Utente:Alessia Zaccagnino/sandbox

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Libro I[modifica | modifica wikitesto]

Ode I[modifica | modifica wikitesto]

(36 vv.; strofe asclepiadea)

Pur non avendo una datazione certa si ipotizza che la prima ode sia stata scritta intorno al 23 a.C. La raccolta delle Odi è dedicata a Mecenate con questo primo carme, che il poeta ha premesso, come proemio e dedica, alla pubblicazione dei primi tre libri. In tal modo Orazio attuava l’intenzione di dedicare la sua opera all’uomo che gli fu amico e protettore. Dopo un elenco di differenti stili di vita che le persone seguono Orazio presenta il suo, ovvero il dedicarsi alla poesia, aspirando un giorno ad essere un grande poeta lirico. L’ode è scritta avendo come modello poeti lirici greci quali Pindaro, Bacchilide e Saffo.

Ode II[modifica | modifica wikitesto]

(52 vv.; strofe saffica)

La datazione di quest’ode è incerta ma non vi è dubbio che sia tra le più antiche di Orazio, come appare anche dal tono retorico e dallo scarso valore stilistico e poetico. Tuttavia grazie a riferimenti intertestuali è lecito supporre che il termine ante quem sia il 30 a.C. e il termine post quem sia invece il 27 a.C. Sulla scorta di Tibullo, Ovidio e Virgilio, Orazio rievoca alcuni degli orrendi fenomeni seguiti alla violenta scomparsa di Cesare e scongiura Ottaviano, incarnazione di Mercurio, di farsi mezzo di espiazione. L’augurio all’imperator (per usare un anacronismo) che egli ritorni tardi in cielo è, al tempo stesso, augurio di pace a Roma e di lunga vita al principe.

Ode III[modifica | modifica wikitesto]

(40 vv.; strofe asclepiadea)

Virgilio, il grande poeta nonché amico di Orazio, sta per compiere o ha intenzione di compiere un viaggio in Grecia. Orazio si rivolge alla nave che dovrà trasportarlo e la prega di condurlo nell’Attica invocando le divinità marine e il vento favorevole. Quest’ode è un "propempticon" , carme di buon augurio per un viaggio. La protesta contro l’audacia umana, se pur suggerita dal pericolo a cui l’amico va incontro, costituisce il vero tema dell’ode.

Ode IV[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe archilochea)

Di datazione incerta, l’ode è dedicata a Lucio Sestio Quirino, appartenente alla ricca nobiltà di Roma. Argomento dell’ ”odicina” è il ritorno della stagione migliore, la primavera, con Zefiro che riporta la tranquillità sui mari, che si riaprono alla navigazione, così come le opere della campagna e i banchetti, che col bel tempo possono ricominciare. In realtà questo tema anticipa quello che è poi il motivo fondamentale del carpe diem, che si incontra per la prima volta in quest’ode. È questo un motivo centrale nella filosofia epicurea che Orazio segue; la Pallida mors diventa un invito a bere e a divertirsi e insegna che non si accetta la vita se non accettando la morte.

Ode V[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe asclepiadea)

L’elegante carme di Orazio svolge un motivo di poesia greca, che paragona le vicende dell’amore ai pericoli della navigazione e la volubilità delle donne alla viabilità del mare. La Pirra di Orazio è una donna impeccabile nella sua eleganza. Il poeta, di questo amore, ha conosciuto gli aspetti positivi ma anche i negativi, ed ora si rallegra al pensiero che sia giunto al termine; raccomanda al suo rivale in amore di non fidarsi della donna.

Ode VI[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe asclepiadea)

In questo breve carme si potrebbe intravedere una dichiarazione di poetica oraziana; il poeta infatti si rivolge ad Agrippa, valoroso generale di Augusto, sostenendo la sua incapacità di celebrare le sue imprese poiché si tratterebbe di poesia epica. Il poeta sostiene infatti che a lui “si affà la poesia leggera dei simposi e dell’amore”, dunque la poesia lirica sulla quale vengono innestati motivi tradizionali che il poeta ricanta anche altrove.

Ode VII[modifica | modifica wikitesto]

(32 vv.; strofe archilochea)

La prima parte dell’ode presenta la città di Tivoli, accogliente con la sua pace e la sua frescura, e a questa immagine si collega quella che invita a cercare nel vino l’assopimento di ogni affanno. Il poeta dunque consiglia a Planco (figura legata a Tivoli), di trovare sollievo attraverso il vino come facevano gli antichi eroi.

Ode VIII[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe saffica)

Il motivo del carme, già trattato da Plauto nella Mostellaria, viene riadattato allo sfondo romano: il poeta si rivolge a Lidia, nome tra l’altro non casuale e ricorrente spesso nella poesia erotica, e la incolpa e rimprovera dell’effeminatezza di Sibari, che un tempo eccellente in ogni sorta di esercizio fisico, adesso non ama più la vita virile e anzi se ne sta nascosto come fece Achille alla corte di Licomede perché l’abito maschile non lo trascinasse tra le stragi e le schiere dei nemici. Anche il ritmo è perfettamente adattato a ciò che viene trattato.

Ode IX[modifica | modifica wikitesto]

(24 vv.; strofe alcaica)

Nell’ode sono presenti riferimenti ad Alceo, l’ispirazione al poeta greco si limita alle prime due strofe. Alla descrizione di un paesaggio invernale segue l’esortazione a scaldarsi con il fuoco e a bere vino. Orazio non traduce l’opera di Alceo (della quale ci è pervenuto un frammento) ma rielabora l’originale prendendone spunto. La terza parte dell’ode è certamente più lontana da Alceo. Essa presuppone la vita di una città ellenistica, qual è anche Roma al tempo di Orazio,con le sue piazze e i suoi portici, dove gli innamorati si danno appuntamento. La tristezza data dall'atmosfera invernale termina nella terza e quarta strofa, attraverso l’accenno al placarsi della tempesta. Il nome del destinatario Taliarco, è forse fittizio; può darsi che fittizio sia il personaggio stesso.

Ode X[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe saffica)

Porfirione, storico commentatore di Orazio, afferma che l’ode deriva da un inno di Alceo[1]; ma mentre quest’ultimo si atteneva alla materia trattata nell’inno omerico dal quale prendeva le mosse, Orazio invece introduce caratteri che appartengono ad un periodo posteriore al poeta greco. Questi caratteri sono riscontrabili nella concezione di Ermete come dio della parola e maestro della civiltà e negli schemi dell’ode che trattano dei topoi prescritti dai retori per tale tipo di componimento. In questo l’ode si riattacca al genere degli inni cletici che con quest’ode prende il via nell'opera oraziana.

Ode XI[modifica | modifica wikitesto]

(8 vv.; strofe asclepiadea)

Anche in questo carme è inverno e si sente fischiare il ”vento furioso”. Raccolti nel tepore di una stanza ben riparata, il poeta e Leuconoe (la fanciulla "dagl’ingenui pensieri" ) si godono il loro momento di intimità. Leuconoe, per passare il tempo, si dedica a calcoli astrologici per sapere se essi vivranno a lungo. Il consiglio dato dal poeta invece è quello di bere e godersi il presente, che è un attimo che non rivivranno mai più; da qui nasce l’espressione che ha reso celebre l’ode : “carpe diem”.

Ode XII[modifica | modifica wikitesto]

(60 vv.; strofe saffica)

Alla celebrazione di divinità quali Giove, Pallade, Bacco, Diana, e di eroi come Ercole e i Dioscuri, il poeta affianca quella di Romolo e di altri romani famosi e infine quella della casa Giulia e di Augusto. Grazie al riferimento delle avvenute nozze di Marcello con la figlia di Augusto possiamo datare quest’ode in modo abbastanza sicuro tra il 25 a.C. e il 23 a.C. .

Ode XIII[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe asclepiadea)

Il carme rispecchia una situazione puramente fantastica: la gelosia che pervade il poeta nel constatare che la fanciulla da lui amata prova amore per un altro. Nei versi è presente passione e forte coinvolgimento emotivo.

Ode XIV[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe asclepiadea)

Senza dubbio quest’ode oraziana si ispira in tutto e per tutto all’ode di Alceo[2] la cui interpretazione allegorica era attestata nelle [3] dello Pseudo-Eraclito. Quella di Orazio invece era già ricorrente al tempo di Quintiliano, che individuava nella nave lo Stato, nelle tempeste le guerre civili, e nel porto invece la pace e la concordia tanto cercate. La differenza fondamentale tra i due è però da ricercare in ciò che da sempre ha costituito il discrimine tra mondo greco e mondo latino, vale a dire l'empatia dei poeti greci che nei latini si trasforma in morale ; Alceo infatti viene emulato e non sterilmente imitato da Orazio, che del suo modello ne fa un’opera completamente nuova pur con gli stessi elementi.

Ode XV[modifica | modifica wikitesto]

(36 vv.; strofe asclepiadea)

Paride veleggia alla volta di Troia, recando sulla nave Elena. Nereo arresta i venti e predice al fedifrago le conseguenze delle sue azioni. L’ode, dall’andamento scolastico, fu composta secondo Porfirione, sul modello di una di Bacchilide.

Ode XVI[modifica | modifica wikitesto]

(28 vv.; strofe alcaica)

Di datazione incerta, molti critici riconducono l'ode all’ultimo periodo di attività di Orazio, soprattutto per l’accenno alla dolce giovinezza ormai trascorsa e alla poesia archilochea vista ormai lontana. In realtà questo è indizio dell’avvenuto cambiamento del modo di vedere del poeta, il passaggio dal mondo della poesia giambica e satirica alla lirica. È un’ode questa che rappresenta una vera e propria palinodia verso una donna, ancora ad oggi non identificabile con chiarezza, che era stata oggetto di offese da parte del poeta. Ora invece Orazio si rivolge a questa con un tono scherzoso, adducendo come scusa per il suo comportamento grandi esempi attinti da lontane leggende.

Ode XVII[modifica | modifica wikitesto]

(28 vv.; strofe alcaica)

Orazio invita Tindaride nella sua villa sabina, che gli dei proteggono: in quella pace essa non avrà da temere i trattamenti brutali del geloso Ciro. Anche questo è un carme che non ha alcun riferimento alla realtà.

Ode XVIII[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe asclepiadea)

La dedica a Varo, se identificato con Quintilio Varo morto nel 24 a. C. , porterebbe a pensare che quest’ode sia stata composta prima di quell’anno. Il tema fondamentale è ancora una volta quello del vino che si elogia in quanto capace di ‹‹rendere libero chiunque, pur nelle ristrettezze della povertà››; non se ne deve però abusare se si vogliono realmente trarre dei benefici. A tal proposito il critico Plessis cita un distico di Teognide in cui l’elogio e la raccomandazione sono le stesse.

Ode XIX[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe asclepiadea)

Il poeta, pur dopo aver posto fine agli amori, vi è nuovamente coinvolto. Scrive infatti, che a farlo ricadere nella passione amorosa hanno contribuito la dea Venere, il vino e l’effetto dell’ozio. Il carme è accurato e finemente lavorato.

Ode XX[modifica | modifica wikitesto]

(12 vv.; strofe saffica)

I commentatori di quest’ode si sono divisi sul significato del testo che può sembrare avere quasi un carattere epigrammatico. Grazie a delle menzioni interne come l’accenno alla malattia di Mecenate e all'applauso con cui il popolo aveva salutato, in teatro,la sua guarigione, si è pensato che l'ode possa essere collocata tra il 30 e il 29 a.C. . Orazio invita Mecenate a bere nella sua villa in Sabina, dove però egli potrà offrirgli solo del vino modesto, a confronto con i vini pregiati a cui l'ospite era abituato; ma è proprio qui che si scorge il vero carattere dell'ode, il vino offerto a Mecenate ha un valore particolare: Orazio infatti l'ha travasato con le sue mani in un giorno di grande gioia per la notizia della guarigione dell'amico.

Ode XXI[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv. ; strofe asclepiadea)

S’invita un coro di giovani a celebrare Diana, Apollo e la madre di questi dei, Latona. Sono attribuiti ai tre dei gli epiteti che risonavano nelle preghiere da secoli e secoli. Il carme era probabilmente destinato all’esecuzione con accompagnamento musicale.

Ode XXII[modifica | modifica wikitesto]

(24 vv.; strofe saffica)

Di datazione incerta, l'ode è dedicata ad Aristio Fusco, poeta, grammatico e grande amico di Orazio. A lui si rivolge in quanto amante della città, al contrario di Orazio che invece si trova a vivere nei boschi della Sabina dove si possono correre anche gravi pericoli. Infatti Orazio narra del suo incontro con un lupo, il quale però fugge davanti a lui benché fosse senza armi. Questo offre lo spunto ad Orazio per elogiare l'animo dell'uomo onesto e di coscienza pura che non ha nulla da temere perché sicuro della protezione divina che gli deriva dal sapersi poeta ma soprattutto pio.

Ode XXIII[modifica | modifica wikitesto]

(12 vv.; strofe asclepiadea)

Nonostante la sua brevità, il carme è considerato un importante esempio per la sua naturalezza, semplicità e perfezione formale. Cloe fugge dal poeta, e viene paragonata a un agnello che fugge dal lupo, ad una cerva che fugge dal leone o alle colombe che fuggono dall'aquila. Orazio però non ha alcuna intenzione di fare del male alla ragazza e la implora di fermarsi.

Ode XXIV[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe asclepiadea)

Quest'ode è un esempio di inno funebre. È morto infatti Quintilio Varo e Orazio e Virgilio esprimono tutto il loro dolore per la perdita di una persona di così sani valori e virtù che nessun altro potrà eguagliare. Ancora una volta viene qui espresso, seppur indirettamente, il tema della morte, a cui nessun uomo si può opporre e che tutti devono anzi accettare "con pazienza".

Ode XXV[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe saffica)

L’ode volge a un motivo, diffuso nella letteratura d’amore già molto tempo prima di Orazio. L’innamorato, nel pregare la donna superba o nel vendicarsi del suo rifiuto le predice la vecchiaia che farà sfiorire la sua bellezza e la umilierà, facendole patire i dolori che ella ha inflitto ad altri. Motivi come questo ricorrevano particolarmente in poesie per lo più di lamento, che il poeta cantava davanti alla porta della donna. Si è supposto che l’ode prenda spunto da Anacreonte [4]. Egli sentiva con particolare intensità il logorarsi della vita nel tempo, il fatale decadimento che è l’esistenza umana. Il poeta, che ne è cosciente, può anche accettarlo; per una donna che ha fondato sulla bellezza il valore della sua vita, la vecchiaia può essere una sofferenza atroce.

Ode XXVI[modifica | modifica wikitesto]

(12 vv.; strofe alcaica)

La datazione di quest'ode, grazie al riferimento alle contese scoppiate tra Fraate e Tiridate per il regno dei Parti, si colloca tra il 29 e il 30 a.C. . È un carme di lode per Elio Lamia.

Ode XXVII[modifica | modifica wikitesto]

(24 vv.; strofe alcaica)

Il poeta entra nella sala del banchetto. Fra i convivati, scaldati dal vino, sta per scoppiare una rissa. Il poeta li ammonisce a star calmi. Attraverso una prima pausa la calma si ristabilisce, e Orazio viene invitato a prendere al simposio che accetta la proposta. In seguito a una nuova pausa vediamo il fratello di Megilla schernirsi. Orazio invita il giovane a rivelare di chi è innamorato, segreto che verrà svelato in seguito a una nuova pausa.

Ode XXVIII[modifica | modifica wikitesto]

(36 vv.; strofe archilochea)

Seppur di difficile interpretazione, molto probabilmente la persona narrante dell'ode è un naufrago insepolto che chiede ad un marinaio di ricoprire le sue ossa con della sabbia affinché la sua anima cessi di vagare e raggiunga finalmente la pace tanto agognata. Ancora una volta il tema principale è quello dell'ineluttabilità della morte, suggerita in questo caso dalla tomba del filosofo pitagoreo Archita.

Ode XXIX[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe alcaica)

Il carme presenta un accenno storico che permette di fissare con probabilità la data tra il 25 e il 26 a.C.. Il prendere parte a spedizioni militari nelle ricche province dell’Oriente era, a Roma, un mezzo per accumulare ricchezze. Con ciò non si deve ritener per certo che Iccio (il destinatario del carme) nutrisse i propositi che gli sono attribuiti. È un malizioso sospetto quello di Orazio che l’intento di Iccio sia quello di arricchirsi.

Ode XXX[modifica | modifica wikitesto]

(8 vv.; strofe saffica)

Questo carme è un inno cletico in quanto contiene l'invocazione a Venere; il poeta infatti prega la dea affinché ascolti l'invocazione della ragazza da lui amata, Glicera. Riprendendo anche nello stile la tradizione greca, Orazio qui dà sfoggio della sua poesia più elevata.

Ode XXXI[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe alcaica)

Il 9 ottobre del 28 a.C. fu consacrato il tempio del Palatino, promesso da Augusto in seguito alla battaglia navale di Milazzo contro Sesto Pompeo. La costruzione di questo tempio fu affrettata in seguito alla battaglia di Azio, poiché doveva apparire come un segno di gratitudine nei confronti del dio Apollo per la vittoria della battaglia. Orazio immagina di essere uno dei numerosi abitanti di Roma che, visitando il tempio, fecero la loro offerta alla divinità e le rivolsero una preghiera. Il poeta chiede al dio di poter godere del poco che possiede, conservando integra la mente, e di trascorrere una vecchiaia non misera, allietata dal dono della poesia. L’ode è stata composta nel 28 a.C..

Ode XXXII[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe saffica)

Quest'ode è ciò che si è definito un componimento di maniera. Al poeta viene richiesto un carme ed egli invoca la lira eolica, un tempo utilizzata dal "lesbiaco vate", ovvero Alceo, alla cui poesia però ora si sostituiscono canti romani di cui egli si fa portavoce.

Ode XXXIII[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe asclepiadea)

Gli editori antichi identificano il destinatario di quest’ode, come quello dell’epistola I 4, col poeta elegiaco Albio Tibullo. Orazio cita, nel secondo verso, il nome di Glicera che alcuni identificano come la donna cantata nelle elegie di Tibullo IV 19 e 20 del Corpus Tibullianum; altri considerano Glicera un altro pseudonimo, inventato da Orazio per indicare Nemesi. La parte entrale dell’ode è con molta probabilità, una rielaborazione elegante di un passo di Mosco, un poeta bucolico del II secolo a.C.. Orazio parla dell’amico Albio Tibullo come l’uomo più maturo e più e più saggio, che ha appreso la saggezza, la necessità di accettare le leggi della vita, da un’esperienza difficile.

Ode XXXIV[modifica | modifica wikitesto]

(16 vv.; strofe alcaica)

Al tempo delle satire Orazio era influenzato notevolmente dall’epicureismo nella credenza che gli dei non si curassero delle vicende naturali e umano. In quest’ode si riferisce polemicamente ad un passo di Lucrezio. In pochi credono ad una conversione religiosa del poeta, anche se l’influenza epicurea resterà predominante in Orazio. L’ode è il frutto di uno stato d’animo superficiale, non facile da definire. Probabilmente è di origine storica l’identificazione di Giove col Fato e del Fato con la Tyche o Fortuna. Questo componimento è uno dei pochi di cui non abbiamo il destinatario.

Ode XXXV[modifica | modifica wikitesto]

(40 vv.; strofe alcaica)

Il carme è un inno alla dea Fortuna, a cui era stato dedicato un tempio nella città di Anzio, venerata e allo stesso tempo temuta da tutti. La dea è presentata come protettrice dei romani durante le battaglie. L'ode risale probabilmente al 27 a.C. .

Ode XXXVI[modifica | modifica wikitesto]

(20 vv.; strofe asclepiadea)

Plozio (o Pomponio) Numida (gli scoliasti non sono d’accordo sul prenome e del personaggio non si hanno informazioni) è tornato sano e salvo dalla Spagna (dove, forse, aveva partecipato alla spedizione d’Augusto). Nell’ode viene celebrato il ritorno dell’amico di Orazio con un banchetto. La data del carme potrebbe essere il 24 a.C., nel quale anno Augusto fece ritorno dalla spedizione.

Ode XXXVII[modifica | modifica wikitesto]

(32 vv.; strofe alcaica)

Nell’autunno del 30 a.C. a Roma giungeva la notizia della morte di Cleopatra. Nella prima parte dell’ode vi è una reazione immediata di gioia all’avvenimento, presentata come un adattamento all’ode cantata da Alceo alla notizia della morte dell’odiato Mirsilo, tiranno di Mitilene. Tuttavia, nel resto del componimento Orazio si distacca totalmente dal modello e il tono diviene più elevato. Viene descritta la celebrazione di una festa privata per un evento pubblico. La cena doveva essere sontuosa come quella dei sacerdoti Salii. Non abbiamo però alcuna prova che il banchetto si collochi in una cerimonia pubblica.

Ode XXXVIII[modifica | modifica wikitesto]

(8 vv.; strofe saffica)

L’ode conclusiva del primo libro ha la funzione di commianto: attraverso essa i poeti antichi esponevano il proprio concetto di poesia, e la funzione che ne attribuivano. È probabile che anche questo carme sia a suo modo una “poetica” di Orazio. Il poeta in pochi versi esalta la semplicità come elemento di buongusto e di eleganza. Si pensa che il carme sia stato composto in autunno.


Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Orazio, I carmi, scelti e commentati da Ugo Enrico Paoli, Firenze, Le Monnier, 1955 (VII ed. aumentata).
  • Quinto Orazio Flacco, I carmi e gli epodi, commentati da Onorato Tescari, Torino, Società editrice internazionale, 1947 (III ed.).
  • Orazio, Le opere. Antologia, a cura di A. La Penna, Firenze, La nuova Italia editrice, 1969 (I ed.).
  • Orazio,Antologia oraziana, introduzione e commento di Edmondo V. D'Arbela, Milano,Casa editrice Carlo Signorelli S.A., 1946.
  • Orazio, Antologia oraziana, a cura di Enrica Malcovati, Firenze,G.C. Sansoni editore, 1953 (Nuova ed. accresciuta).

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Fr. 2 V.
  2. ^ Fr. 326 L.-P.
  3. ^ Allegorie omeriche
  4. ^ 78 D.