Socialismo nell'Impero giapponese

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Il socialismo nell'Impero giapponese affiorò in Epoca Meiji, soprattutto dopo il 1889 quando il Paese asiatico si tramutò in una monarchia costituzionale. Si trattava di movimenti e partiti politici di ispirazione marxista e agraria, volti a difendere i diritti dei lavoratori nipponici. L'industrializzazione aveva infatti sottoposto operai e contadini a un crescente fenomeno di sfruttamento da parte della classe dirigente, che voleva convertire il Giappone da Stato feudale a una potenza industriale. Per tale ragione le formazioni socialiste furono da sempre apertamente osteggiate dalle principali autorità governative, ricoprendo un ruolo marginale nella politica dell'impero.[1]

Raduno in occasione della Festa dei lavoratori in Giappone nel 1920.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Primi movimenti di sinistra in Giappone[modifica | modifica wikitesto]

Le idee socialiste sbarcarono nell'arcipelago tramite propugnatori stranieri seguaci del socialismo cristiano, ma inizialmente non ebbero particolare seguito. Un primo punto di svolta ci fu nel 1874 con la creazione del Movimento per la libertà e i diritti del popolo, un raggruppamento al quale si unirono molti ex samurai scettici nei confronti del nuovo governo Meiji; sebbene non si potesse parlare di un vero e proprio gruppo socialista, è comunque da considerarsi l'embrione della sinistra giapponese.[2]

Comparsa del socialismo[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1896 nacque la Società per lo Studio del Socialismo (社会主義研究会?, Shakai Shugi Kenkyukai), la quale nel 18 Maggio 1901 si riorganizzò nel primo Partito Socialdemocratico (社会民主党?, Shakai Minshu-tō) nella storia del Giappone, la formazione fu co-fondata e ispirata anche da Shūsui Kōtoku, uno dei massimi esponenti dell'ideologia socialista e anarchica giapponese[3]. Tuttavia il partito fu dichiarato fuori legge dalle autorità appena due giorni dopo la sua fondazione. Malgrado la repressione, i marxisti il 28 gennaio seguente formarono il Partito Socialista giapponese (日本社会党?, Nihon Shakai-tō), che era da considerarsi una coalizione tra esponenti della sinistra radicale e sostenitori della sinistra moderata. Mentre i primi erano intenzionati a raggiungere il potere attraverso un violento colpo di Stato, i secondi preferivano assumere il controllo del Paese con metodi democratici, attuando poi graduali riforme. L'alleanza era quindi fragile e poco coesa, così il partito si sciolse in poco tempo. Negli anni seguenti si alternarono differenti formazioni politiche di sinistra, tutte di breve durata e incapaci di esercitare particolare influenza politica. Nel 1920 la sinistra giapponese riuscì ad organizzarsi nella Lega Socialista giapponese (日本社会主義同名?, Nihon Sakai Shugi Dōmei), la quale comprendeva anche gruppi anarchici, ma contava solo poche migliaia di iscritti. Anche quest'unione risultò troppo eterogenea e comunque sia fu bandita dal governo l'anno successivo. In quegli anni si distinsero inoltre le peculiari idee politiche dello scrittore Kita Ikki, fautore del Panasiatismo, nazionalista di sinistra, deciso anticapitalista ma contrario alla lotta di classe. Egli era assai critico nei confronti delle corporazioni industriali zaibatsu e sognava un Giappone governato dall'imperatore, che avrebbe condotto il Paese verso il socialismo di Stato. Tuttavia l'artista si limitò a teorizzare tale scenario senza mai costituire un suo partito.[4]

Altre formazioni politiche di sinistra emerse durante il Periodo Shōwa furono: il Partito laburista-contadino giapponese (日本労農党?, Nihon Rōnōtō), la Federazione giapponese del Lavoro (総同盟?, Nihon Rōdō Sōdōmei) e il Partito proletario del Giappone (日本無産党?, Nihon Musantō). Anch'esse non ebbero grande fortuna, soprattutto in quanto costantemente supervisionate e inibite dalle istituzioni, dalle società segrete ultranazionaliste, dai clan della yakuza e dalle congreghe religiose in difesa dello shintoismo di Stato.

Nascita e repressione del comunismo[modifica | modifica wikitesto]

Il 15 luglio 1922 venne fondato a Tokyo il Partito Comunista Giapponese (日本共産党?, Nippon Kyōsantō) dal marxista-Leninista nipponico Hitoshi Yamakawa, come ramo occulto del Comintern. Il partito venne immediatamente dichiarato illegale e quindi costretto ad agire clandestinamente fino alla resa del Giappone nella Seconda guerra mondiale. L'oppressione si inasprì durante l'epoca del fascismo giapponese, quando migliaia di affiliati vennero arrestati e torturati dalla kempeitai, dalla Polizia imperiale giapponese e dalla Tokkō; quest'ultimo fu un corpo militare appositamente creato per investigare sugli esponenti di ideologie considerate sovversive e sui cittadini stranieri. Per salvarsi dalla persecuzione moltissimi socialisti e comunisti fecero Tenkō, cioè cambiarono ideologia spesso abbracciando gli ideali patriottici. In ogni caso il Partito comunista fu l'unica formazione politica del Giappone che si oppose realmente al regime e al bellicismo attuato dallo Stato.[5] I prigionieri politici di sinistra furono liberati soltanto durante l'Occupazione del Giappone, quando seppur sottoposto a precise restrizioni, il Partito Comunista Giapponese divenne un'associazione legale.

Note[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]