luglio 1866, ripetuto subito al generale Alfonso La Marmora presso il quartier generale del Regio Esercito a Padova.

Firmarono Storo, Darzo, Lodrone, Magasa, Tiarno di Sopra, Tiarno di Sotto, Ledro, Bezzecca, Pieve di Ledro, Molina, Legos, Biacesa, Prè, Mezzolago, Lenzumo, Enguiso, Locca, Bondone, Condino, Cimego, Cologna, Creto, Bono, Daone, Tione, Bersone, Brione e Strada.

Nell'elenco non sono contemplati, ma sottoscrissero i documenti secondo quanto sostenuto da alcuni patrioti trentini,[2] i comuni di Barcesina, Piazza e Turano, che però aderì solamente alla petizione rivolta a Garibaldi. Non aderirono i comuni di Castel Condino, Agrone, Praso, Por, Pranzo, Campi e Deva, queste ultime due frazioni di Riva del Garda.[1]

Anche i comuni della Valsugana, liberati dal corpo di spedizione di Giacomo Medici, si comportarono allo stesso modo di quelli giudicariesi inviando degli indirizzi di "fedeltà" al re d'Italia.[3]

La ricerca del consenso[modifica | modifica wikitesto]

Secondo alcuni storici, il consenso dei consiglieri comunali e soprattutto quello del clero giudicariese fu estorto da alcuni garibaldini con pressioni politiche, talvolta con minacce verbali. A Magasa e a Turano si adoperò con solerzia per la raccolta delle firme necessarie l'oste di Capovalle, Venturino Giorgi; secondo la relazione che il pretore Adolfo Strele di Condino inviò il 20 agosto al consigliere aulico di Trento conte von Hohenwart: "[…] In qual modo venissero raccolte le sottoscrizioni dell'indirizzo, si può desumere dagli annessi nove protocolli e deve recare meraviglia come ne siano stati incaricati un di Storo, dal 1859 in qua profugo politico, e un di Hano,[4] due persone di perduta fama e senza il minimo ascendente, ma bensì capaci di minacce".[3][5]

Nel comune di Bondone le cose non andarono diversamente: "Il giorno 29 luglio compariva nella cancelleria del Municipio due individui vestiti in civile, e con un atto già esteso chiedeva il voto favorevole di unirsi al Re d'Italia. Gran parte della Rappresentanza rifiutava… Più fortemente montava in furia uno di questi individui, e con minacce pericolose costringeva i membri a firmare, spiegandosi che a ora di notte vi sarebbe giunti una grande quantità di Garibaldini a spese del Comune, e a tale minaccia si firmava. Però non sono un voto naturale, contro la volontà d'ogni singolo membro del paese e della rappresentanza".[5]

A Storo accadde la stessa situazione: "[…] Sotto la pressione di una forza insolente e circondati da scaltri insediatori, nol neghiamo, abbiamo firmato atti, pei quali il rossore ci copre il volto, e ci fa amaro rimprovero la coscienza. Ma giuriamo che tali firme furono estorte da ingiusta violenza, ed oggi protestiamo solennemente contro quelli atti, dichiarando pubblicamente che in quelli atti stessi il nostro cuore era Vostro, o I. R. Apostolica Maestà".[6]

Conclusione[modifica | modifica wikitesto]

La pace di Vienna del 3 ottobre chiuse la guerra con la cessione all'Italia del Veneto ma non del Trentino, la restituzione degli archivi e delle opere d'arte trafugate, tra le quali la famosa Corona ferrea dei re longobardi, e la concessione di una completa amnistia politico-militare di cui beneficiarono coloro che avevano collaborato con il Corpo Volontari Italiani, ivi comprese le Deputazioni comunali e il clero che avevano siglato i due storici documenti.

Con il ritorno definitivo degli austriaci, i rappresentanti di ogni comune trentino che avevano aderito agli indirizzi di fedeltà furono obbligati dalla metà di agosto, tramite le preture di appartenenza, di giustificare nel minor tempo possibile con una petizione all'imperatore Francesco Giuseppe i motivi che li avevano spinti all'adesione politica, chiedendo perdono e dichiarando fedeltà agli Asburgo.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Tullio Marchetti, Fatti e uomini e cose delle Giudicarie nel Risorgimento (1848-1918), Scotoni, Trento 1926.
  2. ^ Francesco Martini Crotti, La Campagna dei volontari nel 1866, Cremona, Tip. Fezzi, 1910.
  3. ^ a b Gianpaolo Zeni, La guerra delle Sette Settimane. La campagna garibaldina del 1866 sul fronte di Magasa e Val Vestino, Comune e Biblioteca di Magasa, 2006.
  4. ^ Antico nome del comune di Capovalle.
  5. ^ a b R. Gasperi, Per Trento e Trieste. L'amara prova del 1866, 2 voll. Trento 1968.
  6. ^ Gianni Poletti e G. Zontini, Caribalda. La campagna garibaldina del 1866 nei diari popolari di Francesco Cortella di Storo e Giovanni Rinaldi di Darzo, Gruppo Il Chiese, Storo 1982.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Francesco Martini Crotti, La Campagna dei volontari nel 1866, Cremona, Tip. Fezzi, 1910.
  • Tullio Marchetti, Fatti e uomini e cose delle Giudicarie nel Risorgimento (1848-1918), Scotoni, Trento 1926.
  • Gianpaolo Zeni, La guerra delle Sette Settimane. La campagna garibaldina del 1866 sul fronte di Magasa e Val Vestino, Comune e Biblioteca di Magasa, 2006.
  • Ottone Brentari, Il secondo battaglione Bersaglieri Volontari di Garibaldi nella campagna del 1866, Milano 1908.
  • C. Bertassi, L'impresa garibaldina del 1866 attraverso i giornali italiani, in “Garibaldiner”, Tione 1987.
  • R. e L. Pelizzari, I Garibaldi a Ponte Caffaro, in “Passato Presente”, Quaderno n. 4, Storo 1982.
  • Gianni Poletti e G. Zontini, Caribalda. La campagna garibaldina del 1866 nei diari popolari di Francesco Cortella di Storo e Giovanni Rinaldi di Darzo, Gruppo Il Chiese, Storo 1982.
  • Ugo Zaniboni Ferino, Bezzecca 1866. La campagna garibaldina dall'Adda al Garda, Trento 1966.
  • Virgilio Estival, Garibaldi e il governo italiano nel 1866, Milano 1866.
  • R. Gasperi, Per Trento e Trieste. L'amara prova del 1866, 2 voll. Trento 1968.
  • Antonio Fappani, La Campagna garibaldina del 1866 in Valle Sabbia e nelle Giudicarie, Brescia 1970.