Utente:Leitfaden/Euro

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Effetti della moneta unica[modifica | modifica wikitesto]

La costruzione della zona euro si è basata sui due pilastri della stabilità dei prezzi (bassa inflazione) e della disciplina fiscale (contenimento di debito e deficit pubblici). La visione ufficiale dei conseguenti benefici, detta "Brussels-Frankfurt consensus", si articola come segue:[1]

  • stabilità dei prezzi: facilita elevati tassi di crescita economica nel medio termine e aiuta a ridurre le fluttuazoni cicliche;
  • disciplina fiscale: è necessaria per evitare squilibri che potrebbero aumentare la variabilità della produzione e dell'inflazione e, favorendo il risparmio privato, permette una maggiore crescita grazie a investimenti privati; deficit e debito contenuti, inoltre, possono portare a minori tassi di interesse e quindi anche a maggiori investimenti produttivi pubblici;
  • interazione stabilità dei prezzi e disciplina fiscale: la disciplina fiscale dei singoli paesi sostiene gli sforzi della Banca Centrale nel perseguimento della stabilità dei prezzi; politiche monetarie e fiscali prudenti evitano shock indotti dalla politica e le conseguenti fluttuazioni economiche.

Le perplessità iniziali[modifica | modifica wikitesto]

Nel periodo dal 1989 (anno di pubblicazione del rapporto Delors) al 2002 (inizio della circolazione di banconote e monete in euro) vi fu un vivace dibattito tra gli economisti in quanto molti di essi, soprattutto i maggiori economisti americani, sostenevano che l'euro non si sarebbe potuto realizzare, che era una cattiva idea e che comunque non sarebbe durato.[2]

In particolare:

  • secondo Rudiger Dornbush: l'abolizione degli aggiustamenti dei tassi di cambio avrebbe trasferito al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi, causando recessione e disoccupazione;[3]
  • secondo Paul Krugman l'unione monetaria veniva costruita in modo da assecondare la severa disciplina antinflazionistica desiderata dalla Germania e ciò avrebbe costretto l'Europa a scivolare inesorabilmente nella deflazione come il Giappone;[4]
  • secondo Dominick Salvatore realizzare un'unione solo mentaria era come mettere il carro davanti ai buoi; a causa della scarsa mobilità del lavoro e dell’inadeguata redistribuzione fiscale, una crisi importante avrebbe provocato una pressione insopportabile all'interno dell'unione: «questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri».[5]
  • secondo Martin Feldstein, infine, il passaggio all’unione monetaria avrebbe probabilmente condotto a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa.[6]

Gli economisti americani traevano il loro giudizio dal fatto che la zona euro non presentava i requisiti di un'area valutaria ottimale, poiché, a differenza di quanto era avvenuto negli Stati Uniti, la mobilità del lavoro in Europa era scarsa, gli shock asimmetrici (congiunture temporanee sfavorevoli che colpiscono alcune zone ma non altre) più frequenti e, soprattutto, mancanavano meccanismi di redistribuzione fiscale atti a sostenere singoli paesi in difficoltà. Tale scetticismo traeva in parte alimento anche dalle prime difficoltà, in particolare la crisi valutaria del 1992.[7]

Alcune previsioni ottimistiche[modifica | modifica wikitesto]

Nei primi anni 2000, quando l'unificazione monetaria in Europa era ormai avviata, altri economisti proposero argomenti diversi: l'unione monetaria avrebbe attivato meccanismi in grado sia di rendere meno probabili gli shock asimmetrici, sia di diminuire le distanze tra paesi "forti" e paesi "deboli". In sostanza, non era rilevante che l'eurozona non avesse i requisiti di un'area valutaria ottimale, in quanto avrebbe potuto diventare tale proprio grazie ai benefici indotti dall'unione monetaria (teoria dell'area valutaria ottimale endogena[8]).

Nel 2000 Andrew Rose propose uno studio basato sugli scambi bilaterali di 186 paesi prima e dopo l'adesione a, oppure l'uscita da, un'unione monetaria. Ne concluse che l'adesione a un'unione monetaria comporta un aumento del 200% (quindi una triplicazione) degli scambi commerciali.[9] I benefici prospettici per l'eurozona apparivano evidenti: legami commerciali così forti avrebbero fatto sì che una fase di crescita in un singolo paese avrebbe comportanto un aumento della domanda da altri paesi, inducendo la crescita anche in essi (e viceversa); nonostante le differenze tra i diversi paesi, l'intensificazione degli scambi avrebbe reso tendenzialmente omogenea la reazione agli shock, vanificando così le perplessità circa gli squilibri indotti da shock asimmetrici.

Nel 2002 Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi rilevarono che l'integrazione dei mercati finanziari consentita dall'euro si era presto tradotta in un flusso di capitali dai paesi più avanzati (soprattutto Germania e Olanda) a quelli relativamente più arretrati (soprattutto Grecia, Portogallo e Spagna). Questi ultimi, proprio per la relativa arretratezza, presentavano maggiori opportunità di investimento e maggiori margini di crescita che i capitali esteri avrebbero reso possibile, diminuendo così le differenze tra i due gruppi di paesi.[10]

Un primo bilancio: il Rapporto Sapir[modifica | modifica wikitesto]

Nel 2003 Romano Prodi, allora Presidente della Commissione europea, incaricò un gruppo di studio indipendente, guidato da André Sapir, di mettere a punto una strategia che portasse a una maggiore crescita economica e coesione sociale, anche in vista dell'adesione all'euro di altri Stati, nell'ambito della cosiddetta Agenda di Lisbona.

Il rapporto prodotto dal gruppo di studio, noto come Rapporto Sapir[1], analizzò in primo luogo i risultati già raggiunti, che possono essere sintetizzati come segue:

  • crescita: i risultati apparivano deludenti sia rispetto al passato (diminuzione del tasso di crescita rispetto agli anni 1980, nei quali il tasso di crescita era già stato minore che negli anni 1970) che rispetto agli Sati Uniti (che erano invece cresciuti più che nei due decenni precedenti);[11]
  • occupazione: il tasso di occupazione era cresciuto solo di un punto percentuale, contro i cinque negli Stati Uniti;[12]
  • stabilità dei prezzi: l'obiettivo poteva dirsi raggiunto, in quanto il tasso medio d'inflazione nella zona euro era sceso dal 10,8% degli anni 1970 al 2,4% degli anni 1990;[13]
  • disciplina fiscale: si erano ottenuti risultati «spettacolari», grazie al vistoso recupero di alcuni paesi (soprattutto Italia e Grecia) e alla capacità di Germania e Francia di contenere il deficit pubblico nonostante, rispettivamente, i costi della riunificazione e una congiuntura economica sfavorevole;[14]
  • convergenza: la zona euro non risultava marciare tutta alla stessa velocità; in particolare, negli anni 1999-2003 si erano registrate nette differenze sia nei tassi di crescita (maggiori in Irlanda e in Grecia, minori in Germania e in Italia), sia nei tassi di inflazione (minori in Austria, Francia e Germania, maggiori in Irlanda e Olanda);[15]
  • coesione (riduzione delle differenze tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni): erano diminuite le differenze tra le nazioni, grazie ai tassi di crescita di paesi come l'Irlanda, ma erano aumentate le differenze tra le circa 200 regioni amministrative.[16]

In sostanza, risultavano raggiunti gli obiettivi politici (politica monetaria comune e politiche fiscali nazionali), non quelli economici (crescita economica non soddisfacente).[17]

Alle soglie della crisi globale[modifica | modifica wikitesto]

I primi segni della crisi dei subprime si avvertivano già alla fine del 2006 negli Stati Uniti, ma divennero palesi nel febbraio-marzo 2007; la crisi "esplose" poi nel settembre 2008 con il fallimento della Lehman Brothers.

Anche in Europa si ebbero difficoltà per alcune banche, ma fino al 2008 compreso prevalevano le riflessioni sui risultati ottenuti con l'introduzione dell'euro e sulle persistenti difficoltà.

La Commissione europea pubblicò nel 2008 un rapporto sui primi dieci anni dell'euro,[18] in cui si sottolineavano il contenimento dell'inflazione, la creazione di 16 milioni di posti di lavoro, la diminuzione dei tassi di interessi a lungo termine sotto il 4%, la migliore integrazione dei mercati, l'espansione del commercio tra i paesi aderenti, la diminuzione dei deficit pubblici, il crescente ruolo internazionale dell'euro[19]. Al tempo stesso, si rilevavano la deludente crescita economica e il perdurare di squilibri, in particolare per la presenza di differenze nei tassi di inflazione[20] e nei saldi del conto corrente della Bilancia dei pagamenti.[21] Il rapporto sottolineava che l'adozione di una moneta unica aveva privato gli Stati della possibilità di correggere rapidamente, mediante interventi di politica monetaria o variazioni del tasso di cambio, squilibri anche molti ampi; riteneva quindi necessario sottoporre a sorveglianza comunitaria non solo i conti pubblici, ma anche le rilevate divergenze.[22]

Un working paper del Fondo Monetario Internazionale, pubblicato nel 2010 ma relativo al periodo 1948-2008, sottolineava che dopo l'introduzione dell'euro gli squilibri commerciali negli scambi bilaterali tra i paesi aderenti erano molto aumentati; in particolare, il disavanzo commerciale dell'Italia nei confronti della Germania era aumentato di cinque volte in dieci anni.[23] Gli autori rilevavano anche che appariva particolarmente significativa l'influenza dei diversi tassi di inflazione: se non può cambiare il tasso di cambio nominale, i paesi con più alta inflazione si trovano ad avere un tasso di cambio reale sopravvalutato, quindi una minore competitività (prezzi più alti), e accumulano pertanto disavanzi commerciali.[24] In tali condizioni, l'unica soluzione risultava una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, cioè una minore protezione degli occupati.[25]

Nel frattempo, le previsione di Andrew Rose erano state oggetto di un ampio dibattito che aveva messo in evidenza seri errori nella sua analisi.[26] Lo stesso Rose accolse le prime critiche e ridusse drasticamente la sua previsione dell'aumento degli scambi commerciali dal 200% al 20%;[27], ma studi empirici successivi rilevavano un aumento effettivo ancora minore, pari a circa il 6%: troppo poco per ridurre l'importanza di shock asimmetrici.[28]

Quanto agli squilibri nelle bilance dei pagamenti, nel 2010 la Commissione Europea chiese a Barry Eichengreen di valutare alla luce dei fatti le previsioni di Blanchard e Giavazzi; l'economista rispose che i benefici effetti dei movimenti di capitali dai paesi "forti" a quelli "deboli" si erano rivelati un miraggio e che si erano invece avuti aumenti dei prezzi, bolle immobiliari comprese, deficit pubblici eccessivi, aspettative irrealistiche di crescita futura; nei paesi "forti", inoltre, risultava aumentato sensibilmente l'indebitamento delle banche.[29]

La crisi dell'eurozona[modifica | modifica wikitesto]

La crisi globale ha colpito in successione i paesi più deboli dell'eurozona (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna), poi anche l'Italia.

Secondo un rapporto della Commissione Europea,

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Cfr. il Rapporto Sapir, An Agenda for a Growing Europe. Making the EU Economic System Deliver, 2003, pag. 41. Si tratta del rapporto di un gruppo di studio indipendente guidato da André Sapir e commissionato da Romano Prodi nella sua qualità di Presidente della Commissione europea. Il rapporto è stato per lungo tempo scaricabile liberamente da Internet ([1] e altri siti, in alcuni dei quali è ancora disponibile); è stato poi pubblicato dalla Oxford University Press e tradotto anche in italiano: A. Sapir (a cura di), Europa, un'agenda per la crescita, il Mulino, 2004. Le citazioni si riferiscono alla versione scaricabile da Internet.
  2. ^ Cfr. Lars Jonung, Eoin Drea, It Can’t Happen, It’s a Bad Idea, It Won’t Last: U.S. Economists on the EMU and the Euro, 1989-2002, in Econ Journal Watch, vol. 7, n. 1, 2010, pp. 4-52.
  3. ^ Rudiger Dornbush, Euro Fantasies, in Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, 1996, pp. 110-124.
  4. ^ Paul Krugman, The euro:beware of what you wish for, in Fortune, dicembre 1998.
  5. ^ Dominick Salvatore, The Common Unresolved Problem with the EMS and EMU, in American Economic Review, vol. 87, n. 2, 1997, pp. 224-226.
  6. ^ Martin Feldstein, EMU and International Conflict, in Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, 1997, pp. 60-73.
  7. ^ Cfr. Jonung e Drea, op. cit., pp. 37-38.
  8. ^ Jonung e Drea, op. cit., p. 28.
  9. ^ Andrew K. Rose, One Money, One Market: Estimating the Effect of Common Currencies on Trade, in Economic Policy, vol. 15, n. 30, 2000, pp. 9-45.
  10. ^ Olivier Blanchard, Francesco Giavazzi, Current Account Deficits in the Euro Area: The End of the Feldstein-Horioka Puzzle?, in Brookings Papers on Economic Activity, vol. 2002, n. 2, 2002, pp. 147-186.
  11. ^ Rapporto Sapir cit., p. 25 e la Tabella 4.8 a p. 44.
  12. ^ Rapporto Sapir cit., p. 26.
  13. ^ Rapporto Sapir cit., p. 44.
  14. ^ Rapporto Sapir cit., p. 48.
  15. ^ Rapporto Sapir cit., p. 50.
  16. ^ Rapporto Sapir cit., p. 59.
  17. ^ Rapporto Sapir cit., p. 69.
  18. ^ European Commission, EMU@10: successes and challenges after ten years of Economic and Monetary Union, in European Economy, vol. 2, 2008.
  19. ^ Cfr. la pagina di presentazione del rapporto.
  20. ^ In Italia, in particolare, si era diffusa la convinzione di un aumento dell'inflazione anche superiore a quello registrato ufficialmente, tanto che l'ISTAT aveva ritenuto sia di dover chiarire le differenze tra inflazione percepita e inflazione misurata, sia di attivare un'apposita Commissione di studio; cfr. la sezione "La polemica sull'inflazione in Italia" nella voce Inflazione.
  21. ^ European Commission 2008, p. 251. Quanto ai conti correnti delle bilance dei pagamenti, già nel dicembre 2006 la Commissione aveva rilevato il significativo ampilarsi delle differenze tra i surplus di Germania, Olanda e Finlandia e i deficit di Grecia, Portogallo e Spagna; cfr. European Commission, Focus: Widening current account differences within the euro area, in Quarterly report on the Euro Area, vol. 5, n. 4, 2006, pp. 25-37.
  22. ^ European Commission 2008, pag. 256.
  23. ^ Helge Berger, Volker Nitsch, The Euro’s Effect on Trade Imbalances, in International Monetary Fund, Working Paper WP/10/226, p. 3, 2010.
  24. ^ Berger e Nitsch (2010), pp. 10-11.
  25. ^ Berger e Nitsch (2010), pp. 13-14.
  26. ^ Cfr. Richard E. Baldwin, In or out: does it make a difference? An evidence based analysis of the trade effects of the euro, CEPR, 2006.
  27. ^ Andrew K. Rose, Currency Unions and Trade: The Effect Is Large, in Economic Policy, vol. 16, n. 33, 2001, pp. 449-461.
  28. ^ Baldwin, op.cit., p. 35
  29. ^ Barry Eichengreen, Imbalances in the Euro Area, 2010.