Manifesto dei 121

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5, rue Saint-Benoît, Paris 6e

Il Manifesto dei 121, intitolato Déclaration sur le droit à l’insoumission dans la guerre d’Algérie (Dichiarazione sul diritto all'insubordinazione nella guerra d'Algeria), fu firmato da intellettuali, accademici e artisti francesi e pubblicato il 6 settembre 1960 sulla rivista Vérité-Liberté. Il manifesto nacque sulla scia del "gruppo di rue Saint-Benoît" [1]. Il documento, pensato e redatto da Dionys Mascolo e Maurice Blanchot raggruppò personalità appartenenti a diversi orizzonti politici in uno spirito libertario e piuttosto orientato a sinistra. È stato importante per la storia della sinistra e dell'estrema sinistra in Francia.

Contenuto del manifesto

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««Non si reclamava più solo il diritto del popolo a non essere più oppresso, ma il diritto del popolo a non opprimere più se stesso.» - (François Maspero[2]

Il manifesto dichiarava l'intenzione di informare l'opinione pubblica francese e internazionale sul movimento di protesta contro la guerra d'Algeria. I 121 criticavano l'atteggiamento equivoco della Francia nei confronti del movimento d'indipendenza algerino, sostenendo che la «popolazione algerina oppressa» cercava solo di essere riconosciuta «come comunità indipendente». Partendo dalla constatazione del crollo degli imperi coloniali, mettevano in evidenza il ruolo politico dell'esercito nel conflitto, denunciando in particolare il militarismo e la tortura, che andavano «contro le istituzioni democratiche». Il manifesto si concludeva con tre proposte finali:

  • «Rispettiamo e riteniamo giustificato il rifiuto di prendere le armi contro il popolo algerino. »
  • «Rispettiamo e riteniamo giustificata la condotta dei francesi che ritengono di dover portare aiuto e protezione agli algerini oppressi a nome del popolo francese. »
  • «La causa del popolo algerino, che contribuisce in modo decisivo alla caduta del sistema coloniale, è la causa di tutti gli uomini liberi. »

Lista dei firmatari

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I primi 121 firmatari furono[3]:

A questi se ne aggiunsero altri 120:

Pubblicazione

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Il manifesto fu pubblicato il 6 settembre 1960 su Vérité-Liberté:cahiers d'information sur la guerre d'Algérie[4]. Questa rivista, clandestina, pubblicata a Parigi dal 1960 al 1962, era dedicata a divulgare tutte le informazioni vietate o filtrate dalla censura sulla guerra d'Algeria. Era gestita da Paul Thibaud. Il suo comitato di redazione comprendeva i giornalisti Robert Barrat e Claude Bourdet, lo storico Pierre Vidal-Naquet, il matematico Laurent Schwartz, lo scrittore Vercors e Jean-Marie Domenach della rivista Esprit. Il giornale Témoignages et documents, che rieditava durante la guerra d'Algeria i testi censurati, pubblicò anche il manifesto e le reazioni del Partito Comunista Francese e del Partito Socialista Unificato. Il manifesto doveva anche apparire nel numero di agosto-settembre 1960 di Les Temps Modernes, ma fu censurato e sostituito da una doppia pagina bianca, seguita dalla lista dei firmatari.

L'8 settembre 1960, Jérôme Lindon dichiarava su Paris-Presse: «Preferirei mille volte vedere mio figlio disertore piuttosto che torturatore. »[5].

Il giornale clandestino Vérités pour, sottotitolato Centrale d'informazione e d'azione sul fascismo e la guerra d'Algeria, era vicino alla Rete Jeanson [6]. Diede spesso la parola a Jeune Résistance, un movimento di insubordinati e disertori, e pubblicò il Manifesto dei 121 e articoli più radicali poiché vi si considerava la diserzione un dovere[7].

Altri 120 firmatari del Manifesto si unirono ai primi. La rivista Routes de la paix (che ha preso diversi altri nomi), basata in Belgio e diffusa in Francia, alla quale partecipava il pacifista belga Jean Van Lierde, ripubblicò il manifesto[8].

Repressione dei firmatari

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Ordinanze governative, accuse, incarcerazioni

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Le reazioni furono tanto più vivaci in quanto il manifesto venne deliberatamente pubblicato mentre si svolge il processo ai "fattorini" della Rete Jeanson. La difesa chiamò a testimoniare tutti i firmatari; dopo un primo rifiuto, il tribunale accettò la comparizione di venti di essi[9]. Qualche giorno dopo, il Consiglio dei ministri reagiva modificando con ordinanza alcuni articoli del codice di procedura penale e del codice di giustizia militare, impedendo in particolare l'audizione di testimoni non citati prima dei procedimenti.

Le autorità erano state abilitate dalla legge del 3 aprile 1955 «a prendere tutte le misure per assicurare il controllo della stampa e delle pubblicazioni di qualsiasi natura, nonché quello delle trasmissioni radiofoniche, delle proiezioni cinematografiche e delle rappresentazioni teatrali [10]

Il governo emise diverse ordinanze che aggravavano le pene per la provocazione all'insubordinazione, alla diserzione e al rifiuto di libretto militare [11], il favoreggiamento di insubordinati e il porre ostacoli alle partenze dei soldati, e reprimevano più severamente i funzionari pubblici sostenitori dell'insubordinazione e della diserzione. Il generale de Gaulle, severo contro «i servitori dello Stato», insisteva invece affinché gli intellettuali beneficiassero di una maggiore libertà di pensiero e di espressione. Ventinove persone furono accusate di istigazione di militari alla disobbedienza e provocazione all'insubordinazione e alla diserzione, mentre Jean-Paul Sartre e altri firmatari reclamavano vanamente la propria incriminazione. La rivista Les Temps Modernes fu sequestrata in quanto conteneva l'elenco dei firmatari del manifesto e di altri articoli sulla guerra d'Algeria. Tra i firmatari, il giornalista Robert Barrat fu incarcerato per 16 giorni. Alla fine le accuse decaddero.

Sanzioni professionali

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Jean-Louis Bory, Pierre Vidal-Naquet e altri professori furono sospesi dai loro incarichi. Con decreto firmato da Pierre Messmer, ministro delle forze armate, l'École polytechnique revocò l'incarico al professor Laurent Schwartz, posto in congedo con disonore.

Gli artisti furono esclusi dai teatri sovvenzionati e privati degli anticipi sugli incassi cinematografici. Alla Radiodiffusion-Télévision Française fu vietata ai firmatari qualsiasi collaborazione a comitati di realizzazione, qualsiasi ruolo, intervista, citazione d'autore o resoconto d'opera; di conseguenza, molte emissioni già registrate o in progetto vennero annullate. Critici letterari e teatrali rifiutarono di partecipare alla trasmissione radiofonica di François-Régis Bastide, Le Masque et la plume [12], da cui alcuni dei loro colleghi erano stati estromessi. Il programma fu sabotato da uno degli animatori, Jérôme Peignot, e fu sospeso per sei mesi. Frédéric Rossif e François Chalais fecero lo stesso per la trasmissione Cinépanorama[13].

Personalità e associazioni, in particolare sindacati, difesero la libertà di espressione e si opposero alle sanzioni sul lavoro. Produttori televisivi tra i più noti costituirono un'associazione presieduta da Pierre Lazareff per ottenere «accomodamenti» alle sanzioni disciplinari, e Claude Mauriac rifiutò «di far parte, seppur modestamente, di un organismo i cui responsabili fanno così poco caso alla libertà di espressione e al diritto al lavoro» e si dimise dal comitato televisivo.

Fu solo nel 1965 che l'ultimo funzionario firmatario del manifesto fu reintegrato. Si trattava di Jehan Mayoux, insegnante e militante pacifista. Nel 1939 era stato condannato a cinque anni di carcere per aver rifiutato la mobilitazione; Marie e François Mayoux, i suoi genitori, antimilitaristi, autori di un opuscolo pacifista intitolato Gli insegnanti sindacalisti e la guerra erano stati dimessi dall'insegnamento e imprigionati per «propositi disfattisti» durante la prima guerra mondiale.

Sostegno ai firmatari e ai ribelli

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Una dichiarazione di solidarietà con i firmatari del manifesto fu approvata da intellettuali e artisti europei e statunitensi, tra cui Federico Fellini, Alberto Moravia, Bertrand Russell, Norman Mailer, Seán O'Casey e Max Frisch, «perché le opinioni espresse dai protagonisti di questo movimento sollevano questioni di principi universali.»

Alcuni vincitori del Premio Pulitzer scrissero ai firmatari della dichiarazione:

Come Henry David Thoreau, che protestava contro la schiavitù e la guerra del Messico che considerava imperialista, difendiamo il diritto «di rifiutare fedeltà al governo e di resistergli quando la sua tirannia e la sua incapacità sono così grandi da diventare insopportabili.»

Cinquantadue accademici americani, tra cui Aldous Huxley e Herbert Marcuse, dichiararono la loro ammirazione ai firmatari del «manifesto contro il servizio militare in Algeria, redatto secondo gli imperativi della loro coscienza.»

La Federazione protestante di Francia definì «legittimo» e sostenne il rifiuto dei combattenti di partecipare alla tortura. A coloro che rifiutavano di partire per questa guerra, diceva che l'obiezione di coscienza sembrava il mezzo per rendere una testimonianza chiara: «Non ci stancheremo di chiedere per l'obiezione di coscienza uno statuto legale.»

La Lega dei Diritti Umani, che aveva sempre condannato l'insubordinazione, ma aveva anche sempre chiesto uno statuto per gli obiettori di coscienza,
"Oggi constata che nelle attuali condizioni della guerra d'Algeria, l'insubordinazione è diventata per alcuni giovani una forma di obiezione di coscienza. D'altra parte la Lega protesta contro le più recenti ordinanze del governo e contro i procedimenti avviati contro i firmatari della dichiarazione detta «dei 121».»

Le critiche al Manifesto

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  • Il Manifesto dei 121 provocò un contro-manifesto, il Manifesto degli intellettuali francesi per la resistenza all'abbandono, pubblicato il 7 ottobre 1960 sui quotidiani Le Figaro e Le Monde e il 12 ottobre sul settimanale Carrefour. Vi si denunciava l'appoggio dato al FLN dai firmatari del manifesto dei 121 - questi «professori di tradimento» - e si difendeva l'Algeria francese. Si sosteneva l'azione della Francia e dell'esercito in Algeria («L'azione della Francia consiste, infatti come in principio, nel salvaguardare in Algeria le libertà ( [...] ) contro l'instaurazione da parte del terrore di un regime di dittatura»), accusava l'FLN di essere una «minoranza di ribelli fanatici, terroristi e razzisti» e negava «agli apologeti della diserzione il diritto di porsi come rappresentanti dell'intelligenza francese». Questo contro-manifesto fu firmato, tra gli altri, dal maresciallo Juin e da altri sei membri dell'Académie française - Henry Bordeaux, Pierre Gaxotte, Robert d'Harcourt, Henri Massis, André François-Poncet e Jules Romains, 19.
  • 6 Associazioni di ex combattenti (l'Unione nazionale dei combattenti di Alexis Thomas, Rhein et Danube, gli Anziani del 2º D.B., Fiandre-Dunkerque, gli Anziani delle Forces françaises libres di de Gaulle, gli Anziani del Corps expéditionnaire français en Italie) chiamarono a manifestare a Parigi nella calma e nel silenzio, il 1º ottobre 1960, «in risposta all'appello all'insubordinazione e al tradimento». Altre associazioni si unirono alla manifestazione insieme a rappresentanti eletti come Jean-Marie Le Pen e a giovani militanti di estrema destra. Risposero in seimila[14]. Louis Aragon, anche se non aveva firmato il manifesto dei 121, pubblicò il 12 ottobre 1960 su L'Humanité una lettera aperta all'Associazione degli scrittori combattenti in cui scriveva: «Voi supplicate il potere di perseguire i 121 con implacabile rigore. Cancellatemi dai vostri registri.»
  • Jean-Jacques Servan-Schreiber, cofondatore della rivista L'Express, aveva difeso posizioni anticolonialiste e denunciato la tortura in Algeria, cosa che gli era valsa censure e sequestri, con due ministri che accusavano il suo libro di testimonianza Tenente in Algeria[15] di demoralizzare l'esercito e di tradimento. Lo stesso Schreiber, ora, in una Lettera d'un non-disertore, denunciava «i maestri di pensiero della sinistra che incitano i loro discepoli ad impegnarsi nella via della diserzione e dell'aiuto al FLN [...] Coloro che manderanno dei ragazzi nelle segrete della giustizia militare per disertare avranno senz'altro diritto ai nostri occhi ada ancor meno indulgenza che gli usurpatori del potere. Sono stato chiaro, spero.» Il numero dell'L'Express che conteneva questa lettera fu sequestrato a causa del suo riferimento al Manifesto nonostante esprimesse riprovazione.
  • Dall'inizio del conflitto in Algeria, il Partito Comunista Francese aveva sostenuto che la partecipazione dei suoi militanti al contingente di questa guerra coloniale fosse una garanzia di funzionamento più democratico dell'esercito. Nel settembre 1960, l'Humanité citava Maurice Thorez, segretario generale del partito, che il 31 maggio 1959 aveva ricordato i principi definiti da Lenin: "Il soldato comunista parte per qualsiasi guerra, anche per una guerra reazionaria, per continuare la lotta contro la guerra. Lavora dove è posizionato. Se così non fosse, vorrebbe dire prendere posizione su basi puramente morali, secondo il carattere dell'azione condotta dall'esercito a scapito del collegamento con le masse." Aggiungeva però, l'Humanité: «Tuttavia - è necessario dirlo? - i comunisti sono per la liberazione, l'assoluzione o il non luogo a procedere per gli uomini e le donne imprigionati, processati o accusati per aver preso parte, a loro modo, alla lotta per la pace.».
    Sostanzialmente la posizione del PCF fu - rifiutare l'appello alla diserzione (definito da France nouvelle come "iniziativa piccolo-borghese"[16]), ma "organizzare la solidarietà in favore dei funzionari e degli artisti sospesi a seguito della loro attività per la pace in Algeria, compresi i firmatari del Manifesto dei 121"[17].
  • Sulla stessa linea si espressero le organizzazioni socialiste (Partito Socialista Unificato, Sezione Francese dell'Internazionale Operaia, Mouvement des jeunes socialistes).
  • Varie istanze della Chiesa cattolica sulla scia del cardinale arcivescovo di Parigi Maurice Feltin e del quotidiano cattolico La Croix criticarono energicamente l'insubordinazione individuale invocando il dovere dettato da Dio di amare la patria come la mamma [18], subendo a loro volta la critica di 16 senatori cattolici che li accusavano di ignorare il ruolo della "propaganda comunista" e della loro bestia nera, i preti operai[19].
  • L'OAS parlò con i suoi metodi: con un attentato alla casa di Françoise Sagan il 23 agosto 1961, altri attentati il 22-23 settembre (alla rivista Témoignage chrétien, alla casa di Laurent Schwartz[20], alla casa dei genitori del generale Jacques Pâris de Bollardière, a suo tempo il più giovane generale di Francia, ma reo di aver deplorato l'uso della tortura nella guerra d'Algeria), alla casa del tesoriere di Verité-Liberté il 12 ottobre 1961, all'abitazione e alla casa editrice di Jérôme Lindon, che nella sua Éditions de Minuit aveva pubblicato diversi testi relativi alla tortura in Algeria e racconti dei disertori.

Appello all'opinione pubblica per una pace negoziata

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Nel numero dell'ottobre 1960 de l'Enseignement public, organo mensile della Federazione dell'educazione nazionale (autonoma) e poi su Le Monde il 6 ottobre 1960 fu pubblicato un manifesto più moderato di quello dei 121, l'Appello all'opinione pubblica per una pace negoziata, preparato dai leader dei sindacati degli insegnanti e dell'Unione nazionale degli studenti di Francia, nonché da varie personalità come Roland Barthes, Jacques Le Goff, Daniel Mayer, Maurice Merleau-Ponty, Edgar Morin, Jacques Prévert e Paul Ricœur. Paul Ricœur spiega la sua posizione: «Non consiglio l'insubordinazione - e dico perché -, ma mi rifiuto di condannare l'insubordinazione - e sono pronto anche a dire perché davanti a un tribunale militare, se qualche giovane mi chiede la mia testimonianza. [...] Per noi e per loro è una guerra illegittima con la quale impediamo al popolo algerino di costituirsi in Stato indipendente come tutti gli altri popoli dell'Africa.»[21].

Dopo la guerra

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Conclusa la guerra d'Algeria, fu emanato un corposo pacchetto legislativo volto ad amnistiare i responsabili degli atti commessi durante la guerra d'Algeria. Le norme furono emanate e votate in varie tranches tra gli accordi di Evian del 1962 e il primo settennato di presidenza Mitterrand nel 1982[22].

Le prime disposizioni giuridiche di amnistia si caratterizzarono per la loro precocità, così come per la loro insolita modalità giuridica: furono infatti concesse con decreti, mentre la tradizione repubblicana voleva che l'amnistia fosse parlamentare. La misura fu presa rapidamente in conformità agli accordi di Evian, che riconoscevano la legittimità della lotta degli algerini. La legge del 16 marzo 1956 sui poteri speciali del governo durante gli eventi in Algeria consentiva la possibilità di amnistiare per decreto, e gli archivi mostrano che il governo aveva formulato fin dal gennaio 1961 la richiesta, al servizio legislativo della direzione degli Affari criminali e delle Grazie del ministero della Giustizia, di redigere un testo di amnistia.

Queste disposizioni iniziarono al momento degli accordi di Evian, con due decreti firmati il 22 marzo 1962. Il primo è il decreto nº 62-327 recante «amnistia dei reati commessi a titolo dell'insurrezione algerina», il secondo, il decreto nº 62-328 relativo all'«amnistia di fatti commessi nel quadro delle operazioni di mantenimento dell'ordine dirette contro l'insurrezione algerina». Nel mese di aprile furono poi pubblicate cinque ordinanze per rendere applicabili i decreti sopra citati. La misura permetteva di amnistiare circa 15.000 persone in Algeria e 5.500 in Francia.

L'amnistia penale fu attuata con tre leggi promulgate il 23 dicembre 1964, il 17 giugno 1966 e il 31 luglio 1968. Esse realizzano l'amnistia penale dei militanti dell'Algeria francese e dell'Organizzazione dell'esercito segreto (OAS). Il primo «amnistia e autorizza la dispensa da talune incapacità e decadenze» e il secondo «amnistia infrazioni contro la sicurezza dello Stato o commesse in relazione agli eventi dell'Algeria».

L'ultima amnistia risale al 1982, quando il presidente François Mitterrand decise di porre fine alle «conseguenze degli avvenimenti in Algeria» facendo votare una legge sulla revisione delle carriere dei generali implicati. La legge fu convalidata in Consiglio dei ministri e poi proposta da Pierre Mauroy all'Assemblea nazionale[23]. Pierre Joxe minacciò di dimettersi se la legge riabilitava i generali putschisti e i socialisti proposero un emendamento che permettesse di escludere i generali golpisti, ma il governo fece passare la legge nella formulazione iniziale grazie all'articolo 49-3 della Costituzione della Quinta Repubblica, utilizzato per la prima volta nel settennato Mitterrand[24]. Tutti i protagonisti del Putsch dei generali, a cominciare da Raoul Salan, furono così reintegrati nella riserva[25].

  1. ^ Il Groupe de la rue Saint-Benoît designa un gruppo di amici, composto principalmente da intellettuali, che si riuniva in modo informale nella casa di Marguerite Duras, al 5 rue Saint-Benoît nel VI arrondissement di Parigi, dagli anni '40 agli anni '60. Duras accoglieva i commensali e cucinava, ma partecipava anche ai dibattiti filosofici, letterari e politici che si svolgevano nel gruppo. Le riunioni avvenivano in modo informale, come osserva Claude Roy nel secondo volume della sua autobiografia, Nous: "Non c'era mai bisogno di aprire la seduta, perché non era mai sospesa. L'ordine del giorno era di mettere ordine nei giorni della storia: tutto qui.»
  2. ^ Maspero 1961, « Avertissement de l'éditeur ».
  3. ^ da «La déclaration des intellectuels sur le droit à l’insoumission dans la guerre d’Algérie», Vérités pour, no 18, 26 septembre 1960, p. 5. Ripubblicata in Déclaration, 1960
  4. ^ Scheda BNF:.
  5. ^ Maspero 1961, p. 24.
  6. ^ Il Réseau Jeanson (Rete Jeanson) fu un gruppo di attivisti francesi, che agiva sotto l'impulso di Francis Jeanson, che operò come gruppo di sostegno del FLN durante la guerra d'Algeria, principalmente raccogliendo e trasportando fondi e documenti falsi.
  7. ^ «La déclaration des intellectuels sur le droit à l’insoumission dans la guerre d’Algérie», Vérités pour, no 18, 26 septembre 1960, p. 5, consulté le 25 décembre 2020) [1].
  8. ^ Collectif coordonné par l'association Sortir du colonialisme (préf. Tramor Quemeneur, postface Nils Andersson), Résister à la guerre d'Algérie: par les textes de l'époque, Paris, Les Petits matins, 2012, 185 p. (ISBN 978-2-36383-009-8), «Préface: Les oppositions françaises à la guerre».
  9. ^ Hamon et Rotman 1982, p. 240.
  10. ^ Si veda in Nils Andersson, Les résistances à la guerre d'Algérie, Savoir/Agir, no 21, 2012, p. 97–105 [2].
  11. ^ Il rifiuto e la distruzione volontaria di libretti militari, di fascicoli di mobilitazione, di carte di servizio nazionale o di assegnazioni di difesa sono atti illegali individuali o collettivi, pubblici o non pubblici, generalmente destinati a protestare contro la politica militare o un suo aspetto. In alcuni casi, queste azioni di disobbedienza civile sono state eseguite a causa della mancanza di una legislazione che permettesse di dichiararsi obiettore di coscienza dopo l'adempimento del servizio militare. In Francia, la modifica dello statuto degli obiettori, approvata solo nel 1983, ha attenuato questa mancanza, che comportava condanne penali.
  12. ^ Le Masque et la plume è una delle più antiche trasmissione radiofoniche francesi; dedicata alla critica di libri, film e opere teatrali, fu creata nel 1955 e viene ancora trasmessa ogni domenica alle 10 e alle 20 su France Inter.
  13. ^ François Chalais commentò: «Diventa impossibile rendere conto dell'insieme dell'attualità cinematografica. Se Marilyn Monroe viene a Parigi, non potrò nemmeno presentarla agli spettatori perché mi parlerà del suo prossimo film tratto da un'opera di Sartre. » Il ministro dell'Informazione decise allora che François Chalais dovesse cessare tutti i rapporti con la RTF. La solidarietà di registi e produttori ottenne la revoca del divieto
  14. ^ Hamon et Rotman 1982, p. 309.
  15. ^ Jean-Jacques Servan-Schreiber, Lieutenant en Algérie, Paris, Julliard, 1957.
  16. ^ Citato in «Dans les milieux politiques», Le Monde, 4 mai 1961.
  17. ^ Axelle Brodiez, «Le Secours populaire français dans la guerre d'Algérie: Mobilisation communiste et tournant identitaire d'une organisation de masse», Vingtième Siècle: Revue d'histoire, no 90, 2006, p. 47–59.
  18. ^ «Le Cardinal Feltin et Mgr Blanchet évoquent le “malaise” de la jeunesse française», Le Monde, 26 octobre 1960.
  19. ^ «Des sénateurs catholiques protestent contre le communiqué des cardinaux et archevêques», Le Monde, 28 octobre 1960.
  20. ^ Laurent Schwartz, «Les “oubliés” de la guerre d'Algérie», Le Monde, 2 juin 1962.
  21. ^ Paul Ricœur, «L'insoumission», Autres Temps: Cahiers d'éthique sociale et politique, nos 76-77 «Dossier Paul Ricœur. Histoire et Civilisation», printemps 2003, p. 91–95 [3], nouvelle publication de l'article «L'Insoumission», Revue du Christianisme social, no 68, 1960, repris dans «L'Insoumission», Esprit, no 288, octobre 1960, p. 1600–1604 (JSTOR 24260603).
  22. ^ Stéphane Gacon, «Les amnisties de la guerre d'Algérie (1962-1982)», Histoire de la justice, vol. 16, no 1, 2005, p. 271–279 (ISSN 1639-4399 et 2271-7501.
  23. ^ Patrick Jarreau, François Mitterrand: 14 ans de pouvoir, Le Monde éditions, 1995 (ISBN 978-2-87899-107-9).
  24. ^ Gilbert Comte, Notes sur un temps rompu: 1981-1982, Labyrinthe, 2002 (ISBN 978-2-86980-052-6).
  25. ^ François Gerber, Mitterrand, entre Cagoule et Francisque (1935-1945), L'Archipel, 21 septembre 2016 (ISBN 978-2-8098-2043-0, lire en ligne [archive]).
  • Jean Mascolo et Jean-Marc Turine, Autour du groupe de la rue Saint-Benoît. L'Esprit d'insoumission, éditions Benoît Jacob, 1992.
  • Déclaration sur le droit à l’insoumission dans la guerre d’Algérie, testo e firme. Riprodotto su LE MAITRON in occasione del 60.mo anniversario della pubblicazione. Una parte dei nomi dei firmatari linka a schede biografiche.
  • François Maspero, Le droit à l'insoumission, le dossier des 121, Paris, François Maspero, coll. «Cahiers libres» (no 14), 1961, 239 p. [4].
  • Hervé Hamon et Patrick Rotman, Les Porteurs de valises: La résistance française à la guerre d'Algérie, Paris, Seuil, coll. «Points / Histoire» (no 59), 1982, 440 p. (ISBN 2-02-006096-5).
  • Un siècle de manifestes, Saga no 1, janvier 1998.
  • Michael Holland, «Quand l'insoumission se déclare: Maurice Blanchot entre 1958 et 1968», Communications, no 99 «Démocratie et littérature. Expériences quotidiennes, espaces publics, régimes politiques», 2016, p. 55–68.
  • Jeune Résistance, «Collection de publications de Jeune Résistance», sur pandor.u-bourgogne.fr
  • Catherine Brun, «Genèse et postérité du “Manifeste des 121” », L'Esprit Créateur (en), Johns Hopkins University Press, vol. 54, no 4 «The Algerian War of Independence and its Legacy in Algeria, France, and Beyond», hiver 2014, p. 78–89.