Sovietizzazione dei paesi baltici

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Con sovietizzazione degli stati baltici ci si riferisce al processo di sovietizzazione di tutte le sfere sociali in Estonia, Lettonia e Lituania quando erano sotto il controllo dell'Unione Sovietica. Una prima occupazione avvenne dal giugno 1940 al luglio 1941 e terminò quando cominciò quella tedesca. Una seconda rioccupazione sovietica avvenne nel 1944, quando le forze sovietiche scacciarono i nazisti e vi rimasero fino al 1991, anno in cui fu dichiarata l'indipendenza.

Eventi immediatamente successivi all'occupazione del 1940[modifica | modifica wikitesto]

Targa commemorativa, posta sull'edificio del Governo dell'Estonia, (Casa Stenbock) a Toompea con l'elenco delle vittime e dei membri del governo estone fucilati durante l'occupazione sovietica

Dopo l'invasione sovietica di Estonia, Lettonia, Lituania nel 1940, seguirono repressioni e le deportazioni di massa. Le cosiddette istruzioni di Serov, (titolo completo: [disposizioni riguardo] alla procedura di esecuzione delle deportazioni di elementi antisovietici da Lituania, Lettonia ed Estonia), contenevano informazioni dettagliate per le procedure e i protocolli da osservare per trasferire coattivamente i cittadini baltici incriminati.[1]

I partiti comunisti locali, la cui partecipazione alla vita politica era stata impedita, acquisirono un ruolo di prima fascia: il PC della Lituania raggiunse i 1500 membri, mentre quello in Lettonia arrivò a 500 e in Estonia a 133.[2]

Governi di transizione[modifica | modifica wikitesto]

I sovietici avviarono un processo di metamorfosi costituzionale degli Stati baltici formando dapprima "governi del Popolo" di transizione[3] Guidati dagli stretti collaboratori di Stalin,[4] i sostenitori locali dei partiti comunisti nazionali e quelli arrivati dalla Russia costrinsero i presidenti e i governi di tutti e tre i paesi a dimettersi, sostituendoli con quelli provvisori.

I sovietici non installarono immediatamente i capipartito locali, in quanto praticamente sconosciuti all'opinione pubblica poiché, lo si ripete, ai partiti comunisti era impedito di partecipare alle elezioni. Preferirono piuttosto formare una più ampia coalizione di sinistra e, in contemporanea, gli emissari sovietici disegnavano gli esecutivi artificialmente.[3] I nuovi gabinetti negarono inizialmente qualsiasi intenzione di istituire regimi sovietici, affermando di rigettare ancor di più lo scenario di un'incorporazione nell'Unione Sovietica: la presa di potere era stata invece a loro dire utile per rimuovere dall'incarico politici "fascisti".[5]

Alla fine di giugno e all'inizio di luglio, i governi annunciarono che i partiti comunisti erano diventati gli unici partiti politici legali.[5] Tutte le attività pubbliche controllate da non comunisti furono vietate, mentre le formazioni politiche, ideologiche e religiose che avrebbero potuto essere assimilate al partito vennero sciolte (merita di essere citato il caso dei Boy Scout).[6] Le forze di polizia vennero rimpiazzate da corpi appositamente reclutati.[7] I neonati "eserciti del popolo" furono rapidamente sovietizzati in vista dell'imminente assorbimento all'Armata Rossa.[6]

Elezioni del 14-15 luglio[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Parlamento del popolo.

Il 14 e 15 luglio 1940 si tennero elezioni parlamentari i cui risultati vennero truccati per nominare i "Parlamenti del popolo",[8] istituzioni che sarebbero state guidate dai comunisti locali fedeli all'Unione Sovietica. Per via delle restrizioni elettorali imposte qualche giorno prima per mezzo di provvedimenti legislativi simili nei tre paesi baltici, solo i comunisti e i loro alleati politici furono autorizzati a concorrere.[8][9] A risultare vincitori delle elezioni, con ampio sostegno, furono i comunisti grandi: la stampa sovietica rilasciò i risultati molto presto, forse troppo: infatti, il risultato venne già comunicato altrove in Europa ed apparve su un giornale di Londra ben 24 ore prima della chiusura delle votazioni.[10][11][12]

Le nuove assemblee si riunirono per la prima volta alla fine di luglio, tutte con un solo punto all'ordine del giorno: presentare una proposta di adesione all'Unione Sovietica,[13] nonostante la smentita che questo sarebbe accaduto qualche settimana prima. Le petizioni furono accettate. A tempo debito, l'Unione Sovietica "accettò" tutte e tre le richieste e annesse formalmente i tre paesi. L'Unione Sovietica, e in seguito la Russia, richiamarono la votazione per sostenere la propria versione dei fatti: stando a quanto hanno riportato, i popoli baltici avevano volontariamente richiesto di aderire all'Unione Sovietica dopo aver dato il via a rivoluzioni socialiste nei loro paesi.

Si procedette ad istituire tribunali pubblici per punire i "nemici del popolo", ovvero coloro che non avevano rispettato il "dovere politico" di votare a sostegno dei comunisti.[14]

Deportazioni di massa 1940–1941[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Deportazioni di giugno.
Memoriale dedicato ai bambini lettoni deportati e morti in esilio dal 1941 al 1949

Immediatamente dopo le elezioni, le unità dell'NKVD seguendo le direttive di Ivan Serov arrestarono più di 15.000 "elementi ostili" e membri delle loro famiglie.[15] Arresti e deportazioni iniziarono in maniera lenta, in parte a causa dei problemi linguistici, poiché non abbastanza funzionari sovietici erano in grado di leggere i documenti in lingua locale.[16] Tra il 14 e il 18 giugno 1941, meno di una settimana prima dell'invasione nazista, circa 17.000 lituani furono deportati in Siberia, dove molti morirono a causa delle assolutamente precarie condizioni di vita.[17][18] Tra le 30.000 e le 35.000 persone (1,8% della popolazione lettone) furono deportate durante la prima occupazione sovietica.[19][20]

Le deportazioni di Stalin inclusero anche migliaia di ebrei lettoni. Dall'Estonia furono deportati 10.000 cittadini (l'1% della popolazione totale):[21][22] i trasferimenti raggiunsero quota 131.500 se si considerano tutti e tre i paesi (nel dato sono inclusi gli arresti e le esecuzioni).[23] Nel numero erano compresi otto ex capi di stato e 38 ministri dall'Estonia, tre ex capi di stato e 15 ministri dalla Lettonia, e l'allora presidente, cinque primi ministri e altri 24 ministri della Lituania.[24] Un'operazione su larga scala fu pianificata per la notte tra il 27 e il 28 giugno 1941. Fu rimandata a dopo la guerra, poiché i tedeschi invasero l'URSS il 22 giugno 1941 nell'Operazione Barbarossa.[25] Un funzionario del governo lituano affermò di aver preso visione di un documento che prevedeva l'allontanamento di 700.000 persone dalla Lituania.[26]

Secondo lo storico Robert Conquest, le deportazioni dagli Stati baltici rappresentavano la politica di "decapitazione" delle nazioni, un piano volto a cancellare la loro "identità politica e sociale": evidentemente, seguendo questo disegno avvenne il "massacro di Katyn".[27]

Governi sovietici del 1940-1941[modifica | modifica wikitesto]

Teatro Nazionale Lettone nel 1940 che ospitava il Parlamento del popolo decorato con simboli sovietici (falce e martello, stella rossa, bandiere rosse e un doppio ritratto di Lenin e Stalin). Il testo in alto dice "Lunga vita all'URSS!"

I nuovi governi sovietici installati nei paesi baltici iniziarono ad allineare le loro politiche a quelle già messe in atto da Mosca.[2] Secondo la versione ricorrente della propaganda sovietica, le vecchie società "borghesi" furono distrutte per far posto a nuove società socialiste, le quali sarebbero state realizzate da cittadini sovietici affidabili.[2] I parlamenti ricostituiti proclamarono subito la nazionalizzazione delle grandi industrie, dei trasporti, delle banche e del commercio in generale.[2] Sebbene la terra fosse stata a quel punto considerata proprietà del popolo, si decise di espropriare solo quelle aziende che comprendevano 30 o più ettari.[2] Circa 100.000 cittadini tedeschi del Baltico furono autorizzati a vendere le loro proprietà e lasciare la regione: per chi avesse gradito, vi sarebbe stata la possibilità di insediarsi in Polonia con in mano il denaro dovuto per via dell'espropriazione.[28]

Preservando solo fattorie di piccola dimensioni, il comando sovietico intendeva indebolire il funzionamento del meccanismo della proprietà privata in prospettiva di una più completa futura collettivizzazione, di modo che questa sarebbe stata accettata maggiormente. Tale proposito venne già seguito in URSS un decennio prima, ma erano stati ottenuti risultati del tutto insoddisfacenti.[2] L'Armata Rossa assorbì rapidamente le forze militari degli Stati baltici.[2] Le forze di sicurezza sovietiche come l'NKVD, imposero una severa censura e un rigido controllo sulla stampa.[2] In ciascuna delle nuove repubbliche, le chiese e le proprietà ecclesiastiche furono nazionalizzate, l'educazione religiosa e le pubblicazioni religiose furono proibite, seminari e monasteri furono sequestrati (spesso finivano in gestione all'Armata Rossa) e molti sacerdoti furono arrestati.[2]

Reazioni dei paesi occidentali[modifica | modifica wikitesto]

Tra luglio e agosto 1940, delegati estoni, lettoni e lituani negli Stati Uniti e nel Regno Unito effettuarono proteste formali contro l'occupazione sovietica e l'annessione dei loro paesi. Gli Stati Uniti, in conformità con i principi della dottrina Stimson (dichiarazione di Sumner Welles del 23 luglio 1940[29]), così come la maggior parte degli altri paesi occidentali[30][31] non hanno mai riconosciuto formalmente l'annessione,[32] ma non interferirono direttamente con il controllo sovietico.[33] Per i paesi anglosassoni e alcuni Stati europei, gli Stati baltici continuarono ad esistere de iure ai sensi del diritto internazionale.[34][35][36]

Le sedi diplomatiche e consolari degli Stati baltici hanno operato senza interruzioni dal 1940 e il 1991 in alcuni paesi occidentali (Stati Uniti, Australia, Svizzera).[37]

Rioccupazione del 1944[modifica | modifica wikitesto]

L'Unione Sovietica rioccupò la Lettonia come parte dell'offensiva baltica, un'operazione di duplice importanza sia dal punto di vista politico che militare per sconfiggere le forze tedesche e per "liberare i popoli baltici sovietici".[38] Tale messaggio propagandistico partì dall'estate-autunno 1944 e perdurò fino alla capitolazione della Germania e delle forze lettoni nella sacca di Curlandia, avvenuta in concomitanza dell'armistizio di maggio del 1945. Le popolazioni locali combatterono per varie fazioni negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, dividendosi tra chi supportava i nazisti, chi i sovietici e chi invece si batteva contro entrambi allo scopo di riguadagnare l'indipendenza del proprio Paese continuarono a combattere negli ultimi anni della seconda guerra mondiale sia contro i nazisti. I cosiddetti fratelli della foresta continuarono ad agire anche quando i sovietici riconquistarono la regione e si opposero con operazioni di sabotaggio e di disturbo agli occupanti, godendo del sostegno dei servizi segreti britannici (MI6), americani e svedesi.[39][40][41]

Il 12 gennaio 1949, nel tentativo di porre fine all'insurrezione, il Consiglio dei ministri sovietico emise un decreto "sull'espulsione e la deportazione" dagli Stati baltici di "tutti i kulaki e delle loro famiglie, oltre a quelle dei banditi e dei nazionalisti".[42][43][44] Si stima che oltre 200.000 persone siano state allontanate dalla propria nazione tra il 1940 e il 1953.[45] Almeno 75.000 di essi finirono nei gulag. Il 10% dell'intera popolazione baltica in età adulta venne deportata o inviata nei campi di lavoro,[46] comportando la cessazione dei movimenti dei ribelli.

Al fine di integrare maggiormente i paesi baltici nell'Unione Sovietica, furono intraprese politiche d'incoraggiamento per i russi che avessero voluto trasferirsi in quella regione geografica.[47]

Vita culturale[modifica | modifica wikitesto]

Il processo di sovietizzazione passò inevitabilmente anche dalla vita culturale: fu promossa assiduamente l'arte popolare. Ogni esibizione, libro, film, manifestazione sportiva, museo e tipo di istruzione era finalizzata a valorizzare soprattutto figure care ai socialisti.[48] Dal 1950, furono avviati festival musicali che cercarono di promuovere musica folkloristica e canzoni non contrastanti con i principi del comunismo. Le intenzioni erano quelle di fornire un'immagine positiva delle condizioni di lavoro nelle fattorie collettive, il trasmettere valori di giustizia, incentivo ad operare nell'industria, lealtà, integrità. Gli artisti più meritevoli venivano premiati col titolo di Artista del popolo.[49] Negli anni Cinquanta, furono demoliti circa 500 monumenti tra statue, opere architettoniche e figure artistiche a favore di opere legate all'ideologia culturale e artistica del regime. Dopo la destalinizzazione, proliferarono nuovi scrittori in virtù di una libertà d'espressione maggiore (la censura tuttavia continuò ad operare, come accadde nel caso della Lietuviškoji tarybinė enciklopedija, l'enciclopedia lituana redatta nel periodo sovietico[50]). Dalla fine degli anni '50, incominciò a far capolino una più costante produzione teatrale.

Indipendenza del 1991[modifica | modifica wikitesto]

Nel luglio 1989, in seguito agli eventi verificatisi nella Germania Est (caduta del muro di Berlino), i Soviet supremi dei paesi baltici stilarono una "Dichiarazione di sovranità" e ha modificato le Costituzioni per far valere la supremazia delle proprie leggi su quelle dell'URSS.[51] I candidati del partito indipendentista del fronte popolare ottennero la maggioranza nei Consigli Supremi nelle elezioni democratiche del 1990. I Consigli dichiararono la loro intenzione di ripristinare la piena indipendenza. Nel 1991 i paesi baltici rivendicarono di fatto l'indipendenza.[47]

Le forze politiche e militari sovietiche tentarono senza successo di rovesciare i governi. Seguì il riconoscimento internazionale, compreso quello dell'URSS. Gli Stati Uniti, che non avevano mai riconosciuto la legittimità dell'annessione forzata dei paesi baltici da parte dell'URSS, ripresero le relazioni diplomatiche con le repubbliche.[47]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ (EN) Graham Smith, The Baltic States: the Self-Determination of Estonia, Latvia and Lithuania, Springer, 2016, p. 109, ISBN 978-13-49-14150-0.
  2. ^ a b c d e f g h i (EN) Kevin O'Connor, The history of the Baltic States, Greenwood Publishing Group, 2003, p. 117, ISBN 978-03-13-32355-3.
  3. ^ a b Misiunas Taagepera (1993), p. 20.
  4. ^ Oltre ad essi, nei paesi baltici il governo sovietico spedì i seguenti emissari speciali. In Lituania: vice commissario agli affari esteri Dekanozov; in Lettonia: Vyšinskij, rappresentante del Consiglio dei ministri; in Estonia: capo del partito regionale di Leningrado Ždanov: (EN) Telegramma dell'ambasciatore tedesco in Unione Sovietica (Schulenburg) all'Ufficio relazioni internazionali tedesco, ibiblio.org, link verificato il 3 giugno 2020.
  5. ^ a b Misiunas Taagepera (1993), p. 23.
  6. ^ a b Misiunas Taagepera (1993), p. 24.
  7. ^ Misiunas Taagepera (1993), p. 25.
  8. ^ a b Misiunas Taagepera (1993), pp. 26–27.
  9. ^ (EN) Ineta Zimiele, Baltic Yearbook of International Law, 2003, Martinus Nijhoff Publishers, 2003, p. 170, ISBN 978-90-04-13746-2.
  10. ^ (EN) Visvaldis Mangulis, Latvia in the Wars of the 20th century, Cognition Books, 1983, p. cap. VIII, ISBN 0-912881-00-3.
  11. ^ (EN) Wojciech Roszkowski e Jan Kofman, Biographical Dictionary of Central and Eastern Europe in the Twentieth Century, Routledge, 2016, p. 1964, ISBN 978-13-17-47593-4.
  12. ^ (EN) Juris Veidemanis, Social Change: Major Value Systems of Latvians at Home, as Refugees, and as Immigrants, vol. 1, Museum of Anthropology, University of Northern Colorado, 1982, p. 63.
    «Documenti elettorali sovietici trovati in seguito confermano ancor di più che i risultati erano stati già decisi a tavolino»
  13. ^ (EN) Kevin O'Connor, Intellectuals and Apparatchiks: Russian Nationalism and the Gorbachev Revolution, Lexington Books, 2008, p. 41, ISBN 978-07-39-13122-0.
    «Lo stesso modus operandi fu adottato anche per altre repubbliche dell'Unione Sovietica»
  14. ^ (EN) Gunnar Åselius, The Rise and Fall of the Soviet Navy in the Baltic 1921-1941, Routledge, 2005, p. 206, ISBN 978-11-35-76960-4.
  15. ^ Stephane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panne e Andrzej Paczkowski, Il libro nero del comunismo: crimine, terrore e repressione, Harvard University Press, 1999, ISBN 0-674-07608-7.
  16. ^ Buttar (2013), p. 47.
  17. ^ (EN) Timothy Snyder, Bloodlands: Europe Between Hitler and Stalin, Hachette UK, 2012, p. 188, ISBN 978-04-65-03297-6.
  18. ^ (EN) Paul Hanebrink, A Specter Haunting Europe: The Myth of Judeo-Bolshevism, Harvard University Press, 2018, p. 139, ISBN 978-06-74-04768-6.
  19. ^ (EN) Edgar Anderson, Cross Road Country: Latvia, Latvju Grāmata, 1953, p. 323.
  20. ^ (EN) Stephen Baister, Latvia, Bradt Travel Guides, 2007, p. 19, ISBN 978-18-41-62201-9.
  21. ^ (EN) Tiina Kirss e Rutt Hinrikus, Estonian Life Stories, Central European University Press, 2009, p. 513, ISBN 978-96-39-77639-5.
  22. ^ (EN) Marek Jan Chodakiewicz, Intermarium: The Land Between the Black and Baltic Seas, Routledge, 2017, p. 117, ISBN 978-13-51-51195-7.
  23. ^ (EN) Mark Wyman, DPs: Europe's Displaced Persons, 1945–51, Cornell University Press, 2014, p. 32, ISBN 978-08-01-45604-6.
  24. ^ (EN) Andres Küng, Communism and Crimes against Humanity in the Baltic States, su rel.ee, 1999. URL consultato il 7 giugno 2020 (archiviato dall'url originale il 1º marzo 2001).
  25. ^ Antonello Biagini, La campagna di Russia, Edizioni Nuova Cultura, 2013, p. 103, ISBN 978-88-61-34796-0.
  26. ^ (EN) Thomas Lane, Lithuania: Stepping Westward, Routledge, 2014, p. 52, ISBN 978-11-34-49935-9.
  27. ^ Un altro passaggio può permettere di comprendere meglio il punto di vista dello studioso e viene riproposto da Jeane J. Kirkpatrick, Political and moral dimensions, Transaction Publishers, 1988, p. 49, ISBN 978-08-87-38099-0.
    «Conquest affermava che l'atteggiamento di Hitler e Stalin per sottomettere i baltici e la Polonia può essere riassunto da un discorso pronunciato da Vjačeslav Molotov: "Un soffio da parte dell'esercito tedesco e un altro da parte dei russi hanno cancellato gli orribili risultati del trattato di Versailles
  28. ^ Buttar (2013), p. 46.
  29. ^ (EN) Jay Nordlinger, The Stimson Doctrine, Then and Now, su nationalreview.com, 21 giugno 2018. URL consultato il 7 giugno 2020.
  30. ^ (EN) Renaud Dehousse, The International Practice of the European Communities: Current Survey, in European Journal of International Law, vol. 4, n. 1, 1993, p. 141. URL consultato il 19 giugno 2020 (archiviato dall'url originale il 28 agosto 2005).
  31. ^ (EN) Parlamento Europeo, Risoluzione sullo status dell'Estonia, della Lettonia e della Lituania (JPG), in Official Journal of the European Communities, C. 42/78, 13 gennaio 1983.
    «considerando che le annessioni sovietiche dei tre Stati baltici non sono ancora state formalmente riconosciute dalla maggior parte degli Stati europei e che USA, Canada, Regno Unito, Australia e Vaticano vi si riferiscono ancora parlando di Stati baltici»
  32. ^ (EN) Risoluzione bilaterale della Casa Bianca e del Senato: H. CON. RES. 128 (PDF), su goinfo.gov. URL consultato il 7 giugno 2020.
    «delucidazioni in merito alla dichiarazione del Congresso statunitense secondo cui il governo della Federazione Russa dovrebbe rilasciare una chiara e inequivocabile dichiarazione di ammissione e condanna dell'illegittima occupazione e dell'annessione da parte dell'Unione Sovietica dal 1940 al 1991 dei tre paesi baltici»
  33. ^ (EN) Geoffrey Swain, Between Stalin and Hitler: Class War and Race War on the Dvina, 1940-46, Routledge, 2004, p. 167, ISBN 978-11-34-32154-4.
    «Al di là della condanna pubblica, alla conferenza di Teheran del 1º dicembre, Roosevelt "disse di aver compreso appieno che le tre repubbliche baltiche erano già state storicamente parte della Russia ed essendolo anche ora, aggiunse scherzosamente, gli eserciti sovietici che le avevano occupate non sarebbero andate incontro ad un conflitto con gli USA per questo»
  34. ^ (EN) Richard Mole, The Baltic States from the Soviet Union to the European Union: Identity, Discourse and Power in the Post-Communist, Routledge, 2012, p. 47, ISBN 978-11-36-32772-8.
  35. ^ (EN) Tina Tammam, The last ambassador: August Torma, soldier, diplomat, spy, Rodopi, 2011, p. 12, ISBN 978-90-42-03314-6.
  36. ^ (EN) Anthony Aust, Handbook of International Law, Cambridge University Press, 2005, p. 26, ISBN 978-11-39-44746-1.
  37. ^ (EN) Lawrence Juda, United States' nonrecognition of the Soviet Union's annexation of the Baltic States: Politics and law, in Journal of Baltic Studies, vol. 6, n. 4, 1975, pp. 272–290, DOI:10.1080/01629777500000301.
  38. ^ (EN) Edward Wegener, The Soviet Naval Offensive, Naval Institute Press, 1975, p. 35, ISBN 978-08-70-21671-8.
  39. ^ (EN) Christopher Kelly e Stuart Laycock, All the Countries the Americans Have Ever Invaded: Making Friends and Influencing People?, Amberley Publishing Limited, 2015, p. 212, ISBN 978-14-45-65177-4.
  40. ^ (EN) Sigrid Rausing, Everything Is Wonderful: Memories of a Collective Farm in Estonia, Open Road + Grove/Atlantic, 2014, p. 97, ISBN 978-08-02-19281-3.
  41. ^ (EN) Gordon Corera, The Art of Betrayal: Life and Death in the British Secret Service, Hachette UK, 2011, p. 33, ISBN 978-02-97-86101-0.
  42. ^ (EN) Aldis Purs, Baltic Facades: Estonia, Latvia and Lithuania since 1945, Reaktion Books, 2013, p. 63, ISBN 978-18-61-89932-3.
  43. ^ (EN) Nikolaĭ Fedorovich Bugaĭ, The Deportation of Peoples in the Soviet Union, Nova Publishers, 1996, p. 166, ISBN 978-15-60-72371-4.
  44. ^ (EN) M. Laar, War in the Woods: Estonia's Struggle for Survival, 1944-1956, Howells House, 1992, p. 175, ISBN 978-09-29-59008-0.
  45. ^ (EN) Richard C. Williams PhD, The New Revolution: A Historic Review of Civil Conflict, Xlibris Corporation, 2014, p. 179, ISBN 978-14-99-08213-5.
  46. ^ (EN) Michael Kort, The Soviet Colossus: History and Aftermath, M.E. Sharpe, 2001, p. 248, ISBN 978-07-65-60396-8.
  47. ^ a b c (EN) U.S. Relations With Latvia, su webcache.googleusercontent.com. URL consultato il 7 giugno 2020.
  48. ^ (EN) Vytautas Michelkevičius, The Lithuanian SSR Society of Art Photography (1969-1989), VDA leidykla, 2011, p. 317, ISBN 978-60-94-47033-2.
  49. ^ Titolo di Artista del Popolo, su madrerussia.com. URL consultato l'11 settembre 2021.
  50. ^ (LT) J.V. Urbonas, Žurnalistikos enciklopedija, Pradai, 1997, p. 5, ISBN 978-99-86-776628.
  51. ^ (EN) Sir Adam Roberts e Timothy Garton Ash, Civil Resistance and Power Politics: The Experience of Non-violent Action from Gandhi to the Present, OUP Oxford, 2011, p. 197, ISBN 978-01-91-61917-5.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]