Utente:Demiurgo/Marxismo e questione nazionale

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Disambiguazione – Se stai cercando lo scritto di Iosif Stalin, vedi Il marxismo e la questione nazionale.

La questione nazionale in Marx ed Engels[modifica | modifica wikitesto]

Il Manifesto del Partito Comunista[modifica | modifica wikitesto]

Alla metà del XIX secolo, i filosofi tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels, fondatori della dottrina politica in seguito definita marxismo, al nazionalismo borghese contrapposero l'internazionalismo proletario nel Manifesto del Partito Comunista (1848):

«si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità.
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.
Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza.
Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l'azione unita, per lo meno dei paesi civili.
Lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro.
Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni[1]

Un passaggio precedente recita: «La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia»[2].

I passaggi trascritti sono stati citati e discussi innumerevoli volte nella letteratura marxista, generalmente per giustificare l'avversione del movimento operaio socialista verso il patriottismo, il nazionalismo e lo sciovinismo borghesi. Non sono tuttavia mancate interpretazioni tendenti a limitare la validità dell'asserzione per cui «gli operai non hanno patria» all'epoca in cui fu formulata, allorché il proletariato occupava una posizione di subalternità rispetto alla borghesia, e dunque a conciliarla con la possibilità di un patriottismo o nazionalismo proletario, una volta che il proletariato avesse conquistato il governo della propria nazione. Le parole del Manifesto venivano in sostanza lette come un'esortazione affinché il proletariato prendesse il potere e conquistasse quindi una propria patria.

Interpretazioni di questo tipo furono originariamente proposte dai socialdemocratici tedeschi Eduard Bernstein, padre del revisionismo del marxismo, e Heinrich Cunow[3]. Nella sua opera La teoria marxista della storia, della società e dello Stato (1920-1921), Cunow offrì la seguente spiegazione delle parole di Marx ed Engels:

«Oggi (1848) il lavoratore non ha patria, egli non prende parte alla vita della nazione, non condivide la sua ricchezza materiale e spirituale. Ma uno di questi giorni i lavoratori conquisteranno il potere politico e prenderanno una posizione dominante nello Stato e nella nazione, e poi, quando per così dire si saranno costituiti essi stessi in nazione, saranno anch'essi nazionali e si sentiranno nazionali, anche se il loro nazionalismo sarà di un tipo diverso da quello della borghesia[4]

L'interpretazione di Cunow divenne quella dominante nella letteratura riformista, ma trovò ampia diffusione anche nel campo comunista soprattutto in seguito alla seconda guerra mondiale, allorché i partiti comunisti salirono al potere nei Paesi dell'Europa orientale e si integrarono in diversi sistemi politici democratici dell'Europa occidentale[5][6][7].

Roman Rosdolsky, teorico marxista d'ispirazione trockista[8], contesta l'interpretazione per cui Marx ed Engels avrebbero esortato il proletariato alla realizzazione di una propria patria nazionale. Secondo Rosdolsky, la presenza dell'avverbio "ancora" nella frase «[il proletariato] è anch'esso ancora nazionale» indica che i filosofi tedeschi non si aspettavano che il proletariato rimanesse nazionale per sempre[9].

Le lettere[modifica | modifica wikitesto]

Il tema della questione nazionale occupa una posizione giudicata marginale nel complesso della vasta produzione di Marx ed Engels, essendo affrontato perlopiù in scritti giornalistici, lettere e commenti occasionali soprattutto in seguito alle rivoluzioni del 1848[10]. Si ricordano in particolare alcune lettere che Marx scrisse a Engels nel giugno 1866, in cui il filosofo di Treviri criticò la posizione assunta sulla questione nazionale dai socialisti francesi sostenitori del pensiero di Proudhon, tra cui i suoi amici (e futuri generi) Lafargue e Longuet.

Nella lettera del 7 giugno 1866, Marx riporta che i proudhoniani asserivano l'assurdità delle nazionalità e attaccavano Bismarck e Garibaldi (protagonisti dell'unificazione nazionale rispettivamente di Germania e Italia). Secondo Marx, si trattava di una tattica utile e comprensibile nella polemica contro lo sciovinismo, che tuttavia scadeva nel ridicolo quando alimentava l'idea per cui tutti i Paesi d'Europa dovessero rimanere inerti in attesa che la Francia portasse loro il progresso[11].

Lo stesso concetto è espresso nella lettera del 20 giugno, in cui Marx fa il resoconto di un incontro del Consiglio dell'Associazione internazionale dei lavoratori (Prima Internazionale), la quale aveva sede a Londra, sulla guerra austro-prussiana allora in corso. Marx riferisce di aver suscitato l'ilarità dei delegati inglesi allorché fece notare che Lafargue, il quale aveva asserito che le nazioni fossero dei pregiudizi superati, si era rivolto alla platea in francese (una lingua compresa solo da un'esigua minoranza dei presenti), sembrando con ciò confondere inconsapevolmente il superamento delle nazioni con il loro assorbimento nella nazione-modello francese[N 1]. Secondo diversi commentatori successivi, Marx era preoccupato che l'idea del superamento delle nazioni divenisse strumento per giustificare l'egemonia delle nazioni più grandi, attraverso la loro elevazione a nazioni-modello, sulle altre[11][12].

In sintesi, Marx condusse nell'ambito della Prima Internazionale una battaglia su due fronti, allo stesso tempo contro il nazionalismo demo-liberale di Mazzini e contro il nichilismo nazionale dei proudhoniani[13].

Il marxismo di fronte all'ascesa dei nazionalismi[modifica | modifica wikitesto]

Rosa Luxemburg e l'indipendenza della Polonia[modifica | modifica wikitesto]

Rosa Luxemburg, ostile alla causa dell'indipendenza polacca ritenendo che favorisse la borghesia, considerava il diritto di autodeterminazione dei popoli una formula astratta

Nel 1893, Rosa Luxemburg fu tra i fondatori della Socialdemocrazia del Regno di Polonia (SDKP), formazione politica rivale del Partito Socialista Polacco (PPS). L'SDKP denunciava il PPS come «socialpatriottico», poiché quest'ultimo partito si batteva per l'indipendenza della Polonia, allora divisa tra gli imperi russo (nella più larga parte), tedesco e austro-ungarico. Al contrario, il partito di Luxemburg insisteva sulla fratellanza tra il proletariato polacco e quello russo, e – in contrasto con la tradizionale posizione marxista favorevole all'indipendenza polacca – propugnava per il Regno di Polonia sottoposto al dominio zarista non l'indipendenza, ma una mera autonomia nel quadro di una futura repubblica democratica russa[14].

Antonio Labriola sostenne l'indipendenza della Polonia in polemica con Luxemburg

Il marxista italiano Antonio Labriola, in polemica con la campagna contro l'indipendenza della Polonia condotta da Luxemburg sulla rivista socialista tedesca Die Neue Zeit, nel 1896 esortò i socialisti italiani ad appoggiare la risoluzione indipendentista che la delegazione polacca avrebbe presentato all'imminente Congresso di Londra (IV Congresso della Seconda Internazionale). Evocando l'epopea risorgimentale, cui era profondamente legato[15], Labriola separò il patriottismo dalla politica borghese:

«A quel tempo il liberalismo e il patriottismo stavano ancora sotto la costellazione dei Garibaldi e dei Mazzini, e non volevan dire tradimento del popolo, e sfacciato esercizio di politica borghese. [...] Per noi, che rappresentiamo il moto della rivoluzione proletaria, i nomi di patria, di libertà, di popolo, di nazione hanno altro senso, e un senso che non ammette ipocrisie e mistificazioni e non si presta all'abuso[16]

L'avversione per la posizione antinazionale di Luxemburg spinse Labriola, secondo quando egli stesso confidò al suo allievo Benedetto Croce, a protestare con Karl Kautsky, direttore della Neue Zeit, per la pubblicazione degli «articoli di quella donna equivoca»[17].

Il dibattito sull'autodeterminazione dei popoli[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1908-1909, Luxemburg espose le sue tesi nell'articolo Questione nazionale e autonomia, pubblicato sull'organo di stampa del partito (nel frattempo divenuto Socialdemocrazia del Regno di Polonia e Lituania, SDKPiL), Przegląd Socjaldemokratyczny: il diritto di autodeterminazione è un diritto «astratto» e «metafisico», paragonabile al «diritto al lavoro» o al bizzarro «diritto di ogni uomo a mangiare in piatti dorati» proclamato dallo scrittore Černyševskij; poiché la nazione come totalità omogenea non esiste, essendo essa divisa in classi sociali portatrici di interessi contrapposti, nel sostenere l'autodeterminazione nazionale si sostiene di fatto il nazionalismo borghese; l'indipendenza delle piccole nazioni, e in particolare della Polonia, è un'utopia irrealizzabile dal punto di vista economico (con l'eccezione delle nazioni balcaniche sottoposte al decadente Impero ottomano)[18].

Lenin polemizzò con la posizione di Luxemburg, evidenziando che contrastare le aspirazioni indipendentistiche della borghesia nazionalista polacca favoriva il più dannoso nazionalismo feudale grande russo

Nel 1914 Vladimir Lenin criticò queste tesi nello scritto Sul diritto di autodecisione delle nazioni[19]. Chiarito il significato di questa espressione come il diritto delle nazioni alla «loro separazione statale dalle collettività nazionali straniere» e alla «formazione di uno Stato nazionale indipendente», Lenin dichiarò: «se non diffondessimo questa parola d'ordine, aiuteremmo non solo la borghesia, ma anche i feudali e l'assolutismo della nazione che opprime»[20]. Secondo Lenin, Luxemburg si era lasciata accecare dalla lotta contro la borghesia nazionalista polacca:

«Trascinata dalla lotta contro il nazionalismo polacco, Rosa Luxemburg ha dimenticato il nazionalismo grande-russo, sebbene questo nazionalismo sia, nel momento attuale, il più dannoso: esso è meno borghese, ma più feudale, e costituisce il principale ostacolo alla democrazia e alla lotta proletaria. Ogni nazionalismo borghese delle nazioni oppresse ha un contenuto democratico generale diretto contro l'oppressione, e questo contenuto noi lo sosteniamo incondizionatamente, separando da esso con rigore la tendenza all'esclusivismo nazionale, combattendo l'aspirazione del borghese polacco a schiacciare gli ebrei, ecc. ecc[21]

Luxemburg tornò sulla questione durante la prima guerra mondiale, in un opuscolo scritto nel 1915 mentre era prigioniera e pubblicato clandestinamente l'anno seguente, la Brossura Junius (o Opuscolo di Junius). In questo scritto (firmato appunto con lo pseudonimo di "Junius"), la rivoluzionaria sembrò riconoscere il diritto di autodeterminazione dei popoli, ma lo ritenne realizzabile solo dall'internazionalismo socialista e non nel quadro degli Stati capitalistici. Nell'appendice Tesi sui compiti della socialdemocrazia internazionale, Luxemburg affermò che la guerra mondiale in corso non era una guerra nazionale, bensì «esclusivamente un parto delle rivalità imperialistiche tra le classi capitalistiche di vari paesi»; da qui la conclusione: «Nell'era dell'imperialismo scatenato non c'è più posto per guerre nazionali. Gli interessi nazionali servono solo di pretesto per porre le masse lavoratrici al servizio del loro mortale nemico, l'imperialismo». Lo stesso valeva per le «piccole nazioni», che sarebbero state inevitabilmente «soltanto delle pedine nel gioco imperialistico delle grandi potenze»[22][23].

Lenin giudicò la tesi di "Junius" viziata da un'indebita generalizzazione, poiché dalla natura imperialista e non nazionale della guerra in corso non derivava la generale impossibilità delle guerre nazionali. Ammonì dunque a non cadere nell'errore «di estendere la valutazione della guerra attuale a tutte le guerre possibili nell'epoca dell'imperialismo, di dimenticare i movimenti nazionali contro l'imperialismo». Lenin continuò: «Nel periodo dell'imperialismo, guerre nazionali da parte delle colonie e dei paesi semicoloniali sono non soltanto probabili, ma inevitabili. Nelle colonie e nei paesi semicoloniali (Cina, Turchia, Persia) vive una popolazione di quasi mille milioni, cioè più della metà degli abitanti del globo. I movimenti di liberazione nazionale in questi paesi o sono già molto forti o vanno crescendo e maturando. Ogni guerra è la continuazione della politica con altri mezzi[N 2]. Continuazione della politica di liberazione nazionale delle colonie saranno, necessariamente, le guerre nazionali da parte di queste contro l'imperialismo»[24].

Il fallimento della Seconda Internazionale e la nascita del movimento comunista[modifica | modifica wikitesto]

Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, nell'Europa occidentale i partiti socialisti intrapresero un percorso di integrazione nei rispettivi sistemi parlamentari nazionali, che – secondo lo storico Edward Carr – determinò una «socializzazione della nazione» e una conseguente «nazionalizzazione del socialismo»[25]. Ciò portò a un progressivo allontanamento dei partiti socialisti dall'originaria impostazione internazionalista, che finì per ridursi a un generico atteggiamento pacifista e di sostegno alle nazionalità oppresse[26]. Il processo di trasformazione in partiti nazionali portò i partiti socialisti ad adottare, allo scoppio della grande guerra, una politica di solidarietà con il proprio Stato nazionale che prevedeva una tregua parlamentare e sindacale (tale politica assunse il nome di Union sacrée in Francia e di Burgfrieden in Germania). Ne derivarono il fallimento della Seconda Internazionale e l'ampia confluenza della sinistra rivoluzionaria – di cui facevano parte, tra gli esponenti più noti, il russo Vladimir Lenin e la tedesca di origine polacca Rosa Luxemburg – nel nascente movimento comunista[27].

Fino alla prima guerra mondiale nessun marxista sviluppò una teoria sistematica e approfondita sul nazionalismo, lasciando quella che molti studiosi hanno considerato un'eredità contraddittoria sulla questione nazionale. All'inizio del XX secolo, i marxisti dedicarono numerosi scritti alla questione nazionale, ma non lanciarono mai una vasta polemica contro il nazionalismo in quanto tale. Tra loro ci furono anche Otto Bauer (Socialdemocrazia e questione nazionale, 1907) e Iosif Stalin (Il marxismo e la questione nazionale, 1913)[28].

Note[modifica | modifica wikitesto]

Note esplicative e di approfondimento[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Nella stessa lettera, in merito alla tesi dei proudhoniani che considerava le nazioni dei pregiudizi superati, Marx parla di «stirnerismo proudhonizzato», facendo riferimento al filosofo tedesco Max Stirner, individualista e nichilista.
  2. ^ Lenin si rifà a una celebre massima del trattato Della guerra, principale opera del teorico militare prussiano Carl von Clausewitz.

Note bibliografiche[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, 1848, II. Proletari e Comunisti.
  2. ^ Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, 1848, I. Borghesi e Proletari.
  3. ^ Rosdolsky 1965, p. 330.
  4. ^ Rosdolsky 1965, p. 331. L'autore evidenzia con enfasi [!] l'uso del termine "nazionalismo" in riferimento ai proletari.
  5. ^ Rosdolsky 1965, p. 331. È citata, come equivalente a quella di Cunow (e anzi ulteriormente orientata in senso nazionalista), l'interpretazione presentata nell'introduzione a un'edizione del Manifesto pubblicata nel 1946 dalla Stern-Verlag di Vienna, casa editrice del Partito Comunista d'Austria.
  6. ^ Martignoni 2012, 20. Sono citati diversi articoli pubblicati negli anni 1945-1946 sui Cahiers du Communisme, rivista teorica del Partito Comunista Francese.
  7. ^ Ziherl 1949, pp. 15-16, scrive: «È tenendo presente questo fatto, cioè l'inesistenza della patria del popolo lavoratore come realtà immediata, che bisogna interpretare le celebri parole di Marx e di Engels nel "Manifesto dei comunisti"». Secondo l'autore, la situazione descritta dai fondatori del marxismo era mutata allorché la Rivoluzione d'ottobre aveva realizzato in terra russa la patria del popolo lavoratore e l'Unione Sovietica era divenuta la patria del proletariato mondiale.
  8. ^ Yurii Colombo, Roman Rosdolsky, amante fedele dei «Grundrisse», in il manifesto, 18 ottobre 2017. URL consultato l'8 settembre 2023.
  9. ^ Rosdolsky 1965, p. 331.
  10. ^ Sygkelos 2011, p. 10.
  11. ^ a b Lenin 1966, XX, p. 416. Lenin, in polemica con la tesi di Rosa Luxemburg che liquidava come utopia l'indipendenza delle piccole nazioni, cita le lettere di Marx nel paragrafo in cui contrappone «L'utopista Karl Marx e la pratica Rosa Luxemburg».
  12. ^ Otto Maenchen-Helfen e ‎Boris I. Nicolaevsky, Karl Marx, Torino, Einaudi, 1947, p. 331.
    «Nel nichilismo nazionale dei proudhoniani Marx scorgeva un aspetto caratteristico del nazionalismo francese: una tendenza a considerare i francesi come il popolo eletto.»
  13. ^ Haupt, Löwy, Weill 1997, p. 372.
  14. ^ Löwy 1974, pp. 71-72. Secondo Löwy, «Rosa Luxemburg (al contrario di Lenin) si è profondamente ingannata per quanto concerne la questione nazionale» (p. 71).
  15. ^ Stefano Miccolis, LABRIOLA, Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 62, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2004. URL consultato il 25 agosto 2023.
  16. ^ Antonio Labriola, L'indipendenza della Polonia al Congresso di Londra, in Critica Sociale, a. VI, n. 10, 16 maggio 1896, pp. 148-149 (corsivi nel testo), ora in Antonio Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, vol. II, pp. 864-867.
  17. ^ Benedetto Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali, in La Critica, vol. XXXVI, 1938, pp. 35-52: 46-47.
  18. ^ Löwy 1974, pp. 73-74.
  19. ^ [V. Ilin], Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in Prosvestcenie, n. 4-6, aprile-giugno 1914, ora in Lenin 1966, XX, p. 379.
  20. ^ Lenin 1966, XX, p. 392.
  21. ^ Lenin 1966, XX, p. 393.
  22. ^ Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia ("Juniusbroschure") (1915), su marxists.org. URL consultato il 15 gennaio 2022.
  23. ^ Löwy 1974, p. 74.
  24. ^ Lenin 1966, XXII, pp. 304-318.
  25. ^ Lucio Levi, Internazionalismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1996. URL consultato il 7 luglio 2022.
  26. ^ Spinelli 1960, I.
  27. ^ Internazionale, in Dizionario di storia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. URL consultato il 10 gennaio 2022.
  28. ^ Sygkelos 2011, p. 12.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Studi storici e politologici
Scritti politici

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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