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La Storia do Mogor è l'opera principale del medico e scrittore veneziano Niccolò Manucci (1638-1717). Essa è un quadro completo della storia, dei costumi, della religione dell'Impero del Mogol e descrive gli avvenimenti degli ultimi sei anni del regno del Mogol Shah Jahan (1628-1658) e di tutto il regno di suo figlio Awrangzeb (1659-1707), il quale, salito al trono dopo aver sconfitto i fratelli, portò l'Impero alla sua massima estensione.

Contenuto[modifica | modifica wikitesto]

La Storia do Mogor tramanda le vicende storiche dell'Impero del Mogol e restituisce il quadro completo e dettagliato degli usi e dei costumi dei paesi nei quali Manucci ha sostato, per lungo o breve tempo, nel corso del suo viaggio. Nonostante tutta questa vastità di argomenti storici-culturali, il vero protagonista dell'opera è comunque Manucci stesso, la cui biografia si pone come filo conduttore che "pur non arrivando quasi mai a essere, di per sé, materia principale del racconto, si dispone tuttavia lungo l’intero arco della narrazione legandone le diverse parti in un continuum che dà alla cronaca una connotazione soggettiva molto netta"[1].

Il contenuto della Storia si può così riassumere: Manucci

  • fa il resoconto del suo viaggio da Venezia verso la Persia e poi nel territorio del Gran Mogol;
  • fa l'elenco degli Imperatori del Mogol, da Tamerlano ad Awrangzēb; descrive le province dell'impero e la loro economia;
  • racconta come si viveva nel palazzo dell'imperatore, come era composta la corte e quali erano le loro abitudini;
  • descrive la religione degli induisti, le divinità maggiori, i riti, la casta sacerdotale;
  • descrive l'organizzazione sociale della popolazione del Mogol: la divisione in caste e l'organizzazione di governo.

Le vicende di Manucci: da Venezia all'impero moghul[modifica | modifica wikitesto]

Nelle prime pagine della prima parte della Storia do Mogor, Manucci descrive la sua partenza da Venezia all'età di 15 anni: nel novembre del 1653 si imbarca clandestinamente a bordo di una nave di cui non conosceva la destinazione, per esaudire il suo desiderio di "vedere il mondo". Parla dei lunghi mesi di navigazione fino all'arrivo al porto di Smirne, e del viaggio attraverso Turchia e Armenia fino in Persia al seguito di Henry Bard, visconte di Bellomont, che aveva il compito di chiedere una restituzione in denaro al re Shāh ‘Abbas II per l'aiuto che gli inglesi fornirono ai persiani quando scacciarono i portoghesi dal porto di Hormuz.
Fin dall'arrivo in Persia, si nota subito l'interesse di Manucci per gli usi e i costumi delle popolazioni hindu, che lui racconta minuziosamente nell'arco della sua opera: descrive ad esempio le specialità culinarie che provano in terra persiana. Manucci apprezza molto il "pulao" e il fatto di trovare "molte fontane di acqua chiara e cristallina".[2]
Non riuscendo nel loro compito, Manucci continua il suo viaggio verso l'India con Lord Bellomont, intento stavolta a chiedere il favore all'imperatore moghul Shah Jahan. Si imbarcano dal porto di Hormuz in Persia, e, nei primi giorni del gennaio 1656, giungono a Surat, porto principale dell'impero moghul. Surat è una città commerciale importante, frequentata da molti europei, tra cui inglesi, olandesi, francesi e danesi, e che Manucci definisce come "abbondantissima" e l'unica al pari di Venezia per ricchezza. [3] Una delle prime descrizioni riguardo gli usi e costumi degli hindu che ricava da questa città, riguarda uomini e donne, queste ultime scoperte nel volto a differenza di quanto aveva visto in Persia e Turchia, che sputavano qualcosa di rosso simile a sangue, e che poi scopre essere il betel: una medicina che provoca giramenti di testa per chi non è abituato a prenderla. [4]
Da qui in avanti, come si evince anche dalle parti successive dell'opera, Manucci non lascerà più il continente indiano, nonostante rivendichi più volte il desiderio di voler tornare a vivere tra gli europei, in particolare a Venezia.

Le vicende di Manucci tra i moghul; storia della loro dinastia[modifica | modifica wikitesto]

Oltre alle sue vicende vissute direttamente in prima persona, Manucci racconta anche della storia della dinastia dei moghul, dalla fondazione del loro impero fino alla morte dell'imperatore Awrangzēb, episodio con cui si chiude la quinta e ultima parte dell'opera. Per la situazione storica che non vive direttamente, si basa, anche se non si è sicuri, sulle Cronache reali dei re e dei principi moghul, come l'Akbarnama di Abu l-Fadl 'Allami [5]. Parla di Babur (1483-1530), discendente del guerriero e poeta Tamerlano, che nella battaglia di Panipat (21 aprile 1526) sconfigge il sultano di Delhi Ibrahim Lodi e getta le basi per la fondazione della dinastia moghul; parla dei suoi successori Humayun (1530-1540 e 1555-1556), Akbar (1556-1605), che iniziò l'espansione dell'impero verso sud nel Deccan nei Sultanati culturalmente influenzati dalla Persia safavide (Bidar, Ahmednagar, Berar, Bijapur e Golconda); parla infine di Ahangir (1605-1627), Shah Jahan (1627-1658) e Awrangzēb (1618-1707), i quali Portarono i moghul a dominare l'India fino ad una progressiva discesa iniziata nel XVIII secolo[6].
Manucci, giunto nel continente indiano, racconta anche le vicende vissute in prima persona come artigliere a Delhi attorno al principe Dhala Scikò, figlio dell'imperatore Shah Jahan, di cui prova una profonda stima. Altro elemento importante caratteristico della Storia do Mogor sono le descrizioni dei caratteri dei personaggi: di Dhala ad esempio, Manucci dice che è un uomo rispettoso, che "non abbracciava alcuna religione. Quando era con i maomettani elogiava i principi maomettani; con gli ebrei, la religione ebraica; allo stesso modo, quando era con gli hindu, lodava l’induismo"[7]. Del tutto diverso rispetto al fratello Awrangzēb, che faceva della violenza e dell'ortodossia le sue armi principali. In quel tempo si sta svolgendo la lotta per la successione al trono moghul tra i figli di Shah Jahan, con la conseguente vittoria di Awrangzēb, la sua incoronazione e la successiva uccisione del principe Dahala.
Manucci racconta poi le vicende in Deccan in un primo momento come artigliere, al seguito del generale Jai Singh, e poi come medico di corte del principe Shah Alam, figlio di Awrangzēb. Queste vicende hanno come obiettivo l'espansione dell'impero moghul a discapito dei sultanati di Bijapur e di Golconda, continuando il piano già iniziato dal bisnonno di Aurangzēb Akbar. Oltre a ciò, parla anche dello scontro tra i moghul e la dinastia dei maratha, guidati prima da Shivaji Bhonsle, figlio di un alto ufficiale dell’esercito del sultano di Bijapur, poi da suo figlio Sambhaji nel 1680, e infine dal fratello Ram Raja, che prese il nome di Shivaji II. I maratha erano un popolo hindu originari dell’India centrale, costituito da gente sparsa, senza una vera identità, e di casta guerriera, proprio come i rajput; Manucci, nel corso della sua opera, fa una descrizione completa di tutte le caste e della loro caratteristiche: ad esempio parla della differenza tra la casta dei suda, a cui appartiene Shivaji, e tra la casta dei guerrieri kshatriya: secondo l'usanza hindu, può essere incoronato re solamente una persona appartenente ad una casta guerriera. E' questo il motivo per cui Shivaji, per salire al trono dei maratha, deve prima ricostruire furbamente la sua genealogia in modo da connettersi ai rajput, che è una casta guerriera[8].
Nel 1687, Awrangzēb riesce a conquistare i due sultanati facendo raggiungere all'impero moghul il culmine della propria estensione: a nord spaziava dall’attuale Afghanistan al Bangladesh, mentre a sud copriva la penisola indiana quasi per intero. Sebbene riesca ad ottenere diversi successi contro i maratha, non riuscirà mai invece ad estinguere del tutto la loro dinastia, con la quale combatterà fino alla sua morte.
Manucci non si limita però a narrare solo le vicende militari: durante il suo periodo alla corte di Shah Alam, racconta anche aneddoti riguardanti il suo lavoro di medico, che consiste nell'occuparsi della salute del suo principe e della famiglia reale, e che descrivono gli usi, i costumi e le curiosità dei moghul. Un esempio è quello in cui deve effettuare il prelievo del sangue alle donne dei nobili, che non possono essere viste in volto dal medico, e che quindi devono farsi visitare dietro ad una tenda esponendo solo il braccio. Manucci racconta che alcune donne "chiuse ermeticamente" e "prive di libertà ", fingono di essere malate solo per poter baciare oppure poggiare sul proprio petto la mano del medico che introduce all'interno della tenda per visitarle[9].

Le vicende di Manucci tra gli europei[modifica | modifica wikitesto]

Dopo le vicende vissute in Deccan al seguito del principe Shah Alam, avviene l'importante decisione di Manucci di "non voler vivere più tra i maomettani". Critica fortemente il paese, dicendo che "non è buono per il corpo" in quanto nessuno può fidarsi del prossimo, "e ancora meno per l'anima" per l'assenza dei riti cattolici[10]. Più volte nella Storia do Mogor evidenzia gli usi violenti e meschini che hanno i musulmani, da cui prende fortemente le distanze.
Tra il secondo e il terzo volume della traduzione dell'opera di Irvyne, Manucci parla del suo trasferimento nell'insediamento inglese a Mardas nel 1686, dopo essere fuggito con l'inganno dal principe Shah Jahan, e delle sue vicende trascorse tra Madras e Pondicherry. Racconta di scegliere gli inglesi e non i portoghesi, in quanto "in base a ciò che ho visto e sperimentato" trova che "invece di essere uomini leali, siano miscredenti e ingannatori"[11], riferendosi alla sua brutta esperienza trascorsa a Goa nel 1666. Inizia quindi il secondo periodo della vita di Manucci, in cui continua la sua professione di medico tra gli europei. A cavallo tra i 2 secoli, svolge il ruolo di intermediario tra gli inglesi e francesi e i moghul.

Cappuccini e gesuiti[modifica | modifica wikitesto]

Nella terza parte, Manucci comincia ad affrontare anche la questione del conflitto tra gesuiti e cappuccini, schierandosi dalla parte di questi ultimi. In particolare, parla delle persecuzioni dei cristiani del XVIII secolo da parte degli hindu. Afferma che la prima persecuzione avviene nel 1701 a Tanjore, e ne attribuisce la causa al comportamento dei gesuiti, che si appropriarono illecitamente a Pondicherry di uno dei giardini sacri che "costituiscono [Per gli hindu] […] ciò che alcuni cimiteri [..] sono per noi"[12] per costruirvi una casa assegnata a un loro catechista. Nel febbraio del 1701, i gesuiti inscenano per le strade di Pondicherry una commedia in cui gli attori cristiani declamavano contro le divinità hindu e contro coloro che le adoravano. Il governatore di Tanjore attua quindi delle misure restrittive nei confronti dei cristiani, tra cui il divieto di praticare la propria religione[13].
Manucci si esprime duramente contro i gesuiti, dicendo che hanno rubato con l'inganno la missione della cura delle anime originariamente affidata ai cappuccini e che, ironicamente, "essi hanno anche avuto successo nel trasformare 6000 cristiani di Tanjore in idolatri"[14]. La questione tra gesuiti e cappuccini ricorre anche nella quarta e soprattutto nella quinta parte dell'opera, di cui ne occupa quasi la metà: durante la sua stesura infatti, oltre a raccontare le due sconvolgenti vicende personali che riguardano la perdita della moglie Elizabeth e dell’amico François Martin, racconta della nuova "persecuzione dei veri servi di Dio", cioè dei cappuccini di Madras.
L'episodio narrato nella Storia do Mogor è quello legato a Carlo Tommaso Maillard de Tournon, un legato apostolico mandato a Pondicherry dalla santa sede nel 1703 per risolvere la questione dei riti malabarici contro i gesuiti, i quali non seguivano più il puro rito cattolico e praticavano riti hindu. Egli però aveva anche in progetto di aprire una Compagnia mercantile italiana, vietata ai cappuccini di Madras, rimpiazzati dai nuovi missionari italiani di Tournon. Ne seguì un periodo di tensione tra le 2 fazioni, che portò a umiliazioni, scomuniche e imprigionamenti dei cappuccini. Indeboliti i gesuiti e perseguitati i cappuccini, Tournon lasciò nel caos la comunità cristiana di Madras anche dopo il suo ritorno presso la Santa Sede nel 1704[15].

I "Gentili": la religione e gli usi e costumi degli induisti[modifica | modifica wikitesto]

Nella terza parte, Manucci parla anche della religione e della cultura degli hindu. La grande espansione dell'impero moghul, ad eccezione di quando vi era al comando Aurangzēb, non implicava infatti l'islamizzazione dei terreni conquistati, che potevano continuare ad esercitare il loro credo religioso. La conseguenza è che hindu (o "gentili" come li chiama lui) e musulmani (o "mori") costituirono quindi le principali religioni praticate dell'India all'interno dell'impero moghul.
Per quanto riguarda il governo dei gentili, Manucci dice che è "il più tirannico e il più barbaro che si possa immaginare" e che tratta i suoi cittadini peggio che degli schiavi[16]. Al tema della religione, Manucci dedica 4 capitoli: nel primo, parla delle 3 principali divinità induiste: Bruma il creatore, Viccinù il conservatore e Rutren il distruttore; nel secondo, descrive i 5 luoghi che costituiscono per gli hindu quelli che per i cristiani sono il paradiso e l'inferno; nel terzo capitolo parla della concezione della duplice anima hindu, una appartenente a tutti gli essere viventi, l'altra solo agli uomini; nell'ultimo capitolo parla dell'universo che, secondo la concezione hindu, si divide in quattordici mondi oltre alla terra, e delle eclissi solari, che sono generate dal "serpente Sexcen […] che quando lui vede al sole se l’inghiotte" e "l’istesso fa con la luna"[17]. Sanjay Subrahmanyam sostiene che la parte inerente alla religione hindu, possa essere stata in realtà presa da Manucci da un altro testo già esistente, poichè è precisa e molto attendibile, nonostante Manucci non avesse accesso ai testi sacri e non conoscesse il sanscrito. Probabilmente il testo che copia è Breve notìcia dos erros que tem os Gentios do Concão na India del gesuita João de Brito (1647-1693)[18].
Un episodio nella Storia do Mogor in cui parla degli dei e della superstizione hindu è quello del fiume Tirth: mentre è ospite da Hakim Mumin, un suo amico medico di Bahadur Shah, Manucci apprende la notizia che gli hindu venerano quel fiume, in quanto uno dei loro dei ne aprì la sorgente con una freccia. Ogni 5 anni, si gettano nel fiume in segno di rispetto e, poichè sono in molti a farlo, qualche volta qualcuno muore soffocato tra la folla. I parenti di quelle vittime non si lamentano, anzi si vantano che un loro familiare abbia subito quel destino divino[19].
Oltre al tema religioso, Manucci descrive poi gli usi e i costumi degli hindu. Parla della loro organizzazione in caste; delle loro divisioni in classi sociali; del cibo che possono o che non possono mangiare; delle loro feste e cerimonie; ad esempio il rituale indiano della sati, a cui Manucci assiste in prima persona durante il viaggio in Bengala, e che descrive più volte nell'arco dell'opera: il rituale consiste nell'immolazione delle vedove hindu, che si bruciavano vive assieme al marito defunto. Due episodi lo colpiscono particolarmente: quello in cui una donna avvelena il marito perchè innamorata di un musicista, il quale però non la corrisponde. La vedova allora, durante il rituale, si getta tra le fiamme portando con se anche il musicista, tra lo sconforto generale della folla che stava assistendo tra cui vi era anche Manucci. Nell'altro episodio sempre riguardante la sati, Manucci riesce a salvare, insieme ad un armeno, una donna che stava per sacrificarsi[20].

Il manoscritto originale della Storia[modifica | modifica wikitesto]

In età avanzata Manucci si ritira a Pondichéry, nel sud-est dell'India, e, spinto dai molti amici europei, si dedica alla stesura di un resoconto delle proprie avventure. Detta le sue memorie a vari copisti, nella lingua di ciascuno di essi: italiano, portoghese e francese. L'inizio dell'impresa è databile al 1698-1699, quando si trova nella sua confortevole residenza di Big Mount, come testimonia la relazione di viaggio del padre carmelitano, Francesco Maria di San Siro: "Quando io ero colà, componeva una Historia del Gran Mogol divisa in tre tomi" [21]
Dei cinque libri che compongono l'opera, i primi tre erano già terminati nel 1700. Il manoscritto originale, definito da lui come l’"archetypum instrumentum quod sempre servavi mecum", è costituito dalla minuta delle prime tre parti dell'opera che aveva già inviato in Francia nel 1701 e di cui si erano appropriati i gesuiti, e raggiunge l'Europa nel 1705: era stato affidato da Manucci al frate cappuccino Eusebio di Brouges, che lo consegna, a Parigi, nelle mani dell'ambasciatore veneziano Lorenzo Tiepolo per dimostrare la paternità dell'opera[22].

  • Questo manoscritto oltre ai libri I, II, III, contiene anche la nuova IV parte della Storia. Scritto in italiano, portoghese e francese, il manoscritto costituisce il codice marciano It. VI. 134 (=8299), catalogato anche come ms. It. Z. 44, un codice cartaceo dei secoli XVII-XVIII (1698-1705), conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

La parte autografa[modifica | modifica wikitesto]

La Storia do Mogor è composta da una parte dettata e, solo per una breve sezione, da una parte scritta. Alle carte 7r-7v, del libro I, e alla carta 203v, del libro III, Manucci si rivolge al lettore della sua Storia: molto probabilmente la mano che scrive in un italiano fortemente contaminato dal portoghese e appone la firma Nicolao Manucci è quella dell'autore; nel manoscritto non ci sono altri luoghi autografi. [23]
In questa sezione direttamente scritta dall'autore, Manucci:

  • Spiega i motivi che l'hanno portato a comporre la sua opera: dice che vuole essere d'aiuto ai "caminanty, mercanty y missionary" che avevano intenzione di intraprendere un viaggio in India; ma soprattutto anche perchè, nonostante riconosce che ci siano altre relazioni di viaggiatori che trattano dell'impero moghul, dice che queste ultime non siano precise[24]. Per questa affermazione, è assai probabile che Manucci si riferisca alla relazione di viaggio di François Bernier, il medico e filosofo libertino francese che visse alla corte di Awrangzēb, e che pubblicò Histoire de la dernière révolution des états du Grand Mogol nel 1671.
    Manucci infatti lo incontra più volte nel corso della sua permanenza in India, e scrive che lui "non sapeva né practicò in sì vasto regno se non alla sfuggita e di passaggio"[25]. Quel poco che sapeva, lo aveva appreso da Manucci stesso, e molte cose sono errate, perchè Danishmand Khan, dottore persiano presso cui stava Bernier, gli raccontava più le falsità che le verità[26]. Dice inoltre che scrive l'opera perchè sollecitato da alcuni suoi amici francesi, tra cui il governatore di Pondicherry, François Martin.
  • Dice di aver aggiunto la quarta parte della Storia do Mogor, che i gesuiti non hanno, riferendosi ai soli 3 volumi di cui i gesuiti erano in possesso grazie al furto attuato da padre Catrou, e un libro con 66 figure rappresentanti gli dei degli hindu. Dice inoltre che sta scrivendo anche un quinto libro.
  • Dice che manda l’opera scritta in 3 lingue diverse perchè non ha trovato in quei paesi "escrivano italiano". Il sacerdote che ha effettuato la trascrizione in italiano non ha potuto continuare per motivi sconosciuti; Manucci ha dovuto interrompere la dettatura in italiano e pensare ad altre soluzioni. Ne è conseguita una dettatura anche in francese e portoghese. Il che significa che gli italiani non si incontravano molto regolarmente.
  • Si scusa per gli errori ortografici, in quanto dice che in quell'India mai parlò la sua lingua nativa se non in questa occasione. Quest'affermazione però potrebbe essere imprecisa. C'è una testimonianza di Angelo Legrenzi, altro viaggiatore dell'Asia, che racconta il suo incontro con Manucci[27]. Anche se non viene detto esplicitamente, è probabile che in quella situazione, i due viaggiatori abbiano parlato in italiano. Il testo autografo inoltre è un italiano fortemente influenzato dalla grafia portoghese: Manucci parte da Venezia da famiglia povera e senza avere alcuna istruzione. Non stupisce il fatto che sia stato influenzato da quella lingua, avendo avuto modo di fare pratica con i portoghesi di Goa. Tuttavia, nascosto sotto lo strato ortografico portoghese, si nasconde un testo molto vicino alla lingua italiana.

Arrivo della Storia in Europa[modifica | modifica wikitesto]

Un altro codice, contenente una redazione della Storia redatta sulla base dell' "archetypum" raggiunge l'Europa già nel 1701, prima del suo originale, portato a Parigi da André Boureau-Deslandes, un funzionario della Reale Compagnia francese. Giunto a Parigi, André deve subito rimettersi in viaggio per un incarico nel nuovo mondo, e lascia il manoscritto nelle mani del gesuita François Catrou. Nel 1705 a Parigi vede la luce l’Histoire gènérale de l'Empire du Mogol depuis sa fondation. Sur les mémoires de M. Manouchi, véniien. Par le père François Catrou, de la Compagnie de Jèsus, il cui autore risulta essere proprio François Catrou: si trattava di un vero e proprio furto, denunciato da Manucci in una lettera inviata a Venezia al "serenissimo senatto" nel 1705, nota come Lettera latina, assieme all'"archetypum". Nella Lettera dice di essere venuto al corrente del furto solo nel mese di agosto del 1704, quando un gesuita gli porta la prefazione del primo libro dell'opera di Catrou, che Manucci riconosce subito essere in realtà la sua[28].
Quando anche il manoscritto originale raggiunge l'Europa, il Tiepolo verifica la veridicità della denuncia di Manucci e riesce anche ad ottenere la restituzione di un volume di illustrazioni ed uno di ritratti di re, principi ed altri dignitari della corte del Mogol, di cui Catrou era entrato in possesso, che costituisce il libro rosso. Il manoscritto viene trasmesso ai Riformatori dello studio di Padova che, il 26 marzo 1707, decidono di pubblicarlo[29].

  • Il manoscritto utilizzato dal Catrou per la sua Histoire è il codice Phillips 1945, conservato alla Staatsbibliothek di Berlino, un codice cartaceo del XVII sec (1698-1700), costituito da tre volumi. Esso tramanda i libri I, II, III, scritti in francese e portoghese, sulla base dell'"archetypum".
  • Il manoscritto che contiene il quinto libro della Storia giunge a Padova negli ultimi giorni del 1712, con padre Gerolamo Buzzacarino: è itl manoscritto marciano It. VI. 135 (=5772), un codice cartaceo del XVIII secolo, della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
  • Il volume di illustrazioni della Storia, noto come “libro rosso”, costituisce il manoscritto OD 45 Rés., della Bibliothèque Nationale di Parigi.

La traduzione dei Cardeiraz e la mancata pubblicazione[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1712, Stefano Neves Cardeiraz, Primario Professore di Legge nello studio di Padova, e i suoi figli Andrea e Diego, approntano una traduzione della Storia[30], poiché, in una relazione del Senato di Venezia, del 26 marzo 1707, i Riformatori veneziani si erano pronunciati a favore della pubblicazione dell'opera, a condizione che le parti non in italiano venissero tradotte[31]. La Storia do Mogor non è però mai stata pubblicata: Il priore dell’Università dei Librari e Stampatori scrive una relazione in cui spiega che la stampa dell'opera sarebbe stata onerosa dal punto di vista della spesa, probabilmente anche per la grande quantità di immagini da stampare, e che "l'esito dell'opera sarebbe stato assai dubbioso"[32].
Successivamente, il senato riceve una lettera in cui si dice che un anonimo letterato, di cui ancora oggi non si conosce l'identità, avrebbe fatto stampare tutta l'opera a sua spese[33]. Anche in questo caso però l'esito non cambia: l'opera non viene pubblicata per cause ignote e rimane tuttora inedita in italiano. Viene invece interamente tradotta in lingua inglese agli inizi del novecento da William Irvine, un funzionario in pensione dell’Indian Civil Service. Questa traduzione consiste in oltre 1500 pagine distribuite in 4 volumi.

  • La traduzione dei Cardeiraz è contenuta nei due volumi del codice marciano It. Z. 45 (=4803-4804), della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

Curiosità sul testo in italiano della Storia[modifica | modifica wikitesto]

Manucci dettò il testo della Storia a vari copisti, italiani, francesi e portoghesi, durante il suo ritiro a Pondichéry. Non si deve pensare al copista italiano come ad un semplice amanuense, bensì come ad un vero e proprio interprete tra la lingua di Manucci ed il proprio italiano. Infatti è poco probabile che Manucci, lasciata l'Italia quando era ancora ragazzo, dopo i tanti anni trascorsi in India tra la gente del luogo e tra gli Inglesi, i Portoghesi, i Danesi e gli Olandesi che lavoravano per le compagnie commerciali, continuasse a padroneggiare con grande sicurezza quella che lui chiama la «mia lingua maternale». A dimostrazione del ruolo fondamentale svolto dal "copista italiano" nella stesura dell'opera sta il fatto che nei due luoghi del manoscritto originale quasi sicuramente autografi, Manucci sfoggia un italiano fortemente contaminato a livello grafico dal portoghese, molto diverso da quello presente nel resto dell'opera.

Ipotesi sull'identità del copista[modifica | modifica wikitesto]

Allo stato attuale delle ricerche non è possibile fare alcuna ipotesi sull'identità di questo copista; non erano molti gli italiani presenti in India, non vi era una vera e propria comunità italiana, vi erano però le missioni religiose di Gesuiti, Cappucci e Carmelitani, con le quali sappiamo che Manucci ebbe rapporti: tra questi religiosi va probabilmente cercato il nome dell'interprete italiano della Storia.

Principali edizioni e traduzioni della Storia[modifica | modifica wikitesto]

  • Nel 1705 a Parigi è pubblicata l'Histoire gènérale de l'Empire du Mogol depuis se fondation jusqu'à présent sur les mèmoires portugais de M. Manouchi, Venitien, del padre gesuita François Catrou.
  • Il testo integrale è stato tradotto in inglese all'inizio del Novecento da William Irvine e pubblicato a Londra nel 1907 dall'editore Murray, per conto del Governo dell'India, con il titolo Storia do Mogor, or Mogul. India 1633-1708 by Niccolas Manucci, venetian; Translated with introduction and notes by William Irvine.
  • Nel 1913, per Murray, viene pubblicato A Pepys of Mogul India, riassunto della Storia, in inglese, a cura di Margaret L. Irvine.
  • Nel corso del Novecento sono state stampate, in India, altre edizioni anastatiche delle versioni di William e Margaret Irvine.
  • Dalla traduzione di Irvine Michael Edwardes ha tratto le sue Memoirs of the Mogul court, pubblicate in inglese e in italiano, a Londra, dalla Folio Society nel 1957.
  • Dall'opera di Manucci è tratto Dastan-e Mugaliya, in lingua inglese, pubblicato a Lahore, in Pakistan, nel 1968, da Nigarisat pablisarz, a cura di Sajjad Baqar Rizvi.
  • Della Storia do Mogor è stata pubblicata un'edizione parziale in francese, Un Vénitien chez les Moghols, Niccolo Manucci, a cura di Françoise de Valence e Robert Sctrick, pubblicato a Parigi, da Phébus, nel 1995.
  • Parti del testo italiano della Storia, in versione modernizzata, sono pubblicate in Usi e costumi dell'India dalla Storia del Mogol di Nicolo Manucci veneziano, a cura di T. Gasparrini Leporace; Milano, Dalmine, 1963.
  • Una parte del testo italiano della Storia è pubblicato nel volume Storia del Mogol di Nicolò Manuzzi veneziano, a cura di Piero Falchetta; Milano, F. M. Ricci, 1986.

Opere tratte dalla Storia[modifica | modifica wikitesto]

Studi sull'opera di Manucci sono:

  • Sulla nuova integrale pubblicazione della Storia del Mogol di Nicolò Manucci veneziano, Venezia, (Officine Grafiche Ferrari, 1907, di G. Còggiola);
  • L' immagine di un grande impero musulmano secondo un testimone italiano: la "Storia do Mogor' di Nicolò Manucci, di D. Bredi (in La conoscenza dell'Asia e dell'Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, a cura dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, 1984).

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Falchetta, pp. 131, 134
  2. ^ Moneta, pp. 23
  3. ^ Moneta, pp. 27.
  4. ^ Moneta, pp. 27.
  5. ^ Moneta, pp. 127
  6. ^ Moneta, pp. 67-69
  7. ^ IrvineI, pp. 213-215
  8. ^ Moneta, pp. 123-124
  9. ^ Leporace, pp. 215
  10. ^ IrvineII, pp. 304
  11. ^ IrvineIII, pp. 126-127
  12. ^ IrvineIII, pp. 297
  13. ^ Moneta, pp. 209-210
  14. ^ IrvineIII, pp. 314-316
  15. ^ Moneta, pp. 214-216
  16. ^ Moneta, pp. 221
  17. ^ Moneta, pp. 220-225
  18. ^ Moneta, pp. 225
  19. ^ IrvineII, pp. 75, 76
  20. ^ IrvineII, pp. 89,90
  21. ^ Falchetta, pp. 33.
  22. ^ Moneta, pp. 180.
  23. ^ Moneta, pp. 177.
  24. ^ Falchetta, pp. 38
  25. ^ Falchetta, pp. 38
  26. ^ Falchetta, pp. 39
  27. ^ Moneta, pp. 129
  28. ^ Falchetta, pp. 35
  29. ^ Moneta, pp. 178-180
  30. ^ Moneta, pp. 181
  31. ^ Falchetta, pp. 47
  32. ^ Falchetta, pp. 49
  33. ^ Falchetta, pp. 50


Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Piero Falchetta, Venezia madre lontana, volume I.
  • Niccolò Manucci, Storia do Mogor or Mogul India, by Niccolao Manucci venetian, translated by William Irvine, volume I.
  • Niccolò Manucci, Storia do Mogor or Mogul India, by Niccolao Manucci venetian, translated by William Irvine, volume II.
  • Niccolò Manucci, Storia do Mogor or Mogul India, by Niccolao Manucci venetian, translated by William Irvine, volume III.
  • Marco Moneta, Un veneziano alla corte Moghul. Vita e avventure di Nicolò Manucci nell'India del Seicento, UTET, 2018.
  • Niccolò Manucci, Usi e costumi dell’India dalla “Storia del Mogol” di Nicolò Manucci veneziano, a cura di Tullia Gasparrini Leporace, Dalmine, 1964.


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