Utente:Giacomo Ra/Sandbox

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Abati
d'azzurro, al palo d'argento[1]
Stato Sacro Romano Impero
Regno d'Italia
Repubblica di Firenze
Titoli
  • Console di Firenze
FondatoreAbate d'Ildebrandino della Lombarda
Data di fondazioneXII-XIII secolo
Data di estinzioneXVIII secolo
EtniaItaliana
Rami cadetti
  • Abati-Montelfi (Ramo di Montelfi di Lamberto Rustico)
  • Abati-Ronta
  • Abati-Pontedera
  • Abati-Grosseto

Gli Abati sono un'antica famiglia fiorentina, di una certa importanza soprattutto tra il XII e il XIII secolo.


Storia familiare[modifica | modifica wikitesto]

Capostipite della famiglia fu Abate d'Ildebrandino della Lombarda che ricopriva il ruolo di console a Firenze nel 1176. Furono una delle più antiche famiglie di Firenze. Risentivano di tanta fama e potere, questi dovuti a legami di parentela con famiglie importanti di Firenze, tra queste i Visdomini e i Guittoni. Avevano molti possedimenti nel Sesto di San Pier Scheraggio e anche nel contado fiorentino, prove che ne testimoniano la ricchezza familiare. Nel Sesto, avevano legami politici con altre famiglie: i Tedaldini, gli Elisei, i Caponsacchi e i Giuochi. Insieme a queste famiglie si schierarono dalla parte politica fiorentina dei ghibellini, spinti anche dal clientismo verso gli Uberti.

Nel 1258 incominciò a nascere l'odio popolare verso gli Abati, dopo il fallimento della presa di potere al seguito degli Uberti, il popolo assaltò le loro abitazioni e molti membri della famiglia furono costretti a scappare in esilio.

Nel 1260 un altro evento aumentò l'odio verso la casata. Bocca degli Abati, tra le file guelfe nella battaglia di Montaperti, tradì i propri compagni tagliando il braccio di Jacopo dei Pazzi che teneva lo stendardo. Questo causò lo scompiglio tra le file guelfe che vide la loro fuga e di conseguenza la loro sconfitta.

Ci fu una divisione politica all'interno della famiglia degli Abati a causa di contrasti. Si divisero in ghibellini e guelfi e quest'ultimi si divisero ulteriormente in bianchi e neri.

Nel 1289 alcuni di parte ghibellina si schierarono tra le file di Guido Novello Guidi nella battaglia di Campaldino.

Nel 1298 è la volta di Neri degli Abati che compie un azione che supera le altre compiute in precedenza, accrescendo ancor di più l'odio del popolo: Neri avvelena alcuni membri della famiglia dei Cerchi che aveva in custodia come prigionieri.

Nel 1302, molti degli Abati bianchi furono esiliati e solo alcuni del ramo di Montelfi di Lamberto di Rustico ebbero la possibilità di rimanere in città. Da qui il declino della famiglia degli Abati.

Incendio a Firenze[modifica | modifica wikitesto]

Il 10 giugno 1304 Neri appiccò il fuoco nel cuore di Firenze. Ciò fu dovuto alla rivalità nata all'interno della consorteria stessa: rivalità tra guelfi bianchi e neri. Neri degli Abati prima incendiò le case dei suoi parenti in Orsanmichele e dopo quella dei Caponsacchi. A causa del vento il fuoco si propagò all'interno della città distruggendo più di mille edifici. Queste perdite furono significative sia per l'economia cittadina sia per le singole famiglie che traevano da quei possedimenti, non solo notorietà, ma anche ricchezza.[2]


Personaggi Noti[modifica | modifica wikitesto]

Abate d'Ildebrandino della Lombarda[modifica | modifica wikitesto]

Un primo personaggio di rilievo fu Abate d'Ildebrandino della Lombarda, console fiorentino nel 1176. La sua famiglia possedeva case presso Orsanmichele e, dopo l'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti da parte degli Amidei, si schierò con la parte offesa, capeggiata dalla consorteria degli Uberti, divenuta poi la Parte Ghibellina.

Bella degli Abati[modifica | modifica wikitesto]

La madre di Dante Alighieri, Donna Bella degli Abati, apparteneva probabilmente a questa famiglia, anche se le notizie documentarie precise sono pressoché inesistenti. Forse figlia di Durante degli Abati, la sua appartenenza alla famiglia Abati sarebbe testimoniata dalla vicinanza delle abitazione degli Abati e gli Alighieri. Altre prove sono: il nome di Dante che deriva da quello di Durante e gli stretti rapporti tra i due. Si suppone che abbia sposato Alighiero II Alighieri (Alighiero di Bellincione), padre di Dante Alighieri. Resta difficile comunque credere che questa sia la realtà dei fatti: Alighiero II, di parte guelfa, sembra improbabile che abbia voluto intraprendere una relazione con una donna di parte ghibellina.

Durante degli Abati[modifica | modifica wikitesto]

Durante degli Abati, sostenitore della fazione ghibellina di Firenze, era un giudice fiorentino. Divenne sindaco di Sesto di Porta S.Piero il 10 maggio 1289.

Bocca degli Abati[modifica | modifica wikitesto]

Faceva parte della famiglia Bocca degli Abati, il cavaliere che partecipò a Montaperti e che Dante indica nell'Inferno come quel traditore che tagliò la mano a Jacopo de' Pazzi che portava lo stendardo guelfo, facendo perdere la guida alla cavalleria che procedette così allo sbando venendo facilmente travolta. Fu un nobile fiorentino, di parte ghibellina, che entrò tra le file guelfe militanti nella battaglia di Montaperti contro i ghibellini di Siena. Durante la battaglia tradì i propri compagni. Negli anni successivi collaborò con i ghibellini al comando di Firenze, ma quando i guelfi ottennero il potere venne esiliato.

Neri degli Abati[modifica | modifica wikitesto]

Chi causò l'odio dei fiorentini verso la famiglia degli Abati fu Neri, un guelfo nero. Nel 1298 fu accusato di aver avvelenato i Cerchi prigionieri che gli erano stati affidati in custodia, mentre il 10 giugno 1304 appiccò un incendio nel cuore di Firenze, su ordine dei capi neri, danneggiando l'economia di molte famiglie.

Ciolo degli Abati[modifica | modifica wikitesto]

Malfattore fiorentino, fu bandito da Firenze nel 1291. Grazie all'oblatio[3], ottenne l'assoluzione nel 1295 pagando una somma in denaro. A Ciolo degli Abati è stato attribuito l'accaduto dell'incendio del 1310 a Firenze per mano di Neri degli Abati.


Gli Abati e Dante Alighieri[modifica | modifica wikitesto]

Bella e Dante[modifica | modifica wikitesto]

Una prova che indica Bella come madre di Dante la abbiamo con la divisione patrimoniale tra il fratellastro di Dante, Francesco Alighieri, e i figli di Dante, Pietro e Jacopo Alighieri. Dante non parla mai di sua madre. Questo accade anche all'interno della Divina Commedia, dove non parla direttamente di lei, ma del rapporto amorevole di una madre con il proprio figlio. Boccaccio, però, nel libro “Vita di Dante”, parla di Bella e del suo legame con Dante. Lo fa raccontando dell'episodio in cui, prima del parto, un sogno profetico vede Dante nascere sotto un albero di alloro vicino ad una fonte. Si nutriva con le foglio dell'albero e si dissetava con l'acqua della fonte: questo stava a rappresentare la profezia della grandezza poetica che Dante avrebbe avuto successivamente negli anni.

Durante e Dante[modifica | modifica wikitesto]

Sembrerebbe che Durante fosse il nonno materno di Dante. Tranne alcuni legami finanziari, non ci sono prove che ne accertino il loro legame di parentela. Resta comunque il fatto che tra Durante e Dante intercorrevano buoni rapporti. I due sembravano essere molto legati, lo testimonia la vicenda del 23 dicembre 1297 che vede Durante, insieme ad altri personaggi dell'epoca, fra cui il suocero di Dante, Manetto Donati, fare da garante per un prestito di 480 fiorini che Dante, insieme al fratello Francesco, chiesero a Iacopo dei Corbizzi. Quattro anni dopo, nel marzo del 1301, i due fratelli Alighieri restituirono il favore a Durante, quando quest'ultimo ebbe bisogno di contrarre un debito di 50 fiorini, Francesco e Dante gli fecero da garanti.


Gli Abati e le opere dantesche[modifica | modifica wikitesto]

Bella e la Divina Commedia[modifica | modifica wikitesto]

Dante nelle sue opere non cita mai esplicitamente Bella, ci sono però alcuni versi in cui Dante indirettamente fa riferimento a lei. In questi versi Dante si rifa al rapporto affettivo che c'è tra madre e figlio. Nei vv. 37-42 del XXIII canto del purgatorio, Dante paragona il gesto compiuto da Virgilio a quello della madre che, resasi conto del pericolo, prende il figlio e scappa pensando alla salute di lui piuttosto che alla propria.

«Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch'al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s'arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;[...]»


Nei vv. 121-123 del XXIII canto del paradiso, Dante paragona il gesto del bambino di allungarsi verso la madre per mostrarle il proprio affetto a quello dei beati che porgono le braccia al cielo in segno di affetto verso Maria.

«E come fantolin che 'nver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; […]»


Nei vv. 1-3 del XXIII canto del paradiso, Dante fa un ulteriore paragone: il rivolgersi alla propria guida, Beatrice, lo vede come il gesto che un bambino fa verso la persona in cui confida di più, in questo caso la madre.

«Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida; […]»


Ciolo e le Epistole[modifica | modifica wikitesto]

Dante nell'Epistola XII, destinata a un suo amico fiorentino, fa un riferimento a Ciolo degli Abati. Nonostante la “riforma di Messer Baldo d'Aguglione”, decreto del 2 settembre 1311, che colpi tutti gli esiliati contumaci, tra cui i membri della sua famiglia e Dante, Ciolo fu l'unico degli Abati a cui non venne applicato il decreto. Dante nell'epistola allude a Ciolo, ricordando l'ammenda fatta da quest'ultimo per liberarsi da ogni sospetto o condanna. In realtà il decreto, emanato da priori e collegi di una signoria di cui Baldo d'Aguglione ne era membro, serviva a concedere l'amnistia agli esuli fiorentini, a placare le ostilità e il clima di tensione che si respirava, in vista dell'imminente discesa di Enrico VII in Italia.[4] L'accenno che Dante fa su Ciolo è dovuto al fatto che da questo provvedimento lui ne era escluso. È per questo che si chiede come sia possibile che un malfattore come Ciolo abbia la possibilità di rientrare a Firenze e non lui: uomo dedito allo studio della filosofia messo a paragone con un delinquente qualsiasi.

(LA)

«Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? hoc sudor et labor continuatus in studio?

Absit a viro phylosophie domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cuiusdam Cioli et aliorum infamium quasi vinctus ipse se patiatur offerri!»

(IT)

«Cotesta dunque è la revoca graziosa, con la quale Dante Alighieri è richiamato in patria, dopo le sofferenze d'un esilio quasi trilustre? Cotesto gli ha meritato un'innocenza a tutti palese? Cotesto il sudore e l'indefessa fatica negli studi?

Lungi, da un uomo vissuto nella Filosofia, una così dissennata viltà di cuore, che a mo' d'un Ciolo qualsiasi e di altri infami, tolleri, quasi uomo in ceppi, d'essere offerto.»


Bocca e la Divina Commedia[modifica | modifica wikitesto]

Bocca degli Abati L'incontro da Dante e Bocca degli Abati avviene nella seconda zona di Cocito: l'Antenora, dove sono puniti i traditori della patria. Dante colpisce con un piede la testa di Bocca, quest'ultimo incomincia ad offendere il poeta dicendogli di andarsene. Il poeta infastidito dalle parole del dannato e dal fatto che questo non si manifesta, lo afferra per la collottola e gli strappa i capelli. Bocca non sembra cedere a manifestarsi, ma un altro danno rivela la sua identità.

«Poscia vid'io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de' gelati guazzi.

E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo;

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l piè nel viso ad una.

Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?”.

E io: “Maestro mio, or qui m'aspetta,
si ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta”.

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
“Qual se' tu che così rampogni altrui?”.

“Or tu chi se' che vai per l'Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?”.

“Vivo son io, e caro esser ti puote”,
fu mia risposta, “se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note”.

Ed elli a me: “Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!”.

Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna”.

Ond'elli a me: “Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi”.

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien'avea più d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,

quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?”.

“Omai”, diss'io, “non vo' che più favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io porterò di te vere novelle”.»


Bocca invita Dante ad andarsene e a portare nel mondo le notizie riguardanti il suo destino ultraterreno a condizione che riveli il nome di altri traditori li presenti. Tra questi nomina:

  • Buoso da Duera, è colui che rivela il nome di Bocca e che, nella vita terrena, fece passare i francesi verso il campo di battaglia di Benevento in cambio di denaro. La battaglia si concluse con la morte di Manfredi di Svevia.
  • Tesauro dei Beccheria, la colpa che ebbe in vita fu quella di stringere alleanza con seguaci e amici di Ottaviano degli Ubaldini contro il cardinale stesso. Venne decapitato dai fiorentino che si basavano su accuse infondate come quella di tradimento.[5]
  • Gianni de' Soldanieri, di parte ghibellina, alla sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento passò dalla parte guelfa.
  • Gano di Maganza, personaggio della “Chanson de Roland”, fu un paladino di Carlo Magno che tradì la patria svelando ai Saraceni come cogliere di sorpresa l'esercito dei Franchi di ritorno dalla Spagna. Per la sua colpa fu squartato e i suoi resti bruciati e buttati al vento.
  • Tebaldello Zambrasi, ghibellino di Faenza, tradì i Lambertazzi ghibellini che si erano rifugiati a Faenza aprendo le porte ai bolognesi della famiglia dei Geremei, per vendersi di un'offesa che gli avevano fatto.

«“Va via”, rispuose, “e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.

El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi”.

Se fossi domandato "Altri chi v'era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.

Gianni de' Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch'aprì Faenza quando si dormia”.»


Palazzi e altre testimonianze[modifica | modifica wikitesto]

Torre di San Rabano o dell'Uccellina

La potenza della famiglia Abati, oltre che dai legami che avevano stretto con altre importante famiglie che risiedevano nel loro stesso sestiero (Sesto di San Pier Scheraggio), derivava anche dal gran numero di possedimenti che gli appartenevano. Case e torri di loro proprietà si trovavano a Firenze, nel Sesto di San Pier Scheraggio, mentre i loro castelli erano ubicati nel contado e venivano utilizzati per svolgere attività commerciali.

Di sicura appartenenza alla famiglia Abati è l'edificio situato al numero 9 di via dei Tavolini. Lo testimonia la presenza dello scudo con lo stemma della famiglia Abati, posizionato sul lato dell'edificio che si affaccia su via dei Calzaiuoli. Oltre allo stemma, un'epigrafe dantesca riporta la figura di Bocca degli Abati. Sull'angolo esterno dell'edificio è presente una torre di proprietà della famiglia. [6]

Torre dell'Uccellina[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1321 fu edificata la torre dell'uccellina, facente parte dell'Abbazia di San Rabano situata lungo il crinale dei monti dell'Uccellina a Grosseto. Gli Abati ne entrarono in possesso durante le lotte della città di Grosseto, di cui ne erano a capo, con la citta di Siena, trasformando l'abbazia in fortezza. La costruzioni della torre è avvenuta in un secondo momento, testimonianza il paramento differente rispetto a quello dell'Abbazia. Venne utilizzata per gli avvistamenti sul mare e per proteggere il complesso religioso.[7] Nella seconda metà del XVI secolo, Cosimo I de Medici fece ristrutturare l'edificio per aumentare la sicurezza della costa. Dopo l'abbandono dell'abbazia, verso la metà del XVIII secolo, la torre cadde in disuso.


Note[modifica | modifica wikitesto]

Voci Correlate[modifica | modifica wikitesto]

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Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]


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