Sutra del Diamante

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Il Sūtra del Diamante in cinese

Il Sūtra del Diamante è un celebre breve sūtra Mahāyāna della classe dei sūtra della Prajñāpāramitā.

Il titolo[modifica | modifica wikitesto]

Il titolo con cui è maggiormente noto è una abbreviazione del titolo completo.

  • In sanscrito è noto come वज्रच्छेदिका प्रज्ञापारमितासूत्र Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra (Sūtra del Diamante che recide [l'illusione]).
  • In cinese: 金剛般若波羅蜜多經 (pinyin: Jīngāng Bōrě Bōluómìduō Jīng), abbreviato spesso come 金剛經, (pinyin: Jīngāng Jīng);
  • in giapponese: Kongō hannya haramitsu kyō (abbreviato in: Kongō kyō);
  • in coreano: 금강반야바라밀경 Geumgang ban-ya baramil gyeong (abbreviato in: Geumgang gyeong);
  • in vietnamita: Kim cương bát-nhã-ba-la-mật-đa kinh (abbreviato in: Kim cương kinh);
  • in tibetano: འཕགས་པ་ཤེས་རབ་ཀྱི་ཕ་རོལ་ཏུ་ཕྱིན་པ་རྡོ་རྗེ་གཅོད་པ་ phags pa shes-rab-kyi pha-rol-tu-phyin-pa rdo-rje gcod-pa zhes-bya-ba theg-pa chen-po'i mdo (pr.: Pakpa Sherab Kyi Parultu Chinpa Dorje Chupa Shejawa Tekpa Chenpoy Do) abbreviato come: rdo rje gcod pa (Dorje Chupa);
  • in mancese: Enduringge wacir i lashalara sure i cargi dalin de akūnaha gebungge amba kulge i nomun.

Le traduzioni[modifica | modifica wikitesto]

Dall'originale in sanscrito, di cui esistono due copie del XVI secolo tramandate in Cina e Tibet e una del XVIII secolo conservatasi in Giappone[1], furono compiute varie traduzioni storiche in cinese (nel Canone cinese conservate nel Bōrěbù), che fu la lingua veicolare per la diffusione del sūtra in Vietnam, Corea e Giappone. Tra i principali traduttori dal sanscrito al cinese si segnalano:

  • Kumārajīva (334—413) tradotto nel 407 e gli diede il titolo, poi divenuto classico, di 金剛般若波羅蜜經 (T.D. 235.8.748c-752c).
  • Bodhiruci nel 509 sempre come 金剛般若波羅蜜經 (T.D. 236.8.752c-761c).
  • Paramārtha (499—569) nel 562 sempre come 金剛般若波羅蜜經 (T.D. 237.8.762a-766c).
  • Dharmagupta nel 605 invece con il titolo 金剛能斷般若波羅蜜經 (T.D. 238.8.766c-771c)
  • Xuánzàng(602-664) tradotto nel 660-663 e lo intitolò 大般若波羅蜜經·第九會能斷金剛分 (T.D. 220).
  • Yìjìng (635-713) tradotto nel 703 e lo intitolò 佛說能斷金剛般若波羅蜜多經 (T.D. 239.8.771c-775b).

Dal sanscrito al tibetano[2] ad opera di Śīlendrabodhi e Ye śes sde verso l'anno 800.

In mongolo le traduzioni esistenti sono:

  • una anonima datata 1629
  • una tradotta da Siregetū Güši (fine XVI inizi XVII secolo)
  • una tradotta da Zaya Paṇḍita (tra il 1650-1662)

Le traduzioni mongole, sebbene prevalentemente derivate dalla versione tibetana anziché sanscrita, presentano termini in uiguro, indo-sogdiano e tokhario, elementi che fanno pensare a una parziale derivazione da traduzioni precedenti in queste lingue centro-asiatiche.[3] Delle versioni in lingue centro-asiatiche rimane, trovato a Bamiyan un manoscritto del VI-VII secolo scritto nei caratteri di Gilgit/Bamyan di Tipo 1.[4]

In epoca contemporanea Max Müller e Edward Conze lavorarono per produrre delle edizioni sanscrite basate sulle varie edizioni esistenti, il loro lavoro fu poi utilizzato per la comparazione con le traduzioni esistenti del sūtra in khotanese, cinese e tibetano.

Il testo a stampa più antico[modifica | modifica wikitesto]

Il Sūtra del Diamante in cinese, il testo a stampa più antico del mondo, stampato nell'868 e conservato presso la British Library.

Nelle grotte di Mogao a Dunhuang, l'archeologo britannico Aurel Stein trovò nel 1907[5] una copia del Sūtra del Diamante nella traduzione cinese di Kumārajīva che risultò essere il più antico testo a stampa oggi esistente. La copia, integra, fu realizzata con la tecnica della xilografia, quindi il testo era stampato come immagine. Il frontespizio dell'opera contiene l'illustrazione della scena in cui si svolge il dialogo del sūtra stesso. La copia riporta il nome del committente, Wang Jie (altrimenti ignoto), e la data di stampa: il 15mo giorno del Quarto mese del Nono anno del periodo Xiantong del sovrano Tang Yìzōng, corrispondente all'11 maggio 868. Attualmente la copia unica è posseduta dalla British Library[6].

Precedenti a questa copia esistono solo frammenti di testi: una dharani pubblicata tra il 650 e il 670 e scoperta a Xi'an nel 1974[7] e frammenti di un Saddharmapuṇḍarīka-sūtra datato tra il 690 e il 699[7]. Un altro esempio precedente potrebbe essere una dharani, chiamata Sutra della Dharani della Pura Luce rinvenuta nel tempio Pulguk nella provincia sud-occidentale di Kyŏngju in Corea, la cui data è controversa ma potrebbe risalire al 751. Il Sutra del Diamante di Dunhuang risulta quindi il testo completo a stampa più antico con datazione certa, precedendo la Bibbia di Gutenberg di ben 587 anni.

Nella diffusione della stampa verso Occidente si trovarono a Turfan (nel Turkestan orientale) dei blocchi per la stampa in caratteri uiguri datati attorno al 1300. Procedendo ancora più ad ovest, nel mondo persiano la prima descrizione del sistema a stampa di invenzione cinese risulta essere a mano di Rashīd al-Dīn Fadhl-allāh Hamadānī che, tramite i sovrani mongoli di Persia (Ilkhan) poté avere accesso alle informazioni provenienti dall'Estremo Oriente. Nella sua opera Jami' al-Tasanif al-Rashidi (1301-1311) descrive la preparazione dei blocchi di legno e menziona per la prima volta la numerazione delle pagine[8].

Il contenuto[modifica | modifica wikitesto]

L'Incipit[modifica | modifica wikitesto]

Come moltissimi sūtra anche questo si apre con la formula sanscrita: "evaṃ mayā śrutam" (एवं मया श्रुतम् "Così ho udito"; cinese: 如是我聞 rúshì wǒwén). Il luogo in cui si svolge il dialogo è Śrāvastī, nel bosco di Jeta nel giardino di Anathapindika. Il Buddha, dopo aver fatto il giro di Śrāvastī chiedendo cibo in elemosina, una volta consumato il pasto e lavatisi i piedi si sedette nella posizione del loto, padmasana. Quindi, presenti i bhikkhu e i bodhisattva, Subhūti si fece avanti con una domanda che dà il via al dialogo.

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Subhūti domandò quale sia la pratica che deve seguire una persona che volesse perseguire la via del bodhisattva. A questo punto il Buddha rispose che il bodhisattva doveva porsi come obiettivo la liberazione di tutti gli esseri: i "nati da uovo, nati da un utero [...] con o senza forma; dotati di percezione, privi di percezione e privi sia di percezione che di non-percezione".
Tuttavia, per quanto gigantesco sia il compito del voto - portare alla Liberazione tutti gli esseri - il Buddha aggiunge che nessun essere è guidato effettivamente verso il Nirvāṇa.

«तत्कस्य हेतोः ? सचेत्सुभूते बोधिसत्त्वस्य सत्त्वसंज्ञा प्रवर्तेत, न स बोधिसत्त्व इति वक्तव्यः। तत्कस्य हेतोः ? न स सुभूते बोधिसत्त्वो वक्तव्यो यस्य सत्त्वसंज्ञा प्रवर्तेत, जीवसंज्ञा वा पुद्गलसंज्ञा व प्रवर्तेत
tatkasya hetoḥ? sacetsubhūte bodhisattvasya sattvasaṁjñā pravarteta, na sa bodhisattva iti vaktavyaḥ tatkasya hetoḥ? na sa subhūte bodhisattvo vaktavyo yasya sattvasaṁjñā pravarteta, jīvasaṁjñā vā pudgalasaṁjñā va pravarteta»

«何以故?善現!若諸菩薩摩訶薩有情想轉,不應說名菩薩摩訶薩。所以者何?善現!若諸菩薩摩訶薩不應說言有情想轉。»

«Perché? Perché se in un bodhisattva dovesse intervenire la nozione di "essere" egli non potrebbe venire chiamato un "essere di Bodhi [bodhisattva]". E perché? Non si dovrà chiamare un "essere di Bodhi [bodhisattva]" colui nel quale interviene la nozione di un io o di un essere, o la nozione di un'anima vivente o di una persona[9]»

Il senso è che solo a partire dalla Perfezione della Saggezza, la Prajñāpāramitā, dalla posizione di chi ha annullato le distinzioni, che la pratica della via del bodhisattva diventa possibile, diventando un donatore che dona senza percepire sia il fatto di essere un donatore sia l'atto stesso del dono.

Da questo punto del testo in poi è il Buddha che pone domande secche a Subhūti che risponde sempre prontamente. Quindi passa a negare l'esistenza intrinseca dei trentadue segni maggiori di un Buddha, dei limiti temporali al Dharma, e della stessa realtà intrinseca della Liberazione, che non può essere né un dharma né un non-dharma. L'insegnamento stesso del Buddha, il Dharma, pur producendo immensi meriti, non può essere considerato né entità né non-entità, e come tale non può essere dato o preso nel piano della Prajñāpāramitā.

«तस्मात्तर्हि सुभूते बोधिसत्त्वेन महासत्त्वेन एवमप्रतिष्ठितं चित्तमुत्पादयितव्यं यन्न क्वचित्प्रतिष्ठितं चित्तमुत्पादयितव्यम्। न रूपप्रतिष्ठितं चित्तमुत्पादयितव्यं न शब्दगन्धरसस्प्रष्टव्यधर्मप्रतिष्ठितं चित्तमुत्पादयितव्यम्
tasmāttarhi subhūte bodhisattvena mahāsattvena evamapratiṣṭhitaṁ cittamutpādayitavyaṁ yanna kvacitpratiṣṭhitaṁ cittamutpādayitavyam na rūpapratiṣṭhitaṁ cittamutpādayitavyaṁ na śabdagandharasaspraṣṭavyadharmapratiṣṭhitaṁ cittamutpādayitavyam»

«「菩薩如是都無所住應生其心,不住於色應生其心,不住非色應生其心;不住聲、香、味、觸、法應生其心,不住非聲、香、味、觸、法應生其心,都無所住應生其心」[10]»

«Pertanto, Subhūti, il bodhisattva, il grande essere, dovrà produrre un pensiero non-sostenuto, vale a dire un pensiero che in nessun luogo sia sostenuto, un pensiero non sostenuto da vista, suoni, odori, gusto, oggetti-del-tatto o oggetti-della-mente[11][un pensiero che non sia sostenuto da non-vista, non-suoni, non-odori, non-gusto, non-oggetti-del-tatto né non-oggetti-della-mente

È quindi solo nell'ambito del pensiero che non è prodotto come oggetto della mente che la Perfezione della Saggezza può esplicitarsi appieno, in un livello diverso dal ragionamento discorsivo, ma non da questo separato, infatti viene decisamente negata l'esistenza indipendente di una "più alta e più completa mente risvegliata".

L'universo che viene descritto nel prosieguo del testo come smisurato (di tanti mondi quanti i granelli di sabbia di tutti i Gange se questi fossero tanti fiumi quanti i granelli di sabbia del Gange), pur tuttavia ciascun luogo diventa una Terra Pura se solo quattro versi della Prajñāpāramitā vengono recitati.

Il Tathāgata[modifica | modifica wikitesto]

L'uso dei termini convenzionali ha senso solo nella sfera del condizionato e del relativo, ma nel momento in cui si osservano i fenomeni per la loro realtà, la vacuità, ecco che tutti i termini perdono il loro valore, anche se si tratta del Tathāgata:

«अपि तु खलु पुनः सुभूते यः कश्चिदेवं वदेत्-तथागतो गच्छति वा आगच्छति वा तिष्ठति वा निषीदति वा, शय्यां वा कल्पयति, न मे सुभूते (स) भाषितस्यार्थमाजानाति। तत्कस्य हेतोः ? तथागत इति सुभूते उच्यते न क्वचिद्गतो न कुतश्चिदागतः। तेनोच्यते तथागतोऽर्हन् सम्यक्संबुद्ध इति
api tu khalu punaḥ subhūte yaḥ kaścidevaṁ vadet-tathāgato gacchati vā āgacchati vā tiṣṭhati vā niṣīdati vā, śayyāṁ vā kalpayati, na me subhūte (sa) bhāṣitasyārthamājānāti tatkasya hetoḥ? tathāgata iti subhūte ucyate na kvacidgato na kutaścidāgataḥ tenocyate tathāgato'rhan samyaksaṁbuddha iti»

«「復次,善現!若有說言如來若去、若來、若住、若坐、若臥,是人不解我所說義。何以故?善現!言如來者即是真實、真如增語,都無所去、無所從來,故名如來、應、正等覺。」»

«Se qualcuno affermasse che l'Onorato dal Mondo viene, va, siede e si corica, quella persona non avrebbe compreso quanto ho insegnato. Perché? Il significato di Tathāgata è: 'Colui che non viene da nessun luogo e non va in nessun luogo'. Proprio per questo viene chiamato Tathāgata.[12]»

La conclusione[modifica | modifica wikitesto]

Il Buddha conclude con un brano rimasto famoso. Dopo aver sostenuto che guadagnerebbe un maggior cumulo di meriti un "figlio o una figlia[13] di buona famiglia" che recitasse una sola strofa di quattro versi di questo sutra rispetto a un Bodhisattva che, riempiti incalcolabili e immisurabili universi di sette tesori li offrisse al Tathāgata, ed ecco che viene espressa appunto una strofa di quattro versi:

«तारका तिमिरं दीपो मायावश्यायबुद्बुदं। सुपिनं विद्युदभ्रं च एवं द्रष्टव्यं संस्कृतं।तथा प्रकाशयेत्, तेनोच्यते संप्रकाशयेदिति
Tārakā timiraṁ dīpo, māyāvaśyāya budbudam, svapnaṁ ca vidyudabhraṁ ca evaṁ draṣṭavya saṁskṛtam, tathā prakāśayet, tenocyate saṁprakāśayediti.»

«一切有爲法,如夢幻泡影,如露亦如電,應作如是觀。
Yīqiē yǒuwèi fǎ, rú mèng huàn pāoyǐng, rú lù yì rú diàn, yìng zuò rú shì guān»

«Come le stelle, un difetto della vista, come lampada,
Un finto spettacolo, gocce di rugiada, o una bolla,
Un sogno un lampo balenante, o una nuvola,
Così si dovrà vedere ciò che è condizionato[14]»

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Red Pine, The Diamond Sutra, p. 37.
  2. ^ Nel bKa' ’gyur edizione di Derge vol. ka (vol. 34/śes rab sna tshogs), pp. 121a1-132b.
  3. ^ G. Kara, "Review" in: Journal of the American Oriental Society, Vol. 95, No. 3 (Jul. - Sep., 1975), pagg. 534-535
  4. ^ In: Raghu Vira e Lokesh Chandra (curatori) “Gilgit Manuscript of the Vajracchedikā,” in Gilgit Buddhist Manuscripts, Part 7, New Delhi, 1974, pagg. 1380-1393.
  5. ^ Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta: la ricerca dei tesori perduti dell'Asia Centrale, Adelphi, 2006. ISBN 88-459-2062-3. P. 97-132.
  6. ^ Il Sutra del Diamante digitalizzato dalla British Library
  7. ^ a b Pan, Jixing. "On the Origin of Printing in the Light of New Archaeological Discoveries" in Chinese Science Bulletin, 1997, Vol. 42, No. 12: P. 976–981. ISSN 1001-6538. pp.: 979-980.
  8. ^ Saudi Aramco World: A History of the World, su saudiaramcoworld.com. URL consultato il 9 aprile 2011 (archiviato dall'url originale il 16 febbraio 2012).
  9. ^ Conze, I libri buddisti della sapienza, p. 20-21.
  10. ^ Secondo la tradizione fu ascoltando queste parole che Huìnéng raggiunse l'illuminazione e divenne poi il Sesto patriarca della tradizione Chán
  11. ^ Conze, I libri buddisti della sapienza, p. 40.
  12. ^ Thich Nhat Hanh, Il Diamante che recide l'Illusione, p.111.
  13. ^ Si noti il riferimento che include esplicitamente il sesso femminile
  14. ^ Conze, I libri buddisti della sapienza, pag. 60-61.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Bugault, G., "Logique et mystique dans la Vajracchedikā" in: Asiatische Studien vol. "Congrès Mistique et rationalité: Inde, Chine, Japon. Colloque, Genève , SUISSE (29/11/1990)" 1993, vol. 47, fascicolo 4, pagg. 571-585.
  • Edward Conze, I libri buddisti della sapienza: Il Sutra del Diamante, Il Sutra del Cuore. Roma, Ubaldini, 1976. ISBN 88-340-0225-3.
  • Paul Harrison, Vajracchedikā Prajñāpāramitā: A New English Translation of the Sanskrit Text Based on Two Manuscripts from Greater Gandhāra, Oslo, Hermes Publishing, 2006, BMSC vol. III.
  • Hsing Yun, Describing the indescribable: a commentary on the Diamond Sutra, Boston, Wisdom, 2001. ISBN 0-86171-186-6.
  • Mauricio Y. Marassi Il Sutra del diamante, la cerca del paradiso. Con un saggio filosofico di Gennaro Iorio Marietti Editore, 2011. ISBN 978-88-211-6517-7
  • Mu Soeng, The Diamond Sutra: Transforming the Way We Perceive the World, Boston, Wisdom Publications, 2000, ISBN 978-0-86171-160-4.
  • Nan Huaijin, Diamond Sutra Explained, Florham Park, N.J., Prim Primodia, 2005. ISBN 978-0-9716561-2-3.
  • Nicholas Poppe, The Diamond Sutra, Three Mongolian Version of the Vajracchedikā-prajñāpāramitā: Texts, Translation, Notes and Glossary, Wiesbaden, Harrassowitz, 1971.
  • Red Pine, The Diamond Sutra: text and commentaries translated from sanskrit and chinese, Berkeley, Counterpoint, 2001. ISBN 1-58243-256-2.
  • Gregory Schopen, "The phrase ‘sa p thivīpradeśaś caityabhūto bhavet’ in the Vajracchedikā: Notes on the cult of the book in Mahāyāna" in Indo Iranian Journal, Vol. 17, fascicolo 3-4, pagg. 147-181, DOI: 10.1007/BF00221011
  • Thích Nhất Hạnh, Il Diamante che recide l'illusione: commento al Sutra del Diamante della Prajñāpāramitā. Roma, Ubaldini, 1995. ISBN 88-340-1161-9.
  • Stefano Zacchetti, "Dharmagupta's Unfinished Translation of the Diamond-Cleaver (Vajracchedikā-Prajñāpāramitā-sūtra)" in: T'oung Pao, Second Series, Vol. 82, Fasc. 1/3 (1996), pagg. 137-152.
  • Zhao Jian-jun, "Transcendence On Vacuity Both Inside And Outside——Detailed Explanation on the Profound Philosophy of Perfect Action Without Adherence in Vajracchedikā-Sǖtra" in: Journal of Changshu College, vol. 2001 fascicolo 1

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