Legazioni baltiche

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Le legazioni baltiche sono state le missioni dei servizi diplomatici baltici in esilio attive dal 1940 al 1991. Dopo l'occupazione sovietica dei paesi baltici (1940), le tre vecchie repubbliche incaricarono i loro rappresentanti di preservare le proprie legazioni in diverse capitali occidentali. I membri del servizio diplomatico estone, di quello lettone e quello lituano continuarono a essere riconosciuti come rappresentanti internazionali degli stati indipendenti prima della seconda guerra mondiale di Estonia, Lettonia e Lituania, la cui annessione all'Unione Sovietica non fu riconosciuta de iure da Stati Uniti (nemmeno de facto per Washington), Regno Unito, Francia o Italia.[1] Le legazioni fornirono servizi consolari ai cittadini esiliati degli Stati baltici dal 1940 al 1991.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Tra maggio e giugno 1940, i governi baltici si accordarono in maniera segreta statuendo che, nello scenario peggiore in cui gli esecutivi avessero perso il loro ruolo, i poteri del governo di nominare e richiamare rappresentanti diplomatici e consolari sarebbero stati assegnati ai capi delle rispettive legazioni. Quando si verificò nel giugno 1940 l'occupazione, le autorità sovietiche tentarono di trasferire le missioni e alcuni rappresentanti diplomatici fecero ritorno in patria. Si emisero delle leggi draconiane nel 1940 per indurre chi operasse all'estero a spostarsi: chi si rifiutò di allontanarsi, fu dichiarato passibile di essere punito con la pena di morte da eseguire entro 24 ore dalla cattura.[2]

Proprietà della legazione[modifica | modifica wikitesto]

Tutte e tre le legazioni mantennero almeno una sede diplomatica attiva negli Stati Uniti fino alla fine della guerra fredda. La Lettonia e la Lituania preservarono le loro strutture originali a Washington, mentre l'Estonia mantenne un consolato a New York.[3] Terminata la seconda guerra mondiale, la legazione fu soppressa come forma di rappresentanza diplomatica, poiché i paesi le convertirono in ambasciate. Tuttavia, gli stati baltici non amministravano il proprio territorio e non potevano ricevere un ambasciatore statunitense. Nel 1990, le tre missioni baltiche erano le uniche sopravvissute nell'elenco diplomatico del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.[4]

La legazione estone a Londra risultò attiva fino al 1989, quando la pressione finanziaria ne costrinse la vendita (più complicata fu la gestione delle risorse auree):[5] quella lettone e lituana proseguirono invece il loro lavoro.[6] Le sedi corrispondenti presente a Parigi furono trasferite de facto all'ambasciata sovietica:[7] la struttura estone fu demolita nel 1979 e la lettone registrata come proprietà sovietica nel 1967.[8] Tuttavia, la legazione lituana rimase intestata al governo prebellico della Lituania e l'ambasciata sovietica non risultò in grado di vendere l'edificio.[9]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ (EN) Dipartimento di Stato degli USA, The Department of State Bulletin, vol. 40, Office of Public Communication, Bureau of Public Affairs, 1959, p. 86.
  2. ^ (EN) Dipartimento di Stato degli USA, The Baltic republics, US policy, Bureau of Public Affairs, Department of State, 1979, p. 3.
  3. ^ (EN) Norman Kempster, Annexed Baltic States: Envoys Hold On to Lonely U.S. Postings, su Los Angeles Times, 31 ottobre 1988. URL consultato il 3 settembre 2020.
  4. ^ (EN) Ineta Ziemele, Baltic yearbook of international law: 2001, Martinus Nijhoff Publishers, 2002, pp. 41-42, ISBN 978-90-41-11736-6.
  5. ^ (EN) John Hiden, Vahur Made e David J. Smith, The Baltic Question During the Cold War, Routledge, 2008, p. 121, ISBN 978-11-34-19730-9.
  6. ^ (EN) Centennial of Latvia's Foreign Service, su latvia.eu. URL consultato il 3 settembre 2020.
  7. ^ (EN) Lituanus, vol. 1, Lituanus Foundation, 1955, p. 103.
  8. ^ (EN) Carin Laurin, Baltic Yearbook of International Law, Martinus Nijhoff Publishers, 2005, p. 137, ISBN 978-90-04-14788-1.
  9. ^ (EN) Ministero degli affari esteri britannico, Documents on British Foreign Policy, 1919-1939, H.M. Stationery Office, 1984, p. 765.