The Family of Man

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The Family of Man (ovvero: "La famiglia dell'uomo") fu una mostra fotografica ideata nel dopoguerra e realizzata nel 1955 dal fotografo lussemburghese, naturalizzato statunitense, Edward Steichen[1].

Steichen è stato sicuramente un personaggio importante nella cultura fotografica della prima metà del Novecento, avendo partecipato a gran parte degli avvenimenti più significativi da entrambi i lati dell'Oceano Atlantico. Dalla sua partecipazione attiva alla corrente del pittorialismo americano, assieme ad Alfred Stieglitz per passare alla corrente antagonista dopo la prima guerra mondiale, ossia la Straight photography, fino a vestire verso la fine degli anni Venti anche i panni del fotografo di moda. Suo del resto è forse uno dei più famosi ritratti di Greta Garbo. Prese parte anche alla secondo conflitto mondiale come cineoperatore vincendo un premio Oscar al miglior documentario nel 1945[1].

Ciò che a noi qui interessa, soprattutto, è che Steichen fu nominato nel dopoguerra direttore del Museum of Modern Art di New York: fu così che concepì l'idea di una grande mostra collettiva che avesse come tema l'uomo e la sua famiglia a livello mondiale. La mostra fu progettata per raccogliere immagini con un taglio antropologico, come se fosse una sorta di album di famiglia universale. Una raccolta di opere di tanti autori ma che avessero come unico soggetto l'essere umano, la sua vita, il suo ambiente e la sua storia, comprese le relazioni degli esseri umani tra di loro[1].

Steichen affidò il prologo al poeta e scrittore, nonché suo cognato, Carl Sandburg, il quale in pochissime frasi scrisse:
"C’è un solo uomo nel mondo e il suo nome è Tutti gli Uomini.
C’è una sola donna nel mondo e il suo nome è Tutte le Donne.
C’è un solo bambino nel mondo e il nome del bambino è Tutti i Bambini", ed anche lo stesso titolo della mostra fu suggerito dal poeta[1].

La mostra[modifica | modifica wikitesto]

L'esposizione vide la luce per la prima volta al Museum of Modern Art di New York dal 24 gennaio all'8 maggio 1955 e raccoglieva 503 fotografie provenienti da 68 paesi. I fotografi coinvolti furono 273 e i lavori esposti furono selezionati tra 2 milioni di scatti inviati da autori di tutto il mondo[1]. L'allestimento fu progettato dall'architetto Paul Rudolph in maniera innovativa. Le foto, raggruppate in trentasette sezioni tematiche, raccontavano una storia generalizzata della vita umana. Una delle stanze era una grande trasparenza colorata retroilluminata con pareti rosse raffiguranti una esplosione di una bomba all'idrogeno cui seguiva un enorme murale raffigurante l'aula magna delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto simboleggiare un futuro migliore. Al termine della mostra il visitatore incontrava fotografie di bambini sorridenti[2] mentre l'ultima immagine era quella di due bambini, un maschio ed una femmina, che uscivano da un buio tunnel verso la luce di un bosco[3]. Per quanto potesse sembrare un po' ingenua, sentimentale o melodrammatica, la mostra al MoMA espresse, in quegli anni della guerra fredda, le speranze e i sogni di molte persone[2]. Il percorso espositivo non seguì un criterio storiografico o geografico, ma soltanto quello evocativo che le immagini suggerivano. In questo modo il visitatore, camminando tra le sale alquanto labirintiche e trovandosi immerso con le immagini appese non solo alle pareti ma anche al soffitto e perfino su piattaforme circolari, di grandezze diverse, poteva percepire l'intensita e l'emozione che le foto suscitavano sia a livello intellettuale che a quello più profondo ed inconscio[1].

L'esperienza della mostra newyorkese fu principalmente una esperienza sensoriale, immersiva ed emotiva per l'epoca, che era scandita dal racconto della vita familiare, nel quale quali ogni "sezione" veniva introdotta da citazioni letterarie e filosofiche di varia provenienza e cultura tra cui quelle di James Joyce, Thomas Paine, Lillian Smith, William Shakespeare. Vi si trovava i vari momenti essenziali della vita dal fidanzamento al matrimonio, dall'attesa di un figlio al parto, dalla loro crescita ai giochi. I conflitti, le sofferenze, la povertà, lo sfruttamento, il benessere, ma anche l’educazione, il lavoro e la fatica, e tutto questo in relazione all’ambiente in ogni tipo di società, senza dimenticarsi dei cibi e della tavola. Le fotografie, lungo il percorso raccontavano la vita vissuta assieme tra le persone per cantare, ballare, suonare, per ascoltare la musica, divertirsi, studiare, per aiutarsi nella malattia e nella solitudine, nella guerra e nella preghiera. Senza dimenticare anche la morte[4].

Per circa otto anni la mostra fu allestita in diverse nazioni del mondo e fu visitata da circa nove milioni di persone[1]. Tra i moltissimi spazi, ricordiamo: Dallas Museum of Art, Baltimore Museum of Art, Museum of Fine Arts di Boston, Musée National d'Art Moderne di Parigi, Stedelijk Museum di Amsterdam, Royal Festival Hall di Londra, Palazzo Venezia di Roma, Università del Cile di Santiago e decine di altre località asiatiche, africane, australiane, europee e sudamericane. Secondo lo stesso Steichen, The Family of Man, è stata l'opera più significativa della sua carriera e nel 1964-66 espresse la volontà che la mostra venisse donata e rimanesse esposta permanentemente presso il Castello di Clervaux in Lussemburgo[5].

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Il catalogo della mostra, più volte ristampato, vendette, oltre 4 milioni di copie[6]. Tuttavia, assente dal libro, seppur contraria al pacifismo dichiarato di Steichen, era l'immagine dell'esplosione di un test di una bomba all'idrogeno anche perché il pubblico dell’epoca era molto sensibile alla minaccia dell’annientamento nucleare universale. Tale immagine fu però tolta quando la mostra arrivò in Giappone e sostituita con una frase di Bertrand Russell: "[…] Le migliori autorità sono unanimi nel dire che una guerra con le bombe all’idrogeno molto probabilmente metterà fine alla razza umana […] Ci sarà una morte universale – improvvisa solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattia e disintegrazione"[7].

Robert McDaniels, linciato il 13 aprile 1937 a Duck Hill, Mississippi, foto della Associated Press

Fu deciso di non pubblicarla e fu peraltro rimossa dopo l'11esima settimana della mostra al Museum of Modern Art anche la foto che mostrava il linciaggio di un giovane afroamericano, legato a un albero con le braccia legate tese con una corda, morto, poiché avrebbe generato forti suggestioni e conseguenze angoscianti[8].

Nell'anniversario dei 60 anni dalla mostra, nel 2015, il Museum of Modern Art, ha deciso di ristampare il catalogo originale del 1955, facendo presente nel comunicato alla stampa come l'epoca nel quale Steichen progettò la mostra fosse molto diversa da quella odierna e che sono passati diversi decenni che hanno cambiato la storia dell'umanità[9].

Il restauro[modifica | modifica wikitesto]

La collezione presso il Castello di Clervaux è composta da stampe originali, le stesse che furono esposte a partire dal 1955, tutte in bianco nero, incollate su cornici di legno. I loro formati variano dal 24x36 cm. al 300x400 cm. Si tratta di fotografie che, essendo state esposte in decine di mostre in varie parti del mondo, trasportate senza imballaggio, maneggiate senza guanti, hanno subito dei danni ed hanno lasciato dei segni. Sono state realizzati due restauri, uno negli anni '90 ed uno successivo tra il 2010 e il 2013, grazie a strumenti all'avanguardia che hanno consentito di riparare ai danni subiti, oltre alla pulitura e al ritocco[5].

Il lavoro di restauro è stato condotto grazie alla collaborazione dello Studio Berselli di Milano[5]: Silvia Berselli[10] [11], Roberta Piantavigna[12], Francesca Vantellini[13], Isabel Dimas[14].

Veduta dell'installazione della mostra permanente "The Family of Man" al Castello di Clervaux

Nel 2003 la collezione è stata inserita nel registro della Memoria del mondo, (in inglese "Memory of the World") un programma dell'UNESCO, fondato nel 1992. Dal 2013 è possibile visitarla per quasi tutto l'anno, salvo un paio di mesi di chiusura ogni anno presso il Castello di Clervaux[5]. Occorre precisare che si tratta dell'unica mostra fotografica patrimonio UNESCO, inserita nell’elenco del programma "Memory of The World"[15].

I fotografi partecipanti[modifica | modifica wikitesto]

Steichen, i suoi assistenti, i fotografi Wayne Miller e Dorothea Lange[3], e gli altri del suo gruppo, consultarono soprattutto gli archivi Life, ma altre immagini pervennero da altre riviste, quali Vogue, Fortune, Argosy, Ladies' Home Journal, Popular Photography, Seventeen, Glamour, Harper's Bazaar, Time, Picture Post, Du. Interpellarono anche agenzie fotografiche americane, sovietiche, europee e internazionali tra cui Magnum Photos, Rapho, Black Star, Pix Publishing, Sovfoto, ed altre[16]. Steichen stesso viaggiò in vari paesi con l'intento di visionare e raccogliere immagini. Tra i paesi europei che visitò la Svizzera, Austria e Germania, ma in particolare egli si soffermò in Francia dove incontrò fotografi e raccolse molte delle 300 immagini finali che componevano la cosiddetta fotografia umanista, parte delle quali furono mostrate per la prima volta dall'altra parte dell'Atlantico[17].

La lista che segue comprende i fotografi professionisti, fotoreporter o coloro che hanno avuto una storia espositiva. La lista completa si può leggere al MoMA[18]. Anche se la stragrande maggioranza prese parte alla mostra con una sola fotografia, Steichen scelse più di una foto di alcuni dei fotografi tra cui Nat Farbman con cinque, Robert Frank con quattro, Bert Hardy e Robert Harrington con tre, lo stesso assistente Wayne Miller con ben tredici, Steichen stesso con cinque, mentre ne scelse due di Robert Doisneau, Homer Page, Helen Levitt, Manuel Álvarez Bravo, Bill Brandt, Édouard Boubat, Harry Callahan, Dorothea Lange[16].

Accoglienza critica[modifica | modifica wikitesto]

Un evento di queste dimensioni non poteva che creare una serie di reazioni gigantesche, molte delle quali lo acclamarono quasi incondizionatamente, anche per le sue proporzioni, altre viceversa ne videro il senso negativo di una sorta di "umanesimo" di tipo convenzionale, dove peraltro si passava sopra ai problemi esistenti tra i popoli, razze - concetti che ancora perduravano - conflitti ed in generale alla stessa logica della vita.
Roland Barthes, dal canto suo, criticò la mostra in quanto, secondo lui, essa era l'esempio del concetto di mito: la drammatizzazione di un messaggio ideologico. Nel suo libro Mythologies, pubblicato in Francia un anno dopo la mostra di Parigi del 1956, Barthes dichiarò che si trattava di "umanesimo convenzionale", cioè una raccolta di fotografie in cui tutti vivono e "muoiono allo stesso modo ovunque". Barthes aggiunse che: "Il semplice fatto di mostrare immagini di persone che nascono e muoiono non ci dice, letteralmente, nulla"[20].

Occorre ricordare, peraltro, un caso di violenta indignazione pubblica che ebbe luogo durante l'esposizione della mostra a Mosca nel 1959. Lo studente nigeriano Theophilus Neokonkwo, arrivato in Russia l'anno prima, tagliò e strappò le stampe del fotografo americano di origine polacca Nat Farbman, scattate in quello che allora era il Bechuanaland (protettorato del Regno Unito, dal 1966 Repubblica del Botswana). Neokonkwo volle protestare contro il modo in cui la mostra, secondo ciò che dichiarò, rappresentava tutti i non europei, e soprattutto gli africani, "seminudi o nudi", come "inferiori sociali", vittime di malattie, povertà e disperazione, mentre i bianchi americani ed europei erano rappresentati per lo più "in stati culturali dignitosi – ricchi, sani e saggi". Con questa sua azione voleva criticare il comportamento dei fotoreporter occidentali: la protesta di Neokonkwo fu il tentativo di sottolineare la disuguaglianza di potere che consentì la circolazione a livello globale di immagini realizzate da fotografi come Farbman e i suoi colleghi di Life, ma non fu mai fornito lo stesso spazio per le fotografie realizzate dagli addetti ai lavori delle culture non occidentali. Infatti, il peso culturale, il denaro e lo sviluppo professionale e le opportunità di un fotoreporter di Life che aveva con sé un passaporto statunitense negli anni '50 non potevano essere, rispetto alle risorse a disposizione, dei suoi colleghi fotografi del Bechuanaland, della Nigeria o molti altri paesi[2].
Theophilus Neokonkwo ed altri studenti di colore scapparono dalla Russia l'anno seguente per raggiungere Francoforte sul Meno dichiarando: "Crediamo che sia nostro dovere mettere in guardia i leader africani dal comunismo e dai suoi pericoli. Gli studenti africani che hanno analizzato la strategia del regime sovietico hanno visto fino a che punto questo regime pensasse solo ai propri interessi e che i suoi slogan che proclamavano la sua amicizia verso l’Africa fossero pura propaganda, senza alcuna sincerità o autenticità". Cosa che ovviamente favorì i giornali occidentali[21].

Anche Susan Sontag nel suo libro Sulla fotografia del 1977, citando lo stesso Barthes, accusò Steichen di sentimentalismo e di semplificazione eccessiva: "...volevano, negli anni Cinquanta, essere consolati e distratti da un umanesimo sentimentale. ...La scelta di Steichen delle fotografie presuppone una condizione umana o una natura umana condivisa da tutti"[22]. In epoche più recenti tra coloro che ne hanno fatto un problema di razza o di classe vanno citati Christopher Phillips, John Berger e Abigail Solomon-Godeau. Quest'ultima ha dichiarato di non aver visto la mostra ma solo il catalogo ed in particolare ha criticato la rimozione della foto del linciaggio di Robert McDaniels e dell'immagine dell'esposione della bomba atomica[23].

Un certo numero di fotografi nel corso degli anni hanno sostenuto di essere rimasti influenzati dall'aver visto la mostra e di esserne usciti motivati ad iniziare o a continare nella professione.

"The Family of Man", in realtà, occupa un posto unico nella storia della fotografia. La maggior parte delle altre grandi mostre che hanno lasciato un tangibile segno nella storia, sono state avanguardie innovative, come ad esempio furono "Film und Foto" (Stoccarda, 1929), "New Documents" (New York, 1967), oppure "New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape" (Rochester, 1975). Coloro che hanno studiato questi eventi, o continuano a farlo, cercano di trovare nuove ragioni per capire quale sia la loro importanza.
"The Family of Man", invece, non fu una mostra d'avanguardia. Il messaggio della mostra, quello più profondo, cioè che tutte le persone sono simili nelle gioie, nei dolori e nel lavoro, non fu allora, ne a posteriori, un concetto inaspettato o considerato radicale. Gli studiosi continuano ad analizzare la mostra e le sue componenti ma non esiste nella storia della fotografia qualcosa di simile che abbia saputo dividere ed irritare diverse generazioni di storici. E pare che non abbia ancora finito[2].

Galleria d'immagini[modifica | modifica wikitesto]

Le immagini sono relative alla mostra permanente che dal 2013 risiede presso il restaurato Castello di Clervaux in Lussemburgo, posizionata su due piani e, per quanto possibile, adattata a quella originale di New York, cercando di ricreare l'atmosfera visiva originale. Accanto alla mostra c'è la biblioteca che comprende tutte le edizioni delle varie mostre e riproduzioni, nonché materiale storico ed interpretativo di vario genere e provenienza[24].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d e f g Giulia Ticozzi, La famiglia dell'uomo, in Il Post, 9 luglio 2013. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  2. ^ a b c d (EN) Alise Tīfentāle, The Family of Man: The Photography Exhibition that Everybody Loves to Hate, in FK, 2 luglio 2018. URL consultato il 10 dicembre 2023.
  3. ^ a b Luisa Bondoni, Pillole di storia della fotografia:The family of man, in Storia e critica della fotografia, 12 marzo 2020. URL consultato il 10 dicembre 2023.
  4. ^ Letizia Cortini, The Fanily of man, in Visioni della storia, 28 dicembre 2016. URL consultato il 10 dicembre 2023.
  5. ^ a b c d (EN) Romain Girtgen, The Family of Man, in Steichen Collections. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  6. ^ (EN) The Family of Man: The greatest photographic exhibition of all time—503 pictures from 68 countries—created by Edward Steichen for the Museum of Modern Art, in Maco Magazine Corporation, Museum of Modern Art, New York, 1955.
  7. ^ (EN) Miles Orvell, Et in Arcadia Ego: The Family of Man as a Cold War Pastoral, in Gerd Hurm, Anke Reitz and Shamoon Zamir (a cura di), "The Family of Man Revisited: Photography in a Global Age", I.B. Tauris, Londra, 2018, pp. 191-209.
  8. ^ (EN) Shamoon Zamir, Structures of Rhyme, Forms of Participation: The Family of Man as Exhibition, in Gerd Hurm, Anke Reitz e Shamoon Zamir (a cura di), "The Family of Man Revisited: Photography in a Global Age", I.B. Tauris, Londra, 2018, pp. 133-156.
  9. ^ (EN) David Gonzalez, A ‘Family of Man’ Reunion, in The New York Times, 29 ottobre 2015. URL consultato il 10 dicembre 2023.
  10. ^ Biografia: Silvia Berselli, in Artribune. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  11. ^ Silvia Berselli, in Studio Berselli. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  12. ^ Incontro con Roberta Piantavigna, in Accademia di Belle Arti G. Carrara, 4 maggio 2021. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  13. ^ (EN) Francesca Vantellini, Conservator of Photographs of the Family of Man, in Visit Clearvaux, 2023. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  14. ^ Isabel Dimas, in Studio Berselli. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  15. ^ Le foto della mostra patrimonio Unesco da 65 anni, in Marie Claire, 16 novembre 2020. URL consultato il 10 dicembre 2023.
  16. ^ a b (EN) Abigail Solomon-Godeau, Sarah Parsons (a cura di), Photography After Photography: Gender, Genre, History, in Durham Duke University Press, 2017, p. 57.
  17. ^ (EN) Kristen Gresh, The European Roots of The Family of Man, in History of Photography 29, 4, 2005, pp. 331-343.
  18. ^ (EN) The Family of Man - Photographer, Pubblication, Nationatility (PDF), in Museum of Modern Art, 5 marzo 1955, pp. 1-26. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  19. ^ (EN) WORK BY AMERICAN PHOTOGRAPHERS NEW TO THE MUSEUM TO BE SHOWN (PDF), in The Museum of Modern Art, pp. 32-33. URL consultato il 9 dicembre 2023.
  20. ^ (FR) Roland Barthes, La grande famille des hommes, in Mythologies, Éditions du Seuil, Parigi, 1957, pp. 173–176.
  21. ^ (FR) Theophilus U. Chukwuemeka Okonkwo, in Amour Haine & Propagande: La Guerre Froide. URL consultato l'11 dicembre 2023.
  22. ^ (EN) Susan Sontag, On Photography, in Penguin Books, Londra, 1977.
  23. ^ (DE) Abigail Solomon-Godeau, The Family of Man: Den Humanismus für ein postmodernes Zeitalter aufpolieren, in The Family of Man, 1955–2001: Humanismus und Postmoderne; eine Revision von Edward Steichens Fotoausstellung, Jean Back and Viktoria Schmidt-Linsenhoff ed., Marburg, 2004, p. 28-55.
  24. ^ (EN) Anke Reitz, Re-exhibiitng The Family of Man: Luxembourg 2013, in Gerd Hurm, Anke Reitz, Shamoon Zamir (a cura di), The Family of Man Revisited: Photography in a Global Age, I.B. Tauris, Londra, 2018.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Gerd Hurm, Anke Reitz, Shamoon Zamir (a cura di), The Family of Man Revisited, Photography in a Global Age, Routledge, Londra & New York, 2017 - ISBN 978-1784539672

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Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

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