Utente:Riottoso/sandbox4

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Contesto storico[modifica | modifica wikitesto]

L'Ottocento, soprattutto nella sua seconda metà, vide i paesi occidentali interessarsi sempre di più ai commerci in Asia e Africa, verso i quali fu lanciata una vera e propria corsa all'esplorazione e alla conquista di nuovi territori. L'autorevole quotidiano britannico The Times parlò nel 1884 di una vera e propria "zuffa" per l'Africa (scramble for Africa), dove in primo luogo Gran Bretagna e Francia, e poi anche Germania, Belgio, Paesi Bassi e per ultima l'Italia, tentatori di instaurare domini d'oltremare in questi continenti[1]. L'avventura coloniale italiana ebbe inizio nel 1882 quando il governo acquistò dall'armatore genovese Raffaele Rubattino la piccola baia di Assab nel mar Rosso, e proseguì timidamente tre anni più tardi, quando con il lasciapassare britannico, un piccolo corpo di spedizione occupò Massaua, sempre nel mar Rosso[2]. Tuttavia l'Italia si presentava alla corsa coloniale mentre ancora il suo processo di industrializzazione era allo stato larvale; il livello di industrializzazione era meno di un decimo di quello britannico e la produzione di ferro era circa un ottocentesimo di quello britannico[3]. Ma questi dati non vennero forniti all'opinione pubblica, nel bel mezzo dell'età degli imperialismi, delle rivalità internazionali e dei nuovi intrecci politici ed economici che si stavano sviluppando in Europa, si trovò allineata con la politica di prestigio internazionale che catapultò il paese nella guerra di Abissinia[4] e nella sua tragica disfatta ad Adua, il 1º marzo 1896, che rappresentò il luogo e il momento in cui le velleità espansionistiche di Francesco Crispi e della classe dirigente vennero annientate dalle armate di Menelik II[5].

Da allora per diversi anni il Corno d'Africa non fu più al centro delle mire espansionistiche dell'Italia liberale; ci si limitò ad una gestione civile della colonia in Eritrea e ad un protettorato in Somalia. La colonia primogenita fino agli anni Trenta non fu oggetto di dibattito pubblico (limitato ai circoli coloniali e alle società di esploratori)[6], ma vennero mantenuti solo rapporti economici e diplomatici almeno fino al novembre 1932, quando Benito Mussolini invitò il ministro delle Colonie Emilio De Bono a preparare uno studio per una campagna militare contro l'Etiopia[7]. Negli anni fino al 1925 l'interesse italiano verso l'Etiopia rimase prevalentemente diplomatico, ma fu svolto con tale costanza da far capire sia ad Addis Abeba che a Londra e Parigi, che le ambizioni di Roma era tutt'altro che spente. Rilevante fu la politica periferica del governatore dell'Eritrea Jacopo Gasparini, volta allo sfruttamento del Tessenei e alla collaborazione con i capi tigrini in funzione anti-etiopica, così come l'azione repressiva di Cesare Maria De Vecchi in Somalia, che portò all'occupazione del fertile Oltregiuba e alla "riconquista" in ossequio alla retorica fascista di dominio diretto di tutta la Somalia, che fino ad allora aveva visto una collaborazione tra colonizzatori e capi tradizionali, che si concluse nel 1928. In quest'ottica vi fu la firma di un patto italo-britannico il 14 dicembre 1925, che sarebbe dovuto rimanere segreto, in cui Londra riconosceva l'interesse prettamente italiano nelle regioni alto-etiopiche e la leicità della richiesta italiana di costruire una ferrovia che collegasse la Somalia all'Eritrea. La notizia dell'accordo però venne diffusa da Londra, con irritazione del governo francese ed etiopico, che peraltro denunciò l'accordo come un colpo inferto alle spalle di un paese peraltro ormai a tutti gli effetti membro della Società delle Nazioni[8].

Anche se come detto è almeno dal 1925 che Mussolini medita di aggredire l'Etiopia, soltanto nel 1932 egli prende la decisione definitiva, mobilitando per prima cosa tutto l'apparato propagandistico fascista per far sì che il paese tornasse ad interessarsi delle questioni coloniali in previsione dell'intervento militare. In vista del «decennale della rivoluzione», vennero impostati dalla propaganda due temi fondamentali: il «mito del Duce» e l'idea della «Nuova Italia»[9]: viene incoraggiata la pubblicazione di opere coloniali con l'intento di magnificare le realizzazioni compiute nel decennio fascista, nelle quali il regime lascia trapelare i suoi programmi, come gli ammiccamenti del sottosegretario alle Colonie Alessandro Lessona che indica come «l'Italia mussoliniana ha ritrovato in Africa le vie maestre del suo divenire»[10]. Sui temi dell'espansione coloniale il Ministero delle Colonie organizzò mostre commerciali, esposizioni etnografiche, manifestazioni politiche[11], e nel dibattito pubblico intervennero storici, esperti coloniali, giuristi, antropologi ed esploratori come Lidio Cipriani che pubblicò alcuni studi con lo scopo di dimostrare «l'inferiorità mentale dei negri» e l'attitudine degli italiani ad adattarsi ai climi tropicali africani, prova inconfutabile secondo l'esploratore, del destino di dominatori che gli italiani avranno in Africa[12].

L'impostazione della guerra[modifica | modifica wikitesto]

Salvo qualche voce isolata, a propaganda coloniale fu tutta ispirata dal regime e si proponeva di preparare il paese ai fasti, ma anche ai sacrifici, dell'impero annunciato da Mussolini fin dal "discorso dell'Ascensione" del 26 maggio 1927[13]. Dietro a questa campagna propagandistica però non c'era nulla di concreto, solo nell'estate del 1932 con la stesura da parte dell'ambasciatore a Madrid, Raffaele Guariglia, della lunghissima Relazione sull'Etiopia viene delineata una politica precisa che voleva terminare l'inconcludente politica d'amicizia con Addis Abeba, rafforzare i dispositivi militari dell'Eritrea e della Somalia e dare il via ad una politica di forza perché «Se noi vogliamo dare un'espansione coloniale al nostro Paese, anzi, per dire una parola grossa, formare un vero Impero Coloniale italiano, non possiamo cercare di fare ciò in altro modo che spingendoci verso l'Etiopia» affermando comunque che una campagna militare sarebbe sta impensabile senza prima ottenere il consenso della Francia e della Gran Bretagna[14]. Il documento, del 27 agosto 1932, venne lungamente vagliato da Mussolini prima che questi autorizzasse in novembre Emilio De Bono ad iniziare gli studi per la preparazione militare, il quale intuì fin da subito la grande occasione che gli si offrì. Ottenuto l'incarico di recarsi in Eritrea per vedere e riferire, De Bono si rivelò inizialmente cauto e prudente, ma probabilmente per paura di essere scavalcato da altri, nei mesi successivi cambiò atteggiamento e cominciò a prendere in considerazione una guerra preventiva che prima avrebbe sconsigliato a causa della precaria situazione riguardante le infrastrutture portuali e stradali, e per le enormi spese a cui si sarebbe andati incontro, senza considerare gli eventuali scontri diplomatici con Francia e Gran Bretagna[15].

Assieme al colonnello Luigi Cubeddu, comandante delle truppe in Eritrea, De Bono preparò in poco tempo la Memoria per un'azione offensiva contro l'Etiopia dove venne previsto l'impiego contro l'esercito abissino (valutato in 200-300 mila uomini) un corpo i spedizione forte di 60.000 eritrei e 35.000 italiani, appoggiato da una brigata aerea. De Bono puntava tutto sulla velocità dell'azione, in modo tal da occupare tutta la regione dei Tigrè prima che il il grosso dell'esercito nemico si fosse mobilitato, assegnando alla Somalia forze minori, calcolate in circa 10.000 somali e 10-12.000 libici, poiché l'azione a sud verso Addis Abeba avrebbe dovuto avere carattere esclusivamente diversivo[16]. Secondo lo storico Giorgio Rochat il piano di De Bono rivelava una grande superficialità organizzativa, imputabile in parte all'importanza politica che il generale italiano volle dare al piano, diminuendone i rischi, i costi e sottovalutando il nemico e la preparazione necessaria, con il chiaro intento di allinearsi al volere del Duce di favorire una politica aggressiva e rapida[17], e in parte all'impostazione da tipica guerra coloniale che De Bono diede alla campagna, fatta da conquiste graduali, forze contenute e impiego di truppe coloniali[18]. L'unica cosa sensata del piano era il riconoscimento di un accordo preventivo con Francia e Gran Bretagna, ma De Bono anche in questo caso non diede importanza ai tempi tecnici necessari alla diplomazia, riducendo in un mese l'intervallo tra la decisione politica e l'inizio dell'offensiva militare, che comunque avrebbero avuto bisogno di più tempo a causa delle limitate possibilità del porto di Massaua e l'insufficienza della rete stradale eritrea[19].

Nei successivi due anni si susseguirono dibattiti sulla preparazione tra le maggiori autorità militari, con rivendicazioni di potere e aspri contrasti anche su posizioni antitetiche: se da una parte De Bono considerava la guerra come una conquista coloniale in vecchio stile, Pietro Badoglio, capo di stato maggiore generale dell'esercito[20]|group=N}} valutava seriamente l'ipotesi di rendere l'aggressione una vera e propria guerra nazionale[7]. Chi non era in linea con il pensiero del Duce veniva però velocemente esautorato, così nel 1933 il ministro della Guerra generale Pietro Gazzera venne liquidato da Mussolini, il quale assunse il dicastero, ma di fatto delegò la gestione al sottosegretario generale Federico Baistrocchi. Questi l'anno successivo assunse anche le funzioni di capo di stato maggiore dell'esercito (anche se buona parte delle attribuzioni passarono di fatto al generale Alberto Pariani) dopo l'esonero del generale Alberto Bonzani, che cercò di difendere il suo ruolo e la priorità della politica europea rispetto a quella coloniale[21].

Alla fine del 1934 si arrivò dunque ad un accordo di massima tra i comandi militari incentrato su due punti: un aumento di forze inviate dall'Italia (circa 80.000 nazionali e 30-50.000 àscari eritrei equipaggiati con mezzi moderni) e un'impostazione cauta delle operazioni; penetrazione nel Tigrè fino alla linea Adigrat-Axum e quindi attendere l'offensiva etiopica su posizione fortificate, per distruggere l'esercito del negus Hailé Selassié[22]. Uno dei pochi punti in cui i partecipanti al dibattito si trovavano d'accordo erano i limiti della situazione strategica: la ricettività del porto di Massaua era del tutto insufficiente, le vie di comunicazione interne in Etiopia erano scarsissime e la condizione era ancora peggiore per quanto riguardava le infrastrutture in Somalia; inoltre, nonostante tutti diedero grande importanza all'aeronautica nulla era stato fatto per l'impiego di centinaia di aerei, né l'avvio della costruzione di aeroporti, né l'inizio di una collaborazione interforze tra esercito e aeronautica. Non esisteva neppure un organo di coordinamento, un alto comando interforze o uno stato maggiore generale in grado di dirimere queste questioni, soltanto Mussolini aveva il potere di impostare la guerra e risolvere i contrasti, ma per due anni lasciò che i ministeri si contrastassero apertamente, tuttalpiù sostituendo gli uomini troppo autorevoli e alternando le poche personalità di valore con le molte mediocri del gruppo dirigente del partito. Fino al termine del 1934 dunque il dibattito si mantenne ad un livello puramente tecnico, i militari mantennero la tradizionale divisione tra le competenze militari e quelle politiche, che spettavano al solo Mussolini; ma la guerra che avevano preparato aveva obiettivi limitati, nessuno sapeva cosa fare dopo aver occupato il Tigrè, nessuno studio prevedeva la possibilità di un dominio italiano su tutta l'Etiopia, e nessuno (a parte Badoglio) aveva considerato le conseguenze deleterie che l'aggressione ad uno stato indipendente avrebbero portato[23]

L'incidente di Ual Ual e le complicazioni internazionali[modifica | modifica wikitesto]

La svolta decisiva si ebbe nel dicembre 1934: il giorno 5 il presidio italiano di Ual Ual nell'Ogaden, respinse un attacco (la notizia inizialmente passò quasi inosservata dall'opinione pubblica, solo successivamente fu ingigantito dalla propaganda fino a farne la provocazione che doveva giustificare la guerra[24]) di truppe abissine che tentavano di riconquistare parte dei territori che l'Italia aveva occupato negli anni precedenti approfittando della mancanza di un confine certo tra Etiopia e Somalia[25], e il giorno 30 Mussolini indirizzò alle autorità del regime un promemoria segreto - Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo-abissina - con il quale dava avvio alla mobilitazione vera e propria, ponendo l'autunno 1935 come data per l'inizio delle operazioni. Rispetto a quanto si era prefigurato fino a quel momento, il Duce impostò una guerra massiccia per una conquista totale, rapida e moderna, per la quale mise a disposizione forze triple rispetto a quelle finora richieste, il che comportò non pochi problemi organizzativi perché rimaneva poco tempo per attivare una mobilitazione coordinata[26]. Mussolini in questo promemoria si assumeva la totale responsabilità della guerra, ponendola al primo posto tra gli obiettivi del regime, e indicandone inequivocabilmente l'obiettivo: la conquista totale dell'Etiopia e la nascita dell'impero[27]. Le motivazioni utilizzate da Mussolini nel documento sono presentate sia in maniera superficiale, come la fatalità del conflitto e l'ampolloso rimando alla "rivincita di Adua", sia in modo pretestuoso, come il rafforzamento del potere militare e politico di Hailé Selassié (che in realtà non costituiva nessun pericolo per l'Italia). Il senso generale però fu molto chiaro; il Duce voleva un'affermazione di prestigio da cogliere subito. Fino a quel momento il predominio anglo-francese in Africa aveva impedito a Mussolini di conseguire un qualsiasi grosso successo internazionale che riteneva indispensabile per rafforzare e qualificare il regime fascista; inoltre in quel periodo il protagonismo hitleriano rimise in discussione gli equilibri europei, e ciò mise Mussolini di fronte alla necessità di consolidare la propria figura in vista di un nuovo assetto europeo o di una guerra[28]. Poco importava se l'Etiopia fosse un paese povero e aspro, il cui dominio avrebbe rappresentato un peso più che un guadagno per l'economia italiana, questo era l'obiettivo «naturale» perché la sua conquista si collegava alla breve tradizione coloniale italiana e si presentava come relativamente facile senza peraltro toccare gli interessi di Francia e Gran Bretagna, le quali a buon ragione, Mussolini ritenne che avrebbero sacrificato l'Etiopia alle ambizioni fasciste, sottovalutandone però le reazioni dell'opinione pubblica internazionale[29].

Tra il 4 e il 7 gennaio 1935 Mussolini incontrò a Roma il ministro degli esteri francese Pierre Laval, col quale vennero firmati accordi in virtù dei quali la Francia accordava all'Italia delle rettifiche di frontiera fra la Libia e l'Africa equatoriale francese, fra l'Eritrea e la costa francese della Somalia e la sovranità sull'isola di Dumerrah. L'accordo conteneva soprattutto un esplicito "désistement" francese per una non ben specificata penetrazione italiana in Etiopia e un eventuale invio di nove divisioni italiane a supporto dei francesi se questi fossero stati attaccati dalla Germania.[30]. Laval sperava in tal modo di avvicinare Mussolini alla Francia, al fine di dar vita a un'alleanza in funzione anti-nazista (Hitler non nascondeva le sue rivendicazioni in Alsazia-Lorena), e probabilmente i francesi vollero illudersi che l'invasione italiana si sarebbe limitata ad operazioni coloniali tali da non suscitare proteste internazionali. Difficile è però comprendere come Mussolini e i militari italiani potessero studiare e avvallare piani a sostegno della Francia per mantenere gli equilibri in Europa, e allo stesso tempo impegnarsi nell'organizzazione di una guerra che avrebbe sicuramente messo in crisi gli stessi equilibri internazionali[30]. A tal proposito il primo avvertimento di possibili complicazioni fu l'invio nel mar Mediterraneo di alcune corazzate della Home Fleet, come dimostrazione di forza: buona parte dell'opinione pubblica inglese chiedeva che Mussolini fosse fermato, e anche se il governo britannico non intendeva rischiare nulla per l'Etiopia, dovette mostrare i muscoli e irrigidire le sue posizioni, ma la preparazione all'invasione dell'Etiopia continuò[31].

Nel frattempo la propaganda dovette fa fronte anche ad alcuni segni di dissenso, che divennero evidenti in un tentativo di ammutinamento di alcuni reparti alpini in partenza per l'Africa nei primi mesi del 1935, concentrando tutti i suoi sforzi su due temi principali; la necessità di offrire terra e lavoro alla popolazione italiana in Etiopia e la sfida dell'Italia proletaria e rivoluzionaria alle potenze conservatrici europee che si oppongono ai suoi bisogni di espansione con minacce e sanzioni economiche. Questi temi fecero più presa nella popolazione rispetto ai triti concetti legati al «vendicare Adua» e alle «provocazioni abissine» e ormai ritenute dall'opinione pubblica come pretesti puerili e insufficienti a scatenare una guerra[32]. Ual Ual venne quasi dimenticata, ma dal giugno 1935, la propaganda tornò a diventare efficace, soprattutto in chiave anti-britannica rea di aver appoggiato l'Etiopia e le eventuali sanzioni contro l'Italia[33].

Preparazione e mobilitazione[modifica | modifica wikitesto]

La mobilitazione fu uno sforzo notevole per l'Italia, e nonostante il poco tempo a disposizione fu portata a termine senza grossi problemi assumendo dimensioni straordinarie, tanto da essere considerata la più grande guerra coloniale di sempre per numero di uomini, numero e modernità di mezzi, rapidità di approntamento[34]. Stando alle cifre ufficiali redatte in tutta fretta dal sottosegretario della Guerra ministro Baistrocchi nella Relazione sull'attività svolta per l'esigenza AO dell'ottobre 1936, in preparazione alla guerra in Africa orientale eran stati inviati 21.000 ufficiali, 443.000 tra sottufficiali e truppa, 97.000 lavoratori, 82.000 quadrupedi, 976.000 tonnellate di materiali. La marina fornì cifre altrettanto imponenti, 560.000 uomini e 3 milioni di tonnellate di armi e materiali[35]. Vennero chiamate alle armi le classi dal 1911 al 1915, che permise all'esercito di avere una enorme disponibilità di uomini senza indebolire l'esercito in patria; o almeno così asserirono Mussolini e Baistrocchi. Tra il febbraio 1935 e il gennaio 1936 furono inviate in Eritrea sette divisioni dell'esercito (Gavinana, Gran Sasso, Sila, Cosseria, Assietta, Pusteria), una in Somalia (Peloritana) e tre andarono in Libia, mentre dei circa 50.000 volontari circa 35.000 furono "girati" alla Milizia mentre i restanti furono destinati a battaglioni di complemento che sarebbero stati utilizzati per rimpiazzare le perdite[36]. Per volere di Mussolini proprio la Milizia divenne una componente importante del corpo di spedizione, la quale oltre a rappresentare il carattere fascista dell'impresa, grazie ai circa 80.000 volontari che si presentarono (compresi i 35.000 non utilizzati dall'esercito) vennero improntate ben sei divisioni (1ª Divisione CCNN XXIII marzo, 2ª XXVIII ottobre, 3ª XXI aprile, 4ª III gennaio, 5ª I febbraio inviate tra agosto e novembre 1935 in Eritrea e la 6ª Tevere, quest'ultima inviata in Somalia)[37].

Al contrario di qualsiasi altra guerra coloniale fino ad allora intrapresa da una potenza europea, la guerra voluta da Mussolini vide un maggiore impiego di truppe nazionali rispetto alle truppe coloniali. Gli àscari eritrei furono una minoranza e furono gli unici reparti a non subire un aumento di numero durante la preparazione alla guerra (nel 1935 le necessità portarono ad un incremento dei soli dubat fino a 25-30.000 uomini) ma i comandi italiani contavano molto sulla loro tradizionale coesione e combattività su terreni aspri e difficili, peraltro erano "spendibili" senza turbare l'opinione pubblica italiana. In realtà i battaglioni costituiti non avevano un forte inquadramento, al contrario dei pochi battaglioni tradizionali già nati in passato, e la mancanza di studi specifici rendono impossibile la verifica della loro effettiva combattività, soltanto gli episodi di diserzione di interi reparti lasciarono traccia nei rapporti. É indubbio però che il loro utilizzo diede un contributo determinante nella vittoria italiana (nell'offensiva finale verso Addis Abeba si ricorse ad una divisione libica)[38].

L'enorme concentramento di truppe in Eritrea e Somalia attraverso i porti di Massaua e Mogadiscio fu il primo grosso problema assieme alla loro mobilità nel territorio. I porti erano insufficientemente attrezzati per accogliere le centinaia di migliaia di tonnellate di materiali e per far sbarcare migliaia di uomini ogni giorno, mentre le strade su cui uomini e materiali avrebbero dovuto recarsi verso l'interno, erano inadeguate se non inesistenti. I porti mancavano di tutto, attrezzature, banchine, piazzali, manodopera specializzata, assistenza e perfino di un comando; tutto ciò dovette essere costruito in pochissimo tempo, come in poco tempo si dovette ampliare la strada che conduceva ai 2350 metri s.l.m della capitale eritrea Asmara[39]. Venne poi costruita una teleferica e una seconda strada verso la capitale situata nell'altopiano eritreo, da dove sarebbe cominciata la guerra, che sarebbe continuata a sud sull'altopiano etiopico. In tempi accelerati anche la rete stradale sull'altopiano venne migliorata per sopportare il grande traffico di mezzi previsto, e il 1 ottobre 1935 erano ormai stipate sull'altopiano eritreo 5700 ufficiali, 6300 sottufficiali, 99.200 militari italiani, 53.200 àscari, 35.650 quadrupedi, 4200 mitragliatrici e fucili mitragliatori, 580 pezzi d'artiglieria, 400 carri armati leggeri e 3700 automezzi[40]. In Somalia, al comando di Rodolfo Graziani nello stesso periodo erano stati sbarcati 1650 ufficiali, 1550 sottufficiali, 21.150 militari italiani e 29.500 eritrei e somali, 1600 mitragliatrici, 117 pezzi d'artiglieria, 7900 quadrupedi, 2700 automezzi e 38 aerei[41]. Altre forze stavano affluendo, e assieme a loro venne importato tutto quanto era necessario, l'Eritrea era una regione molto povera, così dall'Italia dovette arrivare legname, cemento, grano, tessuto, metallo e ogni altro genere necessario al fabbisogno di quasi un milione di uomini[42].

Problemi non dissimili furono affrontati anche dall'aeronautica che dovette sopperire alla mancanza di aeroporti per far decollare e manutenere i 318 velivoli inviati durante la guerra in Eritrea e i 132 in Somalia. Anche in questo caso la disponibilità finanziaria fu quasi illimitata, e furono create sei basi aeree (Massaua, Zula, Assab, Asmara, Gura e Mogadiscio), diciotto aeroporti e ottantaquattro campi di fortuna con tutte le installazioni necessarie, magazzini, officine e depositi. Fu creato un servizio meteorologico , una rete radio e realizzato un ufficio cartografico. Di questi 450 aerei inviati, un terzo furono i piccoli e collaudati IMAM Ro.1 e Ro.37 bis, poi circa 200 Caproni Ca.101, Ca.111 e Ca.133 da bombardamento e trasporto; erano tutti modelli superati in Europa, ma ancora ottimi per una guerra coloniale. Vennero inoltre mandati in Eritrea ventisei moderni Savoia-Marchetti S.M.81 da bombardamento e alcune decine di piccoli aerei da collegamento e da caccia[43].

La situazione in Etiopia[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Labanca, pp. 15-16.
  2. ^ Labanca, pp. 18-19.
  3. ^ Labanca, p. 25.
  4. ^ Labanca, pp. 28-66.
  5. ^ Labanca, p. 82.
  6. ^ Dominioni, p. 7.
  7. ^ a b Dominioni, p. 8.
  8. ^ Labanca, pp. 146-148.
  9. ^ Del Boca II, pp. 169-170.
  10. ^ Del Boca II, p. 170.
  11. ^ Labanca, p. 154.
  12. ^ Del Boca II, p. 171.
  13. ^ Del Boca II, p. 173.
  14. ^ Del Boca II, p. 174.
  15. ^ Del Boca II, p. 175.
  16. ^ Del Boca II, pp. 175-176.
  17. ^ Del Boca II, p. 176.
  18. ^ Dominioni, p. 8.
  19. ^ Rochat 2008, p. 16.
  20. ^ Badoglio rappresentava la più alta carica militare in servizio, ma di fatto non aveva alcun potere di comando; era soltanto il consulente militare del capo di governo, un ruolo onorifico, ma limitato in sostanza a quello che voleva Mussolini. Badoglio accettò questo ruolo ma intervenne a più riprese nel dibattito con lucidità , insistendo sulla necessità di agire con un clima internazionale favorevole, criticando l'avventurismo di De Bono e chiedendo un aumento delle forze militari in Africa orientale. Vedi: cita
  21. ^ Rochat 2008, p. 17.
  22. ^ Rochat 2008, p. 18.
  23. ^ Rochat 2008, pp. 17-18-19-20.
  24. ^ Del Boca II, p. 282.
  25. ^ Rochat 2008, p. 21.
  26. ^ Dominioni, p. 8-9.
  27. ^ Rochat 2008, p. 23.
  28. ^ Rochat 2008, pp. 23-24.
  29. ^ Rochat 2008, p. 24.
  30. ^ a b Rochat, 2008.
  31. ^ Rochat 2008, pp. 30-31.
  32. ^ Del Boca II, pp. 284-287.
  33. ^ Del Boca II, p. 287.
  34. ^ Rochat 2008, p. 35.
  35. ^ Dominioni, p. 10.
  36. ^ Rochat 2008, p. 37.
  37. ^ Rochat 2008, p. 40.
  38. ^ Rochat 2008, pp. 40-41.
  39. ^ Rochat 2008, p. 42.
  40. ^ Rochat 2008, p. 43.
  41. ^ Rochat 2008, p. 47.
  42. ^ Rochat 2008, pp. 35-36.
  43. ^ Rochat 2008, pp. 45-46.