Utente:Zanekost/Sandbox/Pala di San Giobbe

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Pala di San Giobbe
AutoreGiovanni Bellini
Data1480 circa
Tecnicaolio e tempera[1] su tavola
Dimensioni453×262,9 cm
UbicazioneGallerie dell'Accademia, Venezia

La Pala di San Giobbe è un dipinto olio e tempera su tavola (453x262,9 cm) di Giovanni Bellini, databile attorno al 1480 circa e conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia. Si tratta di una Sacra conversazione in origine dipinta per la chiesa veneziana di San Giobbe, allora annessa al convento degli Osservanti.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

La pala, considerata un caposaldo del periodo maturo dell'artista, venne dipinta per il secondo altare a destra della chiesa dei frati minori osservanti a Venezia dedicata a San Giobbe; è il suo più ampio dipinto giunto fino ai nostri tempi[2].

L'opera divenne subito una delle più rinomate del Bellini, venendo lodata, con Bellini ancora in vita, dal Sabellico nel De Urbe Sito (scritto nel 1487 ma pubblicato 1491 circa) e un paio di anni più tardi dal Sanudo[3].

Nel Cinquecento venne ricordata dal Vasari nelle due edizioni delle Vite (1550, 1568) e citata come la prima grande opera pubblica a olio del pittore dal Sansovino (1581)[4]. Nel Seicento la pur breve citazione di Ridolfi (1648) vi individua il caratteristico e composto stile devozionale di Bellini[5]. Qualche anno più tardi (1660) Boschini le dedicò un lungo panegirico nella sua Carta del navegar pitoresco, inteso al solito in risposta al Vasari come difesa della qualità disegno nella pittura veneziana[6].

Con la soppressione e la parziale demolizione del convento – nonché la riduzione della chiesa a vicariale della parrocchia di San Geremia – a seguito dei decreti napoleonici l'opera si trovava sotto osservazione per le specifiche necessità di restauro e un suo eventuale trasferimento già dal 1812. L'ipotesi che potesse venire assegnata a Brera era timidamente contrastata sia dal consulente governativo Edwards che dal presidente dell'Accademia Cicognara. Nel 1815, sotto il rinnovato dominio austriaco, con un governo interessato a blandire il ceto intellettuale veneziano, ne fu deciso il definitivo trasferimento alle Gallerie veneziane con lo scopo di garantirne una migliore conservazione e il restauro[7]. Probabilmente in quell'occasione il dipinto fu mutilato nella parte deteriorata superiore.

Sono registrati diversi restauri "moderni" della pala dopo quelli del 1817 e 1833, Crowe e Cavalcaselle lamentano alcuni ritocchi e danneggiamenti individuati nel 1871. Dopo diversi tentennamenti ed un consolidamento delle assi di supporto nel 1893 vi fu un importante lavoro di restauro nel 1895[8]. Seguirono altri due interventi nel 1949 e nel 1971[9], prima dell'ultimo e più preciso finito nel 1994 che oltre a riportare la brillantezza dei colori ha rivelato anche le aree non dipinte in corrispondenza dei capitelli e delle basi dell'incorniciatura marmorea sovrapposte al dipinto consentendo una più precisa ricostruzione sperimentale del complesso[10].

Le analisi stratigrafiche per quest'ultimo hanno rivelato come Giovanni avesse utilizzato una tecnica mista, non solo l'olio, come prima ritenuto, ma anche la tempera all'uovo. Una tecnica che è stata verificata come consueta in diversi dipinti belliniani delle Gallerie dell'Accademia; un campione significativo, comunque ben lontano dal poter individuare un percorso storico nell'evoluzione tecnica del pittore[11].

qualche parte a tempera (lapislazzulo manto Maria e malachite ombrello)[12]

Descrizione e stile[modifica | modifica wikitesto]

L'opera viene considerata una sorta di replica alla pala di San Cassiano di Antonello da Messina (1475-1476), dalla quale Giovanni potrebbe aver assimilato le novità e ricevuto ulteriori stimoli. Fatta salva un'ipotesi di datazione più precoce che invece vedrebbe in quella di Antonello una "risposta" al Giambellino.

+++ delfini simbolo resurrezione v. Humfrey 2021/Pincus 2004

Questioni aperte[modifica | modifica wikitesto]

Datazione[modifica | modifica wikitesto]

Non esistono documenti sulla commissione dell'opera cosa che ne rende la datazione piuttosto incerta. Sicuramente è successiva al completamento dell'aula da parte dei Lombardo (1476/1478 circa) e comunque non successivo al termine ante quem definito dalla prima stesura del De situ urbis Venetae di Sabellico (1487). A parte lo svarione di Zanetti (1771), ripreso anche dal Lanzi (1796-97), che poneva l'esecuzione nel 1510, contemporanea ai due quadri di Carpaccio (Presentazione di Gesù al Tempio) e Basaiti (Orazione nell'orto) per la stessa chiesa (ora anche questi alle Gallerie veneziane) è interessante notare come gli storici cinquecenteschi Vasari e Sansovino la collocassero temporalmente tra due opere oggi perdute, la Pala di Santa Caterina di Santi Giovanni e Paolo e il ciclo del Palazzo Ducale. In qualche caso si è dato credito alla data secca del 1487 proposta dal Paoletti (1929) ma a partire da Crowe e Cavalcaselle (1871) il periodo indicato oscillava tra i dieci e i quindici anni, comunque posteriore alla Pala di Pesaro (1475 circa) e anteriore al Trittico dei Frari e alla Pala Barbarigo (entrambi del 1488). Per questo gli storici dell'arte attivi nel Novecento si dividevano tra chi l'avvicina più verso l'inizio e chi alla fine del nono decennio.

Francesco Bonsignori, Pala dal Bovo, 1483 c., Museo di Castelvecchio, Verona
Bartolomeo Montagna, Madonna col Bambino e i santi Onofrio Battista, 1485 c., Palazzo Chiericati, Vicenza

Le ricerche più recenti propendono per abbassare la data in prossimità del 1480 indicando come la nuda figura di Giobbe sia servita da modello per quella di sant'Onofrio dipinta da Francesco Bonsignori nella Pala del Bovo (1483 circa) e ugualmente a Bartolomeo Montagna per quella di Palazzo Chiericati (1485 circa). In particolare il Montagna è documentato a Venezia fino agli inizi del 1483[13], periodo in cui potrebbe aver avuto modo di vedere la tavola belliniana.

Anche altri elementi inducono ad avvicinare questa datazione. Infatti la rappresentazione in posizione rilevante di Giobbe e Sebastiano, santi protettori dalle epidemie, suggerisce che la pala sia stata commissionata nel 1478, anno in cui un'epidemia di peste colpì Venezia, anche se l'esecuzione potrebbe essersi protratta fino al 1485[14]. Viene annotato anche che in qualche modo la tavola doveva essere vincolata alla celebrazione nel 1483 del centenario della Scuola di San Giobbe che se non sicuramente considerabile tra i committenti era invece certamente competente del mantenimento di quest'altare[15]. Infine, da un punto di vista strettamente stilistico, la stesura ancora abbastanza rigida dei panneggi, pur mantenendo un trattamento volumetrico e spaziale delle figure di ispirazione antonelliana, la allontana dalla resa più morbida di quelle dei Frari[16].

//???? o dell'opera non è certa e, a parte qualche voce isolata (come Luigi Coletti, che data l'opera al 1470-75), tutti gli storici dell'arte propendono per collocarla nel 1487 o, al più tardi, entro il 1500. Jacopo Sansovino in un suo scritto del 1581 scrisse che l'opera di San Giobbe fu la prima pala a olio di Giovanni, il che anticiperebbe la datazione più a ridosso dell'esempio di Antonello. Purtroppo mancano riscontri con opere documentabili di quegli anni: i teleri che Giovanni dipinse a partire dal 1479 per il Palazzo Ducale sono infatti perduti nell'incendio del 1577.

.????//

Committenza[modifica | modifica wikitesto]

Anche la cornice marmorea, così legata alla rappresentazione dipinta, non risolve la questione della committenza. Anzi i due stemmi con il cavallo rampante sui basamenti dei pilastri creano ulteriori perplessità: sicuramente non appartenevano ad una famiglia né rispettano le regole araldiche mostrando gli animali affacciati verso il centro. È stato proposto, senza fornire documentazione d'appoggio, che siano da riferirsi a tale Marco Cavalli, membro facoltoso della confraternita di San Giobbe. La cosa rafforzerebbe l'ipotesi che la committenza venga da questa Scuola piccola; tuttavia non è sicuro i confratelli che avessero la disponibilità finanziaria per coprire l'intera operazione, architettonica e pittorica, tanto da far supporre che i frati fossero intervenuti attingendo dal cospicuo lascito del doge Moro. Certamente così i francescani si dotavano di un altare per le loro devozioni alternativo a quello del presbiterio allora riservato a glorificare la tomba del defunto doge e per volontà dello stesso dedicato a Bernardino[17].

Tomba ai piedi dell'altare di grn lunga successiva non come gli altri due V.???

Riduzione dell'opera[modifica | modifica wikitesto]

Un altro dibattito interessante è quello relativo alla riduzione dell'opera, soprattutto per la stretta relazione con la cornice marmorea originale ancora integra e in situ che evidentemente era stata concepita assieme al dipinto[18]. La riduzione della pala ha causato un protratto dibattito sulle sue dimensioni ipotetiche risolto soltanto dall'individuazione dei bordi non dipinti, esattamente corrispondenti alla parte coperta dalla cornice marmorea originale, durante il restauro del 1994 e la corretta ricostruzione presenta al convegno del 2016[19].

13 assi di pioppo oltre alle tre eliminate (2 sopra una più sottile in basso)

ricostruzioni precedenti senza misure esatte

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

Particolare del catino absidale

La descrizione della tavola può partire immaginandola nella sua condizione originale di compiutezza dentro la cornice marmorea lombardesca nella quale vengono ripresi i motivi ornamentali e le modanature creando lo spazio illusorio della scena (o forse viceversa la cornice era stata realizzata imitando l'architettura immaginata). Ma se con l'iiterazione dei dettagli – le candelabre fitomorfe sulle specchiature delle paraste, i delfini sostitutivi delle volute dei fantasiosi capitelli oltre ai cassettoni con rosette dell'intradosso – si crea un ambiente classico evidentemente ispirato ai dettami dell'Alberti, nella chiusura ad abside si inseriscono elementi pienamente bizantini – il mosaico del catino e i rivestimenti marmorei con le peculiari fiammeggianti specchiature "a macchia aperta" della nicchia. Troviamo uniti insomma un repertorio moderno, ma di recupero antiquario, ad uno arcaizzante, derivato dall'appena declinato gusto bizantino dei veneziani: ovvero se da una parte abbiamo una piena aderenza al nuovo gusto rinascimentale che si stava introducendo a Venezia, dall'altra si presenta una precisa variazione (piuttosto che una citazione) sui temi delle ornamentazioni di San Marco.

In ogni caso la evidente cesura absidale propone la rappresentazione racchiusa in un ambiente che riecheggia una chiesa. L'espediente, di origine fiamminga, era già stato sperimentato alcuni anni prima da Piero della Francesca nella sua Pala Montefeltro; è invece la prima volta che questo avviene nella pittura veneziana[20] dove prima semmai si definiva un ambiente classicheggiante talvolta coperto ma aperto, ai lati e sullo sfondo, verso lo spazio esterno, come lo stesso Giovanni aveva recentemente dipinto nella perduta Pala di Santa Caterina.

Il mosaico, un'elemento ornamentale che Bellini ripropose più volte, pare qui effettivamente riferirsi alla basilica dogale. Sebbene a San Marco non esista una simile ripetizione seriale di serafini è possibile individuarne il modello in quello di una cupoletta del battistero, anche questo con gli esseri ultraterreni che sorreggono un disco con una scritta. Qui il testo è stato cambiato nella ripetizione del saluto AVE MARIA GRATIA PLENA e le gambe vengono resecate dalla prospettiva del cornicione. Ma l'impressione del riferimento alla basilica marciana viene rafforzata dalla presenza dell'ombrello a baldacchino sospeso alla volta, un attributo imperiale e papale che secondo la tradizione venne concesso da Alessandro III anche ai dogi della Serenissima.

L'idea era quella di creare un'ulteriore cappella virtuale dedicata a san Giobbe nella chiesa costruita sotto patronato dogale alternativa a quella maggiore dove era sepolto il doge Cristoforo Moro e che questi aveva voluto dedicata a San Bernardino. L'estensione del manufatto, considerevole anche rispetto alle dimensioni della piccola chiesa e tra i più grandi dipinti di Giovanni, ne suggerisce conferma[21].

[figure][modifica | modifica wikitesto]

ordine:

  1. angeli
  2. sebastiano
  3. giobbe
  4. alvise
  5. domenico
  6. battista
  7. francesco

Tornando al gruppo dei soggetti raffigurati, e illuminati da una luce fredda proveniente da destra, cioè illusoriamente dalla facciata della chiesa reale, si possono trovare molti altri interessanti spunti di lettura. A ciascuna figura è data una postura ed un atteggiamento individuale in qualche modo dialogante in contrappunto con altre figure[22][23]. Come già ben espresso dal Ridolfi vi permane in questi il precipuo approccio devozionale di Bellini[5]:

«[…] Giovanni cercò d'imprimere quella pietà che si richiede nelle Imagini de' Santi: non badando à scorci, ó ad atteggiamenti, che furono poscia praticati da seguenti Pittori; ne si può descrivere à pieno la gratia, e la bellezza d itre Angeletti, che siedono à pie di quella Vergine, chi di loro tocca la viuola, il liuto, & il viulino: d’arie così gentili, e di movimenti così soavi che rapiscono gli animi, qual maniere di figure destano somma divotione nelle menti de' fedeli […]»

Si può definirla una sorta di «pudore artistico», attento a sollecitare l'attenzione dei fedeli al senso del messaggio cercando di evitare qualsiasi forma di ostentazione drammatizzante bensì creando in un'atmosfera di serena naturalezza[24].

Particolare degli angeli suonatori

Partendo dagli angeli suonatori raccolti attorno al centro focale della tavola, corrispondente al cartiglio con la firma dell'artista, posti all'altezza degli osservatori, si può notare come solo uno, quello con la ribeca dalla cavigliera terminata a protome leonina, rivolga lo sguardo al pubblico come ad invitare a partecipare alla preghiera attraverso l'ascolto della loro immaginaria musica[25]. Gli altri due, intenti sui grandi liuti, sono uno assorto col capo chino sullo strumento, l'altro con gli occhi rivolti al cielo: verso un'elevazione che ci rimanda al percorso trascendentale, predicato da Bonaventura, dalla percezione di una presenza spirituale nello stato sensoriale terreno, alla pura spiritualità dei serafini del mosaico[26].

Nessun'altra figura incontra lo sguardo degli osservatori. I santi, rappresentati più in primo piano rispetto agli angeli musici, sono disposti a gruppi di tre sui lati ma, pur mantenendo una sensazione di simmetria, a sinistra Francesco e Giobbe sono disposti davanti al Battista e a destra il solo Sebastiano sopravanza Luigi di Tolosa e il santo tradizionalmente identificato come Domenico.

Spicca il candore delle due figure nude e contrapposte del vecchio Giobbe e di Sebastiano cinte soltanto da delle pezze, più aggrovigliata quella del profeta e più raffinata con le sue sottili frange quella del martire. Generalmente si considerano questi due santi come dei protettori dalla peste, piaga da cui Venezia era uscita nel 1478, e quindi vengono anche presi in considerazione come motivazione della commissione di quest'altare.

Nella pacata figura di Sebastiano, dal volto sereno, Bellini riduce a due sole le frecce del supplizio accompagnate soltanto da sottili rivoli di sangue. Gli pone dolcemente le braccia dietro la schiena dissimulando la forzatura dei carnefici, ben differenziandosi, per esempio, dalle più violente rappresentazioni del cognato Mantegna.

Particolare di Giobbe e Francesco

Giobbe era allora normalmente rappresentato come un vecchio prostrato, emaciato e afflitto da piaghe, Bellini lo ridefinisce come se la sua raffigurazione fosse un canone iconografico. E difatti ripete la stessa figura nella medesima pala riappare miniaturizzata nella serie di edicole virtuali di santi francescani ricamata sul manto di Luigi di Tolosa ma specularmente sempre rivolta verso l'oggetto dell'adorazione. Il profeta viene raffigurato come un robusto vecchio in piedi e in posizione orante, con il corpo senza piaghe: riprende insomma il concetto espresso dallo stesso Giobbe quando profetizza che, una volta risorto il suo corpo, potrà guardare Dio con i suoi occhi. Il pittore ripeterà questa figura anche nella sua misteriosa Allegoria sacra[27][28][29].

Particolare dei santi Domenico, Sebastiano e Luigi di Tolosa

Potrebbe apparire incongrua la rappresentazione nella ricca tenuta cerimoniale di Luigi rispetto agli altri santi. Nemmeno gli usuali piedi scalzi o il saio ed il cingolo francescano affioranti sotto il piviale vengono mostrati come avviene invece nella statua sul portale di Sant'Alvise, per esemplificare con un precedente veneziano evidentemente noto al Bellini. La bianca tonaca scende sopra i piedi e la piviale è ricamata oltre che con le dette figure da sontuosi motivi vegetali dorati; la mano guantata di bianco regge un pastorale argenteo e al capo, sopra una cuffia, porta la mitria candida. Lo sguardo intenerito è fisso sul Bambino. Tuttavia è da considerare che lo stesso Bernardino chiosava alle sue considerazioni negative sull'ostentazione del lusso come questo fosse una prerogativa simbolica destinata di diritto alle autorità, come appunto lo erano anche i vescovi.

Accosta alla destra del trono è la figura di un santo domenicano, tradizionalmente identificata come Domenico di Guzmán probabilmente a seguito della descrizione del Vasari (che è da notare confondeva Luigi con Agostino di Ippona), né Bellini offre altri appigli al riconoscimento. Sicuramente l'atteggiamento della preghiera attraverso la meditazione sulle scritture, l'ottavo metodo di preghiera praticata dal santo spagnolo, cioè lo stare in piedi davanti ad un altare assorto nella lettura del libro[30], è significativo. Ma la contrapposizione di allora tra i due ordini sul tema immacolistico lascia qualche perplessità sulla scelta di rappresentare in una chiesa minorita il fondatore dei predicatori. Viene suggerito che invece si possa trattarsi di Tommaso d'Aquino, altro domenicano e noto promotore della devozione a Maria la cui esegesi veniva citata anche dai francescani, e sicuramente già rappresentato dal Bellini nella medesima attitudine nella perduta Pala di santa Caterina di Santi Giovanni e Paolo[31].

Seminascosta da Giobbe e Francesco è la figura seminuda del Battista con i capelli arricciati (un modo discreto tipico del Bellini per significarne la trasandatezza) con la sua umile croce di ramoscelli contrapposta al ricco pastorale del vescovo Luigi[27].

All'estrema sinistra è Francesco d'Assisi rivolto verso l'esterno in direzione del coro, il luogo dei suoi confratelli. È come se rivolgesse l'esortazione di emulare il Cristo indicandosi la ferita sul costato con la sinistra mentre apre la destra col palmo verso l'alto in segno d'offerta. Con questo ultimo gesto, oltre ad evidenziare le stigmate sulle mani, integra un'immagine già consolidata nella tradizionale iconografica del "poverello" e già presente nella stessa chiesa con la piccola statua di bottega fiorentina sull'altare della cappella Martini. La sua collocazione vicino a Giobbe non pare casuale considerando che Bonaventura ricordava come i suoi fratelli lo vedessero anche come un alter Job nell'abbandono dei beni terreni; un accostamento rappresentato anche nella lunetta del portale lombardesco della chiesa con i due santi colpiti dai raggi della luce divina[32].

Particolare della Madonna col Bambino

Il gesto di indicarsi il costato è ribadito anche dal Bambino come a confermare Francesco alter Christus. La Madre ha abbassato verso il ventre le dita della mano protettiva per lasciare al Figlio lo spazio per indicare sul piccolo torace il punto dove verrà colpito dalla lancia.

//sguardo del Bambino verso l'alto, verso il Padre, come a voler anticipare il Getzemani

[dopo francesco madonna][modifica | modifica wikitesto]

trono come aureola o altar maggiore

aghiosoritissa

lettura immacolista

[riserva][modifica | modifica wikitesto]

//fusione tra uno spazio tipo Alberti e chiesa ducale bizantina//ma anche Mantegna pala di san Zeno x la parte classica Goffen 62

//spazio chiuso per definire effettivamente l'interno di una precisa chiesa//Goffen 66

//madonna Aghiosoritissa/ Hodegetria/ annunciata //

// Interazione a coppie di particolari che s'intrecciano creando un gruppo di simboli ugualmente interconnessi e non isolati//

//luce fredda in basso e abbagliante nel catino//

//solo allusivo all'Immacolata Concezione (polemica Francescani/Domenicani) sulla scia prudente del papa francescano Sisto IV// Lugli pp.271-272

L'opera è una Sacra conversazione: attorno all'alto trono marmoreo di Maria col Bambino, ai cui piedi si trovano tre angeli musicanti, sono disposti simmetricamente sei santi, tre per parte: a sinistra san Francesco, Giovanni Battista e Giobbe, a destra i santi Domenico , Sebastiano e Ludovico di Tolosa. I santi vennero ripresi e imitati per decenni: san Francesco ad esempio ricompare quasi identico nella Pala di Castelfranco di Giorgione.

Il Bambino indica dove verrà ferito dalla lancia

Francesco ripete il gesto ma in realtà questa posizione è consolidata nella tradizionale iconografi di Francesco ad esempio nella statua fiorentina nella cappella Martini della stessa chiesa. Quindi è il Bambino a ripetere il gesto, quasi a confermare Francesco come alter Christus, ovvero trasformato in Cristo piuttosto che imitante, concetto francescano fondamentale e predicato da Bonaventura e successivamente da Bernardino (contitolare della chiesa di San Giobbe e qui anche predicatore)[33]

Ma Francesco accanto a Giobbe riprende anche la sua visione come alterum Job narrata da Bonaventura La parte più straordinaria è rappresentata dalla volta a cassettoni che introduce prospetticamente alla composizione sacra, con pilastri ai lati, che sono uguali a quelli reali dell'altare originale. La nicchia profonda e ombrosa dello sfondo dilata lo spazio attorno al gruppo sacro, all'ombra di una calotta coperta da mosaici dorati nel più tipico stile veneziano. Si tratta quindi di un prolungamento virtuale dello spazio reale della navata, con figure al contempo monumentali e caldamente umane, grazie al ricco impasto cromatico. La luce si riverbera sui dettagli, venendo catturata dai mosaici o dagli strumenti musicali degli angeli.

Maria è raffigurata isolata e assorta nella sua maestà, con un Bambino molto simile nella fisionomia del viso a quello della Madonna Contarini, sempre all'Accademia, e il retaggio bizantino è ancora percepibile nell'iconico distacco della divinità, che la rende misteriosa e irraggiungibile.

Appendice[modifica | modifica wikitesto]

Marcantonio Sabellico e Marin Sanudo[modifica | modifica wikitesto]

La prima citazione dell'opera risale al 1494/1495 quando viene rammentata nel De situ urbis Venetae del Sabellico. L'opera originariamente stampata in latino venne ripubblicata postuma nel 1544 tradotta in italiano. È rilevante che in questa pubblicazione Sabellico citi espressamente soltanto questa opera e la Pala di San Cassiano di Antonello, come a considerarle le uniche significative[34], e per tutte le altre pitture riferisca genericamente che si trattava di pale dorate.

«tavola di Messenio dipintore, al quale pare che niuna cosa a dipingerla mancasse, fuori che l’anima
[…]
vedesi nella chiesa di Giovanni Bellini una tavola notevole, che egli da principio dell’arte sua ci diede a vedere
[…]
sopra gli altari sono tavole dorate, che volgarmente pale si chiamano»

Una simile attenzione è ripetuta nel De origine, situ et magistratibus urbis Venetae di Marin Sanudo il Giovane nello stringato capitolo Queste sono cosse notabile in diverse chisie Qui tra numerosi monumenti sepolcrali, qualche campanile o il coro dei Frari, quello di Sant'Elena, la libreria di San Giorgio maggiore e qualche altra amenità ricorda soltanto gli stessi due dipinti aggiungendovi le Storie di Sant'Orsola del Carpaccio omettendone però l'autore.

«A San Zuanne Pollo […] Item, la capella de santa Orsola, le historie et figure che è atorno bellissime.
[…]
A San Ioppo: uno altar di Zuan Bellin ch'è di le belle cosse habi fatto, et Bene.
[…]
A San Cassan, è uno altar di nostra Donna con alcuni santi, […] per man del Messenese; et quelle figure è si bone che par vive, et non li manca se non l'anima […]»

ovvero la Citta di Venetia, pp. 88-90. Marin Sanudo il giovane, De origine, situ, et magistratibus urbis Venetia ovvero la Citta di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1980, pp. 88-90.

Giorgio Vasari e Francesco Sansovino[modifica | modifica wikitesto]

[…] E non andò molto che [Giovanni Bellini] e’ fu ricerco da far una tavola in Canaregio nella chiesa di San Giobbo, dove egli fece dentro una Nostra Donna con molti santi, che sempre gli ha mantenuto quello istesso nome di celebrato che egli si acquistò in quella città. […][35]

[…] Nella chiesa di S. Iobbe dipinse il medesimo all’altar di esso Santo, una tavola con molto disegno e bellissimo colorito, nella quale fece in mezzo, a sedere un poco alta, la Nostra Donna col Putto in collo, e S. Iobbe e S. Bastiano nudi; et appresso S. Domenico, S. Francesco, S. Giovanni e S. Agostino, e da basso tre putti che suonano con molta grazia, e questa pittura fu non solo lodata allora che fu vista di nuovo, ma è stata similmente sempre dopo, come cosa bellissima. […][36]

[…] si vede una Noftra Donna con San Scbaftiano dalla desira & San Iob dalla sinistra, fu dipinto da Gian Bellino, & fu la prima tavola fatta a olio ch'egli mettesse fuori. & lì come allora fu stimata molto da ì buoni maestri, cosi al presente per la sua molta eccellenza è tenuta in gran prezzo […]

  • Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri da M. Francesco Sansovino, Venezia, Iacomo Sansovino, 1581, Del sastiero di Canareio, Lib. III, p. 60.

Carlo Ridolfi[modifica | modifica wikitesto]

«In San lob rappresèntò in grande Altare la Vergine à sedere sotto ad una tribuna sostenuta da naturalissìmi pilastri così somiglianti à quelli dell’ornamento, che paiono scolpiti. Da lati havvi diritti San Giob piagato; San Francesco, che mira con molto affetto Ia Croce; San Sebastiano ignudo, e San Luigi: in vero naturali considerate figure, nelle quali Giovanni cercò d'imprimere quella pietà che si richiede nelle Imagini de' Santi: non badando à scorci, ó ad atteggiamenti, che furono poscia praticati da seguenti Pittori; ne si può descrivere à pieno la gratia, e la bellezza di tre Angeletti, che siedono à pie di quella Vergine, chi di loro tocca la viuola, il liuto, & il viuolino: d’arie così gentili, e di movimenti così soavi che rapiscono gli animi, qual maniere di figure destano somma divotione nelle menti de' fedeli […]»

Marco Boschini[modifica | modifica wikitesto]

Marco Boschini dedicò alla pala un'esteso brano nel Primo Vento della sua opera dialettale La carta del navegar pitoresco (1660), un'opera nel complesso polemica verso il Vasari colpevole secondo quest'autore di aver sottostimato la pittura veneziana.

Nella prima edizione delle sua "guida" alle pitture veneziane, Le minere della pittura (1664), segnalò l'opera come «famosa». Ripetè la medesima citazione quasi integralmente nell'edizione riveduta Le ricche minere della pittura veneziana (1674) ma la ricordò specialmente anche nell'introduzione nuovamente aggiunta (Breve instruzione per intender in qualche modo le maniere de gli Auttori Veneziani) per sottolineare la peculiarità belliniana nell'inserimento di figure d'angeli musicanti.

(VEC)

«   […]

Zambelin fù sì doto, e sì valente,
che se puol ben chiamar Pitor di cima;
Tal in San Giopo el so valor se stima,
Dove un’opera ghè molto ecelente.
Prima se vede in bela maestà
La Madre col Bambin: forma sì dota
Non fù mai vista, o idea cusì devota;
Se puoi ben dir: l’è una divinità!
Ghe quel caro Gesu tuto splendor,
Si natural, si ben ſormà si belo,
Che ogn’un, che’l vede dise: certo quelo
È ‘l retrato divin del Redentor;
In ato d’oration ghè molti Santi
Che rapresenta un spechio religioso
Prima ghè San Francesco, che pietoso
Fà mostra del costato ai Reguardanti.
San Giopo star se osserva in oracion,
Tuto devoto, e umile, e modesto;
San Zuane se vede atento, e mesto;
No sò se se puol far più bela acion
De più ghè San Bastian, martire degno:
E chi no vede quela positura,
Non hà vista dasseno una figura
La xè decarne; l’è tuta dessegno.
San Domenego atento a studiar
Se osserva sora un libro con tant'arte,
Che par che’l leza el scrito su le carte.
Con la mente el se vede a meditar.
Ghe Sant’Aluise Vescovo devoto,
Con pastoral in man, con mitria in testa,
Tuto in pontificai vestio da festa,
Che del Pitor mostra l’inzegno doto.
Ma el condimento de sta nobil Pala
Xè trè Anzoleti con varij istrumenti;
E par sentir quei musichi concenti:
Ogni cosa là su tuta è de gala.
Ma el veder sto concerto tuto insieme
Muove a stupor, confonde i beli inzegni.
Ghè invencion, colorito, e ghe dessegni:
Ghè veramente maravegie estreme.
E per incalmar l'Arte, e la Natura,
Con el so inzegno, e sodo intendimento
L’hà religà la pala, e l’ornamento
Che’l quadro adorna con l’Architetura.
L’hà forma con la Pala archi, e pilastri
Corispondenti a l’ornamento atorno,
Che xè de piera viva vago, e adorno
E i finti ingana fina i Protomastri.
L’è una Pala de tanta perfetion
Che merita gran laude quel penelo,
Conteria chi volese ogni cavelo:
L' è fata con giudicio, e descricion.
Certo se ghe puol dir pitura rara!
Ghe xè invention, dessegno, e colorito,
Freschezza d’operar, come hò zà dito :
L’è senza oposition; le senza tara.
[…]»
(IT)

«   […]

Giambellino fu così colto e così abile
che è a buon diritto definibile pittore di alto livello;
il suo valore è pienamente apprezzabile a San Giobbe
dove esiste un’opera molto eccellente.
Prima si vede, in piena maestà,
la Madonna col Bambino: una forma così raffinata
non ha precedenti, o una concezione talmente devota;
si può ben dire: è una divinità!
C’è quel caro Gesù splendente,
così naturale, di buona forma e bello,
che chiunque lo veda dice: certamente quello
è il ritratto divino del Redentore.
Ci sono molti santi in atteggiamento di preghiera
che rappresenta una rassegna religiosa.
Prima c’è san Francesco, che pietosamente
indica il costato agli Osservanti;
si vede san Giobbe in preghiera
tutto devoto, umile e e modesto;
si vede san Giovanni attento e triste;
non so se sia possibile creare una scena migliore;
in più c’è il dignitoso martire san Sebastiano:
e chi non vede quella postura
non ha mai visto davvero una figura
è di carne; e tutta disegno.
Si osserva san Domenico, intento nello studio
di un libro, [dipinto] con tanta arte
che pare legga il testo nelle carte.
Lo si immagina intento a meditare.
C’è san Luigi, il devoto vescovo,
che regge il pastorale, la mitria sul capo,
vestito con l’abito episcopale da cerimonia,
dove il pittore esibisce il colto ingegno.
Ma un abbellimento particolare di questa nobile pala
sta nei tre angioletti con vari strumenti;
e pare di ascoltare quelle armonie musicali:
ogni cosa lì specialmente è aggrazziata.
Ma vedere tutto assieme questo concerto
genera stupore, confonde gli intenditori.
C’è invenzione, colore e c’è disegno:
ci sono veramente estreme meraviglie.
E per innestare l’arte con la natura,
con il suo ingegno, e preciso intento,
ha confezionato la pala assieme alla cornice
che adorna architettonicamente il dipinto.
Ha creato nella pala archi e pilastri
corrispondenti a quelli della cornice,
che è vaga e ornata in pietra viva,
e quelli dipinti ingannano perfino i capomastri.
È una pala di tale perfezione
che merita gran lode il pennello [che la dipinse].
Chi volesse potrebbe contare ogni capello:
è fatta con giudizio e discrezione.
Si può certamente definirla una pittura straordinaria!
C’è invenzione, disegno e colore,
freschezza nel dipingere, come ho già detto:
è senza rivali, è senza difetti.

   […]»

«Continua la famosa tavola di Giovanni Bellino, con Maria, il Bambino San Giobbe, San Sebastiano, S.Domenico, San Francesco, S. Luigi, San Giovanni Battista, e tre Angeli, che suonano; con soave armonia.»

«[Giovanni Bellini …] E di quando in quando, per armonizar le dette sue Historie Sacre gl'inseriva molti Angeletti, che suonano varij instromcnti, rappresentando appunto concerti di Paradiso: ed in particolare nella Tavola in San Giobbe ciò si vede.»

Anton Maria Zanetti[modifica | modifica wikitesto]

Lo Zanetti dapprima, nella sua giovanile "guida", descrisse brevemente l'opera seguendo le informazioni fornite dal Boschini nel 1663. Quarant'anni più tardi, nella nuova pubblicazione orientata all'illustrazione dei singoli artisti, rilegge il Vasari riprendendone l'errore sull'identificazione di san Luigi. Azzardò qui anche una datazione molto tarda del dipinto associandolo alle due tavole di Carpaccio e Basaiti che l'affiancavano. Da tale datazione fece forzosamente discendere la considerazione di un impossibile stile anticipatamente giorgionesco.

«Continua adunque la famosa tavola di Gio:Bellino colla Madonna in alto seggio, e sul piano li SS. Giovambatisìa, Giobbe, Sebastiano, Domenico, Francesco, e Luigi con tre bellissimi Angeli, che suonano varj stromenti.»

«In S. Giobbe,nel fecondo altare alla destra. Si vede in essa sotto lo sfondato d' una volta rimessa a oro, e sostenuta da pilastri sul disegno dell'altare medesimo, la Beata Vergine col puttino, e nel piano S. Giobbe, S. Giovanni, S. Sebastiano, S. Agostino, S. Domenico, e S. Francesco, con tre bellissimi giovinetti che suonano alcuni stromenti. Scrisse Giovanni il suo nome in quest'opera ma non vi pose l'anno, in cui la dipinse. Tuttavia dalle altre due vicine tavole, che portano scritto l’anno 1510, si può arguire, ch'egli anche circa quel tempo facesse questa. Ma più assai delle congetture prova il fatto; poiché in ogni parte di essa tavola si trovano molte bellezze del nuovo stile Giorgionesco, ch'era allora nel maggior fiore; e mai più il Bellino non si accostò tanto a quello quanto in quell'opera: toltane la compiuta morbidezza, e la tenerezza dei contorni, a cui per colpa della prima educazione non potè mai dar ricetto nel cuore. Bella e forte è la tinta, rosseggiante con dolcezza nell'estremità; e in alcune parti dove più concorre il sangue; e si passa da una tinta all' altra con grazia e buon gusto. Il pennello è più libero e leggero: la composizione non è senza artifizio, benché coperto dalla semplice maniera di pensare, sempre buona è lodevole. È ripieno ogni oggetto di verità, nobiltà, divozione, e di tutti gli altri pregi, onde si vantano giustamente le prime scuole. Un bel testimonio del merito di questa tavola sta appresso il Vasari. Die' egli prima che dipinta è con molto disegno, e benilssimo colorita, e poi soggiunge, che fu lodata non solamente allora che fu vista di nuovo; ma che è stata similmente sempre dopo come cosa bellissìma; e il sarà, conviene aggiungere, finché durerà la stima per le opere di Pittura, immaginate con proprietà, e con graziosa decenza.»

Giannantonio Moschini[modifica | modifica wikitesto]

È al Moschini (1815) che dobbiamo l'ultima descrizione dell'opera in situ, sostanzialmente contemporanea al trasferimento della tavola all'Accademia. Nel suo testo si affrettò a correggere Zanetti sia per la datazione e le conseguenti considerazioni stilistiche, sia nell'identificazione di san Luigi, sebbene qui involontariamente generi una certa confusione tra il vescovo di Tolosa e il san Luigi re di Francia[37].

«Giovanni Bellino per la tavola del secondo altare venne altamente lodato dal Vasari, e da quanti o ne scrissero, o la osservarono. Egli pure vi pose il suo nome (1). V'è N. D. col puttino in alto seggio, e nel piano a un lato i santi Domenico, Sebastiano, Luigi di Francia, e dall'altro i Santi Giobbe, Giambattista e Francesco di Assisi. Al basso vi sono tre angioletti assai belli, che suonano ciascuno un vario strumento. Questa tavola segue pur essa l'ordine dell'altare, ed è veramente lucida di gran pregi. N'è bella e forte la tinta che rosseggia con dolcezza nelle estremità, e dove più concorre il sangue: il passaggio da tinta a tinta succede con grazia e buon gusto: il pennello scorre libero e leggero, e la composizione, quantunque semplice, non manca di artifizio. Vi si desiderano bensì e tenerezza di contorni e compiuta morbidezza, pregi che non raggiunse il pittore, colpa la prima educazione.
[…]
(1) Il Zanetti (Pittura Veneziana f. 53 ) scrive, che quantunque Giovanni non ponesse in questa tavola l’anno, in cui la dipinse, tuttavia dalle altre due tavole vicine che portano scritto l’anno 1510, si può arguire che anch'egli facesse la sua opera circa quel tempo. Ma più assai delle congetture, segue egli, prova il fatto; poiché in ogni parte di essa tavola si trovano molte bellezze del nuovo stile giorgionesco, ch'era allora nel maggior fiore, e mai più il Bellino non si accostò tanto a quello, quanto in quest'opera. Or qui rifletto, che il Zanetti e s'ingannò in sua conghiettura, ed è seco medesimo in contraddizione. S'ingannò in sua conghiettura. E in fatti Marc'Antonio Sabellico nell'opera: De situ urbis, stampata nel secolo X, così si esprime: Visitur in parte aedis ( s. Job.) Joannis Bellini tabula insignis, quam ille inter prima suae artis rudimenta in apertimi retulit. Lungi adunque che sia delle ultime opere, qual vorrebbe il Zanetti, e qual sarebbe se fatta l'anno 1510, una è in vece delle prime. È seco stesso in contraddizione, giacchè qui dice che mai Giovanni si accostò tanto al Giorgione, e poi alla faccia 54 nominando il quadro ch’è nella chiesa del ss. Salvatore, vi dice egualmente: Niuna pittura di Giovanni dimostra più di questa, il vero carattere giorgionesco, il colore e la forza

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Stefano. Volpin, Lorenzo Lazzarini, «Il colore e la tecnica pittorica della pala di San Giobbe di Giovanni Bellini», in Quaderni della soprintendenza per i beni artistici e storici di Venezia, XIX, 1994, p. 29-37
  2. ^ Humfrey in Bellini 2019, p. 435.
  3. ^ Scirè Nepi 1991, p. 72.
  4. ^ Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia, 1581, p. 57r.
  5. ^ a b Carlo Ridolfi, Le maraviglie dell’arte : overo le vite de gl'illustri pittori veneti, e dello stato, Venezia, 1648, p. 50.
  6. ^ (VEC) Marco Boschini, La carte del navegar pitoresco, Venezia, 1660, pp. 28-30.
  7. ^ Catra-Bellin 2019, p. 261.
  8. ^ Giulio Manieri Elia in Colore 2000, pp. 205-206.
  9. ^ Goffen in Colore 2000, p. 129.
  10. ^ Humfrey in Bellini 2019, pp. 435-436. da cambiare e integrare
  11. ^ Stefano Volpin, Antonella Casoli, Linda Alberici in Colore 2000, pp. 175,180.
  12. ^ Humfrey in Bellini 2019, p. 436. da cambiare v. colore
  13. ^ Humfrey in Bellini 2019, p. 436.
  14. ^ Tempestini 2000, p. 107.
  15. ^ Goffen 1986, p. 65.
  16. ^ Humfrey in Bellini 2019, pp. 429-430.
  17. ^ Humfrey in Bellini 2019, p. 437.
  18. ^ Corsato 2019, p. 103.
  19. ^ Corsato 2019, pp. 103-117.
  20. ^ Goffen 1986, p. 60.
  21. ^ Goffen 1986, p. 62.
  22. ^ Goffen 1986, p. 57.
  23. ^ Lugli 2017, p. 260.
  24. ^ Christiansen 2004, pp. 24-25.
  25. ^ Goffen 1986, p. 57.
  26. ^ Lugli 2017, pp. 265-267.
  27. ^ a b Goffen 1986, p. 59.
  28. ^ Giobbe 19:25-27, su La parola.net.
  29. ^ Lugli 2017, pp. 261-263.
  30. ^ I nove modi di preghiera di San Domenico, su Domenicani.it. URL consultato il 2 gennaio 2022.
  31. ^ Lugli 2017, pp. 271-272.
  32. ^ Lugli 2017, p. 264.
  33. ^ Lugli 2017, p. 263.
  34. ^ Paola Modesti, Quasi come in un dipinto: la città e l’architettura nel "De situ urbis Venetae" di Marcantonio Sabellico, in Arte Veneta, n. 66, Milano, Electa, 2010, p. 23.
  35. ^ Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550)/Iacopo, Giovanni e Gentile Bellini - Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 10 luglio 2022.
  36. ^ Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Iacopo, Giovanni e Gentile Bellini - Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 10 luglio 2022.
  37. ^ Che si tratti effettivamente di una confusione lo dimostra la precedente descrizione (p. 57) dell'Orazione nell'orto del Basaiti.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • (EN) Rona Goffen, Bellini, S. Giobbe e Altars ego, in Artibus et Hisoriae, vol. VII, n. 14, IRSA, 1986, pp. 57-70.
  • Rona Goffen, Giovanni Bellini, Milano, Motta, 1990, ISBN 88-7179-008-1.
  • Catarina Schmidt Arcangeli, La sapienza nel silenzio: riconsiderando la Pala di San Giobbe, in Saggi e Memorie di storia dell'arte, vol. 22, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 1998, pp. 9-54.
  • Giovanna Scirè Nepi, I capolavori dell'arte veneziana – Le Gallerie dell'Accademia, Venezia, Arsenale, 1991, p. 72.
  • AA. VV., Il colore ritrovato - Bellini a Venezia, a cura di Rona Goffen e Giovanna Scirè Nepi, Milano, Electa, 2000.
  • Anchise Tempestini, Giovanni Bellini, Milano, Electa, 2000.
  • (EN) Keith Christiansen, Giovanni Bellini and the Practice of Devotional Painting, in Ronda Kasl (a cura di), Giovanni Bellini and the art of devotion, Indianapolis, Indianapolis Museum of Art, 2004, pp. 7-57.
  • Mariolina Olivari, Giovanni Bellini, in Pittori del Rinascimento, Firenze, Scala, 2007, ISBN 888117099X.
  • Mauro Lucco e Giovanni Carlo Federico Villa (a cura di), Giovanni Bellini, Cinisello Balsamo, Silvana, 2008.
  • (EN) Emanuele Lugli, The collapse of representational plans on Giovanni Bellini's San giobbe altarpiece, in Andreas Beyer, Philippe Morel e Alessandro Nova (a cura di), Voir l'audelà, Turnhout, Brepols, 2017, pp. 255-278.
  • Mauro Lucco, Peter Humfrey e Carlo Federico Villa, Giovanni Bellini – Catalogo ragionato, a cura di Mauro Lucco, Ponzano Veneto, Zel, 2019.
  • (EN) Carlo Corsato, Measurements and the Original Setting of Giovanni Bellini's San Giobbe Altarpiece. A Case Study of Visual Philology, in Peter Humfrey, Vincenzo Mancini, Anchise Tempestini e Giovanni Carlo Federico Villa (a cura di), Giovanni Bellini " ... il migliore nella pittura", Venezia, Linea d'acqua, 2019, pp. 103-117.
  • Elena Catra e Antonella Bellin, Giovanni Bellini e l'Accademia di Belle Arti di Venezia come luogo della memoriae della trasmissione del sapere, in Giovanni Bellini " ... il migliore nella pittura", Venezia, Linea d'acqua, 2019, pp. 249-265.
  • Peter Humfrey, Giovanni Bellini, Venezia, Marsilio, 2021.
  • -----
    • ?Architettura nella pittura veneziana?
    • ?Architectura picta tra spazio e corpo?

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]