Salvatore Natoli

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Natoli (a sinistra) al convegno Le virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa[1]

Salvatore Natoli (Patti, 18 settembre 1942) è un docente e filosofo italiano.

Biografia

Si è laureato in filosofia presso l'Università Cattolica di Milano, dove ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Ha insegnato logica alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università Ca' Foscari di Venezia e filosofia della politica alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano.[2]

Attualmente è professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell'Università degli Studi di Milano Bicocca.

Attività accademica

In particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un'etica neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito[3], in contrapposizione con la tradizione cristiana.

Filosofia del dolore

Una particolare e approfondita analisi sul tema del dolore[4] è stata condotta da Natoli in diverse sue opere.[5]

Il dolore è parte essenziale della vita e per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della felicità:

«I greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele e insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire, ove non vi è differenza tra bene e male allo steso modo in cui il dolore si volge nella gioia e la gioia nel dolore[6]»

La natura infatti dava la vita e nello stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della vita ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi soffre percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante per chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si sente importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte.

Secondo Natoli l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo: il danno («Nel momento in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa colui che soffre non solo patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»[7]) e uno soggettivo, cioè come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece, è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartiene un dolore diverso.

Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe quello abbia commesso e infine perché il dolore travagli il mondo. Il tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere tenendo sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva sconfitta.

Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita ma questo non vuol dire disprezzare il piacere sostenendo che questo invece ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo distrugge l'organo.»[8] A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità poiché «il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.»[9]

Sebbene il dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua singolarità di senso. La parola efficace della tecnica[10] per un verso ha alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia, creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza della morte:

«A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali modificandone i cicli…[11]»

Una soluzione all'inevitabilità del dolore può essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo.

«Il cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia.[12]»

Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito, ma non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos, che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell'universale fragilità umana.

Lo stesso argomento in dettaglio: Dolore (filosofia).

Opere

Note

  1. ^ Le virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa
  2. ^ Enciclopedia Italiana Treccani alla voce corrispondente
  3. ^ S. Natoli, La salvezza senza fede, Feltrinelli 2007
  4. ^ Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute nel paragrafo "Filosofia del dolore" hanno come fonte Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche - Salvatore Natoli - Il senso del dolore
  5. ^ L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, La politica e il dolore, Dialogo su Leopardi: natura, poesia, filosofia, Edipo e Giobbe: contraddizione e paradosso.
  6. ^ S.Natoli, La salvezza senza fede, Feltrinelli 2007 p.61
  7. ^ S.Natoli. op.cit, p.92
  8. ^ S. Natoli, Op, cit. ibidem.
  9. ^ S. Natoli, Op. cit. ibidem.
  10. ^ S. Natoli, L'esperienza del dolore nell'età della tecnica
  11. ^ Salvatore Natoli: Siamo "finiti". E anche la tecnica lo è, da Europa, 6 dicembre 2006.
  12. ^ S. Natoli, 'I Nuovi pagani, Il saggiatore, Milano, 1995

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Collegamenti esterni

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